This contribution proposes a new index of cultural activities in Europe, for the period 800-1800. In order to test it, a novel dataset is constructed by joining two existing works complemented with an additional set of original data. The index measures the degree of cultural activity of a region at city level by counting the number of high achieving innovators clustering in it. In this way a map of innovation across Europe can be produced and a series of historical hypotheses can be assessed. Emerging properties of persistence and diffusion of talent are observed. A series of regression analyses are implemented to test for alternative theories about the influence of culture. In particular, the so called "Industrial Enlightenment" is put into question. It holds that the ideals stemming from the scientific revolution of the XVII century, European positivism and the political experience of XVIII century's French intellectuals, contributed in a determinant way to the industrial revolution by interacting with the English intellectual and productive system. This view is compared with some alternative theories. The results of the analysis do not allow for a refusal of the cultural hypothesis for the industrial revolution: the role of France, and in particular Paris, as the pulsing hearth of European innovation is confirmed by the data. Moreover, England is more active in the fields of invention than France before and for much of the industrial revolution. Other historical impressions concerning intellectual activities in Europe are confirmed and indicate a good reliability of the index.
Native American peoples are often considered to be conservative or traditionalistic and to have over the past five hundred years strongly emphasized retention of cultural identity, community organization, and social-cultural institutions. The conservative orientations found in Native American communities are inherent in their cultural world views, their cultural organization, and sociocultural institutional orders. Working from Weberian and contemporary sociological theory, three mutually complementary and supporting explanations are given for American Indian conservatism. American Indian world views are interpreted as emphasizing preservation of the sacred social and natural order. The relations among Native American cultural elements - religion, art, ceremony, causality, and morality - are undifferentiated and inhibit cultural change. The relations among cultural, political, economic and community institutions in American Indian societies, while varying greatly, tend toward undifferentiation and also inhibit change in social and cultural relations. All three arguments are mutually supportive and point toward inherently and powerfully conservative orientations for Native American community members and culture bearers. The combined arguments help to explain the persistence of Native American communities and identities after five hundred years of colonialism. Studies of change or cultural traditionalism among Native Americans must take into account their inherently conservative cultural orientations and cultural and institutional relations in order to arrive at more holistic and complete understandings of Indian life, change, and preservation.Gli Indiani d'America sono spesso considerati conservatori o tradizionalisti per avere fortemente enfatizzato negli ultimi cinquecento anni la conservazione della loro identità culturale, dell'organizzazione della comunità e delle loro istituzioni socio-culturali. Gli orientamenti conservatori riscontrati nelle comunità degli Indiani d'America sono elemento intrinseco al loro retaggio culturale nel modo di porsi nei confronti del mondo, alla loro organizzazione culturale e al loro assetto socioculturale. Partendo da teorie sociologiche contemporanee e Weberiane si riescono a dare tre spiegazioni complementari e mutualmente esaustive dell'atteggiamento conservatore degli Indiani d'America. I loro modi di porsi nei confronti del mondo sono interpretati come una conservazione enfatizzata dell'ordine sociale e naturale, entrambi sacri. Le relazioni tra elementi culturali quali religione, arte, rituale, causalità e moralità sono inalterate ed inibiscono un rinnovamento culturale. Le relazioni tra istituzioni culturali, politiche, economiche e della comunita nelle società degli Indiani d'America pur variando in misura notevole, tendono ugualmente ad una certa immutabilità che inibisce un ricambio in relazioni sociali e culturali. Tutte e tre le argomentazioni si rafforzano a vicenda e si indirizzano verso orientamenti fortemente conservativi sia per i membri della comunità sia per coloro preposti a preservare l'eredità culturale. Questa combinazione di elementi aiuta a spiegare la continuità delle comunità degli Indiani d'America e delle loro identità dopo cinquecento anni di colonialismo. Studi riguardanti possibili mutamenti o continuità nelle tradizioni culturali tra gli Indiani d'America devono prendere in considerazione l'elemento inerentemente conservativo presente nei loro orientamenti culturali e nelle loro relazioni istituzionali e culturali in modo da arrivare ad una maggiore e più completa comprensione della vita, dei mutamenti e della conservazione degli Indiani d'America.
