La tesi ha l'obiettivo di esporre e analizzare criticamente i temi più importanti del pensiero di Karl-Otto Apel. Nei tre capitoli in cui è suddivisa la tesi si presenta inizialmente la posizione di Apel su uno specifico argomento, e poi si compie un'analisi critica di essa facendo riferimento alla letteratura secondaria (in particolare tedesca) riguardante la filosofia apeliana. Lo scopo finale del lavoro è quello di evidenziare l'originalità, i punti di forza e i punti deboli della pragmatica trascendentale sviluppata da Apel, la quale si sostanzia nell'ambizioso tentativo di rinnovare la filosofia trascendentale partendo dalle irrinunciabili acquisizioni della svolta linguistica che ha caratterizzato il pensiero filosofico del XX secolo. Il primo capitolo ha come oggetto il concetto più peculiare della riflessione apeliana: quello di fondazione ultima (Letztbegründung). Tale concetto è centrale sia in riferimento alla filosofia teoretica sia in riferimento alla filosofia pratica, e per questa ragione la sua analisi precede la trattazione specifica della teoria della verità e dell'etica del discorso. Nella prima parte del capitolo si illustra l'evoluzione del concetto negli scritti apeliani, in particolare il significato che assume la nozione di "riflessione" negli anni Ottanta, in seguito all'influenza esercitata sulla filosofia di Apel dalle analisi di Wolfgang Kuhlmann in riferimento alla fondazione ultima. Apel riprende da Kuhlmann la problematica nozione di fondazione ultima strettamente riflessiva, con la quale i due autori tentano di superare le numerose obiezioni che sono state rivolte alla Letztbegründung. Dopo l'esposizione delle principali critiche a tale nozione e l'illustrazione di una possibile alternativa alla fondazione ultima strettamente riflessiva, nell'ultima parte del capitolo si analizza più nel dettaglio l'argomento trascendentale sviluppato da Apel e si chiariscono ulteriormente le ambiguità del concetto di riflessione che egli adopera. Infine, si propone una ridefinizione degli argomenti trascendentali e, a partire da ciò, si traggono le conseguenze per la filosofia apeliana. Nel secondo capitolo, dopo la disamina del fondamentale rapporto tra la questione circa la giustificazione di validità della conoscenza e la questione concernente la costituzione del senso dell'oggettività all'interno del pensiero di Apel, si entra nel dettaglio della sua concezione del linguaggio. La corrente filosofica dominante lungo l'intera storia del pensiero occidentale privilegia la funzione rappresentativa del linguaggio, relegando la dimensione comunicativa di esso a oggetto di studio di discipline esterne alla filosofia. Secondo il pensatore tedesco, invece, l'aspetto distintivo del linguaggio umano è costituito dalla sua doppia struttura performativo-proposizionale. Nel capitolo si ricostruisce la teoria del significato che emerge dalle riflessioni apeliane, la quale si fonda su una particolare interpretazione della teoria degli atti linguistici sviluppata da Austin e Searle, e da cui emerge un'ambiguità di fondo rispetto al rapporto tra semantica e pragmatica. Successivamente, di conseguenza, si approfondisce tale rapporto ricorrendo alle considerazioni di altri autori sul tema, in particolare Wilfrid Sellars e Robert Brandom. Nell'ultima parte del capitolo si analizza la teoria della verità e della realtà sviluppata da Apel, Più nello specifico, si affrontano le critiche che sono state rivolte all'identificazione di verità e consenso argomentativo nella comunità ideale della comunicazione, e alla concezione del consenso ideale come un'idea regolativa che è implicita nella pratica argomentativa e senza la quale le nostre asserzioni perderebbero il loro senso. L'aspetto maggiormente problematico riguarda il ruolo del consenso come criterio determinante di verità. Infine, si approfondisce la dicotomia nominalismo-realismo concettuale per comprendere pienamente il peculiare realismo apeliano, che egli riprende da Peirce. Nel terzo capitolo e ultimo capitolo si affronta il tema dell'etica del discorso. Nella prima parte, dopo aver illustrato la strategia di Apel volta alla fondazione post-metafisica di un'etica universale, si analizzano le obiezioni fondamentali che sono state mosse contro di essa, in particolare riguardo alla possibilità di fondare norme morali partendo dai presupposti del discorso argomentativo e circa il rapporto tra dimensione volitiva e dimensione cognitiva nella riflessione etica di Apel. Nella seconda parte del capitolo, dopo la disamina della distinzione tra la parte A dell'etica del discorso, riguardante la fondazione di norme morali fondamentali, e la parte B, concernente l'applicazione delle norme nelle situazioni storiche concrete, si approfondisce il rapporto tra morale, diritti umani e democrazia che caratterizza il pensiero apeliano. Da questo punto di vista il confronto con Habermas risulta illuminante. Nell'ultima parte del capitolo, infine, si mettono in luce le criticità della parte B dell'etica del discorso di Apel, in particolare del tentativo di fondare la parte B derivandola dalla parte A, e si propone una strategia alternativa che consenta di valorizzare la proposta etica apeliana evitando il pericolo di un eccesso di formalismo.
The MUHAI consortium studies how it is possible to build AI systems that rest on meaning and understanding. We call this kind of AI meaningful AI in contrast to AI that rests exclusively on the use of statistically acquired pattern recognition and pattern completion. Because meaning and understanding are rather vague and overloaded notions there is no obvious research path to achieve it. The consortium has therefore set up a task early on in the project to explore how understanding is being discussed and treated in other human-centred research fields, more specifically in social brain science, social psychology, linguistics, semiotics, economics, social history and medicine. Our explorations have yielded a wealth of insights: about understanding in general and the role of narratives in this process, about possible applications of meaningful AI in a diverse set of human-centred fields, and about the technology gaps that need to be plugged to achieve meaningful AI.Venice International University This volume summarizes the outcome of our consultations. It has three main parts: I. A general introduction, II. A series of chapters reporting on what understanding means in various human-centered research fields other than AI, III. A short conclusion identifying key research topics for meaning-based human-centric AI. Our explorations have yielded a wealth of insights: about understanding in general and the role of narratives in this process, about possible applications of meaningful AI in a diverse set of human-centred fields, and about the technology gaps that need to be plugged to achieve meaningful AI.
This research project has addressed the problem of Th. W. Adorno's thought reception in Spain. Through a important fieldwork it was attempted to provide the reader with a overview of several considerations resulted by local reception of Adorno during last 50 years. In order to provide originality and historical prospective, the research was completed with unpublished contributions offered by representatives of Spanish critics. In addition to have established the peculiarity of Spanish reception of Adorno, which reflects the difficulties of absorption observed in many other countries (as well as in Germany), it was thrown light on the social, political and cultural fabric of Franco's Spain first, from the period called Transaction, then the Spain which wants to be Europe but which does not believe in its own Constitution and finally the Spain of XXI century crisis; this dissertation intended to explain the national and international reasons which made particularly difficult the interpretation of Adorno in Spain. This work includes references of all studies regarding the Spanish reception of Adorno since early 60's, when first texts about Adorno were written in Spain, until 2010. Aware of the difficulties which such ambitious project involves, no pretences of full success are advanced.
We propose a new framework to unify three conceptions of institutions that play a prominent role in the philosophical and scientific literature: the equilibria account, the regulative rules account, and the constitutive rules account. We argue that equilibrium-based and rule-based accounts are individually inadequate, but that jointly they provide a satisfactory conception of institutions as rules-in-equilibrium. In the second part of the paper we show that constitutive rules can be derived from regulative rules via the introduction of theoretical terms. We argue that the constitutive rules theory is reducible to the rules-in equilibrium theory, and that it accounts for the way in which we assign names to social institutions.
In questo articolo ricostruisco l'evoluzione della concezione del soggetto e dell'assoggettamento di Michel Foucault nel suo aspetto più problematico, e cioè nel suo rapporto con la possibilità, e il valore, della libertà. A metà degli anni settanta, cavalcando l'idea che il soggetto (l'individuo cosciente e razionale) sia il risultato di processi di etero-determinazione sociale – un potere impersonale – Foucault sembrava inclinare verso negazione della possibilità di qualsiasi spazio di libertà del soggetto. Negli anni ottanta, invece, pur tenendo ferma l'idea della etero-determinazione sociale del soggetto, egli insisterà ripetutamente sulla sua compatibilità con una peculiare forma di libertà, che chiamerò "libertà-autorialità". La nuova concezione della libertà-autorialità resterà solo accennata, in osservazioni dense e suggestive, ma molto vaghe e impressionistiche. Ricostruirò il disegno implicito ad esse sotteso, mostrando come le contraddizioni che sembrano affliggerlo si sciolgano se lo si inquadra nella rappresentazione della struttura causale del controllo e della creatività individuale e dei processi di trasmissione ed evoluzione culturale suggerita dalle scienze della mente contemporanee. ; In this article, I analyse the evolution of Foucault's conception of subject, subjection, and freedom. In the mid-70s, starting from the idea that subjects (self-conscious and rational individuals) are shaped and constituted by a web of social influences – a sort of impersonal power –, Foucault seemed to conclude against the possibility of subjects being, in some relevant sense, "free". Subjectivity, far from being the condition for freedom, is the vehicle of a deep and inescapable subjection. In his last years, although he maintained the thesis of the subject as product of social influences, he repeatedly insisted on the compatibility of this thesis with the possibility of a peculiar form of freedom, that I call "freedom-asauthoriality". Foucault did not develop the notion of freedom-as-authoriality in a systematic way. He only provided scattered and vague hints. In making explicit the rich and articulated conception which underlies them, I highlight the contradictions to which it seems to be exposed, and I argue that they can be overcome if Foucault's notions are framed in the picture of the causal structure of individual control and creativity, and of cultural transmission and evolution, suggested by the contemporary sciences of the mind-brain.
