It is certainly the most important reform among the many that in recent months have taken place within the sector of cultural heritage. Amidst the great controversy that accompanied its birth, it certainly represents an important evolution in the discipline of the sector. Under some aspects at least, it also certainly marks another missed chance for the world of libraries.We are talking about the fundamental law for the sector of cultural heritage, that law of protection that was emanated last 22 January 2004 (D.L. n.42), with regard to which, before dealing more extensively with libraries, we must at least mention some particularly important elements of a more general nature.Thus, for example, it seems to be particularly important that art.1 identifies the fundamental principles which have inspired the Code, or the solution adopted to finally include in one series all cultural heritage, no matter what the category to which they belong, or again to recognize the nature of cultural heritage of a whole series of realities ignored by previous legislation. Lastly, great merit should be attributed to the attempt, even if not always successful, to provide a detailed and organic juridical definition of the many activities connected with cultural heritage, or of the institutes and places of culture prefixed to them.By contrast, we cannot but mention the many perplexities excited by article 12 on the control of cultural interest and the even serious consequences which, according to some, could have involved the very survival of our cultural heritage. The article has in fact appeared to many commentators all the more serious considering that the entire control procedure must be terminated within 120 days from its beginning and that, should there be no response within this time, the control must be understood as concluded with a negative result.If however as a whole the new Code can be judged fundamentally positive, the question changes considerably where the specific area of libraries is involved. Once again, in fact, many of the problems of the sector were not so much as mentioned by the Code, while for many others the answer provided was at the least either partial or unsatisfactory. Just consider, for example, the complex and many-sided theme of the fruition of library property, liquidated in just one paragraph, or the absence of any reference whatsoever to the national library services and institute of legal deposit, or the disappointing and reductive definition of a library provided by the letter b) of paragraph 2 of article 101, the first definition of a library, please note, ever formulated in an Italian legislative text and precisely for this reason certainly worthy of greater attention and awareness. Similarly confused and contradictory is the solution adopted with regard to the area of competence between State and Region with respect to the safeguarding of library property, a subject, as is known, radically altered by the decree of 1972 which transferred to the Regions the state administrative functions regarding libraries of local bodies. On the basis of this decree, the only case in the sphere of cultural heritage, the offices of the supervision of library property were transferred to the Regions and their tasks were in part transferred and in part delegated to the Regions themselves. Well, the rather unclear wording of paragraphs 2 and 3 of article 5, far from rectifying an historical controversy introduced in regard by the Decree of the President of the Republic no. 3/1972, seems rather destined to increase the uncertainty for the future.Inattention, lack of consideration for the sector of libraries, simple superficiality? Certainly partly this, but the real problem actually is more likely another, perhaps more fundamental also, only partially linked to the specific question of the Code and directly connected rather with the very nature of our institutions and, therefore, of our specific profession. If, as Angela Vinay wrote in 1967, our libraries have the task of preserving the books possessed, but also that of spreading and producing culture, providing readers not just with what they possess, but above all with what they need, it is in fact clear that the Code cannot, even if only partially, respond to our requirements and specificities. ; Certamente costituisce la riforma di gran lunga più importante fra le molte che in questi ultimi mesi hanno interessato il settore dei beni culturali. Certamente, pur fra le mille polemiche che ne hanno accompagnato la nascita, costituisce un'importante evoluzione nella disciplina del settore. Certamente, almeno per alcuni aspetti, costituisce un'altra occasione mancata per il mondo delle biblioteche.Si tratta della legge fondamentale per il settore dei beni culturali, quella legge di tutela che ha visto la luce lo scorso 22 gennaio 2004 (D. lo n.42), a proposito della quale, prima di soffermarsi più estesamente sulle biblioteche, non si può non dedicare almeno un cenno ad alcuni elementi di carattere generale di particolare spicco.Così appare, ad esempio, di particolare rilievo la individuazione, nell'articolo 1, dei principi fondamentali ai quali il Codice si ispira, oppure la soluzione adottata di ricomprendere finalmente in un'unica serie tutti i beni culturali, a qualunque categoria appartengano, o di riconoscere la natura di bene culturale a tutta una serie di realtà ignorate dalla precedente normativa. Meritevole infine il tentativo, anche se non sempre del tutto riuscito, di fornire una puntuale ed organica definizione giuridica delle molteplici attività connesse al patrimonio culturale, o degli istituti e luoghi della cultura ad essi preposti.Per converso, non si può non accennare alle molte perplessità suscitate dall'articolo 12 sulla verifica dell'interesse culturale ed alle conseguenze anche gravi che, secondo alcuni, avrebbe potuto comportare sulla sopravvivenza stessa del nostro patrimonio culturale. La disposizione è infatti apparsa a molti commentatori tanto più grave, in considerazione del fatto che l'intera procedura di verifica deve concludersi entro 120 giorni dal suo avvio e, in caso di mancata risposta nei termini, la verifica deve intendersi conclusa con esito negativo.Se tuttavia nel complesso il giudizio che si può dare del nuovo Codice è sostanzialmente positivo, il discorso cambia sensibilmente quando ci si ponga nell'ottica specifica delle biblioteche.Ancora una volta, infatti, molti dei problemi del settore non sono stati nemmeno sfiorati dal Codice, mentre per molti altri la risposta fornita è stata quanto meno parziale ed insoddisfacente. Basti pensare, ad esempio, al complesso ed articolato tema della fruizione dei beni librari, liquidato in un solo comma, oppure, all'assenza di ogni riferimento ai servizi bibliografici nazionali ed all'istituto del deposito legale, o alla deludente e riduttiva definizione di biblioteca fornita dalla lettera b) del comma 2 dell'articolo 101, la prima definizione di biblioteca, si noti, mai formulata in un testo normativo italiano ed appunto per questo certamente meritevole di una maggiore attenzione e consapevolezzaUgualmente confusa e contraddittoria appare poi la soluzione adottata in merito al riparto di competenze fra Stato e Regioni in materia di tutela dei beni librari, una materia, come è noto, radicalmente modificata dal decreto di trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative statali in materia di biblioteche degli enti locali del 1972, in base al quale, caso unico nel panorama dei beni culturali, gli uffici delle soprintendenze ai beni librari erano stati trasferiti alle Regioni e le loro competenze parte trasferite e parte delegate alle Regioni stesse. Ebbene, la formulazione assai poco chiara dei commi 2 e 3 dell'art.5, lungi dal sanare una storica discrasia introdotta in materia dal D.P.R. n.3/1972, sembra invece destinata ad accrescere l'incertezza per il futuro.Disattenzione, scarsa considerazione per il settore delle biblioteche, semplice approssimazione? Certamente in parte anche questo, ma in realtà il vero problema è probabilmente un altro, se vogliamo ben più sostanziale, solo parzialmente legato alla specifica questione del Codice e direttamente connesso invece con la natura stessa dei nostri istituti e, quindi, della nostra specifica professione. Se, come scriveva nel 1967 Angela Vinay, le nostre biblioteche hanno il compito di conservare i beni librari posseduti, ma anche quello di diffondere e produrre cultura, fornendo ai lettori non solamente ciò che possiedono, ma sopratutto ciò di cui essi hanno bisogno, è infatti chiaro che il Codice non può, se non solo parzialmente, rispondere alle nostre esigenze e specificità.
È necessario ricordare preliminarmente che sulle aziende e le amministrazioni del settore pubblico gravitano differenti tipi di controllo: -controlli esterni e controlli interni -controlli preventivi, concomitanti e successivi -controlli di legittimità e di merito Il processo riformatore dei controlli amministrativi ha inizio nella seconda metà dell'800 e si caratterizza per il passaggio attraverso più fasi, nel corso delle quali il controllo assume differenti forme e caratteristiche.Il Decreto Legislativo n. 286 del 31 Luglio 1999 rappresenta il primo vero e proprio intervento organico in materia di controlli interni.Nel rispetto dei criteri ispiratori dell'organizzazione delle aziende pubbliche e delle loro finalità istituzionali, viene delineato un nuovo sistema di controllo che si articola su ben quattro differenti tipologie: 1. Il controllo di Regolarità Amministrativa e Contabile, deputato a presidiare, con un monitoraggio in itinere, il grado di raggiungimento della conformità ad atti e regolamenti. 2. Il Controllo di Gestione,verifica le azioni correttive poste in essere dalle singole strutture operative. 3. Il Controllo della Dirigenza, riguarda una valutazione volta a giudicare le prestazioni dirigenziali in relazione alla misurazione degli obiettivi raggiunti e la competenza e capacità organizzativa dei dirigenti in relazione all'azione gestionale svolta e all'utilizzo e sviluppo delle risorse professionali, umane e tecnico-organizzative disponibili. 4. Controllo Strategico, costituisce il supporto del vertice politico per molteplici finalità: la realizzazione dei suoi compiti relativi all'individuazione e trattamento dei bisogni collettivi, il rendere coerente l'attività amministrativa con le mission delle istituzioni e dei risultati attesi delle politiche ed infine il rafforzamento della politica amministrativa delle istituzioni. La stessa impostazione viene estesa agli Enti Locali attraverso il Testo Unico degli Enti Locali nel 2000: 1) Il controllo di regolarità amministrativa e contabile resta finalizzato a garantire la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. 2 del D.lg. 286/99, in virtù del quale tale tipo di controllo è affidato agli organi appositamente previsti nei diversi comparti della Pubblica Amministrazione e, in particolare, gli organi di revisione ovvero gli uffici di ragioneria. Principio cardine del nuovo sistema resta comunque, anche per gli enti locali, la separazione tra le strutture addette al controllo di regolarità amministrativa e contabile da un lato, e dall'altro il controllo di gestione, il controllo strategico e la valutazione della dirigenza. 2) Il controllo di gestione diversamente dalle altre forme di controllo interno, viene compiutamente disciplinato nei suoi principi dagli articoli del T.U.E.L. relativamente alla sua funzione (art. 196), alle modalità applicative (art. 197) ed al contenuto del referto dell'intera attività (art. 198). Pertanto, particolare attenzione deve essere rivolta sia al contenuto della relazione revisionale e programmatica, sia a quello del P.E.G. attraverso il quale si procede ad un'ulteriore graduazione degli obiettivi. 3)Il controllo organizzativo del T.U.E.L, ovvero la valutazione dei dirigenti, ha per oggetto la valutazione della qualità delle risorse umane, ma non ovviamente con riferimento alle persone in quanto tali, bensì alle loro prestazioni e le loro capacità organizzative. 4)Tramite il Controllo strategico sarà possibile monitorare l'efficacia delle scelte politiche con progressivo approfondimento dei livelli di lettura, dal mero riscontro sulla concreta realizzazione delle scelte di indirizzo politico-amministrativo affidate agli assessori, alla determinazione dei costi e tempi di realizzazione dei progetti attuativi delle politiche pubbliche prioritarie in capo alle posizioni organizzative, fino all'analisi di dettaglio, da scheda PEG, sui profili di efficacia temporizzata dei dirigenti e responsabili dei servizi. L'utilità pratica di questo controllo consiste proprio nella facoltà di introdurre degli intereventi correttivi agli obiettivi programmati, rimodulando le scelte ed indirizzando la struttura politico - amministrativa verso questi stessi obiettivi, sulla base di quanto riportato dai reports del controllo di gestione. La ridefinizione delle competenze degli organismi addetti al controllo - i cosiddetti "controllers"- richiama dunque la necessità, per gli Enti Locali, di dotarsi di una rete apposita di strutture, ognuna investita di specifici compiti ed ambiti di intervento, evitando così di concentrare, a carico di un'unica struttura, funzioni concettualmente diverse, alcune di tipo più collaborativo (controllo di gestione, valutazione e controllo strategico), altre, invece, a carattere più adempimentale (controlli di regolarità amministrativa e contabile). L'intervento normativo più importante, che seguì all'emanazione del TUEL, fu la legge costituzionale n.3 del 18 Ottobre 2001, il cui ingresso ha determinato espressamente l'abrogazione delle previsioni costituzionali di controllo preventivo esterno sulla legittimità degli atti degli enti autonomi e in altre parole, ha completamente stravolto l'assetto dei controlli previsto dal testo unico, con la conseguenza che l'intero sistema locale risultasse ora privo di efficaci strumenti di monitoraggio e garanzia sullo svolgimento delle funzioni. Si può realizzare in questo modo un circuito di responsabilità che deve riuscire a legare il controllo "politico" degli elettori nei confronti dei loro rappresentanti, con meccanismi funzionali di autocontrollo della legittimità, del merito e dei risultati dell'azione amministrativa, in funzione anche di possibili misure autocorrettive.È da qui che ha origine l'emanazione della legge n. 131 del 2003, da parte del ministro La Loggia, attuativa della suddetta riforma costituzionale, non a caso intitolata Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 Ottobre 2001, n.3. Il fine era quello di promuovere una revisione dell'intero assetto delle funzioni amministrative e, in particolare, la previsione, nell'ambito della competenza legislativa dello Stato, di una revisione delle disposizioni in materia di enti locali per adeguarle alla legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001. La previsione della legge La Loggia di una definizione statutaria del regime dei controlli interni, valorizza l'autonomia dell'ente, anche ai fini di un arginamento del potere di controllo sostitutivo del governo previsto dall'art.120 della Costituzione. È chiaro che l'intervento dell'Ente nella definizione dei criteri e dei metodi di tutela della legalità attraverso il sistema dei controlli interni dovrà essere sempre rispettoso dei principi di separazione tra poteri di indirizzo e poteri gestionali, e quindi calibrato in modo tale che l'eventuale intervento dell'organo di governo sia strettamente correlato alla segnalazione dell'organo preposto al controllo interno. Da qui la spinta al quadro di adeguamento delineato dalla legge delega n.131 e la spinta a rivedere le disposizioni relative al controllo interno nell'ambito del TUEL anche per adeguarle al diverso sistema di riferimento. La revisione del TUEL tiene conto di questo nuovo assetto e tende, in una qualche misura, ad assecondare lo sviluppo del sistema dei controlli interni, tanto più che in questo quadro si inserirebbe un nuovo ruolo istituzionale della Corte dei Conti, come garante dell'equilibrio generale del sistema economico-finanziario e strumento di coesione e di collaborazione della democrazia locale. Questa sorta di rivoluzione, cha ha riportato l'amministrazione nella sua più propria dimensione non solo di oggetto, ma anche di soggetto del controllo ha, di recente, conosciuto un significativo sviluppo ad opera del d.l. n. 168 del 2004, convertito con l. n. 191/2004, recante "Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica", riportando, oltre che l'introduzione di precise limitazioni di tipo sia economico che procedurale, anche nuovi adempimenti in tema di controlli amministrativi e contabili per Regioni, Province e Comuni sopra i 5000 abitanti.Si tratta però di verificare la compatibilità di tali nuove attribuzioni con il sistema dei controlli interni congegnato dal D.lgs. n. 286/99, con le competenze proprie acquisite dalle strutture e dagli organi preposti ai controlli interni, nonché la ratio che sta alla base della trasmissione del referto del controllo di gestione alla Corte dei Conti. Ciò che più risalta, nel disegno istituzionale delineato, è la configurazione di una nuova statualità, legata alla "Repubblica delle Autonomie", che rappresenta una precisa opzione del sistema italiano per un assetto policentrico delle istituzioni politico-territoriali, con un forte accento sul ruolo e sui poteri delle autonomie infrastatuali di diverso livello, che apre una via ad una sorta di "federalismo all'italiana", senza con ciò far ovviamente riferimento al modello tipico di stato federale.La chiara ridefinzione della disciplina in materia dovrebbe essere l'oggetto di un nuovo "Testo Unico" che proclami superato quello precedente del 2000 ( e che tra l'altro risulta ormai incompatibile con il nuovo quadro costituzionale di riferimento), in attuazione della delega contenuta all'art. 2 della l. n. 131/03 e ormai, tra l'altro, decaduta senza che il governo fosse riuscito a dare tempestivamente corso all'emanazione delle norme delegate.Proprio al fine di soddisfare le richieste in proposito, nel Gennaio 2007, è stata emanata la legge delega n. 389/07 che ha proprio lo scopo di