In this collection of essays, Aristotle's Politics, a complex text which has been the object of multiple readings and continuously stimulates new interpretative challenges, is analyzed from various points of view that range from the material transmission of the text and its controversial reception to the main subjects covered by the treatise (methodology, philosophy of law, citizenship, economy). Aristotle's ability to base his political analysis on concrete and real facts is highlighted by the different approaches of the scholars who have contributed to this volume.00Based on the collection of more than 150 existing political constitutions and of an intensive study of the theoretical works on the subject, this treatise brings to light the different ways to harmonise the conflicts inherent in every human community, but particularly in classical Greece. Its universal value for different regimes explains the enormous influence Aristotle's text has had in the history of western political thought and practice
Lo scopo di questo scritto è mettere in luce quel che il diritto formale può fare a favore dell'Open Access (OA). La tesi di fondo è che il diritto formale - la legge, i regolamenti, i contratti - può rappresentare un formidabile ausilio all'affermazione del principio dell'accesso aperto, ma che il definitivo successo dell'OA risiede in un radicale cambiamento delle norme informali che presidiano le prassi dell'editoria scientifica. Un tale mutamento dipende dalle dinamiche di potere nelle quali si intrecciano gli interessi degli scienziati che comandano il gioco delle pubblicazioni (potere accademico-scientifico) e gli interessi degli editori scientifici che hanno una posizione di preminenza sul mercato (potere commerciale). Inoltre, un ruolo di primo piano viene giocato dai nuovi attori che si affacciano nel sistema della comunicazione scientifica (archivi disciplinari, motori di ricerca, social network scientifici etc.). Particolare attenzione è riservata al mutamento normativo e all'interazione tra diverse tipologie di regole (regole giuridiche, regole informali e regole tecnologiche). Lo scritto s'incentra sull'accesso aperto alle pubblicazioni e tocca tangenzialmente altri, e pur fondamentali, aspetti connessi come quello dell'accesso ai dati della ricerca scientifica. Nel primo paragrafo si introduce l'argomento, si dichiara la metodologia di riferimento, si disegna l'architettura della trattazione. Nel secondo paragrafo si mette in luce che l'oligopolio della scienza dipende da un'interazione perversa tra diritto d'autore e regole della valutazione. Nel terzo paragrafo si delinea il cuore giuridico e le finalità dell'accesso aperto. Nel quarto paragrafo si illustrano le principali policy di riferimento. Nel quinto paragrafo si descrive la policy dell'Unione Europea in materia di OA. Nel sesto e ultimo paragrafo si propongono alcune linee di sviluppo di una politica normativa che possa contribuire alla definitiva affermazione dell'OA nell'università italiana. ENGLISH VERSION The aim of this paper is to ...
Il dibattito pubblico riguardante molte decisioni cruciali dell'agenda politica contemporanea, dal problema dell'allocazione delle risorse sanitarie, alle previsioni di mercato e alle valutazioni di impatto ambientale o di sicurezza, è permeato dall'appello sempre più sistematico al parere dei tecnici e degli "scienziati". Mentre un peso e un'autorità crescenti sono attribuiti alla scientific advisory, non mancano episodi e vere e proprie esplosioni di scetticismo e polemica, che investono sia questioni interne alla consulenza scientifica' cioè di affidabilità, accuratezza e in generale di correttezza metodologica, sia esterne, che mettono cioè in discussione il ruolo stesso della scientific advisory nelle questioni di scelta sociale. Per citare solo alcuni tra i casi pi√π noti e recenti, basti il riferimento al "processo degli scienziati" per le presunte previsioni inadeguate sul terremoto dell'Aquila, al "caso Stamina" o alla querelle sulla correlazione tra autismo e vaccino MMR , ma anche al dibattito più di vecchia data circa l'utilizzo di evidenze genetiche nei processi criminali. Il nodo problematico sollevato da questi episodi esemplari è da rintracciarsi, a mio avviso, nella legittima distinzione dei ruoli tra lo scienziato e il "policy maker" e, più in generale, sul peso da attribuire all'evidenza e al parere scientifico nell'ambito della scelta pubblica, che