This is a preface to introduce the contributions gathered in this special issue on Spinoza. Those articles are the outcome of a call for papers that attempted to identify the specific influence in philosophy of the so called "Spinoza renaissance". A period during which, besides a renovated and for many reasons unexpected interest in the study of Spinoza's concepts, there also was the strong necessity of rethinking Marxism through a thought grounded on immanence. In fact, Spinoza started to become a prism to read how philosophy could avoid, on the one hand, political immobility and, on the other hand, the vacuum panlogism of a depleted dialectic. This text stresses the specificity of every single author's point of view in this fundamental step in the construction of Contemporary French Philosophy.
L'ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer – indubbiamente uno dei capisaldi del pensiero novecentesco – rappresenta una filosofia molto composita, sfaccettata e articolata, per così dire formata da una molteplicità di dimensioni diverse che si intrecciano l'una con l'altra. Ciò risulta evidente già da un semplice sguardo alla composizione interna della sua opera principale, Wahrheit und Methode (1960), nella quale si presenta una teoria del comprendere che prende in esame tre differenti dimensioni dell'esperienza umana – arte, storia e linguaggio – ovviamente concepite come fondamentalmente correlate tra loro. Ma questo quadro d'insieme si complica notevolmente non appena si prendano in esame perlomeno alcuni dei numerosi contributi che Gadamer ha scritto e pubblicato prima e dopo il suo opus magnum: contributi che testimoniano l'importante presenza nel suo pensiero di altre tematiche. Di tale complessità, però, non sempre gli interpreti di Gadamer hanno tenuto pienamente conto, visto che una gran parte dei contributi esegetici sul suo pensiero risultano essenzialmente incentrati sul capolavoro del 1960 (ed in particolare sui problemi della legittimazione delle Geisteswissenschaften), dedicando invece minore attenzione agli altri percorsi che egli ha seguito e, in particolare, alla dimensione propriamente etica e politica della sua filosofia ermeneutica. Inoltre, mi sembra che non sempre si sia prestata la giusta attenzione alla fondamentale unitarietà – da non confondere con una presunta "sistematicità", da Gadamer esplicitamente respinta – che a dispetto dell'indubbia molteplicità ed eterogeneità del pensiero gadameriano comunque vige al suo interno. La mia tesi, dunque, è che estetica e scienze umane, filosofia del linguaggio e filosofia morale, dialogo con i Greci e confronto critico col pensiero moderno, considerazioni su problematiche antropologiche e riflessioni sulla nostra attualità sociopolitica e tecnoscientifica, rappresentino le diverse dimensioni di un solo pensiero, le quali in qualche modo vengono a convergere verso un unico centro. Un centro "unificante" che, a mio avviso, va individuato in quello che potremmo chiamare il disagio della modernità. In altre parole, mi sembra cioè che tutta la riflessione filosofica di Gadamer, in fondo, scaturisca dalla presa d'atto di una situazione di crisi o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo e la nostra civiltà. Una crisi che, data la sua profondità e complessità, si è per così dire "ramificata" in molteplici direzioni, andando ad investire svariati ambiti dell'esistenza umana. Ambiti che pertanto vengono analizzati e indagati da Gadamer con occhio critico, cercando di far emergere i principali nodi problematici e, alla luce di ciò, di avanzare proposte alternative, rimedi, "correttivi" e possibili soluzioni. A partire da una tale comprensione di fondo, la mia ricerca si articola allora in tre grandi sezioni dedicate rispettivamente alla pars destruens dell'ermeneutica gadameriana (prima e seconda sezione) ed alla sua pars costruens (terza sezione). Nella prima sezione – intitolata Una fenomenologia della modernità: i molteplici sintomi della crisi – dopo aver evidenziato come buona parte della filosofia del Novecento sia stata dominata dall'idea di una crisi in cui verserebbe attualmente la civiltà occidentale, e come anche l'ermeneutica di Gadamer possa essere fatta rientrare in questo discorso filosofico di fondo, cerco di illustrare uno per volta quelli che, agli occhi del filosofo di Verità e metodo, rappresentano i principali sintomi della crisi attuale. Tali sintomi includono: le patologie socioeconomiche del nostro mondo "amministrato" e burocratizzato; l'indiscriminata espansione planetaria dello stile di vita occidentale a danno di altre culture; la crisi dei valori e delle certezze, con la concomitante diffusione di relativismo, scetticismo e nichilismo; la crescente incapacità a relazionarsi in maniera adeguata e significativa all'arte, alla poesia e alla cultura, sempre più degradate a mero entertainment; infine, le problematiche legate alla diffusione di armi di distruzione di massa, alla concreta possibilità di una catastrofe ecologica ed alle inquietanti prospettive dischiuse da alcune recenti scoperte scientifiche (soprattutto nell'ambito della genetica). Una volta delineato il profilo generale che Gadamer fornisce della nostra epoca, nella seconda sezione – intitolata Una diagnosi del disagio della modernità: il dilagare della razionalità strumentale tecnico-scientifica – cerco di mostrare come alla base di tutti questi fenomeni egli scorga fondamentalmente un'unica radice, coincidente peraltro a suo giudizio con l'origine stessa della modernità. Ossia, la nascita della scienza moderna ed il suo intrinseco legame con la tecnica e con una specifica forma di razionalità che Gadamer – facendo evidentemente riferimento a categorie interpretative elaborate da Max Weber, Martin Heidegger e dalla Scuola di Francoforte – definisce anche «razionalità strumentale» o «pensiero calcolante». A partire da una tale visione di fondo, cerco quindi di fornire un'analisi della concezione gadameriana della tecnoscienza, evidenziando al contempo alcuni aspetti, e cioè: primo, come l'ermeneutica filosofica di Gadamer non vada interpretata come una filosofia unilateralmente antiscientifica, bensì piuttosto come una filosofia antiscientista (il che naturalmente è qualcosa di ben diverso); secondo, come la sua ricostruzione della crisi della modernità non sfoci mai in una critica "totalizzante" della ragione, né in una filosofia della storia pessimistico-negativa incentrata sull'idea di un corso ineluttabile degli eventi guidato da una razionalità "irrazionale" e contaminata dalla brama di potere e di dominio; terzo, infine, come la filosofia di Gadamer – a dispetto delle inveterate interpretazioni che sono solite scorgervi un pensiero tradizionalista, autoritario e radicalmente anti-illuminista – non intenda affatto respingere l'illuminismo scientifico moderno tout court, né rinnegarne le più importanti conquiste, ma più semplicemente "correggerne" alcune tendenze e recuperare una nozione più ampia e comprensiva di ragione, in grado di render conto anche di quegli aspetti dell'esperienza umana che, agli occhi di una razionalità "limitata" come quella scientista, non possono che apparire come meri residui di irrazionalità. Dopo aver così esaminato nelle prime due sezioni quella che possiamo definire la pars destruens della filosofia di Gadamer, nella terza ed ultima sezione – intitolata Una terapia per la crisi della modernità: la riscoperta dell'esperienza e del sapere pratico – passo quindi ad esaminare la sua pars costruens, consistente a mio giudizio in un recupero critico di quello che egli chiama «un altro tipo di sapere». Ossia, in un tentativo di riabilitazione di tutte quelle forme pre- ed extra-scientifiche di sapere e di esperienza che Gadamer considera costitutive della «dimensione ermeneutica» dell'esistenza umana. La mia analisi della concezione gadameriana del Verstehen e dell'Erfahrung – in quanto forme di un «sapere pratico (praktisches Wissen)» differente in linea di principio da quello teorico e tecnico – conduce quindi ad un'interpretazione complessiva dell'ermeneutica filosofica come vera e propria filosofia pratica. Cioè, come uno sforzo di chiarificazione filosofica di quel sapere prescientifico, intersoggettivo e "di senso comune" effettivamente vigente nella sfera della nostra Lebenswelt e della nostra esistenza pratica. Ciò, infine, conduce anche inevitabilmente ad un'accentuazione dei risvolti etico-politici dell'ermeneutica di Gadamer. In particolare, cerco di esaminare la concezione gadameriana dell'etica – tenendo conto dei suoi rapporti con le dottrine morali di Platone, Aristotele, Kant e Hegel – e di delineare alla fine un profilo della sua ermeneutica filosofica come filosofia del dialogo, della solidarietà e della libertà. ; The philosophical hermeneutics of Hans-Georg Gadamer – one of the cornerstones in the 20th century philosophy – certainly represents a compound, prismatic and articulated thought, i.e. a philosophy made up of several different dimensions entwined with each other. A simple look at Gadamer's major work Wahrheit und Methode (1960) can already clarify this point, since the book displays a theory of understanding which takes account of three different dimensions of human experience – art, history and language – obviously conceived as mutually related. But this picture gets a lot more complicated if one takes into consideration the many books and articles Gadamer wrote before and after his magnum opus which testify the presence of other interests and topics in his thought. Nevertheless the complexity of Gadamer's philosophical hermeneutics has not always been recognized by his interpreters, who often concentrated only upon Wahrheit und Methode (in particular upon the problems of the Geisteswissenschaften) and gave no attention to other subjects (in particular the ethical and political dimension of his hermeneutical philosophy). Moreover it seems to me that many interpreters didn't pay enough attention to the fundamental unity – which of course doesn't mean "sistematicity" – that reigns in