ripristinare la decaduta delega al Governo in materia di enti locali , ovvero promulgare una Carta fondativa dei rapporti tra diversi livelli di Governo, coniugando l'attuazione del Titolo V della Costituzione con il nuovo Codice delle Autonomie . . In questo senso contiene: -La ridefinizione delle funzioni fondamentali degli enti locali per semplificare, ridurre i costi e consentire il controllo da parte dei cittadini ; -La riduzione o la razionalizzazione dei livelli di governo. Ad ogni modo, a questo punto, non resta che aspettare che il Governo colga la delega ed emani il "Codice delle Autonomie", in una versione che sia effettivamente in grado di regolarizzare il funzionamento degli enti, coordinando le varie funzioni individuate senza sovrapposizioni, senza sprechi di risorse e senza quelle incerte ed emblematiche disposizioni che da sempre caratterizzano l'approccio italiano all'internal auditing pubblico. Sebbene sia molto vasto il campo d'applicazione e le tipologie di azioni con le quali attuare i controlli interni, questi da soli non sono sufficienti per il corretto funzionamento di una qualsiasi amministrazione pubblica. Emerge infatti la necessità di un controllo successivo, esercitato da un organo ausiliario sia dello Stato, che delle Regioni e degli enti locali, e finalizzato esclusivamente ad un'attività di referto agli organi assembleari . La misura dell'attività di controllo è costituita dalle relazioni inoltrate agli organi rappresentativi della sovranità popolare. Quindi abbiamo ora e in prospettiva, un robusto sistema di controlli interni, ove si esplica l'autonomia dell'ente, e una tipologia di controllo esterno e successivo esercitato in chiave collaborativa e ausiliaria dalla Corte dei Conti. Uno dei momenti più significativi di tale indirizzo è stata l'emanazione della legge n. 20 del 14 Gennaio 1994 "Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti", finalizzata alla razionalizzazione del sistema dei controlli incentrati sulla Corte dei Conti ed in particolare su: -controlli preventivi di legittimità della Corte; -controllo successivo sulle amministrazioni pubbliche, regionali e locali; -composizione e funzionamento della Corte nell'esercizio delle attività di controllo. L'articolo principale del testo normativo ai fini della disciplina del controllo è stato l'art. 3, il quale ha dettagliatamente elencato quali sono gli ambiti che interessano la Corte, assegnandole l'incarico di svolgere un controllo di tipo preventivo e successivo. Con la pubblicazione della sentenza n. 29 del 1995 della Corte Costituzionale, il compito della Corte, grazie alla legge n. 20/94, diventa quello di svolgere un'attività a carattere eminentemente collaborativo e ausiliario, non atta a vincolare l'autonomia degli enti locali o di qualunque altra istituzione. La legge promuove infatti l'autocontrollo da parte dell'amministrazione pubblica, prevedendo che tutto ciò che dalla Corte verrà considerato irregolare e pertanto segnalato al Parlamento, ai consigli regionali e alla stessa amministrazione interessata, porterà alla formulazione di osservazioni volte a suggerire idee risolutive di miglioramento, lasciando poi all'amministrazione la libertà di decidere le azioni da intraprendere per muoversi nella giusta direzione . Si precisa pertanto che l'attività della Corte è, in questa sede, finalizzata esclusivamente alla redazione e consegna di un referto agli organi assembleari e non ha assolutamente carattere autoritario. La più importante riforma costituzionale mai operata dall'entrata in vigore della stessa Costituzione, tesa ad abrogare gli art. 125 e 130 attraverso la promulgazione della legge costituzionale n. 3 del 2001,sopprime automaticamente il regime legislativo ordinario dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali, nonché gli organi regionali di controllo. Si tratta altresì, di riuscire a realizzare sempre di più una sinergia tra controlli interni ed esterni, senza dimenticare che il sistema degli Enti Locali, non può fare a meno di un controllo della Corte dei Conti, che va inteso, non in senso classico come se la Corte stesse solo aspettando di cogliere l'errore nella gestione altrui, bensì come una forma di verifica sul funzionamento delle amministrazioni e dei loro servizi interni, in una logica di collaborazione e sinergia.A chiarire il complesso, confuso, approssimativo e, per certi versi contraddittorio scenario, ci pensa la legge n. 131/03, che nasce sostanzialmente allo scopo di soddisfare l'esigenza di dare attuazione al nuovo assetto dei poteri locali, derivante dalla riforma del titolo V contenuta nella legge costituzionale n. 3/01. In particolare, l'art. 2 contiene la delega per l'adeguamento della normativa statale alla Costituzione riformata, attribuendo "agli statuti dei comuni e delle province la potestà di individuare i sistemi di controllo interno, nonché i principi fondamentali dell'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali ai fini dell'attivazione degli interventi previsti dall'art 119 Cost." e si prevede inoltre che vengano mantenuti fermi "i sistemi di controllo sugli organi degli enti locali". In pratica, viene riconosciuta la centralità e la potestà statutaria, e quindi, il potere normativo degli enti locali, attestandosi sulla prevalente linea di tendenza che lascia che siano gli stessi enti ad organizzare e disporre le norme in merito ai controlli interni.Ciò che si evince dal susseguirsi delle disposizioni in merito ai compiti della Corte è sicuramente la compatibilità con il suo ruolo tradizionale di garante dell'Erario e organo ausiliario all'assunzione di consapevoli decisioni da parte degli enti rappresentativi delle comunità, pur marcando in maniera decisiva la relazione che necessariamente deve sussistere tra la sua funzione e l'autonomia degli enti, governata in primis da un rapporto di collaborazione.Tuttavia, l'insieme delle norme finora analizzato, pone una serie di problematiche in ordine alla compatibilità con il sistema delle autonomie locali, soprattutto alla luce delle recenti tesi federaliste che tendono ad equiordinare lo Stato alle Regioni e agli enti locali.il disegno normativo dei controlli della Corte per gli enti d'autonomia, s'è completato con la legge finanziaria per il 2006 , che ha posto a carico degli organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali e degli enti del servizio sanitario nazionale, l'obbligo di trasmettere alle Sezioni regionali di controllo relazioni sul bilancio preventivo e sul rendiconto, predisposte sulla base di criteri definiti unitariamente dalla Corte e rivolte a dar conto, non solo del rispetto degli obiettivi posti dal patto di stabilità e del limite costituzionale al ricorso dell'indebitamento, ma anche di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria in ordine alla quale l'amministrazione non abbia adottato gli interventi correttivi segnalati dall'organo interno di revisione.La direzione verso la quale ci si muove con questo provvedimento è quella di dare concretezza ad un compito che già l'art. 7 della legge La Loggia attribuiva alla Corte dei Conti. Questo tipo di controllo risponde dunque a una duplice esigenza: - i bilanci ed i rendiconti devono essere redatti secondo il rispetto sostanziale, non solo formale, dell'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali e secondo i principi contabili emanati dall'Osservatorio; - deve essere salvaguardato il rispetto delle norme di finanza pubblica concernenti il patto di stabilità, i vincoli dell'indebitamento e gli equilibri di bilancio. Tuttavia, Come se la situazione e la disciplina della Corte dei Conti in merito ai controlli esterni non fosse gia sufficientemente ricca di incongruenze e lacune, ecco che con la legge finanziaria statale per il 2007 si introduce, nello scenario dei controlli sugli enti locali, un nuovo istituto, appunto denominato "Unità di Monitoraggio".Le competenze spettanti alla nuova unità, riguarderanno: -la valutazione della ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento delle misure premiali previste dalla normativa vigente per gli enti locali; -la verifica delle dimensioni organizzative ottimali degli enti locali medesimi. Sono evidenti a questo punto, tanto le sovrapposizioni tra le funzioni di controllo della Corte e quelle dell'Unità di Monitoraggio, tanto le future problematiche che scaturiranno da una disposizione di questo tipo sul sistema delle autonomie locali, soprattutto dal punto di vista dei controlli esterni. Nello scenario Europeo, il primo passo è senz'altro determinato dall'emanazione del "Libro Bianco: La Riforma della Commissione", un documento emanato allo scopo di rivedere l'assetto organizzativo della stessa Commissione Europea, alla luce della necessità di un'organizzazione moderna che consenta il raggiungimento degli obiettivi prefissati attraverso i vari trattati.L'idea che s'intende portare avanti con la riforma, è quella di decentrare nelle DG le attività di controllo che al momento sono assegnate al controllore finanziario della Commissione, in modo che siano i direttori generali gli unici responsabili dell'esecuzione dei controlli interni nei loro servizi e i dirigenti lo siano a loro volta, delle decisioni finanziarie adottate.Altro presupposto è poi dato dalla redazione di un rapporto annuale da parte del direttore generale nel quale si attesti che i controlli interni siano stati posti in essere in maniera adeguata e che pertanto le risorse siano state impiegate in maniera strumentale al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Le norme, le procedure finanziarie e le norme minime relative ai controlli interni nelle DG, saranno emanate da un Servizio Finanziario Centrale, che avrà inoltre l'obbligo di fornire consulenza sulla loro applicazione ai servizi operativi della Commissione.Accanto a questo nuovo servizio, verrà inoltre adottato un Servizio di Audit Interno, che faciliti la gestione della riforma all'interno della Commissione.Ma la semplice adozione di un sistema di auditing interno non è sufficiente per assicurarne il corretto funzionamento, e viene perciò previsto un Comitato di Vigilanza per l'Audit, che si occupi di sorvegliare: 1)Lo svolgimento dei controlli alla Commissione sulla base dei risultati degli audit presentati dal Servizio di Audit Interno e dalla Corte dei Conti. 2)L'attuazione delle raccomandazioni emerse dagli audit. 3)La qualità delle operazioni di audit. La prima parte del Libro Bianco mette in evidenza obiettivi e linee guida da seguire per adottare la riforma, la seconda parte invece definisce nel concretole azioni da porre in essere. in particolare prevede sette sottosezioni: 1.Poteri e responsabilità degli ordinatori e dei dirigenti 2.Creazione di un servizio centrale di audit interno 3.Creazione di un Servizio Finanziario Centrale 4.Gestione e controllo finanziario all'interno delle direzioni generali 5.La fase transitoria 6.Risorse umane e formazione 7.Protezione degli interessi finanziari della Comunità. Pochi mesi dopo la pubblicazione del Libro Bianco sulla Riforma della Commissione, ci si rese conto che fosse necessaria una nuova comunicazione che rendesse più chiari alcuni degli aspetti cruciali della riforma, soprattutto in merito alla previsione della nuova funzione di internal auditing, molto più conosciuta a livello privatistico e adesso, per la prima volta, inserita nello scenario di un'istituzione pubblica. A tal fine venne emanata la comunicazione dal titolo Conditions for the provision of an internal audit capability in each Commission service , con la quale si posero le condizioni ai fini dell'attuazione dell'az. 81 del Libro Bianco in merito alla costituzione di una Funzione di Internal Auditing . Ne è prevista la costituzione in tutte le DG della Commissione , specificandone gli obiettivi, cosi schematicamente rappresentabili: 1)Assistere il direttore generale all'interno del DG in materia di controllo dei rischi e monitoraggio dell'adesione; 2)Fornire un'opinione indipendente e obiettiva sulla qualità della direzione e del sistema di controllo interno; 3)Fare delle raccomandazioni riguardo l'aumento dell'efficacia e dell'efficienza delle operazioni ed assicurare l'economicità nell'uso delle risorse della DG. La portata innovativa del concetto di internal audit, sta nel fatto che esso non debba essere visto come una mera attività di controllo, così come tradizionalmente recepito, bensì come uno strumento attraverso il quale sia possibile proporre soluzioni che aiutino a fronteggiare i cambiamenti, ad armonizzare l'Istituzione e a renderla al contempo più efficiente. Una volta definite con sufficiente chiarezza condizioni, obiettivi e strumenti con i quali implementare la Funzione di Internal Audit, resta da chiarire l'ambito delle responsabilità dei vari attori chiave del controllo interno e dell'internal audit, a livello globale ma anche a livello di singola Direzione Generale. Nel Gennaio del 2003 venne emanata infatti, una nuova comunicazione dal titolo Clarification of the responsabilities of the key actors in the domain of internal audit and internal control in the Commission , allo scopo di chiarire i ruoli dei vari soggetti coinvolti nell'ambito del controllo interno e dell'internal audit, tenuto conto di quelli che sono gli orientamenti di base dati dal Libro Bianco: Riformare la Commissione, e le nuove disposizioni dettate dal Financial Regulation , di più recente emanazione(art. 85,86 e 87). Alla luce dell'orientamento che aveva preso l'evoluzione dei controlli interni a livello comunitario, nel 2004 si è pronunciata la Corte dei Conti delle Comunità Europee che, ha espresso un suo parere in merito ai risultati conseguiti dall'Unione al termine dell'anno 2003.I contenuti di tale documento possono essere sintetizzati in termini di una valutazione complessivamente positiva, tuttavia, sono state mosse al contempo delle critiche in merito ad alcuni aspetti dei quadri di controllo esistenti nei vari settori del Bilancio. Gli aspetti negativi fanno riferimento a: -Obiettivi -Mancanza di coordinamento -Mancanza di informazione sui costi e sui benefici -Applicazione incoerente Secondo il parere della Corte, è evidente che la Commissione debba intervenire nuovamente per creare un quadro di controllo interno unitario, che riguardi tutta la Comunità, e che sviluppi i sistemi di controllo interni esistenti e ne crei al contempo dei nuovi, basandosi su concetti comuni e finalizzandoli a un impiego trasparente e ottimale delle risorse.Tale valutazione viene riportata all'interno di una nuova comunicazione pubblicata nel Giugno del 2005, dal titolo < , i cui contenuti si basano essenzialmente, sull'analisi svolta dalla Commissione in merito all'individuazione dei punti deboli nella situazione attuale e le relative proposte di miglioramento, insieme alle azioni richieste per attuare un quadro di controllo adeguato, nell'ambito delle norme in vigore. Ciò che ci si aspetta dagli Stati membri è comunque molto di più di una semplice collaborazione: ciascuno Stato dovrebbe preoccuparsi di revisionare il proprio sistema di controllo finanziario per mettere fine alle carenze in esso riscontrate. Un sistema come quello attuale, che verta solo su una corretta impostazione dei controlli all'interno della Commissione, non risolve le problematiche alla loro origine, nell'ambito delle attività che sono svolte dai singoli Stati membri e le responsabilità per le decisioni che non spettano alla Commissione. Nel Gennaio del 2006 viene pubblicata dalla Commissione una nuova Comunicazione, che include un piano d'azione verso un quadro di controllo interno integrato . Se con la prima comunicazione, infatti, si erano delineate le proposte finalizzate ad ottenere un controllo intergrato tra i vari sistemi, con questa, che è la più recente, si vogliono raggiungere molteplici finalità: - Riferire in merito alle azioni adottate sulla base degli obiettivi fissati nella comunicazione di Giugno; - Esaminare le principali carenze individuate grazie anche alla relazione annuale della Corte dei Conti del 2004; - Individuare le principali azioni concrete da attuare e il ruolo che il Consiglio, gli Stati membri e il Parlamento europeo dovrebbero svolgere per conseguire un quadro di controllo interno integrato affidabile e funzionante, che dia affidabilità alla Commissione e, da ultima alla Corte dei Conti. Lo scenario così configurato a livello europeo, riguarda un ordinamento normativo destinato alle Istituzioni dell'Unione, in particolare alla Commissione, lasciando a ciascun Stato membro la discrezione necessaria per la sua riforma interna, che sia in linea con le aspettative e le previsioni contenute nelle norme europee. uno degli interventi più importanti posti in essere è stato quello di predisporre degli standard minimi di controllo interno, che fossero validi in tutte le DG della Commissione e che dessero vita ad un contesto uniforme di principi in materia di controllo interno, vista la scelta di non imporre una struttura organizzativa dei controlli uguale per tutti. La prima versione è stata pubblicata nel 2000 e, al suo interno, si fa riferimento a 5 elementi chiave, che diventano gli ambiti entro i quali svilupare i relativi standard: 1.Ambiente di controllo 2.Prestazioni e gestione del rischio 3.Informazione e comunicazione 4.Attività di controllo 5.Revisione e valutazione Per il 2001 fu dunque prevista l'applicazione di questi principi, riservandosi la possibilità dopo un anno di rivedere ciascuno di questi e, nel caso, modificarli. E cosi fu fatto di anno in anno, modificando di volta in volta gli aspetti meritevoli di maggiori chiarificazioni alla luce dei risultati ottenuti attraverso il monitoraggio che segue l'adozione degli standard. A questo punto, la loro disposizione sembra sia stata utile a creare un sistema solido ed efficiente, che sia in grado di dare il suo contributo ad una sana gestione della Commissione e nel complesso, di tutta la comunità. Tuttavia, non dimentichiamo la necessità di una collaborazione tra tutti i componenti della stessa Comunità, non solo a livello di singola unità strutturale, ma in senso più esteso con riferimento agli Stati membri.
Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere. Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere.