coinvolge inevitabilmente considerazioni morali e "di valore". Può il parere "esperto" esaurire tutti i requisiti necessari a determinare univocamente la scelta sociale? Oppure altri "valori" esterni devono necessariamente contribuire al processo decisionale? E se sì, in che modo? Da dove provengono tali valori? Come può l'intromissione dei valori nel piano della ricerca scientifica non minarne la legittimità e adeguatezza metodologica? Queste sono alcune delle domande che intendo analizzare nel presente lavoro di tesi. In particolare, mi concentrerò sull'ambito più ristretto della valutazione e gestione del rischio, in cui le "informazioni scientifiche", in termini di distribuzioni di probabilità, giocano un ruolo cruciale. Rispetto a questa specifica tematica, mi chiederò quindi se le contemporanee e diffusissime tecniche del risk assessment, risk management e cost-benefit analysis incorporino tutte le istanze legittimamente presenti in una decisione in condizioni di rischio e se siano adeguate a tale scopo; quali altre componenti "morali'', escluse dal modello standard, siano eventualmente da soppesare e in che modo. Come primo approccio alla questione, illustrerò un esempio storico particolarmente illuminante, la querelle sul vaccino contro il vaiolo tra Daniel Bernoulli e Jean-Baptiste Le Ronde D'Alembert, che ebbe luogo nella seconda met√† del XVIII secolo. Questo caso rappresenta a mio parere uno dei primi tentativi di analisi del rischio, attraverso il calcolo della probabilità, applicato a una decisione di forte portata '"morale" e rilevanza pubblica. Esponendo nei suoi dettagli tecnici il modello matematico costruito da Bernoulli per dimostrare l'opportunità sociale dell'inoculazione stato inscindibilmente legato agli esiti dell'applicazione di questa disciplina a questioni di scelta pubblica. Questo punto si rivelerà di importanza cruciale più avanti, nella discussione sull'intrinseca presenza di valori in ogni parere scientifico che si limiti anche solo a fornire una distribuzione di probabilità. Le posizioni antitetiche di Bernoulli e D'Alembert, inoltre, costituiscono una prima esplicita polarizzazione, riscontrabile anche nel dibattito attuale, sull'adeguatezza del "calcolo matematico" nel fornire una guida legittima alle decisioni pratiche. Se Bernoulli conclude infatti la sua analisi formulando la famosa massima, che impone di tenere in considerazione e farsi guidare da tutte le informazioni "scientifiche" disponibili, anche quando siano lacunose, imprecise e manchevoli, D'Alembert non abbandona invece una visione critica e scettica sulla possibilità dell'analisi tecnica di catturare l'esperienza morale e profondamente individuale del "correre un rischio". Sebbene queste posizioni siano state riformulate in seguito al "raffinamento'' teorico del "calcolo matematico'', le istanze promosse dai due philosophes contengono già in nuce molti elementi del dibattito novecentesco e contemporaneo. Nel capitolo successivo, analizzerò, a partire da una breve parentesi storica, l'apparente "trionfo" della massima di Bernoulli, mostrando come in molti ambiti, a partire quello dell'allocazione delle risorse sanitarie, procedure meramente tecniche come il risk managing vengano spesso impiegate in modo esclusivo e conclusivo. La gestione del rischio, in questo senso, sembrerebbe poter essere legittimamente esaurita dal puro calcolo di quale alternativa abbia una maggiore utilità attesa, o dalla cost-benefit analysis, senza chiamare in causa ulteriori "valutazioni morali". Discipline come il risk management, infatti, mirano a fornire una risposta puramente procedurale a tutti i problemi di gestione e allocazione del rischio. Nella conclusione del Capitolo 2, illustrerò due esempi contemporanei e controversi di applicazione delle tecniche di risk assessment, riguardanti rispettivamente il problema dell'allocazione delle risorse sanitarie e la selezione di siti idonei per lo stoccaggio di scorie radioattive. Parallelamente all'esposizione di questi casi, comincerò ad illustrare alcuni dei principali problemi legati tanto alla cost-benefit analysis in quanto tale, come la questione teorica dell'incommensurabilità degli esiti, quanto all'applicazione della cost-benefit analysis a questioni di scelta pubblica. In particolare, rispetto a quest'ultimo tema, rifletterò sulle implicazioni dell'utilizzo delle procedure di risk managing per il mito della scienza come priva di valori (il "value free