Dopo più di un ventennio dalla sua comparsa sulla scena del dibattito scientifico, il 12 ottobre 2017 il Consiglio dell'Unione ha finalmente adottato, attraverso una procedura di cooperazione rafforzata che vede la partecipazione di 20 Stati membri,il regolamento sull'istituzione di una Procura europea (EPPO),regolamento 2017/1939/UE. L'EPPO avrà sede in Lussemburgo e sarà, almeno per il momento, competente ad indagare e perseguire, dinanzi alle giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione. Il regolamento, art. 120, è entrato in vigore 20 giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione- consentendo di dare avvio alle attività propedeutiche alla sua entrata in funzione, a cominciare dalla selezione del procuratore capo e dei procuratori europei - ma il concreto avvio delle indagini e delle azioni penali avverrà a non meno di tre anni di distanza, attraverso una separata decisione della Commissione su proposta del procuratore capo europeo e solo dopo l'avvenuta adozione del regolamento interno e degli altri atti di normazione secondaria quali le "direttive" cui è rimessa la disciplina di numerose scelte inerenti l'esercizio stesso dell'azione penale. Tutto questo induce a collocare intorno al 2021 il momento in cui potremo assistere all'avvio delle prime indagini direttamente condotte dalla procura. Con la sua nascita si assiste finalmente alla creazione di un organismo giudiziario inquirente a vocazione realmente sovranazionale che costituisce un "unicum" a livello mondiale. Si tratta inoltre di una novità di estrema rilevanza anche all'interno dell'odierno panorama delle attività legislative dell'Unione in materia di cooperazione giudiziaria penale, concentrato sull'attuazione dei numerosi strumenti adottati prima e dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed al tempo stesso tramortito dalla quasi esclusiva attenzione rivolta dal livello politico agli aspetti della cooperazione di intelligence e di law enforcment od al contrasto del traffico di migranti. Eppure il nuovo regolamento si porta dietro una serie di dubbi ed interrogativi. Innanzitutto, le resistenze a cedere la sovranità nazionale in campo giudiziario hanno fatto sì che il regolamento non registrasse, in seno al Consiglio, l'unanimità (richiesta dall'art. 86 TFUE) a sostegno della proposta. Il ricorso a tale meccanismo non ha di certo risolto gli ambiziosi problemi a cui si voleva porre rimedio attraverso l'istituzione della Procura europea, non essendo in garantisce né l'uniforme applicazione del diritto dell'Unione europea e né l'efficace ed equivalente protezione degli interessi finanziari dell'Unione . Ed è stato necessario procedere ad un vero e proprio "annacquamento" dei compiti e delle modalità di azione originariamente affidati all'organo. Questo ha portato ad abbandonare l'idea di un "Ufficio europeo" con il potere di indagare su tutto il territorio dell'Unione e di esercitare l'azione penale davanti al Tribunale di una giurisdizione nazionale prescelta, finendo per sostenere un meno invasivo "collegio" di pubblici ministeri designati dai governi nazionali, preposto al solo coordinamento delle attività di indagine e di accusa condotte nei e dai singoli Stati membri. Va rammentato altresì che il governo italiano si era opposto a questa oggettiva rivisitazione del progetto originario. Tant'è che quando in mancanza delle condizioni per un'approvazione unanime, sedici Paesi hanno deciso di dare vita alla nuova Procura europea, sfruttando il meccanismo delle c.d. cooperazioni rafforzate, l'Italia aveva scelto di non partecipare. Solo all'indomani di un incontro con Francia e Germania, il rifiuto del Governo italiano è stato superato e ad oggi sono venti gli Stati che parteciperanno alla Procura europea , con l'auspicio che in futuro altri Stati aderiscano alla cooperazione rafforzata e che le competenze dell'EPPO vengano estese ad altri reati gravi, diversi dalla tutela degli interessi finanziari comunitari. Tuttavia, proprio con specifico riferimento all'opportunità di limitare l'azione di un organo tanto potente alla tutela del solo bilancio dell'Unione, già all'indomani della presentazione della proposta della Commissione, da più parti era stato evidenziato come vi fossero anche altri delicatissimi settori che giustificherebbero un'azione investigativa centralizzata. Basterebbe pensare, a titolo meramente esemplificativo, al terrorismo, alla tratta degli esseri umani, la criminalità informatica, alla pedopornografia digitale, ovvero a tutti quei reati che, avendo una dimensione transfrontaliera, difficili da contrastare con un'azione repressiva esclusivamente nazionale, richiedono una lotta comune ed uguale in tutti gli Stati membri. Era, pertanto, preferibile che la competenza della Procura europea fosse stata estesa "alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale", così come previsto dall'art. 86, par. 4, TFUE. Nondimeno, l'ostacolo all'estensione della competenza ratione materiae è insito nel dettato dell'art. 86 TFUE, che richiede necessariamente una decisione unanime del Consiglio per ampliare le attribuzioni della Procura europea alla "lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale". Vale a dire che manca, per quest'ipotesi di estensione di competenza, un'esplicita alternativa all'unanimità in termini di cooperazione rafforzata fra alcuni Stati membri. Invero, la previsione dell'unanimità fa sorgere taluni dubbi, in quanto avendo imboccato la strada della cooperazione rafforzata, non ha senso ritenere che gli Stati non partecipanti possano ostacolare l'ampliamento delle attribuzioni della Procura europea alla cui istituzione hanno scelto di non aderire. Non solo. Alla luce delle criticità emerse nel contrasto dei fenomeni criminosi lesivi degli interessi finanziari dell'UE, l'istituzione della Procura europea mira a realizzare plurimi obiettivi: in primis, quello di introdurre un sistema europeo coerente di indagine e azione penale per i reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, offrendo un contributo concreto a rafforzare la tutela di tali interessi e lo sviluppo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e ad accrescere la fiducia delle imprese e dei cittadini dell'Unione nelle sue istituzioni, nel rispetto dei diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Il che mi consente di riallacciarmi ad un altro aspetto critico, vale a dire la mancanza, all'interno del regolamento, di una normativa di diritto sostanziale, infatti come è noto, l'art.22 del regolamento nell'individuare la competenza materiale della Procura europea rinvia alla direttiva n.1371 del 2017 , senza, però, assicurare una repressione equivalente in tutti gli Stati membri dei reati lesivi degli interessi finanziari comunitari. La Direttiva PIF, infatti, si limita a dettare soltanto norme minime; anche con riferimento alle sanzioni applicabili alle persone fisiche, di cui all'art.7, prevede che gli Stati membri devono assicurare che i reati da essa indicati siano puniti con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive oltreché con una pena massima che preveda la reclusione, lasciando gli Stati membri, in concreto, liberi di stabilire la sanzione effettivamente applicabile a tali reati, con la conseguenza che in ogni Stato lo stesso reato sarà punito con pene detentive diverse. Per questi motivi sarebbe stato opportuno che il regolamento contenesse una normativa di diritto sostanziale che stabilisse quali fossero i reati di competenza della Procura europea e le rispettive sanzioni, in modo tale da avere una disciplina uniforme in tutti gli Stati membri. Tale direttiva include, fra l'altro, le frodi all'IVA, ed in tal caso la Procura europea sarà competente soltanto qualora esse siano connesse al territorio di due o più Stati membri e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro, nonché quelle di partecipazione ad un'organizzazione criminale (di cui alla decisione quadro 2008/841/GAI), quando l'attività dell'organizzazione criminale sia incentrata sulla commissione dei reati PIF. Anche questa previsione ha suscitato perplessità in quanto secondo la Commissione ed il Parlamento europeo la soglia prevista è troppo alta. Persino la norma riferita al diritto penale sostanziale non detta un corpo di norme omogeneo comune a tutti gli Stati membri, prevedendo piuttosto una costante interazione tra le norme contenute nel regolamento e le norme nazionali con la conseguenza che anche in questo caso avremmo delle differenze tra gli Stati membri. Particolari questioni applicative potrebbero sorgere quando, nella repressione di reati transfrontalieri, le misure investigative devono essere eseguite in uno Stato membro diverso da quello in cui l'indagine è stata avviata e non partecipante alla cooperazione rafforzata. In tali circostanze, il PED titolare delle indagini e che ha disposto il loro avvio non potrebbe fare affidamento sulla collaborazione del suo omologo dello Stato in cui deve essere eseguita la misura investigativa, proprio perché mancante. Con la conseguenza che la prova potrà essere ottenuta facendo ricorso alle modalità già vigenti, quali gli strumenti di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie di un altro Stato membro, l'attività di coordinamento delle indagini penali svolta a livello sovranazionale da Eurojust, o, da ultimo, la presentazione di rogatorie nei vari Stati interessati. Sarebbe, dunque, necessario contemplare tali situazioni negli accordi tra l'EPPO e gli Stati non partecipanti alla cooperazione rafforzata. Non può non essere menzionata, ancora, la questione relativa al valore da attribuire al principio del giudice naturale in tutti i casi in cui siano coinvolti Stati membri partecipanti e non, quando i criteri di individuazione della giurisdizione radicherebbero la competenza giurisdizionale di uno Stato non partecipante. In simili casi, la Procura europea, in ossequio alle disposizioni del regolamento, non potrebbe esercitare l'azione penale dinanzi alle autorità giudiziarie di tale Paese né potrebbe decidere di farlo altrove, pena la violazione del principio del giudice naturale di cui all'art. 6 par. 1 della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo. Altresì, oltre all'inefficacia dell'azione repressiva, di fronte a casi trattati da Stati membri non partecipanti e azioni esercitate dalla Procura europea, potrebbe configurarsi la violazione, nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, del principio di uguaglianza davanti alla legge, che richiede che casi uguali siano trattati con procedure uguali. Infatti, fattispecie criminose perseguibili dall'EPPO, se poste in essere negli Stati in o dai cittadini di tali Stati, potrebbero restare impunite se commesse negli Stati out. Si sottolinea, pertanto, ancora una volta, la necessità che simili ipotesi trovino puntualmente regolamentazione negli accordi tra gli Stati out e la Procura europea. La Commissione aveva annunciato che nel 2018 le disposizioni del regolamento in esame sarebbero state accompagnate da nuove misure, in parallelo con una radicale revisione dello statuto dell'OLAF, per adeguare l'Ufficio alla nuova realtà e con l'adozione di una comunicazione "in prospettiva 2025", in occasione della quale sarà affrontato il tema di una possibile estensione della competenza dell'EPPO anche ai reati di terrorismo. Il nuovo organo, frutto di un vero e proprio compromesso, con tanti limiti e numerosi difetti, rappresenta dunque un punto di partenza, non certo di arrivo, verso risultati più ambiziosi. Invero, come già notato, la tutela penale degli interessi finanziari dell'Unione non può più essere affidata alle sole "risorse" sanzionatorie degli Stati membri anche perché come sottolineato dalla Commissione europea nella Relazione sulla proposta di Direttiva PIF del 2012, l'attuazione degli strumenti PIF negli Stati membri ha dato risultati assolutamente insoddisfacenti, in specie sotto il profilo dell'armonizzazione e prassi sanzionatoria; sicché sarebbe necessario, in una cornice di contestualità temporale, l' "equivalenza" della tutela penale mediante norme incriminatrici comuni e sanzioni omogenee, come richiesto dall'art. 325 TFUE; equivalenza essenziale, anche e soprattutto, per un corretto ed "efficace" funzionamento della Procura europea.