Gadamer's philosophy despite its pluralist and heterogeneous character. My point is that the many dimensions of Gadamer's philosophical hermeneutics – aesthetics and human sciences, language philosophy and moral philosophy, dialogue with the Greeks and critical confrontation with modern thought, reflections upon anthropological problems and observations concerning our actual sociopolitical, scientific and technological condition – actually represent the different sides of one thought centered on what we could define the malaise of modernity. In other words, it seems to me that the whole of Gadamer's philosophy originates from the consciousness raising of the critical situation in which our world finds itself today: a deep crisis which, according to Gadamer, branches out into manifold directions and various dimensions of human life. My interpretation tries then to give an account of both the pars destruens and pars costruens of Gadamer's philosophy, namely of his attempt to investigate and take a hard look at this critical dimensions of human existence in order to let out the point at issue and propose remedies, alternatives and possible solutions. In the first section – entitled Phenomenology of modernity: the various symptoms of the crisis – I explain how a great part of the 20th century philosophy has been concerned with the idea and the feeling of a crisis of our culture and our civilization. In my view Gadamer's hermeneutics too takes part in this global philosophical discourse. I try then to show and illustrate the various symptoms of this crisis analyzed by Gadamer, such as: socioeconomic pathologies of our bureaucratic societies; world-wide growth of the Western way of life to the detriment of other cultures; crisis of our values and beliefs (and consequent spread of relativism, skepticism and nihilism); growing inability to have meaningful relations with art, poetry and culture; finally, problems concerning the proliferation of weapons of mass destruction, the risk of an ecological crisis, and the disturbing, unpredictable consequences of some recent scientific discoveries (above all in the field of genetics). Once outlined Gadamer's critical view of our age, in the second section – entitled Diagnosis of the malaise of modernity: the spread of instrumental and techno-scientific reason – I try to show how, according to Gadamer, a common root lies at the base of the many symptoms of the crisis, namely the birth of modern science and its close, intrinsic relationship with technique and with a specific form of rationality that Gadamer – with reference to the analysis developed by such thinkers as Max Weber, Martin Heidegger and the so-called Frankfurt School – calls «instrumental reason» or «calculating thinking». I try then to give an account of the gadamerian conception of techno-science, meanwhile highlighting some aspects: first, how Gadamer's philosophical hermeneutics should not be interpreted as an antiscientific thought but rather as an antiscientistic thought (which of course is something quite different); second, how Gadamer's reconstruction of the malaise of modernity never ends up in a "totalizing" critique of reason, nor in some sort of negativistic and pessimistic philosophy of history centered on the idea of an inescapable course of the events guided by a polluted, "irrational" rationality; third, how Gadamer – despite all the inveterate interpretations that read his philosophy as a form of authoritarian, traditionalist and antienlightenment thought – never aimed to reject the modern scientific Enlightenment tout court but rather to "correct" some of its tendencies and so to regain a wider and more comprehensive concept of reason. After having analyzed in the first two sections the pars destruens of Gadamer's philosophy, in the third and last section of my work – entitled Therapy of the crisis of modernity: the rediscovery of experience and practical knowledge – I take into consideration the pars costruens of his thought, which according to my interpretation consists of a rediscovery of what he calls «a different kind of knowledge», i.e. of a rehabilitation of the all those forms of pre- and extra-scientific experience that constitute the «hermeneutical dimension» of human life. My analysis of Gadamer's conception of understanding and experience – seen as forms of «practical knowledge» different in principle from theoretical and technical knowledge – leads then to a global interpretation of philosophical hermeneutics as practical philosophy, i.e. as a philosophical elucidation of the prescientific, intersubjective and "of commonsense" reasoning which characterizes our «life-world» and our practical life. But obviously this analysis also implies a special consideration of the ethical and political implications of Gadamer's thought. In particular, I try to examine Gadamer's conception of ethics – taking account of his relation with Plato's, Aristotle's, Kant's and Hegel's moral theories – and finally I sketch an outline of his philosophical hermeneutics as a philosophy of freedom, dialogue and solidarity.
In The Community of Advantage, Robert Sugden advocates a system of universal social insurance to ensure that all citizens enjoy the benefits of market institutions. The Community of Advantage however does not shed light on the extent of redistribution that social insurance should provide. While the criterion of mutual advantage seems to licence only a minimal level of insurance, people's expectations and collective bargaining power are likely to lead to a much more extensive redistribution. This is not necessarily a bad thing, since a well-functioning society is more than a well-functioning market economy. An extensive social insurance protects the rich, the poor, and, above all, the cooperative attitudes without which a democratic society cannot function well.
While neoliberal policies and their social and political consequences have been widely studied and criticised in the last decades, the historical and theoretical framework of neoliberalism in connection with the liberal tradition as a whole and the more theoretical aspects of its hegemonic construction have received less attention. Even less have been direct, critical discussions of its founders' texts, and only a small amount of these has been conducted in an actually Marxist perspective. A major exceptionin this sense, especially in Italy, has been the work of Domenico Losurdo. This article builds on Losurdo's discussions, which are scattered but numerous in his work, of Friedrich von Hayek's texts, and tries to employ his method in order to analyse them.The specific aim of this research has been to investigate how Hayek's neoliberalism and his theory of spontaneous evolution are combined with forms of historical revisionism, such as the re-invention of liberal tradition, the rewriting of the history of modern Europe and of modern political thought, the "idyllic" reconstruction of the early industrial capitalism, the equalization of communism and Nazism and their "orientalisation", and the obliteration of colonial history. What emerges from this encounter is a full-fledged philosophy of history, a "neoliberal conception of history", whose elements can still be well recognised in the current public discourse and even in common sense.
The proposal contained in the recent book by Axel Honneth, The Idea of Socialism, is to expose socialism as an ideal form of life, founded not on the value of equality but on the value of freedom. Its limit is to reduce the different forms of freedom that characterize Hegelian ethical life to a single model founded on fraternity and as a global alternative to capitalism. On the contrary, we should think socialism as an experimental and fragmentary way starting from the plural forms of freedom that already exist and already operate in our societies. Socialism does not end but survives as a negative idea that is built by trial and error, starting from both the contradictions and the potential of the present. ; The proposal contained in the recent book by Axel Honneth, The Idea of Socialism, is to expose socialism as an ideal form of life, founded not on the value of equality but on the value of freedom. Its limit is to reduce the different forms of freedom that characterize Hegelian ethical life to a single model founded on fraternity and as a global alternative to capitalism. On the contrary, we should think socialism as an experimental and fragmentary way starting from the plural forms of freedom that already exist and already operate in our societies. Socialism does not end but survives as a negative idea that is built by trial and error, starting from both the contradictions and the potential of the present.
The core of justificatory liberalism relies on the idea that coercion must be justified to all citizens with reasons they can reasonably be expected to accept. Citizens ought to disci-pline themselves in public discourse because respect triggers a duty requiring them to sup-port only those norms that enjoy public justification. In this article, I question the argu-ments justificatory liberals use to defend the link between respect and public justification, both in their consensus and convergence version. I argue that the idea of respect they em-ploy runs against their own premises in being inevitably authoritarian and that the re-quirements of public justification foster some disrespectful attitudes among disagreeing cit-izens. I contend not only that justificatory liberals lack an argument for the idea that to re-spect one person is to provide her with reasons she can accept, but also that the problem concerns a misunderstanding about justification. Although it is correct to think that there is something morally objectionable to coerce another on the basis of one's beliefs, there is nothing wrong in coercing another because things are such and such (as one believes). I conclude by drawing a distinction between justificatory liberalism and objectivist liberalism and their different conceptions of respect.