2009/2010 ; Lo scopo di questa ricerca di dottorato è l'analisi geopolitica di una regione transfrontaliera dell'Asia centrale: la valle del Fergana. Tre anni di ricerca sul campo: l'analisi delle frontiere di questa regione attualmente divisa politicamente tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, la cartografia analitica, le osservazioni, le interviste alla popolazione e agli esperti, la ricerca nelle biblioteche della regione, nella capitale dell'Uzbekistan, Tashkent (presso l'Istituto Francese di Studi sull'Asia centrale – IFEAC) e la ricerca svolta in Francia principalmente presso l'Istituto Francese di Geopolitica (IFG) e la Biblioteca Nazionale di Francia (BNF), sono gli strumenti che hanno permesso lo studio di questo territorio. Il principale obiettivo del lavoro è l'analisi delle rivalità di potere della valle del Fergana. Grazie alla sua fertilità e alla sua importante posizione strategica all'interno del contesto geopolitico centrasiatico, il bacino del Fergana è stato e continua tuttora ad essere una posta in gioco ambita da differenti attori territoriali. La rivalità di potere tra i diversi attori si gioca soprattutto sullo scenario transfrontaliero della regione. Il secondo scopo di questa ricerca è la presentazione e la valutazione di un particolare attore territoriale della valle, il Regionalismo culturale. La parte introduttiva della ricerca si concentrerà su una presentazione del contesto centrasiatico e sulle peculiarità derivanti dalle sue frontiere. In seguito verrà introdotta la "posta in gioco" Fergana con le sue risorse fisiche ed economiche al fine di legittimare l'importanza del territorio. Infine l'introduzione si concluderà con la teoria geopolitica: il perché della scelta della scuola di geopolitica del geografo francese Yves Lacoste per questa ricerca e una prima analisi dello spazio Fergana come regione divisa tra confine e frontiera. Il lavoro è strutturato in due grandi parti. La prima, più teorica, è relativa all'analisi dei tre attori territoriali. Le rappresentazioni dei differenti attori che verranno presentate, non seguiranno un ordine cronologico, ma un ordine concettuale: eventi simultanei verranno dunque analizzati non nello stesso momento, perché relativi a rappresentazioni differenti del territorio Fergana. Il primo capitolo è consacrato all'attore Nazione. Con questa espressione si intende non solo l'attore Stato-Nazione in sé, o meglio gli Stati-Nazione (Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan), ma anche la Nazione come idea, come politica nazionalistica applicata ad un territorio. La valle del Fergana è diventata una regione transfrontaliera da quando, negli anni '20, fu divisa tra i tre Stati, allora all'interno della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Negli anni '90, in seguito alla caduta dell'URSS, il Fergana divenne una regione divisa da frontiere non più interne ma internazionali. Questo capitolo ha come scopo l'analisi di tutte le rappresentazioni dell'attore Nazione per quanto riguarda il contesto Fergana, dalla sua nascita (anni '20) fino all'indipendenza delle Repubbliche (anni '90). Sicuramente la rappresentazione più importante da analizzare è quella della creazione delle sue frontiere. L'attore Nazione è senza dubbio l'attore geopolitico più importante anche perché quello più legittimato in questo contesto territoriale. Il capitolo approfondirà anche le relazioni tra i differenti Stati-Nazione che rappresentano allo stesso tempo: un unico attore (contro la Religione e il Regionalismo culturale) e tre attori differenti quando competono tra loro per il territorio Fergana. Il secondo attore è la Religione. La valle del Fergana è una delle aree centrasiatiche più credenti e praticanti e la religione islamica ha sempre avuto un ruolo importante nella gestione della società ferganiana. Verrà proposta un'analisi di tutte le rappresentazioni della religione nel Fergana: il sufismo autoctono con un'analisi sulla geografia sacra dei luoghi ferganiani importanti per questa corrente dell'Islam; l'Islam tradizionale del periodo sovietico, divenuto un'arma legale utilizzata da Mosca per combattere l'ortodossia religiosa sufi del Fergana; il fondamentalismo wahabbita degli ultimi anni importato dall'Afghanistan, dal Pakistan, dall'Arabia Saudita, come conseguenza dell'invasione sovietica dell'Afghanistan del 1979 e dunque in seguito all'incontro tra i musulmani sovietici e i mujaheddin afgani. In seguito verrà analizzato come le differenti varianti dell'attore Religione si sono opposte, negli anni, all'attore Nazione per il controllo del potere e delle risorse del territorio Fergana. Un fenomeno particolarmente analizzato sarà la politicizzazione dell'attore Religione e come questa politicizzazione ha portato l'attore in questione ad essere l'elemento protagonista di numerosi eventi nel Fergana. Il terzo attore è il Regionalismo culturale. Con questa espressione si fa riferimento all'identità geo-culturale di questo insieme regionale che persiste nonostante le pressioni nazionalistiche e religiose. La valle del Fergana è sempre stata un insieme geografico, politico, sociale, malgrado negli ultimi secoli la sua popolazione si è sempre distinta per il suo alto livello di multietnicità e di disomogeneità linguistica. Questo però, non ha impedito un'amalgamazione sociale di tale popolazione che ha sempre considerato la multietnicità come la normalità e ha sempre attribuito ad ogni "etnia" un ruolo sociale integrato all'interno del sistema Fergana. Popolazioni di lingua e cultura persiana e sedentaria e popolazioni di lingua e cultura turca, sedentaria o nomade hanno sempre condiviso, ognuna con il proprio ruolo sociale, una vita comunitaria all'interno della regione e questa è sicuramente la caratteristica principale del Regionalismo culturale del Fergana. Questo equilibrio cambiò con la perdita di sovranità politica della regione, con l'istituzione dei nazionalismi e la conseguente spartizione della regione tra tre dei cinque nuovi Stati nazionali dell'Asia centrale sovietica. In questo capitolo verranno analizzate le principali rappresentazioni nel tempo dell'attore Regionalismo culturale e come esso si sia opposto agli altri attori territoriali, soprattutto all'attore Nazione. La seconda parte di questo lavoro è stata dedicata all'impatto che gli attori territoriali hanno oggi nella valle del Fergana, soprattutto nelle sue aree di frontiera. Questa parte è il risultato delle interviste e delle osservazioni sul campo effettuate in Asia centrale e in particolare nel Fergana nelle spedizioni del 2007, 2009 e del 2010. Nel primo capitolo verrà analizzata la frontiera di questa regione dal punto di vista teorico, in particolar modo con l'analisi del Fergana come" prima o ultima linea di difesa". Nel secondo capitolo, all'interno di un contesto di base: la differenza tra la frontiera all'epoca sovietica e all'epoca dell'indipendenza, ci sarà un approfondimento della definizione di frontiera centrasiatica, l'esame della burocrazia di frontiera, del posto di blocco e dei documenti del soggetto transfrontaliero. Saranno trattate, inoltre, le tematiche relative alle relazioni commerciali transfrontaliere, come i "tre" Fergana riescono ancora ad interagire malgrado la crescente rigidità delle frontiere e verranno studiate le relazioni sociali transfrontaliere sempre all'interno del panorama ferganiano di oggi. In questo contesto, verranno considerate le interviste svolte nel Fergana, le opinioni riguardo le difficoltà di passaggio e di comunicazione nella valle ed analizzeremo la presenza dei tre attori geopolitici che tuttora giocano un ruolo fondamentale nelle relazioni e nei conflitti di frontiera. Il terzo capitolo sarà dedicato ai centri urbani del Fergana; la loro storia, il rapporto dei ferganiani con le città e soprattutto le rappresentazioni interne ed esterne che i centri urbani hanno assunto all'interno di una regione oggi del tutto transfrontaliera. Il quarto capitolo si concentrerà sulle evoluzioni demografiche della popolazione: il Fergana, che durante gli anni zaristi e sovietici era terra di immigrazione, con l'indipendenza e dunque con la concretizzazione delle frontiere, si ritrova terra di emigrazione. Il quinto capitolo sarà dedicato al Fergana delle infrastrutture: come la strada ferrata e la rete stradale influiscono e sono influenzate dalle mutazioni frontaliere di questa regione. Il sesto capitolo riprenderà degli interrogativi teorici posti all'inizio del lavoro, con un analisi conclusiva sull'odierno "Fergana delle frontiere". La conclusione di questa ricerca, in realtà, è una vero e proprio capitolo di analisi, dove si farà il punto della situazione e si constaterà la persistenza dell'attore Regionalismo culturale, la sua evoluzione e il suo rapporto attuale con gli altri attori geopolitici. Un punto di arrivo fondamentale della ricerca è il fatto che la regione Fergana è cambiata, sotto differenti punti di vista e la popolazione ferganiana ha nuovi punti di riferimento culturali, politici e sociali. Differenti forme politiche e nuove strutture culturali hanno portato la popolazione del Fergana, nel tempo, a mutare la propria immagine e la propria identità: "russa, musulmana, ferganiana", in seguito "sovietica, uzbeca (o tagica o kirghiza), atea, ferganiana" e infine "uzbeca (o tagica o kirghiza), laica, ferganiana". Il territorio, le sue frontiere e la società che lo abita sono cambiati, ma vedremo che, nonostante i forti ostacoli posti dall'attore Nazione, il Regionalismo culturale riuscirà a sopravvivere, adattandosi alle nuove tendenze e ai nuovi modi di interpretare il Fergana. Come ultimo studio sul territorio, faremo degli esempi riguardanti gli eventi più recenti concernenti il Fergana (massacro di Andijan nel 2005, scontri ad Osh nel giugno 2010) ed analizzeremo questi fenomeni alla luce delle rivalità di potere geopolitiche che ancora persistono nella regione. ; Cette thèse de Doctorat propose une analyse géopolitique d'une région transfrontalière de l'Asie centrale, la vallée du Ferghana, aujourd'hui divisée entre les Républiques d'Ouzbékistan, du Tadjikistan et du Kirghizistan. Des séjours sur le terrain répartis sur trois ans ont constitué la base de la recherche, au travers de l'analyse des frontières, de la cartographie analytique, d'entretiens qualitatifs avec experts et habitants, et de recherches bibliographiques dans le Ferghana ainsi que dans la capitale ouzbèke Tachkent – notamment près l'Institut Français d'Etudes sur l'Asie Centrale (IFEAC). Ces périodes de terrain ont été complétées par un séjour de recherche en France, articulé principalement autour d'un approfondissement théorique à l'Institut Français de Géopolitique (IFG) de l'Université Paris VIII-Vincennes et de recherches bibliographiques à la Bibliothèque Nationale de France. L'objet de ce travail est donc l'analyse des rivalités de pouvoir entre les acteurs territoriaux sur l'enjeu territorial de la vallée du Ferghana, bassin fertile à la position stratégique dans le contexte géopolitique centrasiatique élargi. Si le Ferghana a toujours constitué un enjeu disputé par différents acteurs territoriaux, les rivalités des acteurs actuels jouent aujourd'hui surtout au niveau frontalier et transfrontalier. Ce faisant, cette thèse introduit un nouvel acteur dans le schéma d'analyse géopolitique classique: le Régionalisme culturel. Le Régionalisme culturel en tant qu'acteur territorial y fait donc l'objet d'une présentation approfondie ainsi que d'une évaluation de son importance passée et actuelle. Concentrée d'abord sur le contexte centrasiatique et les particularités qui découlent de ses frontières, l'introduction présente ensuite « l'enjeu » Ferghana et ses ressources physiques et économiques, qui expliquent l'importance de ce territoire. Elle se poursuit sur un rapide point théorique sur la géopolitique et la justification du choix de l'école de pensée géopolitique de Yves Lacoste comme cadre théorique de cette recherche, avant de s'achever sur une première analyse de l'espace Ferghana à l'aune des catégories de frontières et de confins. La thèse est structurée en deux grandes parties. La première, à dominante théorique, analyse à tour de rôle les trois acteurs territoriaux qui rivalisent pour le pouvoir sur le Ferghana: il s'agit de la Nation, de la Religion, et du Régionalisme culturel. La présentation des acteurs, de leurs différentes incarnations et de leurs représentations respectives du territoire ferghanien sont ainsi abordés selon un ordre conceptuel ; des évènements s'étant produits simultanément ne sont ainsi pas analysés chronologiquement mais séparément, en tant qu'ils se rapportent aux acteurs évoqués. Le premier chapitre est consacré à l'acteur Nation. Par cette expression nous entendons non seulement l'entité effective Etat-Nation et ses trois incarnations (Ouzbékistan, Tadjikistan, Kirghizistan), mais aussi la Nation comme idéologie qui agit sur le territoire au travers de politiques nationalistes. La force de légitimation de l'acteur Nation n'est pas étrangère à l'accroissement de son importance sur ce territoire, qui l'a sans aucun doute mené au sommet de la hiérarchie des acteurs géopolitiques dans cette région. Ce chapitre analyse les représentations du Ferghana définies et mises en oeuvres par l'acteur Nation depuis son apparition dans les années 1920. La vallée du Ferghana est en effet devenue une région transfrontalière à cette époque, avec son intégration à l'Union des Républiques Socialistes Soviétiques (URSS) et sa partition entre trois des cinq Républiques Socialistes Soviétiques nouvellement créées en Asie Centrale. Dans les années 1990, avec la chute de l'URSS et l'indépendance des trois Républiques, les frontières qui divisaient le Ferghana ne sont plus simplement internes, mais deviennent bel et bien internationales. Parmi les représentations majeures qui font l'objet d'une étude dans ce chapitre, une attention particulière est portée aux frontières nationales, leur création et leur évolution. Le chapitre s'intéresse également aux relations entre les différents Etats-Nations, qui constituent un acteur unique lorsqu'ils rivalisent contre les autres acteurs territoriaux – la Religion et le Régionalisme culturel – mais aussi trois acteurs différenciés lorsqu'ils se disputent le territoire Ferghana entre eux. Le deuxième chapitre est consacré au deuxième acteur territorial, la Religion. La vallée du Ferghana est l'une des régions d'Asie centrale les plus croyantes et pratiquantes, et la religion islamique y a toujours eu un rôle important dans la gestion de la société. Ce chapitre propose d'abord une analyse des représentations de la religion dans le Ferghana : le soufisme autochtone et la "géographie sacrée" des hauts lieux de ce courant de l'Islam dans le Ferghana ; l'Islam traditionnel de la période soviétique, devenu une arme légale utilisée par Moscou pour combattre l'orthodoxie soufie du Ferghana ; le fondamentalisme wahabbite récemment apparu, importé d'Afghanistan, du Pakistan et d'Arabie Saoudite à la suite de l'invasion de l'Afghanistan par les Soviétiques en 1979 et de la rencontre qui s'en est ensuivie entre les musulmans soviétiques et les moudjahiddines afghans. Ensuite est examinée la manière dont les différentes variantes de l'acteur Religion se sont opposées, au cours des années, à l'acteur Nation pour le contrôle du pouvoir et des ressources du territoire Ferghana. Nous y voyons comment la rivalité géopolitique entre deux acteurs varie du tout au tout selon que l'on parle de l'acteur Nation au cours de la période Soviétique ou bien au cours de l'ère ayant succédé à l'indépendance. Une attention particulière est portée au phénomène de politisation de l'acteur Religion et à la manière dont cette politisation a amené la Religion à assumer un rôle de protagoniste dans de nombreux évènements du Ferghana. Le troisième acteur est le Régionalisme culturel. Avec cette expression nous faisons référence à l'identité géo-culturelle de cet ensemble régional, qui persiste malgré les pressions nationalistes et religieuses. Car aussi loin que remonte son existence en tant que lieu, la vallée du Ferghana a toujours constitué un ensemble géographique, politique et social à part entière. Bien que sa population se soit distinguée au cours des derniers siècles par une grande multiethnicité et hétérogénéité linguistique, cela n'a pas empêché un amalgame sociétal de cette population qui a toujours considéré la multiethnicité comme normale, et toujours a attribué à chaque « ethnie » un rôle social déterminé au sein du système Ferghana. Qu'elles soient de langue et de culture persane et sédentaire, de langue et de culture turque et sédentaire, ou bien de langue et de culture turque et nomade, ces populations ont toujours partagé, chacune dans son propre rôle social, une vie communautaire au sein de la région, et ce phénomène est la caractéristique principale de ce que nous appelons le Régionalisme culturel du Ferghana. Cependant, cet équilibre change avec la perte de souveraineté politique de la région, l'avènement du nationalisme sous l'action de l'URSS, et la partition de l'espace entre trois Etats nations de l'Asie centrale soviétique. Ce chapitre analyse ainsi les principales représentations de l'acteur Régionalisme culturel au cours du temps, et comment il s'est opposé aux autres acteurs territoriaux, en particulier à l'acteur Nation. La seconde partie de ce travail est dédiée aux manifestations actuelles des acteurs territoriaux dans la vallée du Ferghana, plus spécialement dans ses zones de frontière. Cette partie est le résultat des entretiens et des observations de terrain réalisés en Asie centrale et dans le Ferghana au cours de séjours en 2007, 2009 et 2010. Le premier chapitre analyse la frontière de cette région du point de vue théorique, à la lumière notamment des catégories géostratégiques de "première ligne de défense" ou "dernière ligne de défense". Dans le contexte d'une modification de la frontière entre l'époque soviétique et celle de l'indépendance, le deuxième chapitre approfondit la définition de frontière centrasiatique, au travers principalement de l'analyse de la bureaucratie de frontière, des postes de contrôle et des documents requis pour le passage de la frontière. Les thématiques liées aux relations commerciales transfrontalières y sont examinées : comment les "trois" Ferghana parviennent encore à interagir malgré la rigidité croissante des frontières, quelles relations sociales transfrontalières subsistent au sein du Ferghana d'aujourd'hui. Les entretiens qualitatifs réalisés dans le Ferghana jouent un rôle majeur pour recenser les difficultés de passage et de communication dans la vallée et déceler, dans les descriptions et jugements recueillis, la présence des trois acteurs géopolitiques qui toujours jouent un rôle fondamental dans les relations et conflits de frontière. Le troisième chapitre est dédié aux centres urbains du Ferghana : leur histoire, le rapport que les Ferghaniens entretiennent avec eux, et surtout les représentations internes et externes que les centres urbains assument au sein d'une région désormais tout à fait transfrontalière. Le quatrième chapitre se concentre sur les évolutions démographiques de la population. Jusque là terre d'immigration tout au long des années tsaristes et soviétiques, le Ferghana est devenu une terre d'émigration avec l'indépendance et la concrétisation des frontières. Le cinquième chapitre s'intéresse au Ferghana des infrastructures, notamment les réseaux ferré et routier, et leur rapport d'influence réciproque mutations frontalières de cette région. Le sixième chapitre reprend les interrogations théoriques posées dans l'introduction et développe une analyse conclusive sur le Ferghana des frontières aujourd'hui. La conclusion de cette recherche dresse le bilan actuel du Ferghana et des rapports entre les différents acteurs géopolitiques, et observe la persistance de l'acteur Régionalisme culturel. Force est de constater l'existence de changements dans la région Ferghana à différents points de vue. La population ferghanienne dispose de nouveaux cadres de référence culturels, politiques et sociaux qui ont pris une importance majeure. Des nouvelles formes politiques et de structures culturelles ont eu un impact sur son image d'elle-même, sur son identité: "russe, musulmane,ferghanienne", puis "soviétique, ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), athée, ferghanienne", et enfin "ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), laïque, ferghanienne". Cependant, bien que le territoire, ses frontières et la société qui l'habite aient changé, et malgré les obstacles forts posés par l'acteur Nation, que Régionalisme culturel a réussi à survivre, en s'adaptant aux nouvelles tendances et aux nouveaux modes d'interprétation du Ferghana. La conclusion s'achève sur les évènements les plus récents du Ferghana; massacre d'Andijan en 2005 et affrontements à Osh en juin 2010, qui sont analysés à la lumière des rivalités de pouvoir géopolitique qui persistent encore dans la région. ; This PhD dissertation proposes a geopolitical analysis of a centrasiatic transborder region, the Ferghana Valley, which is today divided between the Republics of Uzbekistan, Tajikistan and Kyrgyzstan. A basis of the research, field trips spread over the past three years enabled the development of instruments such as border analysis, analytical cartography, qualitative interviews with experts and inhabitants, and bibliographical research in the Ferghana as well as the Uzbek capital city Tashkent – noticeably at the French Institute for Central Asian Studies (IFEAC). As a complement to the field trips in Central Asia, a research period in France permitted both a consolidation in geopolitical theory at the French Institute of Geopolitics (IFG) of the University of Paris 8-Vincennes, and additional bibliographical research at the French National Library (BNF). The topic of the research is hence the analysis of power rivalries between "territorial actors" over the "territorial stake" of the Fergana Valley, a fertile basin of strategical location within the larger geopolitical context of Central Asia. Always a stake disputed by various territorial actors over time, the Fergana Valley now experiences power rivalries from contemporaneous territorial actors first and foremost on the border and transborder levels. By doing so, the dissertation introduces a new actor in the classical geopolitical pattern of analysis: the cultural regionalism. The dissertation hence offers a detailed presentation of the cultural regionalism as well as an evaluation of its past and current importance. First focusing on the centrasiatic context and the peculiarities which stem from its borders, the introduction presents the "stake" Fergana and its economic and physical resources which explain its importance as a territory. A rapid summary of the theory of geopolitics follows, with the justification of the choice of the French Lacostian school as the theoretical frame of this work. The introduction closes on a first analysis of the Fergana as a space of border or frontier. The thesis is structured in two main parts. The first, more theoretical, analyses each of the three territorial actors which aim for power over the Fergana: the Nation, the Religion, and the Cultural Regionalism. The presentation of the actors, of their respective embodiments and of their manifestations within the ferganian territory is organised according to a conceptual rationale; events that occurred simultaneously are thus not considered following a chronological order, but separately, according to their respective relations with the