Terra di luce e di sole, Trapani è un territorio la cui bellezza incontaminata incanta grazie alla sua natura ricca, che offre un paesaggio luminoso dove il cielo si tinge di forti colori, quasi accecanti, ingentiliti dal verde delle vigne, degli ulivi . Affacciato su un mare ricco e pescoso questo territorio, caratterizzato prevalentemente da dolci colline, è infatti la regione più vitata d'Italia. L'analisi è stata condotta concentrando l'attenzione su alcuni aspetti chiave rivolti ad illustrare i possibili strumenti per la valorizzazione della provincia di Trapani, evidenziando il significato, gli obiettivi, le attività, le capacità e in particolare, le attitudini a fronteggiare eventuali situazioni di cambiamento. La tesi è strutturata in Sei capitoli: Nel primo capitolo si cerca di costruire una breve sequenza ragionata delle politiche di sviluppo nella provincia di Trapani evidenziate negli strumenti di programmazione negoziata e sviluppo locale presenti sul territorio. Dallo "intervento straordinario", che certamente oggi non suscita alcun sentimento nostalgico, ai possibili interventi per rafforzare la rete di uno sviluppo che cessi di essere subalterno e dipendente, attraverso "l'elaborazione di un quadro di interventi possibili orientati non da una dispersione a tappeto, ma da un ragionamento organizzato da una logica. Obiettivo da perseguire non di certo con una corsa agli aiuti finanziari "a pioggia" visti come un'automatica sorgente di crescita, ma facendo un uso ragionato degli aiuti europei e statali, supportati da un'efficace programmazione, capace di offrire soluzioni riconosciute come essenziali. Una programmazione che si è basata su due gambe: partecipazione attiva dei privati e creazione, da parte dell'operatore pubblico, delle condizioni in cui ai soggetti privati siano facilitati comportamenti virtuosi; tutto ciò contornato da una negoziazione tra operatori pubblici e privati, volta alla realizzazione di accordi, a livello locale, per colmare lo svantaggio tra le aree. Già con la riforma dei Fondi strutturali si è tentato di apportare significative modifiche. Innovazioni come quelle dei principi generali di partenariato, programmazione, addizionalità, valutazione e monitoraggio; classificazione per obiettivi ed iniziative che hanno sicuramente imboccato una nuova strada per una nuova politica per il Mezzogiorno. Certamente non si è riusciti a stravolgere i risultati avuti in passato ma si è acquisita un'esperienza su un periodo di programmazione che ha aiutato a calibrare il tiro per il futuro. I risultati dell'analisi e di contesto che il presente capitolo fornirà, la valorizzazione dei risultati degli interventi di politica di sviluppo locale (Learder, Patti territoriali, PIT) e di incentivi a compensazione delle diseconomie e delle inefficienze di contesto, consentono una più forte integrazione con le istanze espresse dal territorio, un'efficiente programmazione e valutazione dell'efficacia delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi. Programmi di iniziativa comunitaria (Leader), strumenti di progettazione integrata (P.I.T.), definiti come modalità operativa di eccellenza per l'attuazione del POR, permettono alle Autonomie locali di identificare le opportunità del territorio e di formulare in piena autonomia, seppur ascoltando il partenariato sociale-economico, le proposte progettuali coerenti con gli obiettivi definiti dalla Regione e di gestire gli interventi. Saranno analizzati gli strumenti di programmazione negoziata, sviluppo locale e incentivazione operanti nella provincia di Trapani al fine di riportare, per grandi linee, l'impatto che le risorse hanno avuto sul territorio provinciale. Nel secondo capitolo l' attività di analisi territoriale ha portato a focalizzare l'attenzione su quattro settori che rappresentano il motore trainante dell'economia: Il settore Turistico è il più dinamico dell'economia trapanese con flussi di domanda crescenti che già si stanno trasformando in domanda immobiliare, esistono le condizioni per indirizzare tale domanda verso la riqualificazione di immobili di pregio in stato di abbandono o sottoutilizzo. Il comparto turistico della provincia di Trapani si è sviluppato grazie all'importanza storica e culturale, nonchè a quella paesaggistica e naturalistica, dei vari comuni e delle isole che rientrano in questo comprensorio provinciale. Esso si basa su un'offerta decisamente varia: archeologia, poiché si trovano qui gli avanzi di numerosi insediamenti sia greci che punici (le aree archeologiche di Selinunte, Segesta, Mozia) ma anche splendidi ambienti naturali come quello della riserva naturale dello Zingaro, la prima istituita in Sicilia, e delle saline con i mulini a vento. E ancora, tradizioni popolari, feste dei santi patroni, spettacoli ed eventi culturali, al largo di Trapani, fanno parte della provincia le isole dell'arcipelago delle Egadi e, molto più lontano, più vicina alla costa africana che a quella siciliana, l'isola di Pantelleria, profumata di capperi e zibibbo. Nel settore Ittico i contributi apportati risultano essere di estrema importanza per coloro che vogliono conoscere e approfondire il vasto pianeta pesca da diverse angolature tutte correlate tra loro. Si va dall'aspetto giuridico a quello economico, dalla sostenibilità ambientale del Mediterraneo alla sicurezza del lavoro in tutta la filiera ittica, dall'importante e delicato passaggio dal FEP al FEAMP alle innovazioni portate avanti dalla Blue Economy, da un'attenta e dettagliata descrizione dei dati salienti del settore alla situazione socio-economica alieutica di alcuni paesi che si affacciano nel Mediterraneo. Un settore, quello della pesca, che in Sicilia contribuisce notevolmente alla storia, alla cultura e soprattutto all'immagine dell'Isola. Il settore olivicolo è il secondo più importante settore agricolo, obiettivo fondamentale è realizzare "interventi mirati allo sviluppo dei servizi in agricoltura". Per questo motivo le iniziative promosse in ambito regionale sono considerate "il punto di confluenza di tutte le iniziative previste dal P.O.". Le Unità Operative Territoriali (U.O.T.) sono aree pilota individuate in ogni regione meridionale dagli organismi competenti per progettare e realizzare un intervento di divulgazione e di consulenza alle imprese che possa poi essere utile in sede di programmazione a consolidare, migliorare o impostare il modello dei servizi regionali. Esso rappresenta un valido contributo per ottenere una olivicoltura efficiente, in grado di offrire ai mercati nazionali ed esteri un prodotto alimentare altamente qualificato e garantire all'olivicoltore la necessaria redditività. Il settore vitivinicolo è il comparto economicamente e socialmente più importante del trapanese che sta attraversando una crisi gravissima con gravi rischi economici e sociali, attraverso gli IDE è possibile se non risolvere quanto meno mitigare la crisi del settore. Il mondo del vino è una realtà molto complessa che si basa su un paradosso: gli elementi della tradizione territoriale si contrappongono al processo continuo di innovazione e sviluppo globale. Il vino possiede un'importante aspetto culturale, legato al territorio, ma nello stesso tempo svolge un'importante funzione economica nello scenario nazionale e soprattutto internazionale. In sostanza, nel vino, gli aspetti locali, legati alla cultura e alla tradizione, si mescolano agli aspetti economici e consumistici. Queste considerazione trovano una conferma nel caso della Provincia di Trapani. Quest'area si caratterizza, da un lato, per lunga storia vitivinicola in grado di offrire una produzione di qualità e, dall'altro, per un'eredità agricola frammentata e tendente alla produzione di qualità media. Negli ultimi anni, inoltre, lo scenario commerciale dei vini siciliani è stato connotato da una sostanziale staticità in termini organizzativi e promozionali, che contrasta con il dinamismo di altre aree viticole nazionali. Queste ultime hanno preso atto che il vino rappresenta un prodotto complesso e dinamico. Oltre a essere un fenomeno di costume, il vino è un elemento del mercato economico e finanziario, costituisce un'esperienza culturale e gioca un ruolo sempre più attivo nel campo della gastronomia. Costituisce, quindi, una risorsa fondamentale per lo sviluppo della cultura e dell'economia di uno specifico territorio. Il terzo capitolo si inserisce in quel filone di ricerche che esamina l'implementazione del marketing, attraverso lo svolgimento di indagini empiriche condotte sulle imprese di trasformazione, sulla base di quelle recenti costruzioni teoriche che considerano le imprese quali aggregati di attività generatrici di valore, mediante l'impiego di risorse e capacità. La prospettiva teorica della "configurazione d'impresa" può rappresentare una chiave di lettura della pratica attuale del marketing in esse applicato; nello specifico, essa indirizza l'analisi, da un lato, verso il contenuto e le eventuali modifiche intervenute nelle attività di marketing e, dall'altro, verso la sensibilizzazione del management nei confronti di tematiche ormai ampiamente sviluppate e consolidate negli studi teorici, quali quelli relativi, appunto, alle risorse e alle capacità. Il lavoro è stato articolato in due parti. La prima parte pone l'accento sull'evoluzione avvenuta nel trapasso dall'era industriale a quella post industriale (e fino ai giorni nostri), in relazione ai postulati del marketing mix, rispetto al quale anche le imprese vitivinicole siciliane hanno implementato la propria attività, e tutto ciò specialmente per quelle ad alto grado di orientamento al mercato. La seconda parte invece prende le mosse da una indagine condotta sulle imprese agroalimentari marketing oriented. La presente ricerca intende infatti aggiornare ed approfondire i risultati di quell'indagine, estendendola, per quanto è possibile, a tale fine è stata imperniata esclusivamente sulle imprese vitivinicole ad alto grado di orientamento di mercato, mediante l'impiego di una scheda–questionario; una tale scheda tende ad acquisire dettagliate informazioni, oltre che sui principali caratteri strutturali e gestionali delle imprese, sulle modalità di adozione delle attività di marketing, attraverso il ricorso agli strumenti del marketing mix. Pur rappresentando queste ultime un'esigua minoranza delle imprese vitivinicole della Sicilia, le analisi svolte consentiranno di illustrare i risultati ottenuti da una frangia di imprese, destinate ad espandersi negli anni avvenire, attraverso l'adozione delle strategie di marketing, ampliando la loro sfera di influenza sulla vitivinicoltura siciliana e sul mercato dei relativi prodotti.Dall'indagine empirica condotta sulle imprese vitivinicole di trasformazione emergono alcuni elementi estremamente significativi. Il marketing è ben concepito e realizzato nelle sue dimensioni culturali ed operative, per quanto si sia in presenza di una certa diversità di schemi di interpretazione e di attuazione della pratica del fenomeno. Le evoluzioni intervenute nelle attività di marketing nelle imprese vitivinicole esaminate si sono concretizzate in un avvicinamento dell'impresa al cliente e al mercato. L'obiettivo di sviluppare un'impresa maggiormente customer–oriented non sembra trovare tuttavia, supporto nell'adozione di una logica processuale delle attività di marketing e nella gestione e sviluppo delle capacità aziendali. Occorre pertanto attendere che il movimento evolutivo avviatosi una decina di anni fa, e che ha visto un crescente ricorso alle attività di marketing nelle imprese di trasformazione del comparto dei vini, si accresca ulteriormente negli anni avvenire, anche sotto lo stimolo dell'azione pubblica; quest'ultima non può disinteressarsi infatti di un processo evolutivo che ha investito (ed investirà sempre più) l'intera filiera produttiva dei vini siciliani, con particolare riguardo a quelli di qualità. Nel quarto capitolo si affrontano i problemi derivanti dalla crisi di un settore vitivinicolo, quando questo sistema produttivo, rappresenta grande parte dell'economia di un'area e, più nello specifico, di un'area di ritardo nello sviluppo, occorre porsi, in primo luogo, il tema del capitale umano. Il lavoro di carattere eminentemente qualitativo di questo documento, assieme al lavoro più quantitativo rappresentato da "Analisi di Contesto", rappresentano una base conoscitiva sufficientemente ampia per offrire elementi decisionali di carattere strategico. La condivisione degli elementi strategici contenuti in questo capitolo con molti tra gli operatori locali e diversi tra gli operatori nazionali, che comunque ben conoscono la realtà locale, ci ha confortato sulla correttezza delle linee individuate. Certo, esistono sfumature, sovente dettagli, che non sempre paiono completamente condivisibili, da parte di qualcuno, ma il senso generale, l'impostazione ed il metodo, pare largamente accettato. Con il nuovo quadro di programmazione, con la riforma dell'OCM di settore, sulla base dell'analisi dei mercati potenziali e dei più tradizionali e sulla base del posizionamento dei più temibili competitor, si è definito uno scenario che consente di guardare alla situazione con un'ottica diversa dal passato. Da queste considerazioni nasce il presente capitolo, contiene elementi di forte innovazione, capaci di suscitare legittime ansie e preoccupazioni, che nascono proprio nella consapevolezza della debolezza del capitale sociale ed umano dell'area: su quali spalle si potrebbe appoggiare un piano così ambizioso? Questa è la principale domanda che gli interlocutori si pongono, non sulle scelte, non sugli strumenti, non sulle modalità; il problema è chi. Questo richiede uno sforzo particolare da parte dei decisori politici, che certo non possono scegliere i soggetti, ma che possono definire un contesto normativo che favorisca l'emergere di nuovi gruppi dirigenti. In questo senso segnali interessanti stanno apparendo nell'orizzonte regionale. Questi, che sinora appaiono come semplici segnali debbono, però, solidificarsi in un disegno strategico coerente. Se questo lavoro potrà servire ad aprire la discussione sulle linee strategiche, un obiettivo molto importante sarà stato raggiunto. L'analisi condotta ha precise implicazioni sul piano della strategia da implementare per attrarre investimenti esteri nella provincia di Trapani. I fattori critici evidenziati dagli attori della business community non si riferiscono a carenze nei contenuti o negli strumenti della comunicazione, ma sono elementi di debolezza che possono essere superati solo attraverso precisi interventi di carattere strutturale. In queste condizioni un'azione di promozione degli investimenti generalizzata a tutti i settori darebbe luogo solo ad una dispersione delle risorse nel tentativo inutile di compensare con iniziative di comunicazione i problemi strutturali nazionali e regionali, che spingono gli investitori stranieri a scegliere altri paesi. La situazione descritta porta, infatti, ad escludere la classica azione di promozione degli investimenti esteri "ad ombrello" che, da un lato interessa in modo indifferenziato tutti i settori produttivi del trapanese, e dall'altro cerca di attrarre investitori esteri in modo non selettivo. Coerentemente con i risultati dell'analisi SWOT, la strada che si è scelto di percorrere riconosce in pieno le difficoltà in cui versa il nostro Paese ed il Meridione in generale, di cui Trapani fa parte a pieno titolo, e segue pertanto una strategia alternativa, più complessa sul piano analitico e operativo ma sicuramente più efficace in termini di risultati attesi. La linea d'azione che verrà percorsa si articola in 3 fasi: 1) identificazione di quei comparti in cui le condizioni per gli investimenti esteri sono più favorevoli e i vantaggi per gli investitori sono tali da soverchiare i fattori disincentivanti nazionali e locali. 2) scelta della tipologia di investimenti da attrarre. Non tutti gli investimenti esteri sono benefici per un territorio, alcuni possono avere addirittura effetti negativi. Fra le diverse tipologie di investimenti esteri connessi al comparto prescelto verranno identificati quelli più desiderabili per il loro impatto sul settore stesso e sull'economia trapanese in generale. 