Die eherne Mauer und die Aktualität der Herbartschen Ethik Von Renato Pettoello »Dem Inhalte [und .] der Methode nach [.] ist mit diesem Systeme ein ganz neues Bildungsmittel in die Philosophie der Gegenwart gekommen.« (I. H. Fichte, Ein Wort über die "Zukunft" der Philosophie, in "Zeitschrift f. Phil. u. philos. Kritik" XXI (1852), p. 239). Das Problem ist immer wieder dasselbe: Ist es möglich, eine feste Grundlegung für die Moral zu finden? Bzw. ist es möglich, ein Prinzip oder mehrere Prinzipien auszumachen, die es uns gestatten, zwischen Gut und Böse zu wählen? Die Schlange der Versuchung verspricht Adam und Eva keine immensen Reichtümer oder unendliche Macht; außer der Unsterblichkeit verspricht sie ihnen, wenn sie die Frucht des verbotenen Baumes essen, daß sie sein werden »wie Gott«, d.h. daß sie wissen werden, »was gut und böse ist.« Der Mensch ist also im selben Augenblick, in dem er zum Menschen wird, d.h. in dem Augenblick, in dem er seine Unschuld verliert, sozusagen dazu gezwungen, sich zu fragen, ob das, was er tut, gut oder böse sei. Einzig der Mensch besitzt diese gleichzeitig göttliche und teuflische Fähigkeit. In seiner Unschuld kann sich das Tier dieses Problem nicht einmal stellen; mit Ausnahme vielleicht der höheren Primaten hat es kein Bewußtsein von dem, was es tut. Das Tier kann unschuldigerweise grausam sein, der Mensch nicht. Doch was sind denn eigentlich Gut und Böse? Wie können wir feststellen, ob dies eine gute oder böse Sache ist? Und ob sie immer gut ist oder nur unter gewissen Umständen, unter anderen aber nicht? Sicherlich können wir das Problem nicht dadurch lösen, daß wir einfach behaupten, dies sei gut, dies hingegen böse. Schon Platon hatte dies mit großer Klarheit erkannt und im Menon den Sokrates folgendes sagen lassen: »Das Gleiche gilt denn auch von den Tugenden. Mag es ihrer auch viele und mancherlei geben, so stehen sie doch alle unter ein und derselben Begriffsbestimmung, die den Grund dafür enthält, daß sie Tugenden sind, und der Antwortende tut gewiß gut, auf diese sein Augenmerk zu richten, um so dem Fragenden Auskunft zu geben über das Wesen der Tugend.« Ähnlich steht es auch im Euthyphron zu lesen: »Erinnerst du dich nun, daß ich dich nicht dazu aufforderte, mich über eine oder zwei der vielen frommen Handlungen zu belehren, sondern über das Wesen selbst, durch welches alles Fromme fromm ist?« »Das Wesen der Tugend«. Ich kann mir vorstellen, daß viele der Anwesenden hier schon die Nase gerümpft haben und diesen Ausdruck für abstrakt und vielleicht sogar für verdächtig halten. Und dies mit Recht. Denn es liegt ja auf der Hand, daß Platon die von der griechischen Polis und mehr noch die von Athen anerkannten Tugenden im Sinne hatte und von diesen nun verlangte, daß sie universalen Wert besäßen. – Wir sind uns der Übel nur allzu bewußt, welche in der Vergangenheit – und vielleicht auch noch heute – von der Überzeugung verursacht wurden, die einzig mögliche Kultur sei die europäische. Aufgrund dieser Überzeugung haben wir uns dazu ermächtigt gefühlt, unser Model von Kultur und Sittlichkeit ganzen Volksgruppen auf dem Planeten aufzuzwingen und dies oft mit Gewalt. Heute akzeptieren wir zumindest formal, daß unterschiedliche Modelle nebeneinander existieren können und wir hüten uns davor – oder zumindest sollten wir uns hüten –, einen erneuten Kulturkolonialismus zu betreiben. Zum Glück. Und doch hat sich gerade unter den Personen, welche sich der Unterschiede stark bewußt sind und sie am meisten respektieren (zu denen ich hoffe, auch mich selbst zählen zu dürfen), oft eine Art von ethischem Relativismus verbreitet, der, wenn man genauer hinsieht, widersprüchlich ist und oft das Gegenteil erreicht. Oft nämlich endet es auf diese Weise mit der Verwechslung von Anthropologie und Ethik. Natürlich steht es außer Frage, daß jede Kultur das Recht hat, ihre eigenen ethischen Regeln selbständig zum Ausdruck zu bringen und wir haben die Pflicht, sie zu respektieren. Doch gilt dies immer und in jedem Fall? Während nämlich der Anthropologe sich darauf beschränken muß, Sitten und Traditionen ohne Wertung aufzuzeichnen, liegen die Dinge in der Ethik nicht so. Hier hat man das Recht/die Pflicht, Werturteile zu fällen. Der Kindermord an den Mädchen, gewisse schreckliche Praktiken, wie Infibulation, die Ausbeutung der Kinder, die Sklaverei, die Folter, die Todesstrafe – um nur einige Beispiele zu nennen, doch leider könnte man noch sehr viele andere hinzusetzen – sind Praktiken, welche bei einigen Kulturen als moralisch gleichgültig betrachtet werden, wenn nicht sogar als moralisch akzeptabel; können derartige Praktiken uns im Namen eines falsch verstandenen Relativismus gleichgültig sein? Und wenn sie uns nicht gleichgültig sind und uns sogar empören und unseren Protest erregen, aufgrund welcher Prinzipien fühlen wir uns dazu ermächtigt? Es könnte nun jemand einfach und einsichtig antworten: aufgrund der Anerkennung der menschlichen Würde. Wenn aber jemand sie ablehnt? Wenn aber, wie einer der Gesprächspartnern in einem Herbartschen Dialog in platonischem Stil über das Böse sagt, welcher das Kantische Prinzip diskutiert, demzufolge man stets so handeln soll, daß man die Menschen »jederzeit zugleich als Zweck, niemals bloß als Mittel« behandelt, wenn also »jemand sich dessen weigert; wird nun das Böse unmittelbar anschaulich seyn, das daraus entsteht? Oder kann der, welcher den Andern als Maschine gebraucht, auch noch fragen: was denn darin Schlimmes liege?« (IV, 490). Es ist immer wieder dasselbe, werden Sie sagen: die Philosophen (und zudem noch die italienischen) müssen immer alles unnötigerweise kompliziert machen. Warum sollte man nach einer festen Grundlage suchen, soweit es eine solche überhaupt gibt, wenn der gesunde Menschenverstand und die Menschlichkeit ausreichen, um uns bei der Bewertung von Gut und Böse zu leiten? Einmal abgesehen davon, daß Philosophie sich nicht mit dem gesunden Menschenverstand zufriedengeben kann und seit je nach einem festeren und sichereren Wissen strebt, sind wir uns denn wirklich so sicher, daß uns der Gemeinsinn eine zuverlässige Führung bietet? Außerdem bringen die mit der Ethik zusammenhängenden Probleme wichtige Auswirkungen im juristischen und, allgemeiner, im politischen Bereich mit sich, welche, so denke ich, eine aufmerksame Reflexion und eine feste Grundlage verdienen. Es ist auf der anderen Seite auch klar, daß die Grundlage, die wir suchen, allgemeine Gültigkeit haben muß, ohne deshalb bloß abstrakt zu sein, denn sonst bliebe sie in der Schwebe und im Leeren, ohne als Anleitung für den wirklichen Menschen fungieren zu können. Sie wird ebenfalls die fundamentalen Prinzipien der Moral auf klare und endgültige Weise zu definieren haben, ohne deshalb jedoch die Existenz unterschiedlicher moralischer Normen auszuschließen. Es ist nicht schwer zu sehen, daß sowohl diachronisch im Verlauf der Geschichte als auch synchronisch in den verschiedenen heutigen Gesellschaften unterschiedliche moralische Regeln existiert haben und existieren, die zu respektieren sind, solange sie nicht mit den Prinzipien in Konflikt geraten (sicherlich hat es keinen Sinn und ist vielmehr beleidigend und demütigend, den Masai-Kriegern die Unterhosen aufzuzwingen, wie es das viktorianische England getan hat); im gegenteiligen Falle jedoch sind sie in aller Schärfe anzuprangern. Zwei Beispiele: Der im alten Griechenland und in Rom verbreitete Brauch, die Neugeborenen auszusetzen, ist aus dem historischen Blickwinkel heraus eine einfache Tatsache, aus ethischer Sicht aber ein Greuel. Wer würde dies heute wieder einführen wollen? Die Verurteilung zum Tode durch Steinigung einer Frau, weil sie einem unehelichen Sohn das Leben geschenkt hat, nachdem sie vergewaltigt wurde, ist nicht nur ein juristisches Ungeheuer, sondern auch moralisch inakzeptabel. Um Mißverständnisse zu vermeiden, sei klargestellt, daß wir uns hier auf einer ausschließlich ethischen Ebene bewegen, die in keiner Weise Formen der Aufzwingung zuläßt. Ich bin mir auf der anderen Seite auch vollkommen der komplexen Implikationen, welche all dies mit sich bringen könnte und des Konflikts bewußt, der zwischen traditionalen Formen von Kultur und ethischen Prinzipien aufkommen könnte, doch denke ich auch, daß wir uns nicht hinter