actors evoked. The first chapter focuses on the actor Nation. By this word we understand not only the effective entity of the Nation-State, and its three embodiments (Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzstan), but also the Nation as an ideology which acts upon the territory through nationalistic policies. The force of legitimation of the actor Nation did certainly not have a neutral role in the rise of this actor in the Ferganian landscape, a process which led the Nation to the top of the geopolitical actors' hierarchy in the region. This chapter also analyses the representations of the Fergana which are defined and implemented by the actor Nation since its birth in the 1920s. In fact, the Fergana valley first became a transborder region only in these years, through its integration to the Union of the Socialist Soviet Republics (USSR) and its partition between three of the five newly created Socialist Soviet Republics in Central Asia. In the 1990s, following the fall of the USSR and the independence of the three Republics, the borders which divided the Ferghana stopped being only internal, but became real and proper international borders. Among the main representations that this study looks at, a particular attention is devoted to the study of the national borders , their creation and their evolution. The chapter also looks at the relations between the different Nation-States, which form a unique actor when they rival against the other territorial actors – the Religion and the Cultural Regionalism –, but three well different ones when they rival among themselves. The second chapter concentrates upon the second territorial actor, the Religion. The Fergana valley is one of the most pious and practicing region of Central Asia, and the Islamic religion always played a major role in the society's administration and organization. The chapter proposes first an analysis of the religion's representations in the Fergana: the autochthonous sufism and its sacred geography within the Fergana valley ; the traditional Islam of the soviet times, which became a legal weapon used by Moscow to fight the sufi orthodoxy in the Fergana ; the recently appeared wahabbite fundamentalism, imported from Afghanistan, Pakistan and Saudi Arabia following the Soviet invasion of Afghanistan in 1979 and the encounter it induced between the soviet muslims and the afghan mujaheddins. It is then examined how the different variations of the actor opposed themselves to the actor Nation, over the years, for the control over the power and the resources of the Fergana. We look at how the geopolitical rivalries vary dramatically from the soviet era to that of the independence. A special attention is devoted to the phenomenon of politization of the actor Religion and the way this led the Religion to endorse a role of protagonist in many of the Fergana's events. The third actor is the Cultural Regionalism. It is hereby referred to the geo-cultural identity of this regional entity, which persists in spite of nationalistic and religious pressures. In fact, as long as the Fergana has existed as a place, it has always constituted a geographical, political and social whole. Although its population has been characterized during the past centuries by high levels of multiethnicity and linguistic heterogeneity, this did not prevent the societal amalgamation of populations which always held multiethnicity as normality, and always attributed to each "group" a specific social role within the system Fergana. Be they of language and culture persian and sedentary, turk and sedentary or turk and nomadic, these populations always shared, each in its own social role, a common life within the region. This very phenomenon is the main characteristic of what we call the Cultural Regionalism of the Fergana. However, this equilibrium changes with the loss of political sovereignty of the region and the rise of nationalism under the soviet sovereignty. This chapter analyzes the main representation of the actor Cultural Regionalism over time, and how it took stand against the other territorial actors, especially the Nation. The second part of the dissertation as dedicated to the current manifestations of the territorial actors in the Fergana valley, particularly in its border zones. This part results from the interviews and field observation undertaken in Central Asia and the Fergana in 2007, 2009 and 2010. The first chapter analyzes the border of this region from a theoretical point of view, especially in the light of the geostrategical categories of "first line of defence" or "last line of defence". In the context of a transformation of the border from the soviet era to that of the independence, the second chapter explores the definition of the centrasiatic border, mainly through the analysis of border bureaucracy, control posts and documents required to cross the border. The chapter looks at themes connected to the commercial transborder relations : how the "three" Fergana still manage to interact despite growing border rigidity, which social relationships subsist today. The qualitative interviews led in the Fergana are a major source in this process of reviewing the difficulties of passage and communication within the valley, and of tracking the actual presence of the three geopolitical actors which play a major role in the border relations and conflicts. The third chapter focuses on the Ferganian urban centres: their history, the relations that the Ferganians have with them, et above all the internal and external representations of these centres in a now fully transborder region. The fourth chapter concentrates on the demographical evolutions of the Ferganian population. Up until then a land of immigration, the Fergana became a land of emigration following the independence and the materialization of the borders. The fifth chapter deals with the Ferganian infrastructures, especially the rail and road networks, and their relationship of reciprocal influence with the mutation of the borders in the region. The sixth chapter builds on the theoretical interrogations evoked in the introduction of the dissertation and develops a conclusive analysis of the Fergana of the borders nowadays. The conclusion of this research depicts the current Fergana, the relations between the different geopolitical actors and underscores the persistence of the actor Cultural Regionalism. It establishes the existence of tremendous changes in the region Fergana from various viewpoints: the Ferganian population has new frames of cultural, political and social reference whose importance increased dramatically ; new political forms and cultural structures influenced its self-image, its very identity: "russian, muslim, ferganian", then "soviet, uzbek (or tajik or kyrgyz), atheist, ferganian", finally "uzbek (or tajik or kyrgyz), secular, ferganian". However, although the territory, its borders and inhabitants changed, and despite the strong obstacles set by the actor Nation, the cultural regionalism succeeded in maintaining itself, by adapting to the new tendencies and ways of interpretation of the Fergana. The conclusion ends with the most recent events of the Fergana, the Andjian massacre in 2005 and the Osh clash in 2010, which are both analysed in the light of the geopolitical power rivalries which persist in the region. ; XXIII Ciclo
Dottorato di ricerca in Economia e territorio ; La tesi ha rivolto la sua attenzione a uno strumento innovativo nella gestione degli investimenti pubblici sotto il profilo economico amministrativo, la concessione di valorizzazione demaniale cinquantennale che ha lo scopo di valorizzare il capitale demaniale dello Stato senza intaccare le risorse finanziarie dello stesso, vincolate dai criteri europei e prevalentemente destinate a coprire le spese correnti. La tesi descrive la prima concessione di valorizzazione demaniale cinquantennale rilasciata dallo Stato: Villa Tolomei a Firenze. Villa Tolomei è un complesso immobiliare plurisecolare immerso nelle colline di Firenze, che a seguito della riqualificazione e della valorizzazione è stato trasformato in un hotel e resort a cinque stelle, a soli 5 minuti dal centro storico e a 2,7 km dal Ponte Vecchio, dotato di tutti i comfort. Villa Tolomei è una dimora risalente al XIV secolo appartenuta alla famiglia Tolomei. Il complesso immobiliare è costituito, sin dalla sua origine, da diversi edifici per circa 3.500 mq di superficie, collocati all'interno di 17 ettari di un parco che presenta ancora le tracce della vecchia organizzazione a poderi. La tesi descrive i criteri contabili per la redazione del Bilancio dello Stato italiano e passa in rassegna i vincoli imposti dal Trattato di Maastricht, dal Fiscal Compact e dal Two Pack, da cui emerge le difficoltà dell'Italia nel fare fronte ai propri impegni europei, nel valorizzare il proprio patrimonio artistico e culturale e nel procedere con gli investimenti necessari per lo sviluppo del Paese senza il quale la politica di austerità del bilancio non ha efficacia. Il Bilancio dello Stato italiano infatti sta destinando le proprie risorse prevalentemente, se non totalmente, per finanziare le spese di funzionamento e per il ripianamento del debito, trascurando le spese in conto capitale e in particolare la valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare. Diventa quindi fondamentale una stretta cooperazione con il settore privato, tramite i cosiddetti partenariati pubblico-privati (PPP), in cui sono realizzati progetti comuni con vantaggi reciproci e che perseguono obiettivi anche sociali. Tra questi, un ruolo particolare è quello della concessione di valorizzazione demaniale cinquantennale che permette allo stato di valorizzare il patrimonio e di creare occupazione e crescita, senza esborsi finanziari diretti. Una prima forma di Concessione Demaniale era già presente nella Roma Imperiale dove il complesso dei territori di proprietà della comunità, denominato "Ager Publicus", veniva assegnato ai cittadini meritevoli. Quasi un secolo più tardi con l'unificazione del Regno d'Italia e la stesura del Codice Civile del 1865, si ha la definitiva evoluzione del concetto di beni pubblici (sia mobili che immobili) distinti in demaniali (inalienabili e imprescrittibili) e patrimoniali (utili allo svolgimento delle attività interne ed estere proprie di uno Stato). In letteratura economica, l'analisi della possibile esistenza di vincoli finanziari per la decisione di produzione e d'investimento (Sau, 1999), è stata considerata fin dagli anni Cinquanta (Meyer – Kuh,1957; Gurley – Shaw, 1955). Tutti i contributi mostravano però il fianco a due possibili critiche: erano carenti nelle motivazioni teoriche di tali vincoli e si prestavano ad ambiguità interpretative nei riscontri empirici. Ciò contribuì al successo del teorema di Modigliani Miller (1958). Difatti, per oltre trent'anni i modelli teorici ed empirici delle decisioni d'investimento di una impresa privata si sono basati essenzialmente sul teorema di Modigliani-Miller. I due economisti si chiesero quale fosse il costo del capitale per un'impresa le cui fonti di finanziamento sono utilizzate per acquistare delle attività il cui rendimento è incerto. Formularono a tale riguardo tre proposizioni, nelle quali si afferma che, in base a determinate assunzioni, il valore di mercato di un'impresa è indipendente dalla sua struttura finanziaria, che il rendimento delle azioni è una relazione lineare crescente del rapporto d'indebitamento e che il tipo di strumento finanziario usato è irrilevante ai fini della valutazione della convenienza o meno dell'investimento. Si è applicato un identico ragionamento allo Stato, considerato come attore economico che investe alla stregua di un'impresa, per verificare se la sua struttura finanziaria sia effettivamente irrilevante rispetto alla politica d'investimento. Partendo dalla considerazione che, attualmente, il gettito fiscale è prevalentemente destinato a coprire le spese correnti e marginalmente le spese in conto capitale, ci si è chiesti quali soluzioni potesse trovare lo Stato per investire, nel rispetto dei vincoli europei. Si è escluso l'aumento del gettito fiscale poiché il livello della pressione tributaria è già elevato e l'aumento dell'indebitamento visti i vincoli europei. Inoltre, Il taglio della spesa pubblica, peraltro auspicabile, produce effetti solo nel lungo termine. Una metodologia alternativa, che renda irrilevante la struttura finanziaria rispetto alla politica di investimento, è la concessione di valorizzazione demaniale cinquantennale. Prendendo in esame le modalità di copertura del fabbisogno e inserendo, come variabile, la concessione demaniale cinquantennale, si ottiene un vincolo di bilancio in cui è dimostrabile l'assunto del teorema di Modigliani-Miller. Questo strumento non solo non sottrae risorse finanziarie per il mantenimento e/o la valorizzazione delle proprietà immobiliari dello Stato, ma genera un rendimento atteso attraverso la riscossione del canone di concessione. I vantaggi per lo Stato della concessione demaniale si rinvengono nella possibilità di attuare una politica di adeguamento infrastrutturale del Paese, limitando fortemente l'utilizzo di risorse finanziarie pubbliche. Utilizza competenze private in tutte le fasi di costruzione, gestione ed erogazione del servizio con un maggiore coinvolgimento dei soggetti finanziatori e con un trasferimento ottimale dei rischi al settore privato. Inoltre, lo Stato trae reddito con il canone di concessione cinquantennale demaniale che, nel caso di Villa Tolomei, ammonta a €150.000 all'anno per una durata di 50 anni, per un totale di €16.869.546,0011. Non da ultimo occorre ricordare che lo Stato incassa le imposte sul reddito generate dall'attività turistico-recettiva di Villa Tolomei. Per l'imprenditore privato, i vantaggi della concessione demaniale consistono in primis nei ridotti i costi d'investimento (non si acquista l'immobile); l'imprenditore nel caso di studio ha sostenuto solo i costi di riqualificazione del bene, che sono stati di circa €6,0 milioni, finanziati da istituti bancari e finanziari senza garanzia ipotecaria. L'attività turistico-recettiva è stata inaugurata il 24 maggio 2013 e i primi significativi risultati economici sono stati valutati in occasione della chiusura del primo anno di esercizio al 31/12/2014, il Bilancio 2014 che riporta Ricavi per €2.105.711,20, Costi €1.981.648,99 ed un Cash flow di €124.062,21. Questo livello di redditività garantisce la sostenibilità economica dell'attività, la remunerazione del capitale, ed è in linea con il business plan presentato nel bando di concessione demaniale cinquantennale attesta che l'imprenditore è stato in grado di pagare il canone di concessione e anche di generare un EBITDA positivo, fin dal primo anno di attività. Per la Regione Toscana, il vantaggio consiste nella valorizzazione dell'area che prima versava in stato di degrado e dal punto di vista economico nell'incasso dell'ammontare dell'IRAP e dell'addizionale regionale. Per il Comune di Firenze, oltre all'evidente incremento occupazionale2, lo strumento della concessione cinquantennale genera anche un introito per le casse del Comune consistente nella riscossione dei tributi e delle tasse locali (tassa di soggiorno, addizionale comunale, etc.). Infine, si genera un indotto locale in termini di un aumento dell'affluenza turistica (numero presenze camere) ed un incremento del volume degli scambi commerciali con le imprese locali (fornitori di beni e servizi) quantificabile in €1.285.024,89. Dalla analisi emerge come lo strumento giuridico amministrativo della concessione demaniale cinquantennale sia funzionale allo sviluppo locale, alla valorizzazione del patrimonio e alla sua tutela, nonostante i vincoli finanziari imposti sul bilancio pubblico in sede europea. 1 Ottenuti calcolando una rata annuale di €75.000 indicizzata al 2% annuo per 5 anni e una rata annuale di €150.000,00, indicizzata al 2% annuo per una ulteriore durata di 45 anni. 2 Attualmente Villa Tolomei conta alle sue dipendenze circa 50 lavoratori suddivisi fra rapporti di lavoro diretti ed indiretti. ; The thesis focused on an innovative administrative tool for the public investments' management: the state-owned fifty-years enhancement grant, intended to enhance the public capital without employing the financial resources, bound by the European budget criteria and mainly devoted to finance current expenditure. The thesis describes the first state-owned fiftyyears enhancement grant issued in Italy: Villa Tolomei in Florence. Villa Tolomei is a XIV century villa on the hills of Florence, which has been transformed into a Luxury hotel and fivestar resort that offers all amenities, is 5 minutes away from the city center and 2.7 km from Ponte Vecchio. Villa Tolomei is a Villa belonged to the prestigious Tolomei family. The Villa has, since its origin, several buildings for about 3,500 square meters, located within 17 acres of park that still has traces of the old farm structure. The thesis describes the accounting policies for the preparation of the Italian State Budget and reviews the constraints imposed by the Maastricht Treaty, the Fiscal Compact and the Two Pack, the difficulties to match these commitments, to enhance their artistic and cultural heritage and to proceed with the investments without which the austerity policy of the budget is ineffective. The Italian State Budget is devoting its resources mainly, if not entirely, to fund operating expenses and the debt repayment, neglecting capital expenditures and, in particular, the real estate. It is therefore essential a close cooperation with the private sector, through the so-called public-private partnerships (PPP), in which joint projects are realized with mutual benefits and pursuing social objectives at the same time. Among them, the state-owned fiftyyears enhancement grant plays a special role because it allows the state to promote the heritage and to create jobs and growth, without direct financial outlays. An early form of State grant was available in Imperial Rome where all territories belonging to the community, called "Ager Publicus", were awarded to most valuable citizens. With the unification of the Kingdom of Italy and the drafting of the Civil Code of 1865, it was defined the concept of public goods (both movable and real estate) divided into state-owned (inalienable and imprescriptible) and capital (useful in carrying out the State activities at home and abroad). In economic literature, the analysis of any financial constraint on production and investment (Sau, 1999) has been considered since 1950 (Meyer - Kuh, 1957; Gurley - Shaw, 1955). There are two possible criticisms of these contributions: the theoretical motivations of these constraints were deficient and lent themselves to ambiguity in the empirical evidence. These facts contributed to the success of the Modigliani Miller theorem (1958). In fact, for more than thirty years the theoretical and empirical models of investment's decisions of a private enterprise has been based largely on the Modigliani-Miller theorem. The two economists faced the question of which is the cost of capital for the company whose funding sources are used to purchase assets, whose return is highly uncertain. They formulated three propositions, which stated that, based on certain assumptions, the market value of a firm is independent of its capital structure, the performance of the shares is a linear increasing function of financial leverage and the type of financial instrument used is irrelevant to the assessment of the advantages and disadvantages of the investment. The Modigliani Miller theorem has been applied to the State, as an economic actor who invests as a firm, to see if its financial structure is actually irrelevant to the investment policy. Starting from the premise that, at present, the tax revenue is mainly intended to cover the costs and only marginally the capital expenditures, it has been looked for solutions the State could found to invest, within the European constraints. Increasing tax revenues could do the financing of new investments, but this solution is not feasible because of the high tax burden; at the same time a debt is not possible because of the European constraints. Moreover, the cut in public spending, however desirable, produces effects only in the long term. An alternative tool, which makes irrelevant the financial structure compared to the investment policy, is the state-owned fifty-years enhancement grant. By considering how to cover the needs and by inputting, as a variable, the granting of stateowned fifty-enhancement, it has been obtained a budget constraint in which the Modigliani- Miller theorem can hold. This tool not only removes financial resources for the maintenance and / or development of real property of the State, but generates an expected return through the collection of the concession fee. Thanks to the state-owned fifty-years enhancement grant it is possible to implement the country's infrastructure, severely limiting the use of public financial resources. It uses private expertise in all phases of construction, management and service delivery with a greater involvement of stakeholders and lenders with an optimum risk transfer to the private sector. In addition, the State raises revenues from the state-owned fifty-years enhancement grant that in the case of Villa Tolomei, amounts to € 150,000 per year for a period of 50 years, for a total of € 16,869,546.001. Moreover, the State collects the new income taxes generated by the tourist reception of Villa Tolomei. For the private entrepreneur, the benefits of state-owned fifty-years enhancement grant consist primarily in low investment costs (do not buy the property). In the case study, the entrepreneur claimed only the costs of the renewal of the property, which were € 6million, funded by banks and financial institutions without mortgage collateral. The hotel inaugurated on May 24th, 2013 and the first significant economic results were evaluated on 31/12/2014. The 2014 budget shows revenues of € 2,105,711.20, costs of € 1,981,648.99 and a cash flow of € 124,062.21. This level of profitability ensures the economic sustainability of the business, a fair return on capital, and is in line with the business plan presented in the notice of the state-owned fifty-years enhancement grant. It confirms that the entrepreneur has been able to pay the concession fee and also to generate a positive EBITDA after the first year of operation. For the Region of Tuscany, the benefit is the enhancement of the area, which was in a state of deterioration and the collection of IRAP and additional regional tax. For the City of Florence, the state-owned fifty-years enhancement grant generates an increase in employment2, and revenue for the coffers of the City consisting of local taxes (tourist tax, municipal surcharge, etc.). Finally, it generates an increase in the tourist figures and an increase in the volume of trade with local companies (suppliers of goods and services), estimated worth € 1,285,024.89. The analysis shows that the state-owned fifty-years enhancement grant is a juridical tool functional to local development, to enhance the cultural heritage and for its protection, despite the financial constraints on public finances imposed by the European Union. 1 Obtained by calculating an annual concession fee of € 75,000.00 indexed at 2% per annum for five years and an annual concession fee of € 150,000.00, indexed at 2% per annum for a further term of 45 years. 2 Currently Villa Tolomei has about 50 employees divided between direct and indirect labor relations.