3) selezionata la tipologia di investimenti desiderabile verrà definita la strategia di attrazione di tali investimenti più adeguata, tenendo conto delle caratteristiche degli investitori, dei loro interessi e dei loro possibili obiettivi. Dunque la selezione del settore da proporre alla business comunità come possibile oggetto di IDE scaturisce dalla convergenza di due criteri di giudizio: il primo è direttamente legato alle convenienze economiche che si creano all'interno di specifici settori dell'economia trapanese di cui un investitore esterno può beneficiare, il secondo è invece connesso agli effetti positivi che l'investimento estero può generare sul settore stesso o sul sistema trapanese in qualche suo aspetto. Il quinto capitolo si articola in 3 parti corrispondenti a tre differenti livelli conoscitivi ed operativi. La prima parte può essere considerata come una fase preliminare del lavoro. Essa è dedicata all'analisi del terroir : una specifica conoscenza delle condizioni climatiche, delle caratteristiche del terreno e delle peculiarità dei vitigni e dei portinnesti, oltre che lo studio del risultato dell'interazione di questi elementi con il fattore umano, costituiscono la base per una corretta gestione del "sistema vigneto", a partire dalle fasi di progettazione ed impianto dello stesso fino alla scelta delle più idonee pratiche colturali, il tutto sulla base di ben precisi obiettivi enologici, che tengano conto delle esigenze del mercato. La seconda parte, di carattere più tecnico, si presenta come una guida pratica nella scelta e nell'effettiva realizzazione di tutte le operazioni di campo che risultano necessarie a partire dalla fase precedente all'impianto, ed in seguito sia nei vigneti di nuovo impianto che in quelli già in produzione. Il tutto deve essere effettuato in modo da poter conseguire il duplice obiettivo della redditività dei viticoltori e della qualità del prodotto ottenuto, nel pieno rispetto dell'ambiente. Si trova infine un riferimento alle attività svolte dai servizi allo sviluppo per agevolare i viticoltori nella effettuazione delle diverse operazioni e guidare la gestione dei vigneti verso condizioni di maggiore efficienza. La terza ed ultima parte è costituita dai "disciplinari": una raccolta di regole indirizzate ai viticoltori nate dalla considerazione congiunta delle caratteristiche del territorio, degli obiettivi enologici e delle esigenze del mercato. L'obiettivo è quello di offrire ai viticoltori uno strumento di analisi per conoscere gli eventuali problemi, accrescere le proprie conoscenze per inseguire la via del miglioramento per il futuro. Le ultime due annate possono essere considerate agli antipodi sotto tutta una serie di profili. Le condizioni registrate hanno sicuramente avuto un'influenza sugli aspetti quali-quantitativi della produzione. In viticoltura le variabili della natura possono essere tanto favorevoli quanto pericolose nell'influenzare il percorso produttivo e il raggiungimento degli obiettivi di ciascun viticoltore. La conoscenza, il monitoraggio degli elementi presi in esame e lo studio dei risultati raccolti possono aiutare nella definizione delle azioni future da intraprendere nel corso del lavoro in vigna. Il valore intrinseco e il risultato consequenziale delle scelte è infinitamente importante, ed è inscindibile da ciò che sta a monte e a valle delle stesse: è fondamentale fare la cosa giusta al momento giusto. La filosofia è quella della sostenibilità, sotto varie declinazioni e applicazioni. Ma il raggiungimento di questo faticoso equilibrio in ogni azienda vitivinicola passa attraverso un percorso che prevede la conoscenza, l'osservazione e la misura di tutti quegli elementi che intercorrono nella definizione di sostenibilità. Il Consorzio è lo strumento attraverso il quale la Regione, promuove ed organizza la bonifica come mezzo permanente di difesa, conservazione, valorizzazione e tutela del suolo, di utilizzazione e tutela delle acque e salvaguardia dell'ambiente, inoltre si mette in evidenza anche come il Consorzio di tutela sia un ottimo strumento per promuovere, valorizzare informare il consumatore e curare gli interessi generali della DOC "Sicilia". Il sesto capitolo si propone di individuare i percorsi di valorizzazione della produzione vinicola, attraverso l'esperienza diretta ed interviste si focalizza l'attenzione su due casi di successo, nonché leader nel settore vitivinicolo; le aziende: "Florio S.p.a" e "Pellegrino & C. S.p.a". L'obiettivo è quello di evidenziare gli elementi di forza e di criticità di un'offerta per i mercati esteri che ha saputo declinare le leve del marketing con il valore aggiunto rappresentato dall'immagine territoriale. La strategia di internazionalizzazione di queste storiche imprese Siciliane dimostra come oggi per approdare all'estero in maniera competitiva occorra individuare strategie innovative fondate sull'immagine del territorio. In questa prospettiva, il valore simbolico del vino e del suo territorio devono essere rinnovati per poter trovare posto nell'universo valoriale di consumatori sempre più attenti, oltre che alla qualità del prodotto, ai significati culturali che esso veicola.
Tesis descargada desde TESEO ; In Arrivederci piccole donne, di Marcella Serrano, una ragazza sogna di aprire una casa editrice. Il suo modello è quella di un'altra donna: Virginia Woolf. Esiste un modo delle donne di operare nell'editoria così come ne esiste uno di scrivere? Questa la questione che le pagine che seguono provano ad affrontare. Inizieremo fornendo un quadro storico dell'editoria italiana. Il punto di partenza sarà l'anno 1861, quello in cui l'Italia unì i propri confini politici e, con essi, il mercato editoriale. Vedremo quanto, dall'abbattimento delle frontiere interne, è cambiato. Le case editrici hanno raggiunto, oggi, il numero di settemilaseicento. Al loro interno la maggioranza degli impiegati sono donne. Un secolo e mezzo fa la figura dell'editore era assimilata con quella del tipografo. Quanto alle donne, nella Parigi all'avanguardia di allora, il loro accesso alla carriera di tipografo era vietato. Le prime donne che compaiono nella storia dell'editoria sono vedove dei fondatori. Il fatto, però, che spesso le attività proseguissero senza fratture, lascia arguire anni di lavoro nell'ombra. Esso verrà alla luce del sole con i movimenti femministi. Ciclostili, riviste in grado di rilanciarsi e superare le crisi, siti internet, non potevano però esaurirsi in un discorso complessivo. Né il quadro poteva ridursi alla rievocazione o ai bilanci delle reduci. In forme meno ideologiche come blog, periodici o marchi non solo votati a temi femminili, iniziative che si fanno portavoce delle istanze delle donne continuano a nascere. A quasi venti di esse dedicheremo schede specifiche che ne dettaglino storie e linee editoriali. Doverosa era la menzione di Noi donne, una storia che inizia in esilio, prosegue in clandestinità, vive gli anni della contestazione conquistandosi l'autonomia dal partito, cessa le pubblicazioni e quindi rinasce, nella versione attuale. Per il resto abbiamo privilegiato le testate che abbiano avuto un ruolo nel dibattito femminista e quelle che presentassero un contenuto letterario. Quanto ai siti internet, il criterio è andato al di là del numero di accessi e del contenuto letterario. Abbiamo preferito lasciare in secondo piano siti istituzionali, accademici e di associazioni anche autorevoli. L'aspetto che andava sottolineato, riteniamo, è l'eterogeneità delle iniziative in cui le donne si cimentano. Abbiamo tentato di darne conto recensendo blog, siti che sono delle vere testate registrate ma anche pagine telematiche dagli accenti quasi arcadici. Possono essere loro la soluzione ai limiti della editoria femminista che Maria Crispino lamentava già venticinque anni fa. L'editoria femminista scontava, e tuttora sconta, una penuria di mezzi che le impedisce l'accesso ad una distribuzione che la porti fuori dall'autoreferenzialità. Del resto, anche nel libro di Serrano, il fatto che aprire una casa editrice sia un sogno è dovuto al fatto di non avere abbastanza fondi. Eppure è seguendo l'esempio delle prime case femministe che, anche inconsapevolmente, tante donne si sono cimentate in avventure editoriali. Le loro sono state case editrici ostinate e pazienti – il modello è La tartaruga – ma anche fantasiose e anticonformiste, come Sottosopra. Hanno conquistato l'egemonia culturale. Il concetto, gramsciano, si lega a quello di cultura nazionalpopolare. Ad essa hanno concorso fotoromanzi, rotocalchi, romanzi rosa e, da ultimo, il fenomeno dei chik lit. Insieme, compongono la così detta paraletteratura. Le sue tirature sono multiple di quelle delle testate femministe e, non di rado, l'avversano. Esamineremo come. Riporteremo, nel concreto, l'atteggiamento dei fotoromanzi e della posta dei lettori verso il mutamento sociale. Anticipiamo che riviste patinate e romanzi rosa sono organi della conservazione. La loro modernità è strumentale al consumismo. Le lotte delle donne vi vengono non di rado osteggiate, le loro conquiste banalizzate. Anche di questo genere di pubblicazioni abbiamo ripercorso la storia che, peraltro, pesa più di quanto si creda su quella nazionale. È sulle "riviste per signore" che si è formata buona parte della conoscenza nazionale. È leggendo le loro pagine che le italiane hanno adottato una lingua e poi abitudini e consumi comuni. È tra le righe delle risposte alle loro lettrici che autrici come la Marchesa Colombi consigliavano un'accondiscendenza opportunistica. Perchè è sulle loro pagine che scrivevano e scrivono le autrici dei libri campioni di vendita. Come è evidente, il discorso parte dalle case editrici, include le scrittrici e, infine, vira sulle lettrici. Ma comprendere cosa viene proposto alle lettrici aiuta a comprendere la voglia, da parte di tante di loro, di darsi all'editoria. Laura Lepetit disse di aver fondato la sua casa editrice per editare un libro che in Italia mancava e che riteneva necessario. Anche il personaggio del libro di Serrano, in fondo, sebbene come editrice, sogna di emulare una scrittrice. La nostra analisi, quindi, cerca di considerare tutti i punti d'osservazione possibili. Guarda, cioè, alle donne in quanto lettrici e in quanto autrici. Anche quando, secondo una tradizione antica, esse si presentano con degli pseudonimi. Dove, invece, le firme indicano inequivocabilmente un autore, è nel giornalismo. In quell'ambito le donne si avviano, quanto ai numeri, a prevalere. Su quanto la maggioranza comporti un effettivo potere la discussione è aperta. Alcune voci denunciano la permanente assenza delle donne dai vertici delle testate. Altre le attribuiscono un modo di incidere sull'opinione pubblica che andrebbe al di là degli organigrammi. Oriana Fallaci, in altre parole, non avrebbe visto aumentare la propria autorevolezza dalla direzione di un giornale. Anche l'apporto delle donne al giornalismo nel suo complesso non è soggetto a una lettura univoca. Miriam Mafai , tra le altre, riconosce alle donne il merito di una benefica iniezione di frivolezza. Forse ciò che le donne possono dare va oltre. Forse il semiotico non si riduce ai pettegolezzi sui politici. Individuarlo e definirlo ha richiesto decenni di ricerche. Gran parte di esse attengono proprio ai modi espressivi. L'approdo, in estrema sintesi, è stato che il logos è maschile, mentre della donna è peculiare l'espressione dei sentimenti, il semiotico, appunto. Anche per questo l'editoria sulla quale ci concentriamo è sull'editoria letteraria. Rosi Braidotti afferma che la scrittura può ricomporre linguaggi logos-intensivi (come la scienza) e pathos-intensivi (la letteratura e la poesia). È stato questo, in fondo, l'obiettivo di autrici come Helene Cixous e di Luce Irigaray. Ognuna ha tentato di scartare dal patriarcato, uscire dall'alveo del consueto, proporre una prospettiva nuova. Sono le stesse finalità che si è posta la casa editrice il Caso e il Vento, di Sandra Giuliani. Il suo prodotto di punta sono gli audiolibri. Il modo di promuoverli è orizzontale: la declamazione da parte di persone confuse tra il pubblico. Anche la distribuzione, affidata al passaparola, cerca di mettere in discussione le gerarchie, di esplorare vie nuove. Quella di Sandra Giuliani è solo una delle numerose case editrici che abbiamo consultato sul tema della scrittura delle donne. Sulla stessa questione abbiamo sollecitato anche addetti ai lavori e femministe storiche: da Giampiero delle Molle, direttore della più diffusa rivista letteraria italiana, al compianto Vincenzo Consolo a Daniela Percovich a Piera Codognotto a Luciana Tufani. Le loro riflessioni hanno integrato la nostra lettura di Julia Kristeva e il resto del nostro bagaglio bibliografico. Ne abbiamo ricavato qualche sorpresa e qualche conferma. Sarebbero, ad esempio specialmente le donne a proporre manoscritti a contenuto erotico. Da Alda Merini a Dacia Maraini, del resto, l'importanza dei sensi, nella scrittura delle donne, è un dato assodato. Coniugato con il peso che le scrittrici tradizionalmente attribuiscono ai sentimenti, esso permette di individuare una modalità alternativa alla logica prettamente celebrale degli uomini. Detto delle caratteristiche della scrittura delle donne, ci siamo soffermati sui messaggi dei loro prodotti più recenti. Abbiamo verificato quanto e come nelle autrici degli ultimi anni sia presentato il superamento del patriarcato. A cui, peraltro, non mancano di opporsi espressioni letterarie di un sistema editoriale oligopolistico che Andrè Shriffin ha denunciato. Ancora una volta, la scrittura ci invita a guardare all'editoria nel suo complesso. Quindi al posto che vi ricoprono le donne in ogni ruolo, non solo nelle foto dei risvolti di copertina. Sul tema abbiamo raccolto le voci delle case editrici, dai titolari fino agli stagisti. Il quadro che ne abbiamo ricavato è articolato. L'insoddisfazione per gli scarsi riconoscimenti di qualcuno si sposa con la consapevolezza che tra i settori produttivi, per le donne, l'editoria rappresenta un settore privilegiato. Alberto Castelvecchi , tra gli altri, ci ha fornito una chiave d'interpretazione comune a quella che già avevamo visto proporre per la distanza delle donne dai ruoli direttivi dei giornali. In sintesi non è necessariamente dalle poltrone dei dirigenti che una donna può incidere su di una casa editrice. Al contrario, per restare nella metafora, è dagli sgabelli