ideal''). Le posizioni che presento come dominanti nel Capitolo 2, tuttavia, non sono state immuni da critiche, che hanno evidenziato come considerazioni valoriali vengano implicitamente riproposte nel calcolo dell'utilità attesa, mettendo in luce quindi l'inadeguatezza delle pretese di "oggettività" di queste tecniche di gestione del rischio. In particolare, svilupperò questo problema teorico nel terzo capitolo illustrando il cosiddetto "Paradosso di Rudner", secondo cui lo scienziato in quanto tale non può esimersi dal formulare giudizi morali nel fornire un parere o una consulenza scientifica. In questo senso, obietta Rudner, il "peso" della componente valoriale verrebbe semplicemente inglobato nella consulenza scientifica, tutt'altro dunque che neutrale, con uno "sconfinamento" o invasione di campo, altamente problematico. In questa sede, proporrò anche una discussione più esaustiva sul problema del rischio induttivo e le sue implicazioni per il value free ideal, a partire dalle trattazioni classiche di Churchman, Frank e Rudner stesso fino alla sintesi di Douglas e alla proposta di Betz, passando per autori come McMullin e Laudan. In particolare, chiuderò questa riflessione con il problema provvisorio di discriminare tra componenti valoriali che possono legittimamente interessare il lavoro scientifico e i valori che invece devono essere necessariamente esclusi da un modello adeguato di indagine scientifica, divisione spesso riproposta come la dicotomia tra valori epistemici e non epistemici. L'argomento del rischio induttivo, d'altra parte, costituisce a mio avviso la sfida più ardua per i sostenitori del value-free ideal, e diverse versioni e i rispettivi possibili contro argomenti, rispetto al tema specifico della scientific advisory, verranno vagliati nel corso di questo lavoro. Nel capitolo seguente, in risposta a questa legittima preoccupazione e alle problematiche sollevate da Churchman e Rudner, prenderò in considerazione un tentativo di soluzione formulato da Jeffrey, che propone un modello per una coerente "divisione del lavoro" tra scienziato e "policy maker". Tale proposta, come nota efficacemente Douglas, mira a riproporre il value free ideal, cioè il mito di una scienza isolata dal resto della comunità e indipendente da considerazioni etiche, cercando però di fare i conti con l'argomento del rischio induttivo. Questa via d'uscita, a mio parere, non risulta certamente conclusiva per quanto riguarda la riaffermazione del value-free ideal, sebbene sia stata riproposta anche recentemente da Betz come risposta adeguata al problema di Rudner. Nonostante questo fallimento, l'argomento di Jeffrey costituisce a mio avviso un buon punto di partenza da cui analizzare il rapporto tra scientific advisory e scelta pubblica, proponendone per la prima volta un modello teorico positivo. In questo senso, la proposta di Jeffrey si fa carico e riconosce la cosiddetta massima di Bernoulli, per cui le informazioni scientifiche non possono essere ignorate nel processo di deliberazione. Tale principio esprime infatti, a mio parere, un intuitivo appello al "buonsenso" e non può essere travolto dallo scetticismo sull'inadeguatezza e sull'intrinseca "connivenza" tra giudizi di valore e parere tecnico, come una completa resa alle considerazioni di Rudner sembrerebbe paventare. D'altro canto, la consapevolezza che le considerazioni valoriali non possono essere eliminate dalle decisioni di carattere pubblico impone inevitabilmente una maggiore attenzione nel valutare, comunicare e soppesare la consulenza scientifica. Il modello di Jeffrey, pur ingenuo e problematico, rappresenta sicuramente un primo tentativo di soddisfare entrambe le motivazioni e componenti che concorrono a formulare il problema della scientific advisory. Solo una volta scardinato completamente il mito di una comunità scientifica isolata dal suo ruolo sociale, infatti, il tema del rapporto con la cittadinanza e gli organi decisionali può essere analizzato con l'attenzione e la precisione che la sua rilevanza pubblica ed etica impone. Nell'ultima parte di questo lavoro illustrerò l'evoluzione e le implementazioni della posizione espressa da Jeffrey attraverso l'esempio del Principio di Precauzione, che costituisce a mio avviso un tentativo di bilanciare le procedure standard di gestione del rischio con considerazioni esterne, mediante un opportuno criterio di decisione alternativo alla massimizzazione dell'utilità attesa. In