La presente ricerca ha avuto ad oggetto l'analisi della criminalità culturale di matrice immigratoria nel contesto europeo contemporaneo. Tradizionalmente con il termine reato culturalmente orientato o motivato si intende quel comportamento realizzato dal membro di una cultura minoritaria che è considerato reato dall'ordinamento giuridico della cultura dominante, ma che viene accettato, condonato, o addirittura incoraggiato all'interno del gruppo culturale del soggetto agente. Dedicare la ricerca esclusivamente alla criminalità culturale di matrice immigratoria significa restringere il campo dell'analisi ai reati culturali commessi da immigrati, escludendo i reati culturali commessi da minoranze autoctone. Esulano, tra l'altro, dall'analisi i reati riconducibili all'immigrazione clandestina e le forme di terrorismo transnazionale di matrice ideologica. Il particolare tipo di reato culturale di cui si è occupata la presente ricerca può dunque essere definito come il comportamento che l'immigrato pone in essere in quanto normale, approvato, o incoraggiato dalla propria cultura e che, invece, è considerato reato nello Stato di residenza. Alla nozione di reato culturale e di cultural defence, nonché alla delimitazione dell'ambito di indagine è dedicato il primo capitolo della tesi, nell'ambito del quale vengono spiegate le difficoltà che si incontrano nel definire il concetto di cultura e di pratica culturale. La ricerca è volta a valutare la possibile rilevanza penale da riconoscere al condizionamento esercitato sul reo dall'appartenenza a una determinata cultura, ossia al c.d. fattore culturale. La definizione di reato culturale è tale da comprendere situazioni molto diverse tra loro, rispetto alle quali è necessario trovare un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritto – o, meglio, diritti – alla specificità. Vengono alla mente pratiche riconducibili alle tradizioni di determinati gruppi etnici, quali la mutilazione degli organi genitali femminili, lo stupro che precede il matrimonio, l'impiego di minori nell'accattonaggio, o i matrimoni poligamici. Con ogni evidenza, si tratta di comportamenti che – ammesso e non concesso che siano (ancora) legittimamente praticati nei Paesi di provenienza dell'immigrato – rappresentano un problema nel momento in cui vengono posti in essere in uno Stato ospitante che ne riconosce la rilevanza penale. I flussi migratori che negli anni hanno accompagnato il processo di integrazione europea ed internazionale hanno messo in contatto persone portatrici di tradizioni culturali estremamente distanti tra loro, facendo della c.d. criminalità culturale uno dei temi più complessi, discussi e controversi del panorama giuridico contemporaneo. Dal punto di vista comunitario, tra l'altro, la nascita dell'area Schengen e il progressivo enlargement europeo hanno incrementato il fenomeno migratorio, imponendo anche a Paesi che non avevano vissuto in passato esperienze immigratorie di confrontarsi con le sfide del multiculturalismo. Spesso si pensa all'immigrazione e alla società multiculturale come una sfida per il diritto penale statale. L'area penale è, infatti, la più resistente alla sottrazione della sovranità che il processo di integrazione europea ed internazionale comporta perché rappresenta uno degli ambiti in cui maggiormente si riflette l'identità costituzionale degli Stati. La norma penale è una delle più alte manifestazioni dei valori prevalenti in una determinata area culturale. Da un lato, questo significa che l'ordinamento nazionale si riserva gelosamente la potestà di decidere quali comportamenti costituiscono reato all'interno del proprio territorio. Dall'altro lato, proprio per questo suo essere espressione della cultura di appartenenza di un determinato soggetto, la norma penale fa parte del bagaglio del migrante: l'individuo percepisce come reato ciò che per la propria cultura è reato e potrebbe non comprendere, e magari neanche percepire, le fattispecie vigenti nel territorio in cui emigra. Sullo sfondo dei reati culturali vi è una forma di conflitto culturale tra Paese ospitante e individuo ospite, che porta con sé la necessità di stabilire come devono essere giudicate le condotte poste in essere da chi appartiene a culture diverse da quella ritenuta dominante. Nell'ambito della ricerca che ha portato alla presente tesi è stato analizzato il trattamento dei culturally motivated crimes con particolare riferimento al sistema italiano e a quello del Regno Unito. L'Italia, alla quale è dedicato il secondo capitolo della tesi, storicamente è stata il punto di partenza dei migranti; soltanto nell'ultimo trentennio è divenuta una meta per gli immigrati e si è dovuta confrontare con la criminalità culturale di matrice immigratoria. Il modello italiano di gestione della diversità culturale, oltre ad essere particolarmente giovane, è considerato di stampo assimilazionista. La legislazione italiana non chiarisce la rilevanza penale da attribuire al fattore culturale, né tantomeno codifica una qualche forma di cultural defence. La strategia che, soprattutto negli ultimi anni, il nostro legislatore penale sembra portare avanti è quella di introdurre alcuni singoli reati culturalmente orientati, spesso con interventi caratterizzati da una decisa reazione sanzionatoria. In questo senso dal punto di vista legislativo vengono in particolare in rilievo due recenti interventi normativi: la legge n. 7 del 2006, con la quale è stato introdotto il delitto di mutilazioni genitali femminili e la legge n. 94 del 2009, con la quale è stato innalzata a delitto la contravvenzione di impiego dei minori nell'accattonaggio. Dal punto di vista giurisprudenziale in Italia si registra una mancanza di coerenza nelle decisioni che hanno ad oggetto i reati culturali. Per quanto attiene il sistema italiano vengono inoltre analizzate le sentenze pronunciate da tribunali esteri nell'ambito di procedimenti che hanno riguardato italiani accusati di reati culturalmente motivati. Si tratta di un'ottica molto interessante perché permette di superare l'atteggiamento paternalista mascherato da tolleranza che spesso accompagna il tema della diversità culturale. Il Regno Unito è stato scelto come secondo modello di riferimento e gli viene dedicato il terzo capitolo della tesi. Oltre ad aver vissuto un'esperienza immigratoria precedente rispetto all'Italia, la Gran Bretagna nel contesto europeo è considerata portatrice del modello c.d. multiculturalista di gestione della diversità culturale, che si contrappone al modello c.d. assimilazionista, al quale è invece riconducibile il sistema italiano. L'approccio multiculturalista è ispirato da una logica di uguaglianza sostanziale e tradizionalmente si caratterizza per il riconoscimento delle diversità culturali e l'elaborazione di politiche volte alla loro tutela. Nel Regno Unito l'appartenenza a una determinata minoranza culturale giustifica un diverso trattamento giuridico: si pensi al Road Traffic Act e all'Employment Act, che esonerano gli indiani sikh dall'uso del casco nei cantieri di lavoro e in moto, consentendo loro di indossare il tradizionale turbante. Espressione del multiculturalismo all'inglese sono anche gli Sharia Councils, pseudo-Corti formate da membri autorevoli della comunità islamica alle quali può rivolgersi la popolazione britannica musulmana affinché determinate controversie vengano risolte in applicazione della shari'a, la legge islamica. Lo studio degli Sharia Councils è stato una parte fondamentale del percorso di ricerca, svolto anche grazie alla partecipazione all'attività del Council di Londra. Questi organismi operano nell'alveo dell'Arbitration Act e sono oggi al centro di un fervente dibattito per due principali motivi. Prima di tutto nel Regno Unito si discute molto di parallel legal systems, ossia della possibilità di istituire per soggetti culturalmente diversi degli ordinamenti paralleli. Alcuni Autori ritengono che gli Sharia Councils esercitino una vera e propria competenza di carattere giurisdizionale. Assumendo questa tesi - invero minoritaria - il multiculturalismo all'inglese raggiungerebbe il cuore dell'ordinamento, all'interno del quale creerebbe una vera e propria spaccatura: ogni cittadino avrebbe la "sua" legge e il "suo" tribunale. Un altro problema fondamentale è quello dell'esercizio da parte dei Councils di una competenza di carattere penale: l'accusa rivolta a queste istituzioni è, infatti, quella di essersi arrogate una competenza in tema di violenza domestica forzando le maglie delle decisioni in tema di divorzio. Accanto all'analisi dedicata al sistema italiano e a quello inglese, per la ricerca si sono rivelate fondamentali anche le esperienze di Francia, Stati Uniti e Canada. Il sistema francese è considerato nel panorama europeo il principale modello assimilazionista: a questo proposito si parla di processo di francesizzazione degli immigrati, o anche cittadinizzazione senza integrazione. Gli Stati Uniti, spesso considerati la società multiculturale per eccellenza, sono la patria del dibattito sulla cultural defence, la strategia difensiva fondata sul fattore culturale come causa di giustificazione o come causa di diminuzione della pena. Il Canada, infine, è il portatore nel contesto internazionale del modello multiculturalista inglese: il multiculturalismo è espressamente previsto come principio nella Carta dei diritti e delle libertà, a partire dall'inizio degli anni novanta è stato reintrodotto per gli Inuit il circle sentencing, grazie al quale le decisioni, anche in materia penale, vengono adottate da una sorta di collegio composto dal giudice e da membri delle comunità interessate. Tra l'altro, è stata la Corte costituzionale canadese a formalizzare per la prima volta il c.d. test culturale, negli anni novanta. L'analisi del modello italiano, giovane e di stampo assimilazionista, e di quello multiculturalista inglese consente, anche grazie ai continui riferimenti ai sistemi adottati negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, di assumere un punto di vista più generale sul trattamento dei reati culturali. I processi che riguardano vicende di criminalità culturale testimoniano spesso una difficoltà di integrazione degli immigrati che non è solo culturale, ma prima di tutto sociale. Sotto questo punto di vista ciò che accade nelle aule dei tribunali diventa il metro di valutazione della politica legislativa statale in tema di immigrazione. Obiettivo della ricerca è stato quello di identificare gli strumenti per gestire la criminalità culturale, individuando le strade che si possono concretamente percorrere per superare le tensioni tra società multiculturale e sistema penale, alla ricerca di un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritti alla diversità che non metta in discussione principi cardine dell'ordinamento penale quali quello di eguaglianza e quello di proporzionalità della pena. Preso atto della complessità del problema, la prima conclusione cui si giunge all'esito della ricerca è l'impossibilità di conferire una rilevanza penale generale al fattore culturale. Non è possibile introdurre nella parte generale del Codice penale una causa di giustificazione culturale, così come non è possibile codificare una circostanza attraverso la quale dare un rilievo sanzionatorio predefinito e generale alla componente culturale che porta il reo a delinquere. Più volte tra le pagine del lavoro si sottolinea che rientrano nella nozione di reato culturale condotte che non sono neanche lontanamente paragonabili dal punto di vista del disvalore sociale che le connota e rispetto alle quali non è possibile fare un discorso di carattere generale. Così come non è possibile lavorare sulla parte generale del Codice penale, anche la scelta di introdurre fattispecie di reato create ad hoc per incriminare specifiche pratiche culturali non è condivisibile. Ed infatti, da un lato identificare e tipizzare una pratica culturale è spesso realmente difficile – e nel codice penale non c'è spazio per l'indeterminatezza – e dall'altro le esperienze italiana e inglese rivelano che l'operazione è alquanto inutile. A livello legislativo l'unica strada valutabile sembra essere quella di prevedere delle specifiche cause di non punibilità che permettano di dare una rilevanza – in maniera controllata – al fattore culturale in determinate ipotesi. Questa opzione consente di prendere in considerazione determinate pratiche culturali e di cucire su di esse la non punibilità, senza che questo implichi una scelta ordinamentale di carattere generale. Sembra, tuttavia, che sia una strada difficilmente praticabile: tra l'altro, un tema delicato come quello della criminalità culturale potrebbe non trovare facilmente una maggioranza parlamentare tale da consentire di legiferare e, comunque, ciò potrebbe avvenire in tempi decisamente lunghi. Ebbene, allo stato la chiave della questione è nel trattamento delle singole e concrete vicende di criminalità culturale e, dunque, nel ruolo del giudice. Anche in questo caso sorgono dei problemi: basti pensare che nel momento in cui il legislatore penale si astiene dal prevedere in via generale una forma di cultural defence, il fattore culturale potrebbe anche essere preso in considerazione contra reum, ad esempio a fini deterrenti, per chiarire inequivocabilmente l'intollerabilità di un determinato comportamento, o per prevenire una vendetta da parte del gruppo di appartenenza culturale della vittima. Il dato è preoccupante perché, come sottolineano gli Autori che si occupano di criminalità culturale, in presenza di un reato culturalmente orientato o motivato il grado di rimproverabilità dell'autore si attenua in conseguenza di una minore esigibilità della conformazione al precetto penale. Per arginare il rischio che il fattore culturale venga preso in considerazione per aggravare il giudizio di responsabilità del reo è dunque indispensabile sensibilizzare i giudici e munirli degli strumenti adatti per gestire la diversità culturale. In tale ottica la ricerca presenta l'analisi di alcuni strumenti che vengono utilizzati nei Paesi analizzati e dai quali è possibile prendere spunto: vengono così in rilievo l'Equal Treatment Bench Book inglese, il circle sentencing canadese, e la possibilità, sul modello francese, di integrare l'organo chiamato a giudicare un reato culturale. Di queste strade quella concretamente più praticabile è l'Equal Treatment Bench Book, un vademecum destinato agli operatori giudiziari nell'ambito del quale si rinvengono linee guida per la gestione pratica delle diversità culturali. Si tratta di un prodotto non immediatamente importabile, poiché non sarebbe sufficiente tradurlo per applicarlo, ad esempio, in Italia. È dunque necessario che i singoli Paesi adottino il proprio Bench Book; in quest'ottica la ricerca presenta alcune indicazioni da prendere in considerazione sia per quanto attiene chi potrebbe essere chiamato a scrivere il vademecum, sia per quanto attiene il contenuto del documento. In conclusione va richiamata una riflessione di carattere più generale: il modo corretto di affrontare la criminalità culturale di matrice immigratoria si basa sulla consapevolezza che prevenire è meglio che reprimere. Sicuramente, l'attenzione al ruolo del giudice e agli strumenti di concreta gestione della diversità culturale sono molto importanti, ma lo sono ancor di più le politiche per l'integrazione della società multiculturale, nella quale si assiste a un processo di scambio e di fusione culturale che si rivela il momento privilegiato per determinare l'equilibrio tra valori indiscutibili e diritti alla diversità. ; The research focuses on culturally motivated crimes related to migratory