più operativi, magari, che si indirizzano giorno per giorno le imprese editoriali. Rintracciarvi un nuovo ordine simbolico è probabilmente qualcosa di mai tentato prima. Significa andare al di là delle singole opere e cercarne un filo rosso che dia al loro insieme un ulteriore significato. Cogliere, al di là delle dichiarazioni programmatiche, una linea editoriale. E, da ultimo, verificare un comune denominatore tra le case editrici di donne. Come, ad esempio, il proporsi come ponte di culture. Iperborea, Zandonai, Voland sono case editrici fondate da donne e da donne quasi totalmente formate. Il loro lavoro si pone in ideale continuità con Fernanda Pivano. Con il loro tradurre opere di letterature lontane o ritenute secondarie, tutte confermano quella specialità nomade che Rosi Braidotti riconosce alle donne. Ma questa è solo una, e forse la più evidente, delle peculiarità che sembra caratterizzare il cospicuo numero delle case editrici esaminate. A questo riguardo urge una nota metodologica. Il lavoro poggia su opinioni raccolte da addetti ai lavori: titolari di case editrici e stagisti, curatrici di collane, una direttrice di giornale come Tiziana Bartolini, una storica del femminismo come Piera Codognotto e un ex editore ora esperto di comunicazione come Alberto Castelvecchi ed altri ancora. Consultandoli, abbiamo voluto cercare spunti per la nostra ricerca ma anche registrare il clima che si respira all'interno del settore. Le interviste si sono svolte negli ultimi tre anni. In buona parte hanno avuto luogo nelle occasioni deputate agli incontri con le case editrici, cioè le fiere. In generale abbiamo modulato domande e l'occasione in cui formularle a seconda del soggetto che avevamo di fronte. Piera Codognotto, per esempio, ci ha accolti nella biblioteca in cui lavora, Tiziana Bartolini, direttrice di NoiDonne, presso la Casa Internazionale della donna di Roma, Alberto Castelvecchi presso l'università Luiss di Roma, Vincenzo Consolo a margine di un convegno. Altri incontri hanno avuto sedi più informali: conviviali, come nel caso di Anna Maria Crispino, o addirittura domestiche come nel caso di Luciana Tufani o della distributrice Cecilia Rossi. Di fronte a tanta eterogeneità, le questioni poste non potevano prevedere un asettico formulario. Le nostre, quindi sono state conversazioni tarate sul soggetto che avevamo di fronte: A Marianna Martino, titolare ventenne di una casa editrice surrealista, non sarebbe servito domandare lo stesso contributo che a Luciana Percovich, teologa femminista legata al movimento da quasi mezzo secolo. A tutta la nostra ricerca, qualitativa, abbiamo dato infine, una cornice di dati e statistiche. Quante sono le donne impiegate in editoria, quali sono, effettivamente, le mansioni che svolgono più di frequente, quali sono, infine, le tendenze. Al termine di un lavoro che si è data una lente cronologica, abbiamo guardato alle prospettive. Dopo anni di crescita, nell'ultimo anno il numero di case editrici è calato, si diffonde l'acquisto di libri on line, i generi letterari sono in discussione. Nuovi mezzi potrebbero soppiantare il supporto cartaceo e la nostra stessa idea di lettura. È ora, più che mai, di verificare quali frutti stiano dando, anche nell'editoria, i semi irrigati dall'inchiostro dei ciclostili quasi mezzo secolo fa.
Un pericolo intrinseco alla bioetica, quale campo interdisciplinare in cui convergono gli apporti di vari ambiti del sapere, e come luogo ideale in cui vengono dibattuti argomenti che per lo più sono parte dell'esperire comune, è quello della banalizzazione, della mancanza di rigore argomentativo. Spesso viene sottolineato che le questioni poste dalle nuove frontiere dello sviluppo medico-biologico, la rivoluzione tecnologica e, più in generale, il cammino della scienza, hanno preso un passo accelerato che, per la riflessione umana, è difficile riuscire a tenere sia a livello etico che politico. Dato il carattere invasivo della tecnologia, si può notare che la bioetica riguarda oggi non soltanto casi particolari, in genere eclatanti, ma sempre più la vita quotidiana di tutti i componenti della società. A tutti capita cioè di discutere di queste tematiche. Quale che sia la questione bioetica posta, per quanto nuova, ad un ipotetico interlocutore, questi sarà probabilmente capace di esprimere un'opinione in tempi piuttosto brevi, di 'dire la propria'. Lo stesso risultato non verrebbe probabilmente ottenuto se la questione posta riguardasse il concetto di società aperta di Karl Popper. In quest'ultimo caso sia l'uomo comune che l'accademico avrebbero quanto meno bisogno di raccogliere i pensieri. Questo per dire che spesso si risponde in merito alle problematiche sollevate nell'ambito della bioetica in modo intuitivo, salvo rendersi conto che, il più delle volte, non vi sono delle vere e proprie argomentazioni con cui spiegare le proprie preferenze. Non staremmo qui a parlare di alcun problema, se questo fosse l'atteggiamento assunto solo dal cosiddetto uomo della strada, l'uomo alle cui parole ed azioni non si possono collegare direttamente delle conseguenze importanti per la comunità, l'uomo che, in ogni caso, né per ruolo né per mestiere, è tenuto ad assicurarsi che le proprie posizioni sugli argomenti bioetici riflettano coerenza e razionalità. Le parole e le azioni di coloro che animano il dibattito bioetico, dei protagonisti delle biotecnologie e dei legislatori, non dovrebbero mai essere figlie di aprioristiche prese di posizione piuttosto che di ragionamenti ponderati, perché hanno un peso specifico maggiore. La loro superficialità può provocare danni. Al fine di evitare tale banalizzazione si devono tenere in considerazione gli aspetti salienti che dovrebbero costituire gli ingredienti essenziali di qualsiasi dibattito critico: l'argomentazione, ossia il poter sostenere una tesi essendo in grado di darne conto in modo autonomo, e la coerenza, da intendersi sia in riferimento ai principi che vengono adottati come base per la dialettica argomentativa, sia al significato che attribuiamo ai concetti e alle parole utilizzate. Se tenuti in considerazione fino in fondo, questi due criteri permettono di evitare atteggiamenti incoerenti e dogmatici. Riteniamo che le varie posizioni che animano il dibattito bioetico non soddisfino sempre i criteri di razionalità e coerenza che sarebbe opportuno aspettarsi. Ciò di cui si discute in bioetica sono argomenti di cui tutti facciamo esperienza, vi sono coinvolte esperienze fondamentali della vita di tutte le persone, ed il carico emotivo e potenzialmente pregiudiziale è forte. La domanda che riteniamo dovrebbe guidare le riflessioni di chi vi partecipa è: cosa è giusto fare? Lo scopo di questa tesi è anzitutto quello di mostrare che un approccio esclusivamente razionale alle grandi questioni biotiche, oltre che ai concetti morali di base, rappresenta una strada praticabile. Il motivo per cui si ritiene che la razionalità debba essere l'elemento fondante al fine di proporre e difendere le proprie visioni in questo campo è che questa è una delle poche garanzie che abbiamo che il nostro agire sia corretto, che la nostra risposta alla domanda sull'agire giusto sia congrua. Quando si parla di aborto, eutanasia o clonazione gli animi si accendono, e le discussioni non sono limitate alle aule delle accademie: se ne parla a tutti i livelli della società, ne parlano i mezzi di comunicazione e vi legiferano sopra le nazioni. Cosa ancora più importante, sono coinvolte le vite e le aspettative più profonde di persone reali. In considerazione di ciò è importante che quanto viene discusso, e deciso, in questo campo sia la conseguenza di attente analisi e ragionamenti solidi. Si assume che la prospettiva difesa in questa tesi abbia come sfondo una società democratica, multiculturale e laica. Consideriamo il lavoro svolto dal filosofo inglese John Harris un ottimo esempio di quello che si ritiene un metodo razionale di approccio alle tematiche bioetiche e lo abbiamo eletto a modello, analizzando parte della sua opera per affrontare tanto i nodi concettuali quanto le implicazioni morali delle applicazioni delle biotecnologie. Attraverso lo studio e l'analisi del pensiero di Harris ci siamo impegnati a riconsiderare vari concetti e vari temi del dibattito bioetico, cercando di distinguere le posizioni che si affidano a solide argomentazioni razionali da quelle che denunciano vizi nei ragionamenti, o che poggiano direttamente su altri paradigmi, con il fine di comprendere quale linea d'azione è meglio adottare, e ancora prima, da quale metodo discende la migliore linea d'azione. Il presente lavoro ripercorre i circa quarant'anni di evoluzione del pensiero dell'autore. Possiamo dire che nell'evoluzione del suo pensiero non sono stati registrati grandi cambiamenti né nel metodo né negli esiti. Abbiamo letto quasi per intero il corpus di testi. Quelli che sono stati valutati ai fini di questa tesi sono quelli che, nella nostra considerazione, meglio si prestavano ad analizzare con profitto le grandi questioni etiche, quanto cioè potesse fornirci gli strumenti adatti per andare a considerare successivamente le riflessioni sul modo in cui le biotecnologie entrano nell'esperienza umana e, conseguentemente, il modo di pensare i cambiamenti che dovremo affrontare. Le conclusioni di Harris sono sempre soddisfacenti, nel senso che soddisfano i criteri di razionalità e coerenza. In alcuni punti ci siamo distaccati dalla sua analisi, ma non ci siamo mai trovati nella condizione di rigettare totalmente il suo metodo. Il metodo razionale, assolutamente ben condotto a nostro giudizio, di Harris, lo porta a conclusioni talvolta scioccanti, ad ammettere in linea di principio azioni normalmente giudicate inammissibili. L'autore ne esce sempre fuori in qualche modo, diciamo, ma in alcuni punti le ragioni da lui rintracciate per ammettere o non ammettere ciò che confligge troppo aspramente con il senso comune non sono state da noi ritenute adeguate. Le posizioni nel dibattito bioetico di coloro che non transigono e non cambiano le proprie vedute o in virtù di un presunto punto di arrivo del proprio pensiero, o perché tali posizioni sono costruite su basi che non lasciano spazio al confronto, quali assunti religiosi o l'elezione di emozioni e sentimenti a criteri morali, sono aspramente criticate da Harris e praticamente rifiutate in modo completo. Noi non riteniamo che tali posizioni siano da rigettare al mittente troppo velocemente. Per il modo in cui concepiamo l'utilizzo di un paradigma razionale, riteniamo che tali posizioni rispecchino i desideri e le volontà di ampie 'fette' della società civile, e secondo noi ha senso parlare di un rispetto della sensibilità di una grande porzione della popolazione, se non della bontà delle idee che le sottendono. Quello alla sensibilità altrui può essere un richiamo per utilizzare, diciamo così, una certa dose di tatto nel maneggiare argomenti che sono collegati ad esperienze umane il cui impatto e la cui estensione emotiva sono grandi, ma ci rendiamo conto che non può essere di per sé un'argomentazione sufficiente. Una bioetica razionale teorica, accademica, interessata all'analisi ed alla speculazione, ma che non si preoccupi della propria attuabilità nel contesto sociale, che non voglia fare i conti con il modo in cui le proprie analisi e conclusioni possano essere assorbite, può chiaramente seguire una strada più retta e rintracciare il giusto laddove la pura istanza razionale la conduce. Una bioetica razionale non solo teorica, nella propria ricerca di cosa è giusto fare, riteniamo che debba applicare il criterio guida della razionalità ad un doppio livello. Un primo livello che può coincidere con la ricerca della bioetica razionale teorica, capace di fornire delle indicazioni importantissime su quanto, tolte le emozioni, le sensazioni, i sentimentalismi ed i pregiudizi risulta come il giusto modo di comprendere e comportarsi nelle varie situazioni. Su questo si dovrebbe costruire un secondo livello che, forte di quanto sviluppato nel primo, possa comprendere in quale modo e secondo quali tempi proporre la propria visione e le proprie proposte considerando, per davvero, il senso comune e la morale diffusa in una società, laddove il giusto non sia solo corretto, non sia un giusto assoluto, ma sia anche adeguato. Le posizioni di Harris su temi quali l'aborto e l'infanticidio hanno attirato aspre critiche. Fra i suoi numerosi interventi ne riportiamo uno che ha raggiunto un'ampia porzione della popolazione e che ha provocato una grande indignazione: "…when I defend abortion, I don't insist on calling it termination of pregnancy. I'm prepared to say that I believe in the killing of unborn children" (Ahuja, A. (10/10/2007). Enhancing the species. The Times). In un altro articolo-intervista, l'autore sostiene che la gente non ha alcun diritto a non essere disturbata dalle sue parole, che le idee possono avere questo effetto e che questo è un prezzo che vale la pena di pagare. Ciò nonostante concede che a volte lui stesso non si sente a suo agio nei posti dove la ragione lo conduce. Quando ciò accade o il ragionamento è errato e va rivisto o, se ad una revisione il ragionamento risulta corretto, la sensazione di disagio è indice di un suo pregiudizio. Se ad alimentare le perplessità dell'autore sulle sue stesse conclusioni è un'idea non razionale, residuo di qualche pregiudizio, la sua posizione deve poggiare su quel ragionamento nonostante la sensazione di disagio (Watts, G. (20/10/2007). John Harris: leading libertarian bioethicist. The Lancet). È su questa conclusione che non siamo completamente d'accordo con l'autore e ci auguriamo di essere riusciti, nel corso di questo lavoro, a fare emergere una posizione alternativa a quella per cui dovremmo accettare ciò che risulta assolutamente ingiusto, per amore della ragione. La funzione del primo capitolo è, come già accennato, quella di fornire i mezzi concettuali con cui sviluppare le successive tematiche. Funge anche da esemplificazione del modo in cui si ritiene che un concetto debba essere analizzato: qui tentiamo di chiarire il modo in cui i termini chiave del dibattito (quali persona, autonomia, responsabilità ed altri) vengono analizzati con il fine di rendere intelligibile cosa esattamente si intende quando vi si ricorre; nello stesso contesto