particolare, cercherò di caratterizzare, nell'esposizione di questo Principio, come un'analisi "tecnica" del rischio possa consentire anche a considerazioni di tipo morale di svolgere un ruolo effettivo nel processo decisionale. In questo senso, nonostante i molti problemi teorici e una formulazione ancora inadeguata, tale Principio rimane un candidato promettente come modello di gestione del rischio collettivo. In particolare, dopo aver illustrato la fortuna e il dibattito intorno al Principio di Precauzione, ne propongo una sua caratterizzazione nei termini del criterio di decisione del Maximin, seguendo le riflessioni di Hansson, Gardiner e Ackermann. Esploro in seguito anche una formulazione procedurale o epistemica del Principio di Precauzione, mostrando come una sua interpretazione nella forma di meta-principio possa tenere conto dell'argomento del rischio induttivo elaborato da Rudner, prendendolo come punto di partenza per un modello propositivo e positivo di scienza coinvolta con il piano dei valori. In quest'ultimo capitolo, più che formulare una proposta conclusiva ed esaustiva, suggerisco alcuni spunti ed esempi di applicazione del Principio di Precauzione, come il caso della tossicologia illustrato da Steel, per mostrare come un lavoro di ricerca a partire da questo criterio possa effettivamente fornire una guida pratica per il rapporto tra pannelli scientifici e organi decisionali. La "via di Bernoulli'', una volta imboccata, resta a mio parere impossibile da abbandonare, senza palesi e inaccettabili violazioni di un principio basilare di razionalità a cui non siamo disposti a rinunciare da un punto di vista normativo. D'altra parte, il primato indiscusso e di default attribuito al parere scientifico nelle decisioni di scelta pubblica deve essere adeguatamente bilanciato da un'opportuna riabilitazione della componente valoriale, ormai resa evidente dal crollo del value-free ideal. Il fallimento del mito di una scienza priva di valori, ormai evidente nella gestione di problemi complessi, di cui il cambiamento climatico e solo l'esempio più lampante, non può però risolversi con una conclusione pessimistica sul ruolo e sui compiti dell'indagine scientifica. Al contrario, se giudizi morali e soggettivi non possono, per ragioni intrinseche alla pratica della scientific advisory, essere eliminati dal processo decisionale, una sistematica e trasparente esposizione dei valori che si vogliono tenere in considerazione diventa tanto cruciale quanto le questioni di correttezza metodologica interne alla comunità scientifica. Solo riconoscendo che entrambe le componenti sono essenziali e inscindibili nella prassi della scientific advisory può portare a formulare criteri di decisione e divisione del lavoro coerenti e legittimamente difendibili.
Socio-economic performance differs not only across countries but within countries too and can persist even after religion, language, and formal institutions are long shared. One interpretation of these disparities is that successful regions are characterized by higher levels of trust, and, more generally, of cooperation. Here we study a classic case of within-country disparities, the Italian North-South divide, to find out whether people exhibit geographically distinct abilities to cooperate independently of many other factors and whence these differences emerge. Through an experiment in four Italian cities, we study the behavior of a sample of the general population toward trust and contributions to the common good. We find that trust and contributions vary in unison, and diminish moving from North to South. This regional gap cannot be attributed to payoffs from cooperation or to institutions, formal or informal, that may vary across Italy, as the experimental methodology silences their impact. The gap is also independent of risk and other-regarding preferences which we measure experimentally, suggesting that the lower ability to cooperate we find in the South is not due to individual \moral" flaws. The gap could originate from emergent collective properties, such as different social norms and the expectations they engender. The absence of convergence in behavior during the last 150 years, since Italy was unified, further suggests that these norms can persist overtime. Using a millennium-long dataset, we explore whether the quality of past political institutions and the frequency of wars could explain the emergence of these differences in norms.