flows in the European area. A cultural offence is defined as an act by a member of a minority culture, which is considered an offence by the legal system of the dominant culture; that same act is nevertheless, within the cultural group of the offender, condoned, accepted as normal behaviour and approved or even endorsed and promoted in the given situation. The specific focus on immigration means that the research does not analyse crimes committed by native minorities. Moreover, crimes related to illegal immigration and transnational terrorism are not part of the dissertation. Thus, the specific type of cultural offences analysed in the research can be defined as the immigrant's behaviours that is normal, approved or promoted in his/her culture, but is considered offences in the State where he/she lives. The first chapter of the thesis is devoted to defining the notion of cultural crimes and cultural defence, and to outline the research analysis. This chapter acknowledges the difficulties encountered in defining the concepts of culture and cultural custom. The purpose of the research is to evaluate to what extent the fact that the defendant based his/her actions on a cultural norm can be taken into account in determining his/her responsibility within the criminal legal system of the country where the action takes place. Many different behaviours can be linked to cultural crimes and in all these circumstances there is the need to find a balance between fundamental rights protected by the domestic legal system and the specificity rights of minority groups. Consider the case of female genital mutilations, rape before wedding, or polygamy. These acts – even if they are (still) permitted in the country of the immigrant – may be considered offences in the country where the immigrant lives. Due to the immigration phenomenon related to the process of European and international integration, people coming from really different cultural backgrounds live together and nowadays the cultural crime rate has become one of the most problematic and debated legal issues. Furthermore with the gradual European enlargement more and more countries have had to face with problems related to multiculturalism. Immigration and multicultural society are often considered as a challenge for the criminal law, which is one of the more resistant areas of the whole legal system and opposes the process of European and international integration. This happens because the criminal law mirrors the essential nature of a country through the choice of the acts that are considered offences in the national territory. This choice is deeply influenced by the cultural background of the country and the criminal law is part of the cultural baggage of the immigrant. When people immigrate they bring with themselves the awareness that a behaviour is considered an offence in their country and they may not know or understand what is considered an offence in the country where they decide to live. Culturally motivated crimes stem from a conflict between the immigrant and the legal system of the country where he/she decides to live, between a cultural norm and a legal standard. With this regard, Van Broeck noted that the cultural offence has to be caused directly by the fact that the minority group the offender is a member of uses a different set of moral norms when dealing with the situation in which the offender was placed when he committed the offence: the conflict of divergent legal cultures has to be the direct cause of the offence. The research analyses how legislator and judges deal with cultural offences in Italy (Chapter II) and in the United Kingdom (Chapter III). For a long time Italy has been the starting point for immigrants and only in the last thirty years it has become their destination. For this reason the problem of determining the relevance of the cultural factor on the structure of an offence is more recent in Italy than in the United Kingdom, where the multicultural society is the result of the long story of the colonialism and the Commonwealth of Nations. Furthermore, the Italian system of handling cultural diversity is basically considered an example of assimilationism while the English one is considered an example of multiculturalism. This means that in the United Kingdom, more than in Italy, the legislation aims at preserving minority customs. In addition to the analysis of the Italian and the English systems, also the experience of France, of the United States and of Canada has been essential for the research. In the European context the French system is considered the best example of assimilationism. The law banning the wearing of a niqab or full-face veil in public is the clearest instance of this approach to different cultures which is usually regarded as gallicization of immigrants. The United States, often considered the multicultural society par excellence, are the birthplace of the debate about the cultural defence. In the international context Canada is considered an example of a multicultural system: multiculturalism is mentioned in the Canadian Charter of Rights and Freedoms of 1982 and since the 90's the circle sentencing can be used to solve disputes in the Inuit group with the participation of members of the community in addition to the judges. Furthermore, in the same period the Canadian court formalized for the first time the distinctive cultural test. The comparison between the Italian and the English systems in handling cultural differences deriving from immigration and all the references to the American, Canadian and French systems allow the research to adopt a more general point of view in analysing cultural crimes. Trials concerning culturally motivated crimes often give evidence of a difficulty in immigrants' integration; an issue that is not only a cultural problem, but primarily a social dilemma. From this point of view what happens in courtrooms becomes a device to evaluate a state immigration policy. The purpose of the research is to identify useful tools to manage cultural offences, finding a balance between victims' fundamental rights and the cultural specificity of a minority group. The first conclusion reached in the dissertation regards the impossibility to provide a general relevance to the cultural factor in the criminal system, so that it is not possible to introduce a cultural defence. Many different behaviours can be considered cultural offences and it is not possible to treat as homogeneous a broad range of acts. At the same time, also the introduction of type of offences to criminalize a specific cultural practice is not the right way to solve the problem of the cultural factor in the structure of the offence. First of all there would be many problems in identifying a cultural practice, because it is really hard to recognize which behaviour can be related to the cultural background of the minority group of the defendant. Moreover, as can be noticed when problems concerning the criminalization of the female genital mutilation in Italy and the United Kingdom are analysed, this way seems almost useless. A good option is to adopt methods which do not impose a penalty to the defendant, taking into account his/her cultural background in certain circumstances. This can be done using the absolute discharge of the English legal system or the category of the cause di non punibilità of the Italian one. In this case the chance not to impose a penalty to an immigrant defendant can be achieved without any consequence on the nature of offence of the behaviour in the legal system of the country where he/she decides to live. In a similar way in the Italian system it could be difficult to find the parliamentary majority to approve a legislation introducing the specific causa di non punibilità. Thus, the more practicable solution concerns the judges' activity. In this case, there is the need to avoid that the cultural factor is used contra reum worsening, for instance, the penalty. This modus operandi would not be fair because in the case of actions determined by a cultural norm commonly accepted by a minority group, the degree of reproach of these behaviours should be alleviated. In order to avoid that the cultural factor could be taken into account contra reum the first thing to do is to sensitize judges to the problems of the criminal law in a multicultural society. With this regard, the research analyses some tools used in the analised systems: in particular, the English Equal Treatment Bench Book, the Canadian system of the circle sentencing and the possibility, as in the French legislation, to integrate the judging body with lay judges in trials concerning cultural offences. The most workable solution is the Equal Treatment Bench Book, a guide for judges, magistrates, and all other judicial office-holders to handle cultural differences in trials. This English vademecum is not immediately importable in other European countries. In fact, it is not enough to translate it to solve the problem of sensitizing judges in so different legal systems. Thus, it is necessary to adopt a document like the English Bench Book in every country where immigration puts cultural offences on the agenda. From this point of view the research gives some hints about the drawing up of this vademecum. In conclusion it is possible to affirm that the correct way to approach cultural offences committed by immigrants is to understand that prevention is better than cure. Surely, it is important to pay attention to the role of judges and to the tools they can use in handling criminal offences. It is even truer that all the policies for the integration of the multicultural society are the most important instrument to determine the balance between fundamental rights and specificity rights of minority groups, that is also the key to handle cultural crimes.
In this article the author considers Europe to be the result of the sedimentation of many united Europes, starting from the Roman and Carolingian empires, which provide a number of attempts at united Europes: the former with its centre in the south of Europe, the Middle East and North Africa, the latter with its centre in northern Europe. From these attempts at least two Europes began, ultimately producing the present European Union (EU). The first united Europe was made up of a range of European states and was set up by the knightly, noble and feudal classes with the spread of similar styles, structures, religions (Chris-tianity) and powers. This was followed by a second united Europe based on nation-states and modern empires; fruit of the Enlightenment, it was formed in each one by the intellectual classes and then by the entrepreneurial, commercial and financial classes which characterised Europe until the First World War. The third united Europe is the one which emerged from new values – peace and the individual – and is legitimised by a civil society made up of organisations working upwards from the grass roots. Emerging from the aftermath of the Second World War, this third united Europe is still developing. For how long? For as long as possible, it is to be hoped. The second part of the article takes a long look at the future of this third united Europe, analysing four scenarios projected up to 2050. Starting from the present scenario, scenarios for the future are worked out. We can define them in the following ways: 1) the pure catastrophic scenario: it sees the disappearance of the United Europe or this becomes an empty shell; 2) the realistic catastrophic scenario: it sees the United Europe to become an entity in which internal asymmetrical relations take form, completely open towards the strong-est states and close enough (for the circulation and rules) towards the internal peripheral or smaller states or more little, operating a kind of colonialism; 3) the realistic ideal scenario: it sees that the United Europe keeps the "promises" made and the "premises" from which it is born, except that its member states are still strong and their "reserve of powers". Outwards the EU always remains and keeps the features of an International Organisation; 4) finally the pure ideal scenario: it sees the transformation of the EU in a federal state, in which the sovereignty of the federate state remains more and more soft so much that it disappears, at least in the aspects of general coordination and of the management of the EU general policies. The discussion of the four scenarios verifies which of them will be carried out in the future: after 10 years, 20 years, 30 years. 40 years. It is more likely that the fifth scenario occurs, that is a scenario that collects elements from each of the scenarios considered before and it assumes a further configuration with respect to those are forecast. ; Nell'articolo l'autore interpreta l'Europa come sedimentazione di tante Euro-pe Unite a cominciare dall'Impero Romano e dall'Impero Carolingio, che riguardano alcune prove di Europe Unite: la prima con il centro nella parte sud Europa, il Medio Oriente e il nord Africa, e la seconda con il centro nel nord Europa. Da queste prove sono partite almeno due Europe, che si sono succedute fino a sfociare nell'attuale Unione Europea (UE). La "prima Europa Unita" era articolata in tanti stati Europei ed è state creata dalle classi cavalleresche, nobiliari e feudali con la disseminazione di uguali stili, , regole. strutture, fede cristiana e poteri. A questa è succeduta una "seconda Europa Unita" basata su stati nazionali e imperi moderni e creata dall'Illuminismo, e dalle relative classi intellettuali, e poi da classi imprenditoriali, commerciali, finanziarie caratterizzanti l'Europa fino alla prima guerra mondiale. La "terza Europa Unita" è quella emersa da nuovi valori come l'individuo, la pace e legittimata da società civili formate da organizzazioni che dal basso elaborano tale nuova società europea. Questa terza Europa Unita è sorta dopo la, e dalla, seconda guerra mondiale, ed è tuttora in sviluppo. Fino a quando? Ovviamente ci si augura per un tempo indefinito. La seconda parte dell'articolo considera ampiamente il futuro di questa terza Europa Unita, e i suoi processi vengono considerati attraverso quattro scenari proiettati al 2050. Partendo dallo scenario attuale, gli scenari per il futuro possono essere i seguenti quattro: (1) lo scenario catastrofico puro: esso prevede la scomparsa della UE o questa diventa un guscio vuoto; (2) lo scenario catastrofico realistico: l'UE diventa un'entità nella quale le relazioni interne sono asimmetriche e prendono la forma completamente aperta verso gli stati più grandi e abbastanza vicini (per la circolazione e le regole) e verso gli stati più piccoli o quelli periferici interni, venendo così a realizzarsi forme di colonialismo; (3) lo scenario ideale realistico: l'UE mantiene le "promesse" dalle quali è nata, eccetto che gli stati membri sono ancora forti e con una loro "riserva di poteri". Esternamente l'UE conserva le caratteristiche di una Organizzazione Internazionale; (4) infine lo scenario ideale puro: la trasformazione dell'UE è uno stato federale entro il quale la sovranità del singolo stato federato diventa più o meno debole a tal punto da scomparire, almeno negli aspetti del coordi-namento generale e della gestione delle politiche generali dell'UE. La discussione dei quattro scenari verifica quelli di essi che saranno realizzati nel futuro: dopo 10 anni, dopo 20 anni, dopo 30 anni, dopo 40 anni. È più probabile che si realizzi il quinto scenario, in quanto scenario che raccoglie elementi da ciascuno dei quattro scenari già considerati, riassumendo una ulteriore configurazione delle cose già previste.