verranno anche affrontati alcuni temi classici della filosofia (ad esempio la dottrina del doppio effetto ed il concetto di potenzialità) per comprendere quale possa essere la loro utilità, se il richiamo a tali concetti è da considerarsi valido o meno. Riuscire a chiarire questi punti è essenziale per non essere fraintesi e per poter sostenere le soluzioni o prospettive, sulle questioni bioetiche in oggetto, che consideriamo essere le migliori. Non pensiamo che un'analisi razionalmente condotta debba portare ad un'unica soluzione, in quanto non esiste un'unica prospettiva da cui guardare alle questioni in esame. Riteniamo però che differenti concezioni possano armonizzarsi, o comunque che vi sia spazio per un dibattito fecondo, che porti alle soluzioni pratiche migliori allorquando i contributi provengano da pensatori disposti ad ammettere nel proprio pensiero solo ciò che passa per uno stretto vaglio razionale, persone che siano disposte a non permettersi pregiudizi. Nel secondo e terzo capitolo abbiamo seguito il lavoro degli ultimi quindici anni di Harris e abbiamo affrontato due fra gli argomenti più interessanti e dibattuti in bioetica: la clonazione ed il biopotenziamento. Ognuno dei due capitoli è stato strutturato cercando di dare al lettore un'idea preliminare del dibattito etico e filosofico sugli argomenti nei quali si inseriscono le riflessioni dell'autore. Ciò che, come è facile intuire, è in questione, è l'ammissibilità di queste pratiche. Utilizzando il lavoro dell'autore si desidera mostrare come e perché un'argomentazione coerentemente razionale può portare, e di fatto conduce, alla conclusione che sono entrambe quanto meno ammissibili. Nel corso dell'intero lavoro di tesi, si persegue l'obiettivo di evidenziare la sostanziale differenza che c'è fra una bioetica razionale e le altre visioni bioetiche, tentando di far emergere di volta in volta le ragioni per cui si ritiene che la prima sia preferibile rispetto alle altre. Si tenterà di spiegare perché, seguendo il lavoro di Harris, siamo giunti infine a considerare che vi sia una dimensione della nostra responsabilità per cui molte pratiche che passano sotto le categorie generali della clonazione e del biopotenziamento, sono oltre che ammissibili, moralmente necessarie.
La trattazione si compone di tre capitoli, dalla lettura dei quali emerge una indagine della tematica che ha preso le mosse dalla analisi del principio del consenso traslativo per approdare alla recente normativa di recepimento della direttiva 83/2011, passando per l'approfondimento della disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna e nelle altre normative interne in materia di contratti a distanza che si sono susseguite nel corso degli anni. Come si è appena detto il lavoro muove dalla disamina della normativa civilistica in materia di conclusione del contratto, retta dal principio del consenso traslativo espresso nell'art. 1376 c.c., norma che accoglie il c.d. "principio consensualistico", in virtù del quale la stessa manifestazione di volontà che costituisce il negozio è sufficiente non solo per far nascere l'obbligazione, ma anche per trasferire o costituire diritti in capo ad altri. Il consenso, dunque, anche senza la consegna e il pagamento del prezzo, è sufficiente per il passaggio della proprietà (o altro diritto) e a tale affermazione segue, quale corollario, la compenetrazione nel titulus del modus dell'acquisto, dal momento che il contratto, oltre al valore di regolamento di privati interessi diviene indice della circolazione dei beni, al posto dell'antica traditio. La sola manifestazione di volontà delle parti contraenti determina, dunque, contestualmente all'acquisto della proprietà, l'acquisto dello jus possidendi, in conseguenza della stipulazione. Nelle ipotesi in cui il contratto abbia ad oggetto uno dei diritti previsti nell'art. 2643 c.c. e negli altri casi in cui l'ordinamento prescrive la necessità della trascrizione, l'acquisto del diritto, da parte del compratore, si verifica erga omnes prima ancora del compimento delle formalità pubblicitarie legali, salva l'eventuale risoluzione, ex tunc, dell'acquisto stesso quale conseguenza della applicazione delle regole sulla pubblicità ed in particolare per l'effetto dichiarativo ad essa proprio. Si può, tuttavia, osservare che la regola del consenso traslativo ha, dunque, nel nostro 2 ordinamento, valenza generalizzata pur se sono rinvenibili diverse eccezioni che ne restringerebbero l'ambito di applicazione comportando, secondo alcuni, un "ridimensionamento" del principio stesso. La presenza di deroghe, tuttavia, non varrebbe ad intaccare la generalità del principio ben potendo con essa coesistere la scelta di politica legislativa secondo la quale relativamente a taluni diritti il trasferimento o la costituzione sia subordinato all'osservanza di particolari oneri formali. Il principio espresso nella disposizione citata, determina una macroclassificazione all'interno dei contratti di alienazione: si distinguono in contratti ad effetti reali, nei quali gli effetti reali sono immediati e contratti ad effetti obbligatori nei quali l'effetto reale è mediato dal sorgere di un vincolo obbligatorio. E' risultato necessario, a questo punto, effettuare una analisi degli effetti che il principio volontaristico reca con sé, operando un coordinamento tra la norma di cui all'art. 1376 c.c. e quella di cui all'art. 1465 c.c., dal momento che è proprio in relazione al momento in cui il trasferimento del diritto ha luogo che viene decisa, in via di principio, la questione relativa al soggetto sul quale incombe (secondo le norme dispositive in materia di vendita) il rischio del perimento della cosa per causa non imputabile al venditore. L'individuazione del momento in cui si produce l'effetto traslativo è rilevante, pertanto, anche ai fini della disciplina del passaggio dei rischi, avendo il nostro ordinamento adottato, di massima (facendo salve le eccezioni relative alle vendite di beni di consumo) il criterio della proprietà e non, come avviene in altri Paesi o in base alle convenzioni di vendita internazionale, quello della consegna e neppure quello del contratto. Di regola, perciò, il rischio contrattuale del perimento, del deterioramento della cosa o dei vizi giuridici sopravvenuti è in capo al compratore, a partire dal momento in cui si sia prodotto l'effetto traslativo e indipendentemente dalla consegna o dal pagamento del prezzo (obbligazione alla quale il compratore sarà tenuto dal momento del prodursi dell'effetto traslativo). Il legislatore del '42 considera, pertanto, assorbente il 3 trasferimento del diritto che eleva a criterio unico ed esclusivo di allocazione del rischio contrattuale (res perit domino); ciò con riferimento alle vendite non obbligatorie, giacchè in queste ultime il rischio continua a gravare sul venditore fino al verificarsi del trasferimento del diritto. Di conseguenza in esse, ove la cosa perisca per causa non imputabile ad alcuna delle parti, prima del verificarsi del trasferimento del diritto, il contratto si risolverà a norma dell'art. 1463 c.c. (salva la concentrazione sull'altro bene dedotto nella vendita alternativa e salvo l'ostacolo alla risolubilità nei casi di vendita di genere illimitato). Quanto detto fino a tale momento necessita di raffronto con il disposto dell'art. 1510 c.c. che si occupa del luogo della consegna nel caso di vendita di cose mobili precisando che nel caso di vendita con trasporto, "il venditore si libera dall'obbligo della consegna rimettendo la cosa al vettore o allo spedizioniere" (ove per rimessione si intende la concreta presa in consegna del bene da parte del vettore o dello spedizioniere). Nel caso in cui si tratti di vendita di cose generiche, la consegna suddetta equivarrà anche come atto di individuazione ai sensi dell'art. 1378 c.c. La formulazione letterale della norma ha indotto parte della giurisprudenza e della dottrina a ritenere che la consegna al vettore o allo spedizioniere possa essere equiparata alla consegna al compratore, così esaurendosi l'obbligo di consegna gravante sull'alienante. Tale conclusione non si è ritenuta, tuttavia, condivisibile giacchè all'affidamento del bene all'incaricato del trasporto non consegue l'acquisizione della disponibilità dello stesso da parte del compratore, la quale rimane, di regola, al venditore che conserva il potere di impartire direttive al vettore. Dopo aver compiuto una breve disamina del quadro normativo municipale si è passati all'analisi della disciplina dei contratti inter absentes, dal momento della formazione dell'accordo a quello del trapasso della proprietà dal venditore all'alienatario. Il secondo capitolo inizia con l'illustrazione del procedimento di formazione dei contratti fra persone non presenti contestualmente nel luogo di conclusione del contratto, attraverso una analisi della 4 evoluzione storica della dottrina e della giurisprudenza in materia con un approccio comparatistico. In seguito si passa alla esposizione della disciplina contenuta nella Convenzione dell'Aja del 1964 (LUVI) e, più approfonditamente della Convenzione di Vienna del 1980. Quest'ultima in tema di formazione del contratto individua nella disposizione di cui all'art. 14 quali siano i requisiti minimi affinchè una proposta di concludere un contratto possa configurarsi come proposta in senso tecnico. Pertanto, dopo aver genericamente indicato che la proposta contrattuale deve essere sufficientemente precisa e deve contenere la volontà del proponente di obbligarsi in caso di accettazione, individua i requisiti che debbono sussistere affinchè una proposta possa dirsi sufficientemente precisa. La norma poc'anzi citata, come si vedrà nel corso del lavoro, non ha un equivalente nel nostro diritto interno, che, infatti, difetta di una norma contenente requisiti specifici al ricorrere dei quali si possa rinvenire una proposta in grado di dispiegare effetti. Quanto al momento a partire dal quale la proposta produce effetti, la norma di cui all'art. 15, I° comma della Convenzione stabilisce che essa acquista efficacia solo quando è stata portata a conoscenza del destinatario e, sotto tale aspetto, la legge uniforme non introduce modifiche rispetto al quadro normativo di diritto interno. La soluzione prescelta presenta, tuttavia, delle peculiarità rispetto alla disposizione di cui all'art. 1335 cod. civ., in base alla quale tutte le manifestazioni di volontà si reputano conosciute nel momento in cui pervengono all'indirizzo del destinatario; tali differenze valgono a rendere la soluzione adottata in sede internazionale più idonea a garantire una maggiore certezza nei traffici giuridici. Punto centrale della analisi della disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna attiene, tuttavia, al profilo relativo alla consegna dei beni e agli effetti da essa prodotti, in relazione al quale l'art. 31, pur non discostandosi significativamente dalla precedente normativa uniforme, introduce delle modifiche notevoli; essa, anzitutto si riferisce semplicemente alla consegna, senza però darne una definizione precisa lasciando così che il contratto ne determini il concreto contenuto. 5 Significativa è la circostanza che si prevede che quando la cosa venduta deve essere consegnata in un luogo determinato, il venditore si libera dall'obbligo di consegnarla non già con il trasferimento del possesso, ma semplicemente mettendo la cosa a disposizione del compratore in quel luogo. Tale regola, come meglio si vedrà in seguito, ha imposto un adattamento del regime riguardante il passaggio del rischio al compratore: mentre infatti è rimasto fermo il principio che, nella vendita con trasporto, il rischio passa al compratore con la consegna della cosa al vettore, nel caso in cui la consegna debba avvenire in un luogo determinato occorre non solo che il venditore abbia messo la cosa a disposizione del compratore, ma anche che questi non abbia adempiuto l'onere di ritirarla tempestivamente e che, nel caso in cui il luogo della consegna sia diverso dal domicilio del venditore, il compratore sappia che la cosa è stata messa a sua disposizione. Inoltre, sempre con riferimento alla consegna, deve segnalarsi che l'art. 53 della convenzione impone al compratore, accanto all'obbligazione di pagare il prezzo anche l'obbligo di prendere in consegna la merce che secondo una parte della dottrina, dovrebbe essere considerato come una obbligazione autonoma, la cui violazione sarebbe da configurarsi come inadempimento contrattuale. La Convenzione di Vienna muta radicalmente prospettiva abbandonando la pretesa di una definizione unitaria di consegna proponendo solo una descrizione analitica dei vari tipi con cui essa si attua nella realtà del commercio internazionale; conseguentemente ne risulta una disciplina profondamente diversa anche con riguardo al passaggio dei rischi e agli obblighi del venditore. Sotto tale ultimo aspetto la Convenzione esplicita gli atti che il venditore deve compiere per liberarsi dal suo obbligo e per i rischi si articolano varie ipotesi che disciplinano il momento in cui, malgrado la perdita o il deterioramento delle merci, il compratore deve corrispondere il prezzo convenuto. Con particolare riferimento alla tematica relativa al passaggio del rischio, da un'analisi complessiva del testo della Convenzione, emerge che l'affidamento della merce al 6 trasportatore non può considerarsi sufficiente affinchè il venditore possa considerarsi liberato dal rischio. Sempre nell'ambito del secondo capitolo si è proceduto alla illustrazione della disciplina dettata nella direttive comunitarie e nel codice del consumo relativamente ai contratti a distanza e, per quel che più interessa, alla tematica del passaggio del rischio. Quanto alle prime si può osservare che l'impianto e le soluzioni adottate dalla Convezione di Vienna, presa in esame nella precedente sezione, sono stati assunti a modello dal legislatore comunitario in sede di predisposizione della direttiva 99/44/CE. Con riferimento al codice del consumo, come è noto il D. Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24 ha dato attuazione alla Direttiva 1999/44/CE prevedendo l'inserimento della disciplina della vendita dei beni di consumo nel paragrafo 1 bis della sezione II del capo I del titolo III del libro VI del codice civile attraverso l'introduzione degli artt. da 1519 bis a 1519 nonies. In tal modo l'impianto codicistico fu integrato con un articolato di forte valenza consumeristica finalizzato ad adeguare alle esigenze del mercato, tutele, garanzie e responsabilità di determinati tipi di vendita. A tale novella legislativa conseguirono difficoltà circa il raccordo della stessa con la normativa sulla vendita di cose mobili, contenente una serie di rimedi, specifici per la natura delle cose vendute ed eccezionali rispetto ai principi generali in tema di contratto, ispirati alle esigenze di celerità delle risoluzioni delle controversie e di certezza delle contrattazioni. Sicchè si pose il problema dell'applicazione della specifica normativa del codice alle vendite dei beni di consumo, problema reso ancor più acuto dall'esistenza di una profonda lacuna nella direttiva de qua. Dall'impianto normativo delineato emergeva, dunque, che l'unica consegna giuridicamente rilevante fosse quella che procurava la materiale disponibilità della cosa al consumatore-destinatario (momento rilevante anche ai fini della responsabilità del venditore per "qualunque difetto di conformità esistente al momento della consegna" - art. 1519 quater cod. civ.). In tale variegato panorama normativo si poneva in discussione la 7 configurazione della condotta giuridicamente rilevante per la liberazione del venditore dall'obbligazione di consegna, nonchè il criterio di distribuzione dei rischi della complessiva operazione economica. Con lo scopo di creare una normativa di settore, volta ad armonizzare e riordinare le varie discipline e di fornire un'ampia tutela al consumatore, inteso quale soggetto debole del rapporto contrattuale, nel 2005 è stato emanato il decreto legislativo n. 206, che ha espunto dal codice civile gli artt. da 1519 bis a 1519 nonies, trasfondendoli negli artt. 128 ss. Vero motivo ispiratore prima dell'art. 1519 ter, I comma c.c. e del nuovo art. 129 cod. cons. è il concetto di "conformità al contratto" del bene oggetto di alienazione, individuandolo nell'idoneità all'uso al quale servono beni dello stesso tipo ovvero nella corrispondenza alla descrizione fatta dal venditore in sede di stipulazione del contratto. Sulla base del tenore letterale della norma appena citata si possono definire conformi al contratto anche quei beni che possiedono le qualità dei beni presentati dal venditore come modello o campione, ovvero presentano le qualità e le prestazioni abituali di beni dello stesso tipo; sono, altresì, conformi al contratto quei beni idonei all'uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato portato da quest'ultimo a conoscenza del venditore, il quale abbia accettato anche per fatti concludenti. La norma prosegue escludendo che vi sia difetto di conformità tutte le volte in cui il consumatore fosse a conoscenza del difetto e non potesse ignorarlo con l'ordinaria diligenza ovvero nel caso in cui tale difetto sia stato cagionato dal consumatore con istruzioni o materiali. Come si può agevolmente notare, il difetto di conformità era stato concepito dal legislatore italiano indipendentemente dalla presenza di vizio, colpa o dolo, che, invece, caratterizzavano le disposizioni a riguardo disposte dal codice civile. Operato il raffronto tra la normativa generale, quella comunitaria e quella di settore la trattazione prosegue attraverso l'analisi del corpo normativo della direttiva 2011/83/UE, cui è dedicato il terzo ed ultimo capitolo, relativamente all'aspetto inerente il momento del passaggio del 8 rischio nei contratti a distanza, normativa che ha introdotto una tutela più avanzata per i consumatori, aggiungendo un altro significativo tassello nella formazione di un diritto uniforme europeo dei contratti dei consumatori (considerando n. 7). La normativa appena citata, anzitutto, amplia in modo considerevole la nozione di contratto a distanza (come anche di contratto negoziato fuori dai locali commerciali), giungendo ad estenderla a qualunque "regime organizzato di vendita o prestazione di servizi a distanza, senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l'uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino al momento della conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso". Da tale definizione debbono rimanere esclusi i casi in cui i siti web offrono informazioni solo sul professionista, sui beni o servizi che presta e sui suoi dati di contatto e non anche sulle modalità di conclusione del contratto. Per l'aspetto che qui interessa, nel considerando n. 51 della suddetta direttiva si legge che particolarmente problematico e fonte di contenzioso è proprio il frangente attinente alla consegna dei beni, compresi quelli persi o danneggiati durante il trasporto, e la consegna parziale o tardiva. Intento palesato dal legislatore comunitario è proprio quello di armonizzare la normativa nazionale in ordine al momento in cui dovrebbe avvenire la consegna, facendo in modo, però, che le condizioni e il momento del trasferimento della proprietà dei beni rimangano assoggettati alla normativa nazionale. Con specifico riguardo all'ipotesi in cui i beni vengono spediti al consumatore dal professionista (nel caso di perdita o danneggiamento), la direttiva predispone una tutela più ampia e concreta nei riguardi del primo, stabilendo che egli debba essere tutelato contro ogni rischio di perdita o danneggiamento dei beni che avvenga prima che abbia preso fisicamente possesso dei beni medesimi. Con riguardo a tale momento di trasferimento del rischio, è opportuno considerare che può dirsi entrato in possesso di un bene, il consumatore che lo abbia materialmente ricevuto; quando, in altri termini, abbia acquisito un controllo su di esso, avendone accesso, anche tramite un terzo da lui 9 indicato, per utilizzarlo come proprietario. Viene però fatto salvo il caso in cui il consumatore abbia incaricato il vettore del trasporto dei beni, dal momento che, in tale ipotesi, il legislatore comunitario sposta il trasferimento del rischio della perdita o danneggiamento, in capo al consumatore, al momento della consegna dei beni al vettore. La medesima disciplina è applicabile nel caso in cui spetti al consumatore stesso prendere in consegna i beni, dal momento che in tale caso l'assunzione del rischio coinciderebbe con l'apprensione materiale del bene oggetto di contratto. Della consegna si occupa l'art. 18 della direttiva di cui si discorre, il quale, fatto salvo un diverso termine pattuito dalle parti, stabilisce che il professionista debba consegnare i beni "mediante il trasferimento del possesso o del controllo fisico" sugli stessi senza indebito ritardo e comunque non oltre trenta giorni dalla conclusione del contratto. Ove tale adempimento non venga compiuto dal professionista è riconosciuto al consumatore il diritto di sollecitare il primo ad effettuare la consegna entro un termine supplementare appropriato alle circostanze; ove la consegna non avvenga neppure entro tale termine, il consumatore ha diritto di risolvere il contratto. Nell'ipotesi in cui per la consegna sia stato fissato un termine e questo debba, tenuto conto delle circostanze, essere considerato essenziale, non trova applicazione il termine legale di trenta giorni e se il professionista omette di effettuare la consegna entro tale termine, il consumatore ha diritto alla risoluzione del contratto ipso iure. Al verificarsi di tale conseguenza, il professionista è tenuto al rimborso, senza ritardo, di tutti gli importi versati dal consumatore in esecuzione del contratto, fatti salvi, in ogni caso, gli ulteriori rimedi riconosciuti al consumatore dalla legislazione nazionale. L'attuazione della direttiva de qua è intervenuta a seguito del D. Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 il quale ha novellato, tra gli altri, gli artt. 60-61 e 63 del codice del consumo, dettati in tema di consegna dei beni e al passaggio del rischio di perdita o danneggiamento degli stessi, introducendo una regolamentazione più analitica delle conseguenze 10 dell'inadempimento anche sotto il profilo della responsabilità connessa alla consegna. Le disposizioni di cui agli artt.61 e 63 fanno esclusivo riferimento al contratto di vendita e vanno ad aggiungersi agli artt. 128-135 già presenti nel codice del consumo. La direttiva svincola il trasferimento dal conferimento del possesso, prevedendo che sia sufficiente che il consumatore abbia anche solo il "controllo fisico" sui beni acquistati; tale formulazione potrebbe rendere idonea quale prova dell'avvenuta consegna anche il conseguimento della semplice detenzione del bene, anche ad opera di un terzo incaricato dal consumatore stesso. Il momento della consegna (di cui si occupa l'art. 61, che recepisce quasi testualmente il disposto dell'art. 18 della direttiva) rappresenta un punto cruciale della fase esecutiva del contratto, fonte di numerose controversie generate dalla necessità tanto del legislatore comunitario, quanto di quello nazionale, di fornire una tutela effettiva al contraente più debole. In deroga a quanto disposto dal codice civile, ove il bene oggetto del contratto debba essere trasportato da un luogo all'altro (o essere spedito), non rileva il momento in cui il bene è affidato al vettore, ma il momento in cui esso giunge a destinazione, nelle mani dell'effettivo proprietario. Eccezione a tale regola si riscontra solo nel caso in cui il vettore sia stato scelto dal consumatore e tale scelta non sia stata proposta dal professionista, salvi naturalmente i diritti riconosciuti dal sistema codicistico al consumatore nei confronti del vettore. La finalità di tale recentissima novella legislativa, su impulso del legislatore comunitario, sembra riscontrabile nell'intento, da un lato, di allocare i rischi inerenti alla cosa in capo ad un soggetto che abbia consapevolmente acquisito fisicamente il possesso dei beni oggetto del contratto e dall'altro, di sollecitare il professionista nell'individuazione di un vettore effettivamente affidabile, in ossequio al principio di diligenza nell'adempimento delle obbligazioni.
Il pesante condizionamento imposto allo studio della storia degli ultimi 20 anni del I secolo dal "revisionismo" d'età traianea ha per molto tempo reso assai difficoltoso comprendere gli equilibri e le dinamiche politiche che caratterizzarono il regno di Domiziano e quello di Nerva. Ancor oggi, molti pregiudizi permangono, e se la figura e l'operato dell'ultimo flavio sono parzialmente stati rivalutati da più di mezzo secolo di storiografia, resiste piuttosto tenacemente la vulgata di una sostanziale discontinuità politica tra il regno del figlio di Vespasiano e il principato di Nerva, spesso ancora interpretato nell'ottica piuttosto ideologica di un progresso verso il raggiungimento del virtuoso equilibrio tra imperatore e Senato, che si realizzerà pienamente sotto l'Optimus Princeps e i suoi successori. Il presente lavoro naturalmente cerca di porsi come ennesimo contributo alla demolizione di un'impostazione ormai clamorosamente sconfessata dai fatti. E' anzi proprio in ragione della manifesta continuità politica e amministrativa tra le due esperienze che ho voluto allargare il campo d'indagine relativo alla lotta per il potere in età domizianea anche al biennio di Nerva. Se quest'ultimo rappresenta l'occasione di emersione di conflitti e alleanze altrimenti difficilmente individuabili in una fase di cui R. Syme lamentava la pressoché assoluta inintelligibilità, allo stesso tempo tali fenomeni trovano le loro radici proprio in età flavia. Il medesimo processo osmotico si ravvisa nella stretta interrelazione tra gli esordi della dinastia fondata da Vespasiano e l'età neroniana. Dall'analisi di entrambe queste "propaggini" storiche emergono importanti informazioni sulla composizione di gruppi, e sull'estrazione di personaggi che animarono la politica imperiale per circa un trentennio, e che gettarono le basi per l'affermazione della dinastia antonina. A rischio di privilegiare un'ottica teleologica, va sottolineato che i principati di Domiziano e Nerva sono accomunati proprio dal fatto di aver costituito le fasi di incubazione e di emersione del network su cui si sarebbe retto il potere imperiale per più di un secolo. Come abbiamo visto, è probabile che l'evoluzione e l'estensione delle sue ramificazioni e della sua influenza abbiano determinato conseguenze importanti sull'andamento delle vicende politiche di quegli anni, e inciso in maniera spesso decisiva su alcuni passaggi chiave. La crisi dinastica che sembra caratterizzare l'intero corso del principato domizianeo, viene risolta in via definitiva solo con l'adozione di Traiano, a conclusione della reggenza di Nerva. Il personale politico che gestisce il brusco passaggio del settembre 96, è lo stesso che poco più di un anno dopo vedrà nell'adozione del consolare di Italica il coronamento dei propri sforzi. Non è escluso, poi, che dietro ai due rapidi avvicendamenti ai vertici del governo imperiale si possa ravvisare una continuità di strategie, come immaginò, qualche anno fa, R. Syme , attraverso una suggestiva analogia tra l'alacre attività diplomatica degli alleati di Traiano e le trame del prefetto del pretorio Aemilius Laetus, poco meno di un secolo dopo: quest'ultimo, regista della congiura contro Commodo, fu abile a nominare rapidamente un candidato plausibile e popolare, non inviso al Senato, Pertinace (allora Praefectus Urbi), mentre, nello stesso tempo, il suo candidato reale, Settimio Severo, veniva assegnato a un comando chiave, quello della Pannonia; forte del supporto decisivo delle legioni danubiane, il generale africano conquistò poi il potere. E' forte la tentazione di individuare simili sviluppi per il biennio 96 – 98. Infine, le correnti di opposizione filosofica al dispotismo di Domiziano, che avevano riacquisito vigore negli ultimi anni dell'età flavia, ebbero un ruolo non trascurabile nei conflitti che dilaniarono il Senato nel corso del principato di Nerva, arrivando anche a presentare un proprio candidato alla successione: se il biennio nerviano risulta argomento così articolato e complesso, e apparentemente contraddittorio, ciò si deve in parte anche all'interferenza, nella lotta per l'imperium, di questo "terzo polo". Sulla base di queste premesse, è chiaro che l'interpretazione della storia politica del regno di Domiziano non possa fare a meno di quella che ne è, a tutti