derartigen Schwierigkeiten verstecken können. In jedem Fall lassen wir für den Moment diese Probleme außer Acht und konzentrieren uns auf das Hauptproblem: Die Grundlage. Ich bin davon überzeugt, daß Herbarts Philosophie bei dieser Suche in die richtige Richtung führen kann und daß sie uns auch heute noch wichtige Anregungen auch im ethischen Bereich zu bieten hat. Bevor wir uns jedoch in Herbarts Reflexionen zur Moral vertiefen, ist es notwendig, vorher noch schnell auf Kant zu sprechen zu kommen, der für Herbart konstanter Bezugspunkt ist und auch für das zeitgenössische Denken einen unausweichlichen Probierstein darstellt. Natürlich werde ich nur auf einige wenige zentrale Punkte der Kantschen Ethik zu sprechen kommen. Ich fürchte, eine etwas technische Terminologie nicht vollkommen vermeiden zu können, doch ich hoffe, mich trotzdem klar verständlich zu machen. Welche Eigenschaften muß ein moralisches Prinzip besitzen, um wahrhaft universal zu sein? Vor allem müssen hier die Grenzen geklärt werden, indem das moralische Prinzip klar und deutlich von den theoretischen Prinzipien unterschieden wird, da der Gegenstand, mit dem diese sich beschäftigen ein grundlegend anderer ist. Dies bedeutet, daß die Moral der Metaphysik, der Psychologie usw. gegenüber autonom ist. Wenn wir wollen, daß das Prinzip, welches wir suchen, auch wirklich universal ist, ist es des weiteren notwendig, daß es nicht auf subjektiven Elementen fußt oder auf solchen, die nicht verallgemeinerbar sind, und daß es absolut autonom ist, d.h. seine Rechtfertigung nicht von fremden Elementen erhält. Die subjektiven Neigungen, die Gefühle, die Leidenschaften usw. können also die Moral nicht fundieren. Dies heißt allerdings nicht, daß sie an sich böse wären, sondern nur, daß sie das Prinzip subjektiv beeinflussen, welches dementsprechend keine universale Geltung mehr besäße. Dies eben ist Kant zufolge die Grenze aller vergangenen Versuche, die Moral zu begründen. Sie suchten die Grundlage der Moral nämlich in materiellen und heteronomen Prinzipien, wie der Glückseligkeit oder dem Nützlichen – doch meine Glückseligkeit, mein Nützliches kann das Unglück und den Schaden eines anderen bedeuten –; die Vollkommenheit oder das höchste Gute – welche jedoch entweder vergängliche Begriffe sind oder von der Geschichtsepoche bzw. der Gesellschaft beeinflußt wurden, welche sie hervorgebracht hat. Man kann also auch nicht, wie Platon es wollte, mit der Definition des Guten und des Bösen beginnen: Böse und Gut sind lediglich Gegenstände der praktischen Vernunft, ja eigentlich »die alleinigen Objecte einer praktischen Vernunft.« Schließlich kann auch die Religion die Moral nicht begründen, sondern eher das Gegenteil: Die Religion ist eventuell eine moralische Forderung. Andernfalls gründete Moral sich auf ein heteronomes Prinzip, d.h. ihre Rechtfertigung käme von außen. Das Prinzip, das wir suchen, muß also folgende Eigenschaften haben: Es muß autonom, bedingungslos und formal sein. Der Sitz, um uns so auszudrücken, dieses Prinzips kann nirgendwo anders als in der Vernunft in ihrem praktischen Gebrauch liegen. Im Gegensatz zu dem, was immer wieder wiederholt wird, ist die Kritik der praktischen Vernunft in keiner Weise eine "Moral", eine Tugendlehre; sie ist vielmehr eine Art von Metaethik. Sie bewegt sich sozusagen auf einer zweiten Ebene, auf einer metanormativen Ebene, welche eben die Moral als ihren Gegenstand hat. Genauso wie die theoretische Vernunft die Mathematik und die Physik zum Gegenstand hat, oder genauer: so wie sie die Bedingungen der Möglichkeit von Wissenschaft untersucht, so fragt die praktische Vernunft nach den Bedingungen der Möglichkeit der Moral, d.h. einer Modalität von Erfahrung, welche ihre spezifische Selbständigkeit besitzt. Die Philosophie, sagt Kant, muß sich darauf beschränken, »eine neue Formel« der Moral zu entwerfen; weder kann sie noch soll sie beanspruchen, eine neue Moral zu erfinden. Dies erklärt auch eine gewisse Bestürzung, die bei einer ersten, oberflächlichen Lektüre des Werkes aufkommen kann. Wie denn – will man sagen – am Ende all dieser Mühsal weiß ich nicht einmal, ob ich gut handle, wenn ich einer alten Dame helfe, die Straße zu überqueren. Der Grund hierfür besteht darin, daß dies nicht die Aufgabe der Kritik der praktischen Vernunft ist. Das Problem der Normen und der Regeln wird sich natürlich stellen, doch hierfür muß man andere Werke Kants heranziehen, wie etwa die Metaphysik der Sitten. Objektivität der Moral bedeutet für Kant allgemeine Gültigkeit dessen, was er das moralische Gesetz nennt und dieses Gesetz ist ein »Faktum der Vernunft«, weil es seit je in den vernünftigen Wesen vorhanden ist, d.h. in den Menschen als Menschen. Das moralische Gesetz bedarf keinerlei philosophischer Rechtfertigung; es ist hier eine Grundlegung weder möglich noch notwendig. Und zwar deshalb, weil es sein Fundament in sich selbst findet bzw. weil es an sich gültig ist und sich uns gegenüber von selbst durchsetzt. Diese Behauptung nun scheint paradox. Was heißt das, das moralische Gesetz brauche keine Grundlegung? Die Antwort auf diese Frage finden wir in der Kritik der reinen Vernunft, wo zu lesen ist: »Von der Eigenthümlichkeit unsers Verstandes aber […] läßt sich eben so wenig ferner ein Grund angeben, als warum wir gerade diese und keine andere Functionen zu Urtheilen haben, oder warum Zeit und Raum die einzigen Formen unserer möglichen Anschauung sind.« Es hat demnach keinen Sinn, nach einer weiteren Grundlage der Grundlage zu suchen: wir müssen uns mit diesem Faktum begnügen. In den Menschen tritt das moralische Gesetz als Imperativ auf, der berühmte kategorische Imperativ: Du sollst, weil du sollst. Nicht: Du sollst dieses oder jenes tun, sondern du sollst das moralische Gesetz befolgen. Aber aufgepaßt, das moralische Gesetz und der kategorische Imperativ stimmen keineswegs überein. Sie scheinen nur für den Menschen übereinzustimmen, welcher nicht nur ein Vernunftwesen, nicht reine Vernunft ist, sondern der auch (zum Glück) ein sinnliches Wesen ist, das Neigungen, Wünschen, Impulsen usw. unterliegt. All diese Gefühle sind natürlich legitim, aber sie können nicht, wie wir gesehen haben, zur Grundlegung der Moral beitragen. Für einen Engel etwa wäre der Imperativ absolut nicht notwendig, weil sein Wille vollkommen mit dem moralischen Gesetz übereinstimmen würde. Dem kategorischen Imperativ stehen wie bekannt die hypothetischen Imperative entgegen; Wenn du dies tun willst, wenn du das erreichen willst, mußt du dies oder jenes tun. Sie können jedoch keinerlei Anspruch auf Allgemeingültigkeit erheben. Doch auch in diesem Fall müssen vereinfachende Banalisierungen vermieden werden. Der Gegensatz zwischen kategorischem Imperativ und hypothetischen Imperativen ist nicht der Gegensatz zwischen Moralität und Unmoralität. Freilich ist es wahr, daß der kategorische Imperativ der moralische Imperativ ist, doch das bedeutet nicht, daß der hypothetische Imperativ notwendigerweise unmoralisch sein muß. Auch ist die sinnliche Natur des Menschen nicht schon als solche ein Übel; sie wird dazu erst in dem Moment, in dem sie mit dem moralischen Gesetz in Konflikt gerät. Im Gegensatz zur gewöhnlichen Vorstellung scheint mir Kant eine rigorose, aber keine rigoristische Moral vorzuschlagen, die sich der Grenzen des Menschlichen und seiner Rechte als sinnliches Wesen vollkommen bewußt ist. Aus dem Faktum des moralischen Gesetzes wird die Willensfreiheit abgeleitet. Die Freiheit, sagt Kant, ist »allerdings die ratio essendi des moralischen Gesetzes« bzw. die Bedingung der Wirklichkeit des moralischen Gesetzes. Wäre der Mensch nicht frei, könnte man von Moral überhaupt nicht sprechen, denn er wäre dann wie die Tiere. Auf der anderen Seite ist das moralische Gesetz »die ratio cognoscendi der Freiheit« , d.h. das, was es uns erlaubt, die Freiheit zuzulassen. Nur so können wir verstehen, daß wir einen freien Willen haben. Noch einmal, die transzendentale Freiheit, von der Kant hier spricht, ist nicht so sehr die Freiheit, dieses oder jenes zu tun, als vielmehr die Möglichkeit selbst von Freiheit, eine Freiheit als solche und absolut unbedingt. Ich entschuldige mich für diese allzu kurze und schematische Darstellung der Kantschen Morallehre, die notwendigerweise eine ganze Reihe von wichtigen Problemen außer Acht gelassen hat. Doch war es meines Erachtens notwendig, einige zentrale Themen dieser Theorie wieder ins Gedächtnis zu rufen, um nun Herbarts Position verstehen zu können. Seine Stellung ist, um die Wahrheit zu sagen, komplex und zweideutig, denn seine Kritiken an Kant, und nicht nur diejenigen im moralischen Bereich, sind oft ungerechtfertigt und doch ist er gerade in diesen Fällen besonders anregend. Bevor ich jedoch endlich zu Herbart komme, sei es mir erlaubt, Sie noch einmal auf die Wichtigkeit des ethischen Formalismus Kants aufmerksam zu machen, denn eben hier kann man meines Erachtens die Aktualität der Herbartschen Ethik voll und ganz ausmessen. Das ethische Prinzip, haben wir gesagt, muß formal sein, da es sonst durch materielle Elemente bedingt wäre, welche seine Universalität herabsetzen würden, weil es »von keiner Vorstellung irgend eines Gegenstandes, welche sie auch sei, a priori erkannt werden [kann], ob sie mit Lust oder Unlust verbunden, oder indifferent sein werde.