Lo sfruttamento delle risorse naturali ha rappresentato la caratteristica principale dello sviluppo economico e del commercio per la maggior parte della storia mondiale. Attualmente, è generalmente accettato che lo sviluppo economico in tutto il mondo sia la causa dell'esaurimento irreversibile delle risorse naturali, del degrado ambientale e della conseguente minaccia per le generazioni future. Ciò costituisce le ragioni chiave e le sfide per ripensare i modelli economici. Le risorse ambientali sono considerate oggi come beni economici e vengono chiamate "capitale naturale". Questo vale in particolare per i mari e gli oceani. I mari e gli oceani coprono più del 70% della superficie terrestre e sono fondamentali per garantire alcuni dei bisogni fondamentali della società. Contengono il 97% di tutta l'acqua del pianeta e sostengono l'80% di tutte le forme di vita. Questi vasti ecosistemi sono tra i più grandi pozzi di carbonio del mondo, producono la metà dell'ossigeno che respiriamo e sono la fonte primaria di proteine per più di 3 miliardi di persone. I mari e gli oceani sono anche il tessuto di una grande industria che solleva questioni di sostenibilità ambientale e sociale. Quest'ultime sono al centro dell'agenda dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (ONU) entro il 2030 e non sono compatibili con un sistema incentrato sull'abuso e sullo sfruttamento dell'ambiente. Una gestione efficiente e sostenibile del capitale naturale degli oceani è quindi un obiettivo politico critico per il processo e il progresso economico. Di fatto, la crescente consapevolezza delle intense pressioni che impattano sul degrado ambientale marino ha portato gli organismi di governance stabiliti negli ultimi decenni a definire strumenti e meccanismi che permettano la conservazione e lo sviluppo più sostenibile del vasto capitale naturale che il mare e gli oceani offrono. Proprio in questa fase di ridimensionamento e di transizione verso una nuova economia sostenibile basata sugli ecosistemi marini, emerge il nuovo concetto della "Blue Economy" (BE). La BE ha recentemente guadagnato una notevole attenzione nelle agende politiche e accademiche, in linea con l'espansione della sua rilevanza rispetto ai settori economici tradizionali. Le strategie di implementazione della BE rientrano negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite, in particolare l'SDG 14 "Life Below Water". L'SDG 14 mira, tra le altre cose, alla prevenzione e ad una riduzione significativa dell'inquinamento marino, alla gestione sostenibile, nonché alla conservazione delle aree e degli ecosistemi marini e costieri, alla minimizzazione e reversione degli impatti dovuti all'acidificazione degli oceani, a far fronte alla pesca eccessiva, illegale e non regolamentata, all'aumento delle conoscenze scientifiche e al trasferimento di tecnologie marine sostenibili. Come tale, incorporato in queste ambizioni piuttosto all'avanguardia è il principio (e la necessità) che assicurare la crescita economica e l'occupazione devono andare di pari passo con l'imperativo della protezione e ripristino degli ambienti naturali e della lotta al cambiamento climatico. La BE permette di generare valore dagli oceani attraverso l'attuazione di pratiche sostenibili e nel rispetto della loro capacità di rigenerazione. Questo implica che l'impatto della produttività economica generata delle attività umane deve necessariamente garantire la salute e la salvaguardia degli oceani nel tempo. Sia i settori consolidati o tradizionali che quelli emergenti e innovativi della BE offrono importanti fonti di sviluppo economico sostenibile. I primi includono e riguardano le risorse marine viventi e non viventi, le attività portuali, la cantieristica navale, il trasporto marittimo e il turismo costiero. I secondi includono l'energia marina rinnovabile, la bioeconomia e le biotecnologie blu, i minerali marini, la desalinizzazione, la difesa, la sicurezza e la sorveglianza marittima, la ricerca e l'istruzione, le infrastrutture e la robotica marina. Questi settori rappresentano un potenziale significativo per la transizione verso una crescita economica sostenibile, e per la creazione di nuovi posti di lavoro. Ad oggi, i settori tradizionali della BE contribuiscono a circa 1,5% del PIL dell'Unione europea a 27 (UE-27) e forniscono circa 4,5 milioni di posti di lavoro diretti, cioè il 2,3% dell'occupazione totale dell'UE-27. Mentre i settori innovativi emergenti, come per esempio le fonti di energia rinnovabile derivata dall'oceano o le biotecnologie blu contribuiscono alla creazione di nuovi mercati e posti di lavoro. Ciò senza contare gli effetti indiretti e indotti sul reddito e l'occupazione. In questo contesto, la presente dissertazione ha due scopi principali. Il primo, quello di presentare lo stato dell'arte sulla BE nel mondo, mettendo in evidenza le sfide, le opportunità, le tendenze e il potenziale per uno sviluppo sostenibile. Il secondo, quello di servire come uno strumento di valutazione solido e in grado di favorire decisioni informate per definire nuove politiche e iniziative pertinenti. La ricerca si è sviluppata nell'ambito del programma di dottorato industriale Eureka, co-finanziato dalla Regione Marche insieme all'ISTAO - Istituto Adriano Olivetti, una tra le più antiche scuole manageriali d'Italia, fondata nel 1967 dall'economista Giorgio Fuà. Il capitolo I della tesi è una revisione della letteratura che colma il gap su come la BE possa rappresentare un modello di sviluppo economico per le istituzioni e le imprese. Lo fa adottando un approccio esplorativo per la raccolta e la revisione di una serie di contributi scientifici da considerare come più significativi e più rilevanti per analizzare come il concetto di BE si lega alla recente letteratura sullo sviluppo economico. Nello specifico, l'approccio esplorativo è stato progettato sulla base di una serie di criteri individuati in conformità con gli obiettivi dell'indagine: 1) inquadrare e valutare lo stato dell'arte sulle politiche e iniziative intraprese a livello globale; 2) rilevare le criticità e le sfide nell'attuazione di tali politiche e iniziative; 3) identificare le implicazioni e suggerimenti a livello di policy. Il capitolo II contribuisce alla letteratura emergente sullo sviluppo di una BE partecipativa presentando un modello innovativo a quadrupla elica. Questo modello non solo mette in collegamento i governi nazionali con il mondo accademico, le imprese e gli utenti, ma agisce anche come un driver che favorisce l'esposizione internazionale del paese in questo specifico settore. Attraverso un approccio esplorativo basato su una ricerca desk integrata da interviste semi-strutturate con otto esperti, il modello è testato a Qingdao, una città all'interno della Blue Economic Zone nella provincia dello Shandong, in Cina. Nel capitolo III, viene analizzata la risposta cinese alla "Decade of Ocean Science for Sustainable Development 2021-2030", il "Decennio del Mare" delle Nazioni Unite. L'analisi di documenti ufficiali di pianificazione strategica rivelano che i leader politici cinesi attribuiscono grande considerazione e importanza agli oceani per la sopravvivenza e lo sviluppo della società umana. Dal lancio del "Decennio del Mare", che rappresenta un'importante risoluzione adottata delle Nazioni Unite per promuovere lo sviluppo sostenibile degli oceani, nonché la più importante iniziativa che eserciterà un impatto di vasta portata sul progresso della scienza e della governance marina globale, varie iniziative sono state intraprese dalla Cina per sostenere il suo impegno basato sulla cooperazione per la protezione ecologica degli oceani. Il capitolo IV conduce un'investigazione sull'industria della cantieristica navale nella Regione Marche. L'importanza del settore nel tessuto industriale regionale, in particolare nella costruzione di superyacht, ha suggerito un approfondimento mirato a valutare in che modo l'industria cantieristica possa rappresentare un driver per lo sviluppo della subfornitura artigianale, altamente qualificata e tecnologicamente avanzata, che l'ecosistema industriale della regione è già in grado di fornire. Nella stesura di questo contributo, realizzato insieme ai colleghi dell'ISTAO per conto della Fondazione Marche, è stato fatto ampio ricorso ai più recenti studi sulla cantieristica navale. È stata poi realizzata un'indagine di approfondimento che ha previsto una serie di interviste semi-strutturate con i vertici dei cantieri regionali e con una campionatura di subfornitori e aziende più rappresentativi, insieme all'incontro con alcuni testimoni privilegiati del settore. ; Natural resource exploitation has been the main feature for economic development and trade for most of global history. At present, it is generally accepted that economic development around the world is leading to the irreversible depletion of natural resources, environmental degradation and consequent threat to future generations, which are key reasons and challenges for rethinking economic patterns. Environmental resources are considered today as economic assets and called "natural capital". This particularly holds true for the seas and oceans. Seas and oceans cover more than 70% of Earth's surface and are critical in ensuring that some of society's most basic needs are met. They hold 97% of all water and sustain 80% of all life forms on the planet. These vast ecosystems are amongst the world's largest carbon sinks, produce half of the oxygen we breathe and are the primary source of proteins for more than 3 billion people worldwide. Seas and oceans are also the fabric of a large industry that raises environmental and social sustainability issues. These are at the heart of the United Nations (UN) Sustainable Development agenda for 2030 which is not compatible with a system focused on abuse and exploitation of the environment. Therefore, an efficient and sustainable management of oceans' natural capital is a critical policy objective for the economic process and progress. The growing awareness of the intense pressures that cause environmental degradation of the natural wealth highlights the need for a sustainable approach. Governance bodies established over the recent decades have defined tools and mechanisms to achieving a more sustainable development allowing the preservation and sustainable uses of the natural capital. At this stage of economy reframing, a new concept of "Blue Economy" (BE) has emerged to foster the shift towards a new, ocean (marine)-based sustainable economy. BE has recently gained considerable policy and scholarly attention, in line with the expansion of its relevance on the political agenda beyond traditional economic sectors. BE implementation strategies are part of the UN's Sustainable Development Goals (SDGs), in particular SDG 14 "Life Below Water" which aims, among other things, to prevent and significantly reduce marine pollution, sustainably manage and protect marine and coastal ecosystems, minimize and address the impacts of ocean acidification, regulate harvesting by ending overfishing and illegal, unreported and unregulated fishing, conserve coastal and marine areas, increase scientific knowledge and transfer sustainable marine technologies. As such, embedded is this quite a cutting-edge concept is the principle (and need) that ensuring economic growth and employment must go hand in hand with the imperative of protecting and restoring nature and fighting climate change. BE enables society to obtain value from the oceans and coastal regions, whilst respecting their long-term ability to regenerate and endure such activities through the implementation of sustainable practices. This implies that human activities must be managed in a way that guarantees the health of the oceans and safeguards economic productivity, so that the potential they offer can be realized and sustained over time. Both established and emerging, innovative sectors are part of the BE and offer important sources of sustainable economic development. The former include marine living resources, marine non-living resources, marine renewable energy, port activities, shipbuilding and repair, maritime transport and coastal tourism. The latter include ocean energy (i.e. floating solar energy and offshore hydrogen generation), blue bioeconomy and biotechnology, marine minerals, desalination, maritime defence, security and surveillance, research and education and infrastructure and maritime works (submarine cables, robotics). These sectors offer significant potential for the transition to a sustainable economic growth, as well as for employment creation. For instance, BE traditional sectors contribute to about 1.5% of the European Union-27 GDP and provide about 4.5 million direct jobs, i.e. 2.3% of EU-27 total employment. Emerging innovative BE sectors, such as ocean renewable energy, blue biotechnology, and algae production are adding new markets and creating jobs. This is without counting indirect and induced income and employment effects. Against this backdrop, this dissertation has two purposes. Firstly, it provides a comprehensive overview of the current state of the BE in the world, highlighting challenges, opportunities, trends, and their potential for sustainable development. Secondly, it aims to provide a stocktaking tool based on solid foundation that will enable both policy-makers and stakeholders to make informed decisions to support relevant new initiatives and policies. This dissertation has been developed within the Industrial Ph.D. program Eureka, financed by the Regional Government of the Marche along with ISTAO – The Istituto Adriano Olivetti, one of the oldest managerial schools in Italy which was founded in 1967 by the Economist Giorgio Fuà. Chapter I of the dissertation is a literature review which fills the knowledge gap on how BE can represent an economic development model for institutions and entrepreneurs. It does so by adopting an exploratory approach for the collection and review of a series of scientific contributions to be considered as most significant and most relevant in addressing how the BE discourse is tied up in recent literature on economic development. Specifically, the exploratory approach was designed based on a set of criteria identified in compliance with the objectives of the investigation: 1) frame and evaluate the state of the art with regards to policies and initiatives undertaken at global level; 2) detect critical issues and challenges in the implementation of policies and initiatives; 3) identify policy implications and suggestions. Chapter II contributes to the emerging literature on the development of a participative BE by presenting an innovative Quadruple Helix model, which not only connects domestic government, academia, firms and users but acts as a driver boosting the foreign exposure of the country in this specific domain. The model is tested in Qingdao, an exemplary city included in the Blue Economic Zone of the Shandong Province, in China, through an exploratory approach based on desk research integrated with semi-structured interviews with eight experts. In Chapter III, the Chinese response to the UN's "Decade of Ocean Science for Sustainable Development 2021-2030" is unfolded based on documentary analysis of official planning and strategic documents. The ocean is considered of great significance by Chinese political leaders to the survival and development of human society. Accordingly, since the launch of the "Ocean Decade", which represents an important UN resolution to promote sustainable ocean development as well as the most important initiative in the coming decade that will exert a far-reaching impact on the progress of marine science and global marine governance, various initiatives have been undertaken by China in order to uphold its cooperation-based commitment to the ecological protection of oceans. Chapter IV makes the case for the shipbuilding industry in the Marche Region, in Italy. The importance of the Marche Region in the shipbuilding industry, suggested a more in-depth exploration to understand what impact the positive performance of the sector can have on the regional industrial system and how it could represent a catalyser for the system of highly qualified and technologically advanced supply chain. In writing this contribution, which was carried out together with colleagues from ISTAO on behalf of Fondazione Marche, I had ample recourse to the latest studies on the shipbuilding industry and carried out a survey investigating the sector in depth. Semi-structured interviews with top management of the most representative regional shipyards and a sample of subcontractors and companies were conducted to witness the growth of the industry. The results of the analysis provide interesting insights for policy-making to support the development of the regional shipbuilding industry and supply chain.
INDICE CAP.1 Premessa 1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA 1. La responsabilità in generale 2 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale 3 3. La responsabilità medica 9 4. La responsabilità del medico 10 5. La responsabilità della struttura sanitaria 12 6. Il sistema a doppio binario 14 7. La "spersonalizzazione" del rapporto 17 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura 19 CAP. 2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1. Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità 25 2. Lo stemperarsi dei profili di differenza 36 3.L'incremento dei punti di contatto 37 4. La zona grigia tra illecito e contratto 41 CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale 46 2. La tesi della natura contrattuale 50 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 56 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le S.U. della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 72 CAP.4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce 79 2. Problematiche inerenti l'art.3 87 3. Ricadute dottrinali e giurisprudenziali 98 BIBLIOGRAFIA 111 1. Giurisprudenza di legittimità 116 2. Giurisprudenza di merito 118 CAP.1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA Premessa. La presente tesi si propone di affrontare la responsabilità civile del medico approfondendo uno dei profili più dibattuti, la natura della responsabilità, che è stata anche oggetto del predetto intervento normativo. A tal fine nel primo capitolo verrà trattato il passaggio dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, facendo attenzione ai profili evolutivi della dottrina e della giurisprudenza, con uno sguardo rivolto alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente; nel secondo capitolo l'attenzione sarà rivolta alla natura della responsabilità, cercando di definire le linee di confine e le varie problematiche inerenti la prestazione medica; nel terzo capitolo verranno esaminate le varie tesi a supporto della diversa configurazione della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria e infine nell' ultimo capitolo verrà posto l'accento sul contesto socio-economico della legge Balduzzi e le varie problematiche inerenti l'art. I poteri riconosciuti al privato che si ritiene danneggiato dall'altrui condotta spaziano dalla tutela per equivalente alla tutela in forma specifica, previo riconoscimento del suo diritto. 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale. Volendo delineare le caratteristiche, o meglio il presupposto principale, alla base della responsabilità civile, vediamo che quest' ultimo si sostanzia nell' esistenza di un "danno risarcibile". L'opera di Sacco confutò la tesi dell' identificazione tra ingiustizia del danno e lesione di un diritto soggettivo assoluto, mostrando le varie sfaccettature che può assumere in pratica il requisito dell' ingiustizia del danno, al di là della lesione del diritto della vittima. Schlesinger invece contrastò l'impostazione tradizionale affermando che l'atipicità stessa dell' illecito, portasse l'istituto della responsabilità civile, al di là della protezione dei diritti assoluti . Basti pensare all' interesse del contraente che quando entra in un rapporto contrattuale non pretende solo la prestazione che è oggetto del contratto ma ha interesse anche a non subire pregiudizio alla propria persona e alle proprie cose che indirettamente entrano automaticamente nella stessa prestazione contrattuale. A mio avviso emblematico è a tal riguardo il caso del medico dipendente che, pur essendo legato alla struttura da un rapporto di lavoro, avente ad oggetto il suo obbligo di prestazione medica, si trova esposto ad una molteplicità di rischi e pericoli legati proprio allo svolgimento della sua prestazione. In passato la responsabilità medica si declinava come responsabilità del medico, ponendo al centro del giudizio la colpa professionale dello stesso sul cui accertamento veniva basata la responsabilità solidale di medico e di strutture; oggi, la responsabilità sanitaria è innanzitutto responsabilità della struttura sanitaria e porta alla ribalta l'attività di assistenza sanitaria e con essa il rispetto dei livelli di qualità e appropriatezza clinica delle prestazioni sanitarie oltre che degli standard organizzativi e strutturali , . Oggi si parla sempre più correntemente di responsabilità medica o medico-sanitaria per sottolineare che alla responsabilità del singolo professionista si aggiunge quella della struttura sanitaria o ospedaliera presso la quale il medico presta la propria attività. Al di là della terminologia, il mutamento più significativo si è realizzato nella disciplina della responsabilità sempre più complessa e articolata tanto che si è parlato di un nuovo sottosistema della responsabilità civile . Nell' arco di qualche decennio, come vedremo si è passati dall' affermazione della natura extracontrattuale della responsabilità al principio del concorso ed infine alla natura schiettamente contrattuale. 