gli effetti, un'appendice, ma che, per la sua natura di momento storico non soggetto a una forza egemone, e, di conseguenza, non completamente banalizzato da un "pensiero unico", offre spiragli e "corsie alternative" all'indagine. Uno degli effetti più sgradevoli, benché necessari, della vulgata antidomizianea trasmessa dalla tradizione ai moderni consiste proprio nella naturale reazione che questa suscitò nei ricercatori che si dedicarono al principato dell'ultimo flavio. In pratica, ancora in tempi recenti, la finalità principale di molte ricerche è stata quella di rivalutare l'operato di Domiziano, confutando, punto per punto, l'opera consapevole di denigrazione postuma messa in atto da intellettuali e storiografi dell'antichità. Ciò ha prodotto indubitabilmente degli effetti positivi, riequilibrando il giudizio storico su Domiziano, e sottolineando la sostanziale continuità di pratiche e di scelte strategiche, in ambito politico e amministrativo, con i sovrani successivi. Contemporaneamente, nel tentativo di render giustizia a una figura storica oggetto di una secolare campagna di diffamazione, tale impostazione ha, in taluni casi, ecceduto in senso opposto, non riuscendo a riconoscere le ragioni di un fatto che resta comunque incontestabile, ovvero la sua caduta, o addirittura trasformando Domiziano stesso in una vittima del conservatorismo senatoriale . Mi sono dunque chiesto quale (o quali) fattore potesse aver contribuito in maniera sensibile alla rovina dell'ultimo flavio; in età moderna non sono mancate le suggestioni in questo senso: dall'ormai esausto e meccanico schema del conflitto tra tirannide liberticida e senato, all'intervento di una componente di matrice giudaica; dalle reazioni delle classi elevate alla rapacitas di Domiziano, all'opposizione ai tentativi di riforma in senso dirigista ed efficientista dell'amministrazione e del governo dell'Impero. Ciascuna di queste proposte manca però di un adeguato supporto documentario, oppure tende a generalizzare un fenomeno di cui restano scarsi indizi, che non autorizzano l'elaborazione di teorie sistematiche . Piuttosto negletto dalla ricerca moderna, perlomeno in relazione all'ultimo flavio, mi è parso invece un aspetto, che abitualmente riveste una certa importanza nella biografia di ogni imperatore, ovvero quello rappresentato dalla questione dinastica e dalle prospettive di successione. Certo, manca a un'indagine di questo genere l'essenziale supporto di un'opera storica dello spessore e dell'intelligenza politica degli Annales, che ha fornito un contributo essenziale alla comprensione delle altrimenti inesplicabili dinamiche di corte del principato giulio – claudio. Eppure, indizi dell'attenzione e delle aspettative che Domiziano e la sua corte nutrivano verso la nascita di un erede maschio, e di una successione in domo, non mancano: non soltanto nelle evidenze numismatiche ed epigrafiche d'inizio regno, ma anche nelle oscillazioni della relazione con la moglie Domitia Longina, e nei riflessi che tali oscillazioni ebbero sull'armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Non è impossibile che sia stato proprio questo elemento ad avvelenare il clima politico sin dagli esordi. Era d'altronde un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte ai suoi due figli l'opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo. Il padre di Domiziano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare (almeno per qualche tempo) all'interno dell'influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale (che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti), produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l'estensione e la ramificazione del proprio network familiare , proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. La dimensione e la gravità dell'errore emerge dal confronto con la politica dinastica di Augusto, il quale però poteva vantare la discendenza da una delle famiglie più nobili della Roma repubblicana: sin dal principio, il fondatore dell'Impero aveva proceduto alla più ampia cooptazione di gentes patrizie (reintegrando anche i discendenti del suo storico rivale, Marco Antonio), avvicinandole il più possibile, attraverso alleanze matrimoniali, alla Domus Augusta, al duplice scopo di garantire la ricomposizione politica, e di alimentare il ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano. Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all'assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l'intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. E' intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Ad aggravare questa situazione, contribuì un secondo fattore di considerevole rilevanza, ovvero l'imponente dote di relazioni "eccellenti" e influenti (nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell'opposizione stoica), che Domitia Longina ereditò dal padre Domitius Corbulo, e che non mancò di condizionare sistematicamente gli equilibri interni alla corte e interferire nelle strategie di orientamento dinastico dell'imperatore. Abbiamo visto come il matrimonio tra Domiziano e Domitia Longina avesse suggellato un'alleanza politica, che aveva portato all'affermazione delle Partes Flavianae, alla conquista del potere per Vespasiano e i suoi figli, e garantito considerevoli vantaggi in termini d'immagine, di governabilità, e di durata della nuova compagine. Essa però imponeva probabilmente anche seri condizionamenti all'arbitrio dei regnanti: uno di essi poteva essere proprio il rispetto, a tutti i costi, del vincolo nuziale stesso, e del suo fine precipuo, ovvero la nascita di un erede maschio, nel quale confluissero le linee dinastiche di entrambe le famiglie (Flavi e Domitii), insieme alle rispettive clientele. Proprio il "fallimento" di tali aspettative, almeno in due casi (il primo, con la morte di Flavius Caesar, all'inizio del regno; il secondo, meno documentato, intorno all'anno 90, in seguito a un aborto di Longina), scatenò altrettante crisi; la prima di esse, che vide probabilmente la contrapposizione a corte di un "partito" di Domitia Longina e di un'opzione interna alla casata flavia (che individuava in Iulia la sposa ideale per l'imperatore e che spingeva per l'unificazione della linea dinastica), e che si risolse con la reintegrazione dell'Augusta, suggerisce una duplice riflessione: innanzitutto essa rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintelligibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo; tuttavia, va comunque constatato che le dicerie che fornirono l'alimento all'opera di diffamazione dell'ultimo flavio scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d'essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già (in forma diversa probabilmente) durante il principato di Domiziano. Non è dunque, a mio giudizio, un esercizio completamente inutile lo sforzo esegetico compiuto su certo genere di fonti: i rumores riportati, in sostanza, testimoniano l'esistenza di un piano occulto, probabile scenario di un conflitto tra forze contrastanti, miranti ciascuna a esercitare pressione sul princeps e a condizionarne le scelte. Questo ci conduce al secondo punto: la vittoria diplomatica conseguita da Domitia Longina con la sua reintegrazione, e i fatti che l'accompagnarono, rivelano il peso e l'influenza degli alleati dell'Augusta; tra essi, emergono T. Aurelius Fulvus e Q. Iulius Cordinus Rutilius Gallicus, luogotenenti del padre di Longina in Oriente, componenti, assieme a Sex. Iulius Frontinus, di quel "gruppo corbuloniano", che si fece garante dell'alleanza che generò le Partes Flavianae; e L. Iulius Ursus, all'epoca ancora prefetto del pretorio e probabile adfinis della dinastia regnante. Questo sodalizio, formato da uomini di provata esperienza, appartenenti alla generazione precedente a quella di Domiziano, e che quindi non dovevano la loro ascesa sociale al princeps, rappresenterà (con la sola eccezione di Rutilius Gallicus, morto probabilmente nel 91) il nerbo della diplomazia politica che gestirà il duplice avvicendamento ai vertici del governo imperiale tra il 96 e il 97. E' significativo notare, a questo proposito, che l'imponente network di amicitiae e di relazioni familiari al vertice del quale questi personaggi si trovavano e che, come abbiamo visto, gravitava attorno ad alcune familiae novae emergenti di origine per lo più provinciale (ispano – narbonense, dovremmo dire), ovvero gli Aelii, gli Ulpii, gli Annii, i Calvisii Rusones, e i ricchissimi Curvii fratres, aveva visto rinsaldare i suoi nodi, per il tramite di eclatanti alleanze matrimoniali, ben prima della caduta di Domiziano. Ciò implica che, al momento della seconda fase di crisi dinastica del principato, successiva al 90, questa rete di relazioni doveva già essere attiva, e poteva dunque aver influito sul processo di deterioramento dei rapporti tra il princeps e la classe dirigente. La probabile emarginazione di Domitia Longina infatti, all'indomani del fallimentare esito della maternità cui fa cenno Marziale , alienò definitivamente a Domiziano l'appoggio del cospicuo blocco di potere che spalleggiava l'Augusta; l'isolamento dinastico dell'imperatore è peraltro confermato indirettamente dall'analisi della lista dei consolari che congiurarono contro di lui e che furono quindi giustiziati : dei 14 condannati a morte, di cui 13 consolari, 8 erano sicuramente patrizi. Quindi capaces imperii, secondo l'abituale metro di valutazione degli antichi. Lo erano in misura maggiore dal momento che, all'interno di questo gruppo, almeno 6 personaggi potevano vantare relazioni di parentela o di stretta amicizia con i Flavi (Flavius Sabinus, Arrecinus Clemens, M'. Acilius Glabrio, Aelius Lamia, Flavius Clemens, C. Vettulenus Civica Cerialis), uno, ovvero Salvius Otho, era nipote di un ex imperatore, e l'ultimo, Salvidienus Orfitus, era imparentato con l'imperatrice. E' ragionevole supporre che la maggior parte di costoro sia stata coinvolta all'interno di piani cospiratori allo scopo di garantire una credibile candidatura alla porpora. Inoltre, fatta eccezione per Arrecinus Clemens e Flavius Sabinus, ed escludendo i due eversori militari, tutte le altre vittime delle rappresaglie domizianee si concentrano dopo il 90/91 d.C. A mio avviso, ancora una volta il comune denominatore della maggior parte di queste calamitates potrebbe farsi risalire al problema della successione. La presenza di tanti capaces imperii non si spiega in altro modo se non alla luce della ridotta disponibilità di plausibili successori all'interno della casata flavia; e un sovrano senza successori era esposto a un costante rischio di cospirazioni. Alla luce di questi elementi è assai agevole comprendere la chiosa di Svetonio alla notizia della esecuzione dell'ultimo adfinis, e potenziale erede, di Domiziano, ovvero Flavius Clemens, giustiziato nel 95 dopo aver appena deposto i fasces : quo maxime facto (scil. Domitianus) maturavit sibi exitium. A questo punto è forte la tentazione di individuare una stretta relazione tra il progressivo estinguersi delle opzioni dinastiche di Domiziano e la ricomparsa sulla ribalta dell'alta politica, all'indomani della morte del despota, e dopo qualche anno di salutare ritiro, di Sex. Iulius Frontinus, Iulius Ursus, Domitius Tullus, T. Aurelius Fulvus. Questi politici navigati, esperti diplomatici, influenti uomini di potere, erano attratti dalla prospettiva di inserire il network di interessi che rappresentavano nel vuoto lasciato dai Flavi. Non è anzi escluso che essi abbiano cercato di accelerare la caduta di Domiziano , o comunque che non abbiano ostacolato la creazione di una fronda antitirannica, di una coalizione di forze attorno ai circoli di opposizione e, soprattutto, attorno a Domitia Longina, l'imperatrice ripudiata, erede della dote morale del padre, Domitius Corbulo, martire egli stesso del dispotismo. Emerge ancora una volta la centralità dell'Augusta, come soggetto politico di considerevole influenza, e, almeno nella fase finale del principato domizianeo, come punto di riferimento dell'opposizione al marito. Una certa tradizione letteraria, da Dione a Procopio, e una considerevole serie di documenti epigrafici e archeologici, conferma l'ottima reputazione, se non addirittura la venerazione di cui godette la donna dopo la morte di Domiziano, sorprendenti ove si pensi che quest'ultimo fu oggetto della più implacabile abolitio memoriae che la storia imperiale ricordi . La fine di Domiziano, al pari di quella di Nerone, fu dunque il risultato di una convergenza di interessi e soggetti molto differenti tra loro, temporaneamente coalizzati dall'obiettivo della rimozione di un nemico comune. Non casualmente, H. Castritius ha associato il ruolo di Domitia Longina, quale catalizzatore del dissenso, a quello della figura e poi della memoria di Ottavia . La composita alleanza tra epigoni dei martiri stoici, elementi del patriziato, componenti del gruppo corbuloniano, ebbe breve durata: sin dal principio, la reggenza di Nerva è caratterizzata da una estesa conflittualità all'interno del Senato e della classe dirigente. Il princeps è peraltro in una posizione di estrema debolezza: il suo ruolo di garante istituzionale, frutto di un faticoso compromesso, lo condanna ad un'equidistanza molto facilmente assimilabile all'isolamento; d'altronde la precarietà del suo mandato, la sua condizione di reggitore dell'Impero ad interim, era talmente palese da indurlo addirittura a pronunciarsi su di essa . In verità Nerva era un uomo piuttosto compromesso con Domiziano, e questo non mancò di essergli rinfacciato . Un sovrano tanto delegittimato non può che far presupporre che alle sue spalle infuri la battaglia per la successione. In tal senso, uno degli scopi di questo lavoro è consistito nell'individuare tracce o indizi di una continuità di strategie da parte del medesimo gruppo di potere in occasione dei due avvicendamenti ai vertici del governo imperiale tra il settembre 96 e l'ottobre 97. Ben poco è possibile dedurre dagli scarni resoconti delle fonti circa l'assassinio di Domiziano (né avremmo mai sperato di ricavare da essi molto più che banali aneddoti); assai più significativa l'invadente presenza dei futuri artefici dell'adozione di Traiano in ogni iniziativa del neoinsediato governo di Nerva: Sex. Iulius Frontinus divenne curator aquarum nel 97, e contemporaneamente, insieme