« In diesem Sinne ist der meines Erachtens fehlgeschlagene Versuch von John Rawls bezeichnend, der eine Metaethik verwirklichen wollte ohne den Formalismus, wie auch immer man ihn verstehen will, oder auf jeden Fall durch seine Schwächung. In der Tat ist er in den Werken nach A Theory of Justice dazu gezwungen, seine Position zu revidieren, den Anspruch auf Universalität seiner Moral zu verleugnen und ihre Geltung auf die industrialisierten Gesellschaften des Abendlandes einzuschränken. Der Kantische Formalismus allerdings impliziert keineswegs Leere. Esi ist mir klar, daß die allgemeine Form sehr wohl ohne Inhalte erkannt werden kann, doch das heißt noch lange nicht, daß sie der Inhalte entbehrt. Die Form gibt es in Wahrheit nie ohne die Inhalte, doch bedeutet das nicht, daß man sie nicht unabhängig von ihnen betrachten kann. Wie bekannt riefen der vorgebliche Rigorismus Kants und der Formalismus seiner Ethik unmittelbar negative Reaktionen hervor. Man denke, nur um einige Namen zu nennen, an Schiller und Hegel, an Fichte und Schleiermacher. In einer seiner Xenien schreibt Goethe sogar sarkastisch: »Gerne dien' ich den Freunden, doch thu' ich es leider mit Neigung | Und so wurmt mir oft, daß ich nicht tugendhaft bin.« Doch die Diskussion setzte sich weit über das eben vergangene 18. Jahrhundert hinaus fort. So hat Husserl, der eine formale Ethik in Analogie zur Logik aufbauen wollte, Kant kritisiert, weil seine Ethik nicht formal genug sei, während Max Scheler, der im Gegenteil eine materielle Wertethik begründen wollte, den Kantschen Formalismus glattweg ablehnte. Doch nun ist es Zeit, zu Herbart überzugehen, der ja auch als Inspirationsquelle und als Bezugspunkt allen Hauptdarstellern dieser Debatte gegenwärtig ist, H. Cohen ebenso wie Vorländer, die meines Erachtens entscheidende Beiträge zum ethischen Formalismus Kants geliefert haben , Scheler ebenso wie, auf vermittelte Weise, Husserl. Auch Herbart reiht sich in den Chor der Kritiken ein. Auch er weist den Kantschen Formalismus zurück, weil er ihm leer erscheint und deshalb unfähig, wirklich vom Besonderen Rechenschaft zu geben, das sich im Allgemeinen verliert. Des weiteren lehnt er die transzendentale Freiheit (auch wegen ihrer unheilvollen pädagogischen Konsequenzen) und den kategorischen Imperativ ohne Vorbehalt ab, da sie für ihn nichts anderes sind, als begriffliche Absurditäten. Natürlich hat auch für ihn die Pflichtmäßigkeit eine zentrale Funktion in der Behandlung der Moral; doch der kategorische Imperativ und die Kantschen Pflichten sind am Ende eben wegen ihres leeren Formcharakters dazu gezwungen, auf eine höhere Autorität zu rekurrieren, auf einen ewigen Herrn. Allerdings erkennt er an, daß mit Kant »der wichtige Theil der Reform, welche die Sittenlehre treffen mußte.« (III, 235) abgeschlossen wurde. Kant hat das Verdienst, die Selbständigkeit der Moral klar erkannt zu haben: selbständig gegenüber dem Gegenstand, der nicht mit dem der theoretischen Vernunft verwechselt werden darf und selbständig gegenüber der Form, welche nach Kants Absicht von jeder Bestimmung unabhängig sein sollte, es sei denn der des reinen Wollens in seiner Universalität. Kant wird also auf der einen Seite das Verdienst zuerkannt, Ethik und Metaphysik klar voneinander getrennt zu haben: Der verfehlte Ausdruck Metaphysik der Sitten – sagt Herbart – ist lediglich eine unglückliche Redensart, die der Tatsache keinen Abbruch tut, daß Kant die ursprüngliche, besondere und absolute Evidenz des moralischen Elements erkannt hat, welches keiner äußeren Stützen bedarf (XII, 348). Auf der anderen Seite kommt ihm das Verdienst zu, »gleichsam eine eherne Mauer« (III, 70) zwischen der Totalität der materiellen Prinzipien des Wollens und den formalen Prinzipien aufgerichtet zu haben. Das Bestreben Herbarts besteht also in folgendem: ein moralisches Prinzip oder besser moralische Prinzipien ausmachen, welche allgemeinen Wert haben, jedoch gleichzeitig das Besondere wahren; welche formal sind, aber nicht leer, ohne deshalb von materiellen Elementen bedingt zu sein. Wie sollen wir uns also bewegen? Zunächst einmal ist klar, daß das ethische Urteil, welches der Herbartschen Moral zugrunde liegt, keinen Anspruch darauf erheben kann, im logischen Sinne universal zu sein, da es auf diese Weise das Besondere vollkommen aus dem Auge verlöre; auch kann es keineswegs auf dem Wege der Abstraktion erreicht werden, wie es die Empiristen möchten, da es auf diese Weise die Allgemeingültigkeit verlöre. Des weiteren muß man sich davor hüten, um alles in der Welt ein einziges Prinzip zu suchen, das es nicht gibt und das auch nicht gesucht werden soll. Wir werden also eine Vielfalt von Prinzipien vor uns haben, ähnlich dem, was in der Metaphysik auch passiert. Ein einziges Prinzip ist eine reine Abstraktion, welches das richtige Verhältnis zwischen Gegebenem und Prinzipien umkehrt. Zuerst werden die einzelnen Werturteile gefällt und dann wird künstlich ein einziges Prinzip aufgestellt. So läßt Herbart in seinen Gesprächen über das Böse, die ich schon erwähnt habe, einen seiner Gesprächspartner, und zwar Otto, zu einem anderen, der die Thesen Fichtes vertritt, sagen: »Sie tadeln erst den Streit, und alsdann aus diesem Grunde die Trägheit; Sie verurtheilen den Hass, und darum hintennach das, was Sie als Quelle des Hasses ansehen, und so weiter.« (IV, 491) Doch was geschieht nun eigentlich, wenn wir ein moralisches Urteil fällen oder wenn wir sagen, dies sei gut, das sei schlecht? Um welche Form von Urteil handelt es sich? Und betrifft das Urteil die Form oder den Inhalt? Zunächst leuchtet ein, daß das Urteil (A ist B zum Beispiel) eine Beziehung vorsieht und das gilt auch für das Werturteil: Ein einzelnes materielles Element ist moralisch indifferent, es ist weder gut noch böse. Hat man einmal eine Güterlehre ausgeschlossen und das Problem des Werts oder Unwerts für den Willen gestellt, dann kann dieser letztere, da er von allen Beziehungen zu den Dingen befreit ist, sich einzig durch die Form der Beziehung charakterisieren, welche er angenommen hat: »Jede Zusammenfassung – so Herbart -, welche als solche eine neue Bedeutung erlangt, ergiebt eine Form; im Gegensatze gegen die bloße Summe dessen, was zusammengefasst wird, welche Summe in sofern Materie heißt. Also kann nur der Form des Wollens ein Werth oder Unwerth beygelegt werden.« (X, 348) Das Geschmacksurteil betrifft also lediglich die Form, nicht den Inhalt und ist doch nicht abstrakt: Es ist nichts anderes als der Name für besondere Beziehungsurteile. Doch muß sich die praktische Philosophie keineswegs schämen, keine solche Universalität erreichen zu können, welche alle Tatsachen des Lebens vollkommen erfassen könnte: »das menschliche Leben ist viel zu bunt, als daß die einfachen Willensverhältnisse im Voraus wissen könnten, wie sie einander darin begegnen werden.