In this focus article the book Making Social Sciences More Scientific by Rein Taagepera is discussed. The book proposes an innovative approach to quantitative modelling, the "quantitatively predictive logical modeling". In the first contribution, the originality of this approach is discussed, through a comparison with three traditional methodological perspectives: qualitative research; rational- choice modeling; empirically-oriented quantitative research. Then, the potential of Taagepera's approach is evaluated with respect to the problem of the relationship between concepts and signs. In this regard, the non-linear, theoretically-driven construction of mathematical models advocated by Taagepera could provide a far more accurate operationalization of the conceptual models developed in the social sciences, which often feature non-linear relationships. Finally, the possibility of integrating Taagepera's suggestion with the traditional quantitative approach -- based on the generalized linear model -- is discussed, by pointing out potential problems and possible solutions. In the second contribution, Taagepera's critique of the prevalent approach to quantitative analysis of social phenomena is illustrated and commented, along with his proposal to adopt quantitatively predictive logical models as the basic analytical tool of the social sciences. Then, it is argued that, though based on sound arguments, Taagepera's critique of generalized linear regression models is somewhat too severe, since it overlooks some of regression's analytical best strengths. Adapted from the source document.
[Foundations of research and health care: some legal aspects]IRCCS Foundations have been recently created by Legislative Decree number 288 (16th October 2003) as part of the reorganization of the Institutes of hospitalization and treatment of scientific value (IRCSS – Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico). The decree allows the IRCCS to change into IRCCS Foundations with a national importance, open to the participation of public and private entities. IRCCS have been defined by the Ministry of Health as hospitals of excellence aimed at research in the biomedical field and in the organization and management of the health service. Due to the recognition of their "scientific value", since they deal with particular pathologies of national importance, they have been qualified as IRCCS. Moreover, they can enjoy a public fund and a regional fund, which allow them to carry out their research in specific areas such as oncology, disabling chronic degenerative diseases, pediatric psychiatry, rehabilitation and organ transplants, etc. IRCCS are defined as public or private entities with "national relevance" provided with autonomy and juridical personality which aims at two main goals: a) biomedical research and clinical and translational; b) the organization and management of healthcare services. The creation of Foundations was the consequence of the economic crisis that hospitals were going through: the new legal entities have brought in fresh aids, both public and private, that Foundations can use with the obligation of non-profit and to invest in research all the incomes from other activities. The Foundations have been included into the National Health Service. With the Legislative Decree n. 288/2003, IRCCS-Foundations show a new model of administration. The aim of the Legislative Decree n. 288/2003 is also oriented to the reorganization of IRCCS, promoting a new but non conflicting relationship between public and private sectors working together to achieve the same goals.
[Foundations of research and health care: some legal aspects]IRCCS Foundations have been recently created by Legislative Decree number 288 (16th October 2003) as part of the reorganization of the Institutes of hospitalization and treatment of scientific value (IRCSS – Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico). The decree allows the IRCCS to change into IRCCS Foundations with a national importance, open to the participation of public and private entities. IRCCS have been defined by the Ministry of Health as hospitals of excellence aimed at research in the biomedical field and in the organization and management of the health service. Due to the recognition of their "scientific value", since they deal with particular pathologies of national importance, they have been qualified as IRCCS. Moreover, they can enjoy a public fund and a regional fund, which allow them to carry out their research in specific areas such as oncology, disabling chronic degenerative diseases, pediatric psychiatry, rehabilitation and organ transplants, etc. IRCCS are defined as public or private entities with "national relevance" provided with autonomy and juridical personality which aims at two main goals: a) biomedical research and clinical and translational; b) the organization and management of healthcare services. The creation of Foundations was the consequence of the economic crisis that hospitals were going through: the new legal entities have brought in fresh aids, both public and private, that Foundations can use with the obligation of non-profit and to invest in research all the incomes from other activities. The Foundations have been included into the National Health Service. With the Legislative Decree n. 288/2003, IRCCS-Foundations show a new model of administration. The aim of the Legislative Decree n. 288/2003 is also oriented to the reorganization of IRCCS, promoting a new but non conflicting relationship between public and private sectors working together to achieve the same goals.