a L. Iulius Ursus, presiedette la commissione finanziaria istituita dall'anziano princeps. La notizia è tanto più sorprendente ove si consideri che tale attivismo faceva da contraltare alla totale inerzia politica durante gli ultimi anni di regno di Domiziano. T. Aurelius Fulvus, se ancora vivo, doveva avere sovrinteso alla Praefectura Urbi nei giorni del complotto contro l'ultimo flavio, e molto probabilmente deteneva ancora la carica. Ritengo poi che i consolati iterum del 98 siano in buona parte stati decisi da Nerva: se così fosse, il grande onore tributato a Frontinus, Ursus, e Domitius Tullus, si spiegherebbe a fatica se non in relazione a meriti particolari nell'insediamento al potere del senatore di Narni, e in tutto ciò che lo precedette. Infine, nell'eventualità, molto probabile, a giudizio di molti, che Traiano fosse stato assegnato alla Germania Superiore nell'autunno del 96, si avrebbe un'importante conferma del fatto che i suoi alleati, sin dall'inizio del principato di Nerva si avvantaggiassero di una considerevole supremazia strategica sui possibili concorrenti. Questo naturalmente non poteva spiegarsi che con un primato in termini di potere, influenza, ricchezza. Il cosiddetto "circolo di Traiano" rappresentava, come abbiamo visto, il vertice di una rete di relazioni e interessi imponente; essa sarà la base della futura dinastia antonina. Artefici o meno della caduta di Domiziano, saranno i componenti più anziani di questo network, ben insediati a capo delle catene di comando del principato di Nerva, a sovrintendere al passaggio di consegne tra l'anziano princeps e il legato della Germania Superiore, operando i necessari avvicendamenti in alcuni officia strategici del Reno, e, per un altro verso, vigilando nella capitale , affinché tutto procedesse secondo i piani. Componeva questa task force diplomatica, oltre ai già citati Frontinus, Ursus, T. Aurelius Fulvus, Cn. Domitius Tullus, anche, con tutta probabilità, L. Licinius Sura, del quale si sono cercate di mettere in luce in particolare le virtù "civili": amante della mondanità, infaticabile tessitore di relazioni, fine politico, il braccio destro di Traiano sembra assai più facilmente assimilabile a un Mecenate che a un Agrippa. Per questa ragione, ritengo che il suo decisivo contributo al senatore di Italica debba essere collocato nel contesto di febbrile attivismo diplomatico che ebbe come scenario Roma, e non la provincia . A trarre profitto da questa operazione sarebbero poi stati i membri più giovani di questo blocco di potere, appartenenti alla generazione di Traiano (e di Domiziano), o di poco più anziani: Q. Glitius Atilius Agricola, Q. Sosius Senecio, L. Iulius Ursus Servianus, Sex. Attius Suburanus, A. Cornelius Palma Frontonianus, per citare i più importanti. Naturalmente, questa operazione di "insediamento" al potere non avvenne senza contrasti. Il principale ostacolo all'affermazione di Traiano e dei suoi alleati, era costituito dai politici più legati al passato regime, la cui influenza si era conservata pressoché intatta: lo dimostra ad esempio il fatto che la scelta del successore di Domiziano fosse ricaduta su Nerva, uomo dalle evidenti inclinazioni filodomizianee. Il presidio dei vertici del governo imperiale rappresentava un presupposto fondamentale per esercitare il patronato e attivare canali di promozione e di cooptazione clientelare: era evidente che tale posizione di privilegio non poteva essere amichevolmente condivisa. Inoltre, la factio filodomizianea poteva contare sulla rivalutazione della memoria dell'imperatore ucciso, aspetto che sin dall'inizio incontrò il favore dei soldati, legionari e pretoriani. Coerente con tali premesse, la candidatura di un vir militaris, di un uomo che aveva condiviso, sul campo, trionfi e rovesci di Domiziano, conosciuto e rispettato dalle truppe, ovvero M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus. Come ha ben evidenziato K.H. Schwarte , è in questo "bipolarismo" di fondo che trova la sua ragion d'essere l'offensiva, politica e giudiziaria, contro delatori veri o presunti di Domiziano e uomini compromessi con il passato regime; tra i protagonisti di questa campagna lo stesso Plinio, e, ovviamente, i componenti delle correnti di opposizione alla tirannia di ritorno dall'esilio (Iunius Mauricus in primis). Risulta chiaro, dunque, come i processi politici e gli attacchi agli uomini compromessi con il regime domizianeo durante il regno di Nerva avessero una mera utilità politica: quella cioè di legittimare un "passaggio di consegne", una "successione" altrimenti priva di fondamento giuridico o dinastico; questo è tanto più vero ove si consideri che tale istanza veniva avanzata in diretta e contemporanea concorrenza con un'altra rivendicazione, a suo modo uguale e contraria: quella cui si accennava in precedenza, assai ben descritta dallo Schwarte, fatta propria dai politici e dai viri militares più legati e più compromessi con il passato domizianeo. Ambedue gli schieramenti, in breve, sostenevano una propria "candidatura" al sommo potere. In tale prospettiva, sia detto per inciso, va dunque forse interpretata la successiva campagna "revisionista", che ebbe in Plinio il suo primo interprete e che determinò una consistente mistificazione della realtà storica di quel biennio: essa ebbe origine proprio dalla necessità politica contingente alla lotta per la successione, nacque nella sua forma proprio come rivendicazione politica della legittimità di una candidatura su un'altra, non fu il risultato meccanico di una rilettura inventata di sana pianta post eventum; e peraltro l'elaborazione di una versione addomesticata degli avvenimenti rappresentava una necessità avvertita anche da quanti avevano sostenuto il candidato sbagliato, o si erano mantenuti neutrali; tutti accomunati dall'unica esigenza di dimenticare in fretta e rimanere comunque sul carro dei vincitori. Tali considerazioni mi consentono una breve, ma essenziale, divagazione: è in questo contesto di conflitto politico che va collocata l'emarginazione, o la rimozione, di alcuni personaggi, sin troppo compromessi con il passato regime. L'analisi prosopografica di politici e viri militares vicini a Domiziano ha messo in evidenza, per alcuni di essi, questa circostanza . Ciò naturalmente non presuppone in alcun modo una generale strategia di ricambio nel governo dell'Impero; il principio di continuità amministrativa e di personale tra i regni di Domiziano e Traiano proposto da Waters rimane ancora validissimo. Ciò premesso, affermare che l'avvicendamento ai vertici dell'establishment, avvenuto a cavallo del regno di Nerva, non abbia prodotto delle vittime (in senso metaforico, s'intende), significa misconoscere le più basilari regole del realismo politico. K. Ströbel ha opportunamente parlato, a questo proposito, di "Entdomitianisierung", con esplicito riferimento a ben noti, e analoghi, fenomeni moderni: porre il problema della maggiore o minore compromissione con il tiranno in termini prosopografici non ha alcun senso, dal momento che risulterà evidente che, in tale prospettiva, tutti risultano compromessi, in quanto tutti debitori all'imperatore della propria ascesa sociale. Secondo le "regole d'avanzamento" universalmente accettate, ciascun senatore era in grado di comprendere, in linea di massima, fino a dove avrebbe potuto arrivare; e in generale l'intervento del princeps era rivolto a promuovere degli avanzamenti, assai di rado ad ostacolarli. In questo senso, molti dei componenti della classe politica che si affermerà con Traiano, a partire dall'imperatore, potevano tranquillamente dire di non aver goduto del particolare favore di Domiziano; medesime rivendicazioni potevano venire dai diplomatici di lungo corso, rimasti ai margini dell'alta politica negli ultimi anni di regno del figlio di Vespasiano. Peraltro, il confronto tra la composizione del consilium principis d'età domizianea con quello di Traiano, dimostra che una certa discontinuità (dipendente, va riconosciuto, anche da cause naturali) in effetti vi fu. Tornando all'analisi delle vicende dell'anno 97, si è poi evidenziata l'esistenza di un "terzo polo", oltre a quelli testé descritti. Esso prende le mosse dai circoli d'opposizione filosofica, che, negli anni della svolta autoritaria di Domiziano, avevano riacquisito vigore, e che, dopo l'assassinio del despota, vivevano in senato un'ultima stagione di grande attivismo politico e di accresciuta popolarità; l'offensiva politica e giudiziaria contro gli uomini più compromessi con il passato regime, non fece che amplificarne ulteriormente le ambizioni. L'esito piuttosto insoddisfacente dei processi, e, allo stesso tempo, la percezione della finalità strategica di quest'operazione (la candidatura di un uomo meno compromesso con Domiziano), determinarono probabilmente la deriva "estremistica" di questo soggetto, che provò ad approfittare della debolezza di Nerva: questa, a mio giudizio, la sostanza politica della congiura di Calpurnius Crassus Frugi. E' questo un episodio abitualmente trascurato dagli studiosi, in quanto considerato marginale; recenti studi hanno però dimostrato che esso fu tutt'altro che sottovalutato da Traiano: la durezza delle sanzioni a carico del ribelle, stabilite a correzione della precedente, lieve pena, imposta da Nerva, è rivelatrice dell'entità della minaccia percepita dai nuovi signori di Roma. Prima di concludere, va infine chiarito un ultimo punto. La confutazione della tradizionale immagine dell'Optimus Princeps come vir militaris determina importanti conseguenze anche nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla sua adozione. Egli non può più essere considerato, con buona pace di R. Syme , come il naturale candidato dei comandi provinciali, l'espressione di un pacifico compromesso fra capi militari, l'adozione del quale placò di conseguenza ogni tumulto e sventò qualsiasi rischio di sollevazione. L'ascesa alla statio principis di Traiano dovette dunque essere assai più complicata e irta di ostacoli di quanto le fonti contemporanee ce la presentino; soprattutto, la storia di quei mesi deve essere interpretata rivalutando la dialettica dei rapporti di forza tra le aspirazioni dei legati provinciali, le istanze dei legionari, e la regia occulta delle diplomazie senatoriali attive nell'Urbe . In definitiva, il blocco di potere a sostegno di Traiano si avvaleva di una certa supremazia, in termini politici e strategici. Eppure non era egemone. La scarsa reputazione di Traiano presso le legioni; i malumori dei soldati, piuttosto facilmente riscontrabili in Mesia e sul Reno, probabili in Pannonia; i rumores provenienti da Oriente; le pericolose oscillazioni di Nerva verso la factio filodomizianea; la presenza di preoccupanti fattori di interferenza nella lotta per la successione, come la congiura di Calpurnius Crassus Frugi, che aveva anche pericolosamente evidenziato la debolezza di Nerva; tutti questi elementi convinsero gli alleati di Traiano che la posizione strategicamente favorevole di quest'ultimo poteva non essere più sufficiente. In questa logica, una forzatura, che mettesse una volta per tutte fine ad ogni dubbio, poteva essere una soluzione contemplabile. Ma un azzardo del genere poteva essere prerogativa solo di chi conservava il controllo del "gioco", e poteva permettersi di correre un rischio "calcolato". La sollevazione dei Pretoriani, sobillati da Casperius Aelianus, va letta, a mio giudizio, in quest'ottica: ovvero come una provocazione diretta a forzare Nerva all'adozione di Traiano. Un'interpretazione del genere, peraltro, delinea un quadro politico più coerente delle ipotesi finora proposte; chiarisce i dubbi circa la condotta successiva di Casperius Aelianus, di Nerva e di Traiano; motiva la freddezza dell'adottato verso l'adottante. In conclusione, quindi, la cosiddetta adozione, secondo questa del tutto ipotetica ricostruzione, sarebbe una vera e propria usurpazione "mascherata", messa in atto da un gruppo di potere ramificato e forte (i cui elementi più in vista si trovavano tutti a Roma in quel periodo), contrapposto a interessi non convergenti coi propri, ma non abbastanza importanti da scatenare una guerra civile, una volta vistisi minacciati: si potrebbe dire che la strategia dei diplomatici alleati di Traiano avesse messo in scacco tutti gli altri possibili concorrenti; ma una volta constatato poi il rischio che la situazione sfuggisse di mano, essi avevano finito con l'optare per una forzatura, che poteva avere senso solo a condizione di un controllo quasi totale della situazione. L'atto iniziale della dinastia antonina, che ha suggerito ad alcuni moderni l'enfatica definizione di "Adoptivkaiser", fu dunque, nella migliore delle ipotesi, una forma subdola di coercizione. Se tale ipotesi fosse attendibile, cadrebbe anche l'ultimo pilastro di una costruzione che ha ben poco di storico e molto di ideologico. Nella lunga storia dell'Impero romano, l'unico criterio di successione dotato di una qualche legittimità, e rispettato dalle forze che via via si contendevano il potere, fu quello dinastico. Domiziano pagò, a dispetto di ogni infingimento retorico o ideologico sul dispotismo, una fallimentare politica dinastica; i successori di Nerva, pur privi di eredi diretti, si trasmisero tutti il potere in ossequio alla consanguineità ; Marco Aurelio, unico ad avere figli, nominò disinvoltamente, seppur in condizioni di emergenza, il proprio figlio Commodo quale successore. Il nuovo gruppo dirigente che si raccolse attorno ai principes antonini, si dimostrò ben consapevole di questa imprescindibile condizione, e formò una rete compatta e estesa di relazioni e alleanze familiari, tale da garantire la successione all'interno di essa, fenomeno che è in parte fattore fisiologico di condotta delle famiglie romane, ma che poi diverrà anche una strategia consapevole da parte del potere (si pensi al complicato sistema di adozioni incrociate imposto da Adriano ad Antonino Pio), così come a suo tempo aveva cercato di fare Augusto, e che invece mancò completamente nei piani di successione dei Flavi. Ad essi d'altronde era ben nota l'unica, possibile alternativa, ovvero la conquista violenta del potere. Questa, sin dall'inizio, era stata la reale natura del principato: come ebbe a scrivere R. Syme , in fondo, "il principato nacque dall'usurpazione".