« (II, 351) Das Werturteil, welches für die Ästhetik und mehr noch für die Ethik bezeichnend ist, stellt sich als Geschmacksurteil dar, welches unmittelbar Billigung oder Mißbilligung auslöst. Aus dem Geschmacksurteil muß jeder subjektive Gemütszustand ausgeschlossen werden. Es handelt sich um ein reines Urteil und das unterscheidet Herbart sicherlich klar von den englischen Moralisten, mit denen er trotzdem, wie wir gleich sehen werden, bedeutsame Punkte gemein hat. In Über die ästhetische Darstellung der Welt schreibt er denn auch, indem er sich ausdrücklich auf Platon beruft: Die ästhetische, und das heißt für Herbart auch die ethische Notwendigkeit »charakterisiert sich dadurch, daß sie in lauter absoluten Urtheilen, ganz ohne Beweis, spricht, ohne übrigens Gewalt in ihre Forderung zu legen. Auf die Neigung nimmt sie gar keine Rücksicht; sie begünstigt und bestreitet sie nicht. Sie entsteht beym vollendeten Vorstellen ihres Gegenstandes.« (I, 264) Die ethischen Urteile müssen demnach absolut und unbedingt sein und können deshalb nicht im Willen als einer subjektiven Wirklichkeit gesucht werden, sondern einzig in einer objektiven Wirklichkeit, die – wie wir gleich sehen werden – in den praktischen Ideen ihren Ausdruck findet, welche typische Willensverhältnisse sind, die mit ihrer Beispielhaftigkeit notwendige Urteile hervorrufen. Doch gehen wir der Reihe nach vor. Obschon wir uns in der Heimatstadt dieses großen Denkers befinden (meines Erachtens sicherlich einer der größten Denker nach Kant), ist nicht gesagt, daß auch alle seine Ethik aus der Nähe kennen. Deshalb scheint es, so hoffe ich, nicht unnütz, kurz die wichtigsten Züge darzustellen. Herbart lehnt also, wie gesehen wurde, Kants Formalismus ab, dem er einen Formalismus entgegenzusetzen beabsichtigt, welcher ein solcher nur deshalb ist, weil er vom besonderen Inhalt der menschlichen Handlungen absieht, allerdings die typischen Verhältnisse, welche diese Handlungen aufweisen, einschließt. Die Absolutheit, die mit dem Formalismus eng verbunden ist, wird dann Herbart zufolge nicht im Willen als einer subjektiven Wirklichkeit gesucht (in Herbarts Augen wäre dies der Kantsche gute Wille), sondern in einer objektiven Wirklichkeit, in unwillkürlichen Urteilen der Billigung oder Mißbilligung, welche jeden Aspekt des menschlichen Lebens einbeziehen. Die moralische Pflichtmäßigkeit besteht aus absoluten, atheoretischen Urteilen. Die Haltung des urteilenden Subjekts muß also der des reinen Beobachters entsprechen oder, wie er mit evidentem Bezug auf Adam Smiths "interesselosen Zuschauer" auch sagt, der des »inneren Zuschauers.« (I, 118, siehe auch X, 338-340) Die praktischen Ideen sind eben Ausdruck von typischen Willensverhältnissen und rufen mit ihrer Beispielhaftigkeit unwillkürliche Urteile der Billigung oder Mißbilligung hervor. Die moralische Pflichtmäßigkeit wird also durch die unmittelbare Notwendigkeit des "ästhetischen" Urteils garantiert, eine Notwendigkeit, die sich den Menschen aufdrängt; eine Notwendigkeit, die aus dem objektiven "Wert" herkommt, der in jenen Urteilen beschlossen liegt, die in ihm ihren Inhalt finden und der stark an den Respekt erinnert, den Kant zufolge das moralische Gesetz unmittelbar und notwendig hervorruft, aber auch an den "ästhetischen Geschmack" der englischen Moralisten. Allerdings sind es nicht die Ideen, welche unmittelbar Gehorsam verlangen; die Pflicht vielmehr, die aus ihnen herkommt, fordert ihn. Das Gebieterische der Pflicht leitet sich eben gerade von der Billigung oder Mißbilligung her, welche die Urteile gegenüber den moralischen Ideen zum Ausdruck bringen, insoweit sie als objektiv gültige und universale anerkannt sind und dies unabhängig von der Befriedigung, die daraus entstehen kann. Ursprünglich jedenfalls ist nicht die Pflicht. Erst wenn man sich seiner eigenen Verpflichtung bewußt wird, indem man einer Richtschnur folgt, hat man es mit dem Begriff der Pflicht zu tun, wodurch man nun wirklich in die Moralität eintritt. Der Begriff der Pflicht kann nicht das erste Fundament der moralischen Wissenschaft sein, denn, wäre dem so, dann müßte eine unmittelbare Sicherheit bestehen für den Wert eines ursprünglichen Befehls. Doch dies ist nicht möglich, denn befehlen bedeutet wollen, und sollte der Befehl einen ursprünglichen Wert haben, dann käme ein Konflikt zwischen den unterschiedlichen Willen auf, wobei die einen untergeordnet, der andere herrschend wäre; doch jedes Wollen ist als Wollen jedem anderen gleich und keines kann sich über das andere erheben. Die Grundlage der Ethik besteht also weder im Begriff der Pflicht noch in dem des Guten und auch nicht in dem der Tugend, sondern einzig in einer spontanen Reaktion gegenüber den jeweiligen Situationen, welche erst in der Folge moralisch wird, wenn man von den reinen ethischen Ideen übergeht zu den moralischen Maximen. Die ethischen Ideen sind also natürlich anerkannte "Werte", die angemessene Handlungen anraten, weil sie ein gemeinsames Gut der menschlichen Natur sind, dem man widerspricht, wenn man nicht gehorcht. Die ursprünglichen praktischen Ideen sind fünf und nicht gegenseitig auseinander deduzierbar; das wahrhaft moralische Urteil muß alle fünf Ideen vereinigen. Keine von ihnen kann isoliert und von den anderen getrennt genommen werden. Die erste praktische Idee ist die »Idee der inneren Freiheit«, die in keiner Weise mit der transzendentalen Freiheit verwechselt werden darf. Es handelt sich vielmehr, wie Herbart schreibt, um »diejenige Freyheit der Wahl, die wir alle in uns finden, welche wir als die schönste Erscheinung unsrer selbst ehren, und welche wir unter den andern Erscheinungen unsrer selbst hervorheben möchten« (I, 261). Herbart zieht also die Beziehung in Betracht, welche die innere Kohärenz bei der Bewertung des Willens betrifft bzw. die Beziehung zwischen dem Willensakt und dem Werturteil. Ihr Zusammenstimmen ist eben die Idee der inneren Freiheit, der innigen und tiefen Einheit der einzelnen Personen mit sich selbst. Dieses Zusammenstimmen ruft unmittelbar Billigung hervor, während im Falle, daß der Wille nicht mit den Forderungen des Werturteils übereinstimmt, sich eine Beziehung einstellt, welche unmittelbar mißfällt. Die zweite praktische Idee ist die »Idee der Vollkommenheit« und sie beschäftigt sich mit den Beziehungen der einzelnen Willensakte untereinander. Die dritte praktische Idee ist die »Idee des Wohlwollens.« Mit dieser Idee befinden wir uns in einer mittleren Stellung zwischen der Betrachtung eines einzelnen Willens und der Beziehung zwischen mehreren Willen. Die Idee des Wohlwollens nämlich setzt einen einzelnen Willen mit einem anderen in Beziehung, insoweit er von jenem vorgestellt wird. Das Wohlwollen besteht somit in der Harmonie des eigenen Willens mit einem anderen, insoweit er vorgestellt wird. Dieses Verhältnis ruft unmittelbar Billigung hervor, während das Gegenteil, d.h. der intentionale Kontrast zwischen zwei Willen mißfällt. Die vierte praktische Idee ist die »Idee des Rechts.« Ein weiteres Mal schwimmt Herbart gegen den Strom, denn er unterscheidet nicht zwischen Moralphilosophie und Philosophie des Rechts; mehr noch, er denkt, daß einige der grundlegenden Fehler der Philosophie des Rechts seiner Zeit eben in dieser Trennung zu suchen seien. Und wir Italiener können davon eine Geschichte erzählen. Das Recht, behauptet Herbart, ist das Zusammenstimmen mehrerer Willen, welches als Regel verstanden wird, um dem Konflikt zuvorzukommen. Die Idee des Rechts hat also die Aufgabe, Kontraste, die zwischen zwei realen, in Beziehung stehenden Willen aufkommen, zu vermeiden oder zu überwinden, wobei beide diese Idee als Einschränkung ihrer Willkür spontan und wie eine Notwendigkeit akzeptieren. Die fünfte und letzte praktische Idee ist die »Idee der Billigkeit.« Wenn in der Idee des Rechts das intentionale Element keine Rolle spielte, so ist es hingegen zentral in der Idee der Billigkeit. Herbart versucht die Notwendigkeit klarzumachen, daß zwischen Schuld und Strafe ein genaues Gleichgewicht herrsche. Durch die fünf praktischen Ideen sind Herbart zufolge alle möglichen Grundverhältnisse zwischen Urteil und Willen nach einer klaren Ordnung bestimmt, die vom Einfachen zum Komplexen aufsteigt. Bisher hat er nur die Verhältnisse des Willens einer und derselben Person oder zwischen einzelnen Personen in Betracht gezogen, doch dies schöpft natürlich die Zahl aller möglichen praktischen Verhältnisse nicht aus. Es müssen nun Strukturen von Verhältnissen zwischen mehreren Willen untersucht werden, zwischen einer unbestimmten Vielheit von vernünftigen Wesen. Dieser Übergang von den einzelnen Individuen zur Gesellschaft hat nach Herbart nicht die Notwendigkeit zur Folge, neue Verhältnisse einzuführen: Alle Grundverhältnisse werden von den ursprünglichen moralischen Ideen ausgeschöpft. Lediglich die Komplexität der Verhältnisse zwischen den verschiedenen Willen ist nun größer, von denen wir annehmen müssen, daß sie sich in einem konstanten Fortschritt hin zu einer immer vollkommeneren Einheit befinden. An diesem Punkt nun führt Herbart die abgeleiteten Ideen ein, die den ursprünglichen Ideen entsprechen – auch sie sind fünf an der Zahl, doch keine Angst, ich habe nicht die Absicht, sie hier aufzuzählen –, auch wenn die von ihm angewandte Darstellung in gewisser Weise der vorhergegangenen gegenüber umgekehrt verfährt. Man muß nämlich bei den letzten beiden Verhältnissen beginnen, welche den anderen gegenüber eine weniger vollkommene Kommunikation zwischen den Willen impliziert, um dann zu einer immer größeren Vollkommenheit emporzusteigen. Was aus der Untersuchung dieses Teils des Herbartschen Werks hervorginge, wäre die Feststellung, daß seine Ethik in einer Philosophie der Gesellschaft mündet. Herbart achtet denn auch immer stark auf die praktische Anwendbarkeit seiner Konzeptionen und ist der Überzeugung, daß eine Theorie der Pflichten einzig in der konkreten Wirklichkeit durchgeführt und auf die Probe gestellt werden könne. Herbarts Ideenlehre ist zum Teil auch scharfen Kritiken unterzogen worden. Schon Hartenstein, einer seiner wichtigsten Schüler, hatte aus der Moral die Idee der Vollkommenheit und die daraus abgeleitete der Kultur ausgeschlossen, weil bei ihnen auf den Grad Bezug genommen wird und das bedeutet auf quantitative Beziehungen ; was Adolf Trendelenburg betrifft, so meinte er, daß alle fünf verworfen werden müßten . Doch auch Paul Natorp wird eine aufmerksame und kritische Analyse der praktischen Ideen Herbarts durchführen . Sicherlich ist dies nicht der richtige Ort, um diese Kritiken im Detail zu untersuchen und um zu bewerten, inwieweit sie zutreffen und noch weniger können wir hier bewerten, ob die praktischen Ideen auch wirklich fünf sein müssen und ob es gerade diese fünf sind. Was mich hier interessiert, ist vielmehr die grundlegende Idee, welche Herbarts Theorie beseelt. Die Idee nämlich, daß unter Beibehaltung des Kantschen Prinzips, daß die ethische Grundlage eine formale zu sein hat, welches, wie wir gesehen haben, auch für Herbart die einzige Garantie für die Allgemeingültigkeit der ethischen Prinzipien darstellt, es trotzdem notwendig sei, typische Prinzipien auszumachen, welche verhindern, daß man sich in der reinen Abstraktion verliere und welche als Model dienen, auf dessen Grundlage die einzelnen Normen und die einzelnen Verhaltensweisen bewertet werden können. Heutzutage sind die Bedingungen wahrscheinlich besser, um befriedigendere Resultate in der Richtung zu erzielen, die von Herbart angezeigt wurde. Die besseren anthropologischen, paleoanthropologischen und ethologischen Kenntnisse, die wir der Epoche gegenüber besitzen, in der Herbart lebte, erlauben es, mit größerer Klarheit das typisch Menschliche jenseits aller geschichtlichen und kulturellen Bedingungen zu bestimmen und es mit mehr Bewußtsein beurteilen zu können. Wir können ja auch gar nicht umhin, vorauszusetzen, daß es Elemente gibt, welche für alle Menschen typisch sind, für den Menschen als homo sapiens. Das Gegenteil vorauszusetzen, nämlich daß die Menschen verschieden sind, hätte von diesem Standpunkt aus (auf welcher Grundlage? Auf der Rasse?) gravierende Folgen. Es wäre leicht nachzuweisen, daß die von mir anfangs zitierten Beispiele in klarem Widerspruch zu Herbarts fünf praktischen Ideen stehen und wahrscheinlich auch zu den Prinzipien, die man mit seiner Methode erarbeiten könnte. Es bleiben natürlich noch viele Probleme offen, die ich hier auch absichtlich aus Gründen der Zeit weglasse. An Stelle all dieser Probleme sei dieses eine genannt: Wie können wir die unmoralischen Verhaltensweisen erklären? Wenn das ethische Urteil unmittelbar Billigung oder Mißbilligung hervorruft, warum verhalten sich die Menschen dann so schlecht? Wenn man Herbarts praktische Philosophie detailliert analysieren würde, dann könnte man entdecken, daß sein Ansatz auch von diesem Gesichtspunkt aus überraschend aktuell und fruchtbar ist. Dies jedoch führte uns zu weit und es ist Zeit, daß ich schließe, denn ich habe Ihre Geduld schon viel zu sehr ausgenutzt.
This paper sheds light on Kant's notion of autonomy by considering Kant's critique of the rationalist theories of morality that he discussed in his lectures on practical philosophy from the 1760s to the time of the Groundwork. The paper first explains Kant's taxonomy of moral theories and his perspective on the history of ethics. Second, it considers Kant's arguments against the two main variants of 'rationalism' as he construes it, that is, perfectionism and theological voluntarism, pointing out the similarities to previous criticisms. Third, the paper argues that Kant's discussion of the 'rationalist' views does not amount to an unqualified dismissal, but to an attempt at working out a novel rationalist position. Kant's criticisms of rationalist views suggest that his project emerges from the failures of previous rationalism, with the aim to work out a rationalist view that can account for moral obligation by integrating insights from the theological conception. The combination of perfectionism and theological views yields the basic outline of the idea of autonomy, consisting in the lawgiving function of a rational will as a key to the legislation of a necessary law.
Nudging as a tool of public policies has often been criticized on account of two assumptions: 1) it is more dangerous than traditional command & control regulation for human dignity and autonomy; 2) when it is justified on paternalistic grounds, it is even more problematic than in its non-paternalistic applications. This paper seeks to challenge both assumptions, by showing that the main problem with nudging is one of transparency, but this can be obtained without impairing its effectiveness; moreover, paternalistic nudging is means paternalism, not ends paternalism, which means that it is not a form of perfectionism superimposed on the people's individual ends.
Uno strano destino ha voluto che l'ultima frase scritta da Friedrich Schlegel la sera prima della morte, l'11 gennaio 1829, fosse una sorta di epitome di tutta la sua esistenza e di tutta la sua filosofia: «Das ganz vollendete und vollkommne Verstehen selbst aber [.]»1 che si potrebbe tradurre: «La compiuta e perfetta comprensione in quanto tale tuttavia [.]». Poco importa se l'emblema che chiude l'opera ci ricorda che questa "perfetta e compiuta" conoscenza è affidata, per l'ormai cattolico Schlegel, a Dio, cui l'anima si rivolge dopo aver spezzato le catene della mondanità. Per tutta la vita Schlegel aveva comunque creduto che il concetto di una "perfetta e compiuta" conoscenza fosse determinato da quel "tuttavia" ("aber") che simbolicamente chiude la sua esperienza terrena. In quel "tuttavia" è rac- chiusa tutta la sua filosofia dell'incomprensibilità e dell'ironia, così come essa si è delineata sin dai primi studi filologici e dai primi frammenti critici. ; Te philosophy of irony has had, since its romantic origins, no good reputation because of its methodological and logical inconclusiveness and its contamination with literature. Whether we talk about Friedrich Schlegel or Paul de Man, about Søren Kierkegaard or Friedrich Nietzsche, Richard Rorty or Peter Sloterdijk, the "ironists" are hated because of their ability to say, even on the verge of death: "however". Te charge that philosophy makes against ironists is based on three "suspicions": 1) that they are not philosophically consistent and, therefore, that they, ultimately, do not know how to ironize themselves; 2) that their irony is only a disguised "egology", as Hegel would claim and assumes literary forms, if nothing else because the ironists use an autobiographical form; 3) fnally that they are vitiated by a sort of anthropological "lack of commitment", or – as Rorty would say – a "lack of solidarity", and, therefore, they are quite often inefective and even harmful from a social and political point of view. In the following pages I will try to ...