4.La responsabilità del medico. In origine la responsabilità medica nasce e si afferma come responsabilità professionale del medico. La cornice normativa era composta da poche norme di portata generale sulla responsabilità civile(artt.1218 e 2043 c.c.) ed una norma di parte speciale che, dedicata alla responsabilità del professionista intellettuale(artt.2236 c.c.), si trova nell'ambito della disciplina del contratto d'opera professionale . Nell' evoluzione giurisprudenziale la responsabilità medica è stata declinata come responsabilità sanitaria di medici e strutture che ha dato luogo alla creazione da parte dei giudici di regole di responsabilità solo modellate sull' atto medico. Si è arrivati infatti a dare autonomia al "fare organizzato" della struttura rispetto al "fare professionale" del medico. Nell' ottica dell' attività di assistenza sanitaria, di cui è debitrice la struttura nei confronti del paziente, non si può più parlare di somma delle prestazioni dei singoli medici. L'opera creativa della giurisprudenza ha dapprima cercato di definire questo "contatto sociale", che da essere considerato la fonte di meri obblighi di protezione senza obbligo primario di prestazione diviene fonte di un "contratto di fatto" sulla base del quale è possibile individuare in capo al medico un obbligo di prestazione ; successivamente cercando di assimilare e ricondurre all' obbligo di prestazione da parte del medico quell' obbligo di assistenza sanitaria di cui è debitrice la struttura, sulla base del contratto stipulato con il medico. Nel panorama dei soggetti operanti nel settore sanitario si iscrivono anzitutto le Aziende Unità Sanitarie Locali, costituite dalla legge di riordino del sistema sanitario nazionale, sono aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, che operano mediante atti di diritto privato, e che sono vincolate al rispetto del principio della economicità della gestione e alla redazione del bilancio d'esercizio, rimanendo in ogni caso soggette al potere di controllo delle Regioni(art.3) . n. 502/1992. La natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria sia pubblica che privata, nei confronti del paziente, è oggi pacificamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, non semplicemente sulla base della stipulazione di un contratto. Alla luce di tali considerazioni parrebbe preferibile una definizione della natura della responsabilità dell'istituto di cura in termini di responsabilità ex lege: la struttura sanitaria, ai sensi della legge 833/1978, è , infatti, legislativamente obbligata allo svolgimento dell'attività di "assistenza medica", con la conseguenza che il non corretto esercizio della stessa costituirebbe inadempimento di una obbligazione legale. Il sistema cd. a " doppio binario", costituisce il periodo intermedio dell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale dell'intera disciplina, nel quale alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva origine contrattuale, mentre a quella del professionista si attribuiva natura aquiliana. In capo al medico gravava solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex 2236 cod. civ., concorrente con quella contrattuale dell' ente. Un doppio binario in cui incanalare la responsabilità aquiliana del medico e quella contrattuale della struttura come responsabilità solidali in cui al medico era riconosciuta la possibilità di valersi di un beneficio di preventiva escussione della struttura sanitaria ogniqualvolta esso sia in grado di dare prova di una "non grave violazione" delle regole desumibili da protocolli scientifici, linee guida, raccomandazioni . Se la qualificazione extracontrattuale della responsabilità di quest'ultimo appariva corretta sul piano metodologico, al contempo risultava troppo riduttiva: ravvisare, infatti, nel medico un "quiusque de populo"significava non tenere conto del rapporto che si instaura direttamente tra quest'ultimo e il paziente . Inoltre, veniva a determinarsi un concorso improprio tra responsabilità aquiliana del medico e contrattuale dell'ente con conseguente bipartizione del regime giuridico applicabile, nonostante la responsabilità dell'ente avesse matrice unica ed esclusiva nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico. A questo punto era utile definire quando si conclude il rapporto contrattuale tra ente e paziente; secondo l'impostazione tradizionale , è la stessa accettazione del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale a segnare la conclusione del "contratto d'opera professionale" tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente,l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica, in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. A questo rapporto contrattuale il medico rimane del tutto estraneo, venendo ad instaurarsi con il malato solo un rapporto "giuridicamente indiretto". Di qui la conclusione che "la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dall'art. La "spersonalizzazione" del rapporto che intercorre tra medico e paziente va di pari passo con l'evoluzione dell'attività medica. Proprio sulla figura del "malato" infatti e non più sulla cura della "malattia" dovrebbe concentrarsi il lavoro del medico e di tutti gli altri operatori sanitari. 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura La responsabilità del medico verso l'ente è strettamente legata al tipo di rapporto che intercorre tra i due soggetti, mentre sostanzialmente irrilevante è la natura pubblica o privata della struttura. I problemi in merito alla responsabilità del medico alle dipendenze della struttura muovono dal non sempre agevole inquadramento di quest'ultimo all' interno del complesso iter organizzativo che vede il coinvolgimento di altre figure sanitarie e di altri fattori interni come apparecchiature e l'erogazione di servizi ad essi correlati. A questo punto analizziamo il caso in cui, il medico, nello svolgimento del suo incarico, provochi un danno al paziente. Quest'ultimo potrà agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro del medico, struttura pubblica o privata, in quanto il suo rapporto è con l'istituzione, alla quale è ricorso, in base alla disciplina della responsabilità contrattuale; A sua volta l'istituzione convenuta in giudizio, può rivalersi civilmente con l'azione di regresso ai sensi dell' art. 2055 c.c. :" Responsabilità solidale.- Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali", nei confronti del proprio dipendente per i danni che sia stata costretta a risarcire al terzo, danneggiato in conseguenza della colpa professionale del medico, così pure può chiamarlo nel processo ove è citata in giudizio. Tornando, solo brevemente al quantum di diligenza richiesto al medico dipendente dalla struttura, la norma di riferimento è l'art. 2104 del c.c., che recita:"Diligenza del prestatore di lavoro.- Altrettanto emblematico si rivela poi il percorso giurisprudenziale in tema di qualificazione della responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria, infatti in tale settore si è registrato un progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale, ritenuta inappropriata in quanto l'assenza di un contratto non può determinare una variazione del contenuto dell' obbligo del medico che rimane pur sempre quello di cui all' art. 1176 secondo comma c.c. Il fondamento normativo della responsabilità del singolo operatore è individuato prevalentemente nell' art. 28 Cost., anche se non mancano riferimenti all' art.1228 c.c. . Medico ed ente sarebbero legati da un contratto di cui il paziente è terzo beneficiario , da ciò discende la sua possibilità di attivarsi contrattualmente anche nei confronti del medico per far valere la non diligente esecuzione della prestazione . In una posizione a se si colloca la sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1999 che propone un nuovo approccio alla problematica mediante il ricorso alla teoria dell' obbligazione senza prestazione basata sul rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale tra medico e paziente . L'attività del medico incide su di un bene costituzionalmente garantito (art.32 Cost.) ed, inoltre, il medico è vincolato al rispetto di una disciplina deontologica particolarmente pregnante . CAP.2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1.Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità. La differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si basa su una diversità strutturale che pone la prima in esito alla violazione di un obbligo funzionale alla realizzazione del diritto e la seconda in esito alla lesione tout court di un diritto . Si pensi al mancato rispetto del vincolo ad attuare il trasferimento del diritto nei contratti ad efficacia reale. Il primo secondo cui:"L' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura ". Siccome a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, nelle vesti di organo dell' Ente ospedaliero, la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno provocato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale; immediata conseguenza quindi è che il diritto al risarcimento del danno, spettante al paziente nei confronti del medico, si prescrive nel termine quinquennale. Un secondo, più recente, orientamento faceva, invece, rientrare la responsabilità del sanitario in ambito contrattuale, assumendo che detta responsabilità, così come quella dell'ente, avrebbe "radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito dell'organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente sarebbe, come quella dell'ente pubblico, di natura professionale" . Detto inquadramento tende, peraltro, ad appiattire ed omologare la responsabilità della struttura a quella del medico; infatti, se da un lato dava importanza al contratto stipulato tra paziente e struttura, tanto da "attirare" nel regime contrattuale anche l'operato del medico, dall'altro individuava, quale unica fonte di danno, l'eventuale comportamento imprudente/negligente del professionista, così trascurando tutte quelle altre possibili cause di danno derivanti dall' inadempimento, da parte dell' ente, di obbligazioni di cui solo quest' ultimo è debitore (es. igiene, controllo dei macchinari, organizzazione del personale). Si deve peraltro segnalare che la Suprema Corte era giunta al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del sanitario dipendente anche tramite altra via, ovvero tramite l'accoglimento della teoria, di origine germanica, del "contratto con effetti protettivi a favore del terzo". Secondo questa impostazione, in alcuni contratti, accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale, sarebbe garantito ed esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. La natura della responsabilità quindi, deve essere individuata non sulla base della condotta ( negligente o meno) in concreto tenuta dall'agente, ma sulla base della natura del precetto violato; sia la responsabilità del medico, sia quella dell'ente ospedaliero hanno entrambe una "radice comune" nell'esecuzione non diligente della prestazione, ma ciò non comporta necessariamente che entrambe le responsabilità siano di natura contrattuale, non potendosi escludere che un fatto, l'attività professionale del medico appunto, integri, da un lato, una responsabilità contrattuale a carico di un soggetto (ente ospedaliero) e, dall'altro, una responsabilità extracontrattuale a carico di un altro soggetto, autore del fatto (medico). Escluso, dunque, di poter fondare la natura contrattuale della responsabilità del medico sulla "radice comune" dell' esecuzione non diligente o sul rapporto di dipendenza tra medico ed ente, l'orientamento di cui trattasi individua la ragione della natura contrattuale degli obblighi di cura dovuti dal medico a favore del paziente nel "contatto sociale" che si instaura tra detti due soggetti; la disamina di tale teoria sarà trattata nel terzo capitolo, per il momento ci apprestiamo ad analizzare alcuni aspetti problematici. Secondo questa lettura, l'attività professionale del medico implica l' adempimento di obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che nascono dall'affidamento inevitabilmente generato dalla stessa professionalità. Con riferimento ai carichi probatori, secondo questa teoria che fonda la responsabilità del medico sul "contatto sociale" con il paziente, "in base alla regola di cui all'art. Parallelamente al descritto iter relativo alla responsabilità del sanitario, si è assistito al riconoscimento di una totale autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella del medico curante. 1228 c.c., per l'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario . Detta lettura, che costituisce un ritorno al passato inquadramento della responsabilità del medico, trova il proprio fondamento normativo nell' art.3 del recente provvedimento legislativo n. 189 dell' 8 novembre 2012 di conversione del c.d. "Decreto Sanità" (d.l. 13 settembre 2012,n. 158), secondo cui: "L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile…". Nel rinvio all' art. 2043 c.c., parte della dottrina legge, infatti, la volontà del legislatore di prendere posizione ,nella disputa sulla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del sanitario, a favore di tale ultima impostazione; sul punto si tornerà in maniera più accurata e approfondita nel capitolo quarto. Ne risulta una riduzione ad unità della responsabilità di diritto civile, questa volta all' insegna del modello contrattuale. Quanto al primo aspetto, costituisce principio giurisprudenziale ormai consolidato che la responsabilità extracontrattuale concorre con quella contrattuale ogniqualvolta all'inosservanza di una previsione negoziale si accompagni la violazione del generale dovere del neminem laedere . La tesi contraria fa perno principalmente sulla "specificità" della tutela creditoria, ovvero sul diritto del creditore alla prestazione che "assorbirebbe", in altre parole, la generica pretesa ad una condotta non dannosa da parte del debitore. In tal caso, dunque, il paziente potrà, quale creditore insoddisfatto, invocare la responsabilità contrattuale; ma al tempo stesso, ricorrere alle regole di responsabilità aquiliana. E' stato in proposito osservato che in sostanza , la funzione del cumulo della responsabilità medica risponde all'esigenza di offrire tutela al diritto alla salute, senza sottrarla al regime aquiliano anche in quei casi in cui la lesione sia stata la conseguenza di un inadempimento, ma nel contempo adottando per la valutazione della condotta medica uno standard unitario, valevole sia per la responsabilità contrattuale che per quella aquiliana, desumibile dal criterio della diligenza professionale ex. art. 1176 c.c. . Si parla di "obblighi di protezione", considerati autonomi rispetto all' obbligo di prestazione, oltre che sul piano della struttura, anche su quello della fonte: nascono dalla legge anche quando fonte dell' obbligazione sia il contratto . La questione rimane aperta e le possibilità configurabili sono tre: a) unicità di natura della responsabilità contrattuale e di quella aquiliana, c.d. reductio ad unum della responsabilità di diritto civile ; b) tertium genus tra contratto e torto; c) tradizionale bipartizione della responsabilità di diritto civile. In dottrina inoltre, di fronte al dilagante fenomeno della c.d."ipertrofia del contratto" , due sono le strategie elaborate: quella della c.d. "terza via" , diretta a far confluire al suo interno tutte le ipotesi tipiche di responsabilità che non rientrano né nel modello extracontrattuale né nel modello contrattuale; e quella della riscoperta, per dir si voglia della portata generale del principio del neminem laedere, in una prospettiva di graduale superamento dell' antinomia tra modello contrattuale e modello extracontrattuale di responsabilità . CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale. Un primo orientamento riconduce la responsabilità del medico inserito all' interno di una struttura sanitaria(sia essa pubblica o privata) all' alveo extracontrattuale. A tal proposito è utile far riferimento alla sentenza che ha segnato i caratteri di questa, ormai anacronistica configurazione. Parte nel contratto d'opera professionale, e nel conseguente rapporto obbligatorio, è l'ente ospedaliero ed esso soltanto, non anche il medico dipendente che provvede in concreto allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica. In sede di conclusione del contratto e di esecuzione della dovuta prestazione professionale, di fronte al paziente si pone esclusivamente la soggettività giuridica dell' ente ospedaliero, nel quale il medico dipendente si immedesima per effetto del rapporto organico, sì che non rileva, nell' ambito e sotto l'aspetto dell' attività diagnostica e terapeutica, il suo status di soggetto di diritto, essendo egli organo per mezzo del quale l'ente ospedaliero adempie la prestazione professionale che è il contenuto dell' obbligazione assunta a proprio carico con la conclusione del contratto ."Quanto all' ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente, quale prestazione che l' ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale. Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell' ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego pubblico che lo lega all' ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere" . Non è configurabile una responsabilità contrattuale del medico dipendente da ente ospedaliero, verso il paziente, in conseguenza dell' errore diagnostico o terapeutico da lui commesso. Il quale errore, però, rileva, cioè sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale . La qualificazione contrattuale della responsabilità del medico dipendente, pur in mancanza di un vincolo negoziale diretto col paziente, è variamente argomentata e costituisce attualmente la questione più complessa della materia. Così, pensando alla prestazione medica o meglio al fine ultimo e sperato di quest' ultima, il "risultato della guarigione", certo non dovuto, pensiamo alla malattie tumorali in fase terminale, indica e seleziona le terapie adeguate al suo (sperato) conseguimento. Il richiamo all' obbligazione senza prestazione, nella sentenza della cassazione n. 589 del 1999 e successive pronunce, appare forse il più problematico fra i tentativi di fondare la responsabilità diretta del medico dipendente da una struttura ospedaliera. Detto ciò, vediamo che obblighi di protezione, obbligazione senza prestazione e contratto con effetti protettivi a favore di terzo, sono inidonei a render conto della complessità di contenuto del rapporto medico-paziente e della sua attuale evoluzione. Limitarsi al profilo della responsabilità aquilliana quindi significherebbe farsi sfuggire il dato più significativo e caratterizzante, il modo in cui oggi realmente si atteggia il rapporto medico-paziente. 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Troppo riduttivo e alquanto garantista appare restringere la responsabilità del medico nell'alveo della responsabilità contrattuale, infatti difficilmente poteva configurarsi un rapporto contrattuale tra medico e paziente, tale da identificare un eventuale danno come inadempimento contrattuale. La responsabilità del medico per i danni cagionati dall' espletamento dell' attività sanitaria ha, pertanto, comunque natura contrattuale, ma derivante dalla posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente a seguito dell' affidamento che quest'ultimo ripone in colui che esercita una professione protetta avente a oggetto il bene, costituzionalmente tutelato, della salute. La cassazione inoltre è intervenuta anche in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, affermando più volte che sussistendo un rapporto contrattuale , quand'anche fondato sul solo contatto sociale, in base alla regola di cui all'art. Natura contrattuale ha quindi la responsabilità del medico ospedaliero anche in caso di inesistenza di un pregresso rapporto obbligatorio col paziente poiché con quest' ultimo, nel momento in cui il sanitario decide di intervenire, si instaura un rapporto contrattuale di fatto . La giurisprudenza quindi, come più volte sottolineato in precedenza, operava una distinzione tra la responsabilità della struttura sanitaria, ritenuta da inadempimento a seguito dell' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale con l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e terapeutica in relazione alla situazione patologica del paziente preso in cura, dopo il pagamento del ticket, ipotizzando la conclusione di un contratto d'opera professionale tra paziente ed ente ospedaliero, mentre la natura della responsabilità del medico, dipendente e pagato dalla struttura pubblica, nei confronti del paziente, per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico, veniva qualificata extracontrattuale, con esclusione della colpa lieve nei casi di negligenza o imprudenza . La tesi contrattualistica della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria è stata variamente argomentata da dottrina e giurisprudenza, sino ad essere cristallizzata, sotto un peculiare profilo, dalla nota pronuncia n.589/99 della Suprema Corte. Secondo un primo orientamento , la responsabilità contrattuale del medico dipendente troverebbe fondamento nell' art.28 Cost.; tanto la responsabilità dell' ente, quanto quella dell' operatore sanitario troverebbero, cioè, radice nella medesima condotta, ossia nell' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria. Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come "rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele" . La prima esperienza applicativa di questa teoria riguarda la responsabilità da contatto sociale del medico strutturato e le note difficoltà di inquadramento del rapporto tra ente, medico e paziente. Come già accennato il primo riconoscimento della validità del contatto sociale come fonte di responsabilità è avvenuto nella nota sentenza della Suprema Corte n. 589 del 22 gennaio 1999, ed ha ad oggetto la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico per il danno cagionato ad un paziente da un'errata diagnosi, con conseguente non corretto trattamento terapeutico. Più controverso è stato individuare la natura della responsabilità del medico dipendente. In alcune sentenze la Suprema corte ha peraltro optato per una responsabilità contrattuale del sanitario. Ciò perché si inseriva la prestazione del medico nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, e si rilevava la diretta relazione che lega detta prestazione all' aspettativa del privato richiedente il servizio, ravvisandosi una responsabilità contrattuale sia dell' ente ospedaliero che del medico da cui questo dipende . Questo orientamento parte dal presupposto che, attraverso l'immedesimazione organica tra l'ente pubblico ed i suoi dipendenti, i danni causati all' assistito dall' esecuzione non diligente della prestazione del medico dipendente sono fonte di responsabilità diretta per l'ente gestore del servizio sanitario. La riconduzione in schemi contrattualistica anche della responsabilità del medico dipendente si desume poi dall' art. 28 della cost. che contempla, unitamente alla responsabilità dell' ente, quella del dipendente, essendo entrambe tali responsabilità fondate sull' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico. L'unicità del fondamento comporta quindi che anche quella del medico sarebbe una responsabilità contrattuale di natura professionale . È stata, infatti, definita un sottoinsieme della responsabilità civile o un settore multidisciplinare all' interno del quale vige un regime giuridico speciale , . L'atipicità del modello di responsabilità medica si desume anche dal fatto che, pure quando è stata collocata all' interno della responsabilità aquiliana, ad essa sono stati applicati comunque istituti propri della responsabilità contrattuale, quali la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato, il criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale, la limitazione di responsabilità di cui all' art. 2236 c.c. 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le SU della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Da ciò ne consegue che la responsabilità dell' ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell' esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi , ovviamente tale qualificazione non discende dalla fonte dell' obbligazione ma dal contenuto del rapporto . 2236 c.c., essere allegata e provata dal medico ; a proposito della responsabilità professionale da contratto o contatto sociale del medico, la Corte in una pronuncia afferma che al fine del riparto dell' onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale, e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un' affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato . Ancora, in tema di responsabilità professionale del medico, ove pure quest' ultimo si limiti alla diagnosi e all' illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell' intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenere il necessario consenso informato, ha natura contrattuale e non precontrattuale e quindi ne consegue che a fronte dell' allegazione, da parte del paziente dell' inadempimento dell' obbligo di informazione, è il medico gravato dell' onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione .Dalle varie pronunce si evince come la sentenza n. 589 del 1999 ha sicuramente trovato un riscontro favorevole nella successiva giurisprudenza. Ricondurre all' alveo della responsabilità contrattuale da contatto sociale la responsabilità del medico dipendente ha però senz' altro esposto la professione medica alla cd. medicina difensiva. E' evidente che l'estensione ai medici del servizio sanitario nazionale della responsabilità contrattuale , che riduce notevolmente le possibilità di difesa da ingiuste o non provate accuse di violazione del contratto, non potrà che accelerare questo orientamento delle compagnie di assicurazione. La responsabilità del medico sembra concretizzarsi non all' atto dell' assunzione di un obbligo, ma in esecuzione dell' obbligazione sanitaria e quanto al suo contenuto, questo si atteggia come una normale obbligazione che richiama comportamenti destinati a produrre un risultato utile per il creditore. Come visto, nel tentativo di ricostruire il rapporto medico-paziente come autenticamente contrattuale vediamo come nella prestazione del medico nei confronti del paziente ciò che sembra sfuggire è l' accordo tra le due parti che deve precedere l'esecuzione della prestazione. Per quel che concerne, poi, il criterio della risarcibilità del danno, esso, a prescindere dalla natura della responsabilità individuata, viene sempre limitato all' interesse a non subire danni alla salute. La lesione dell' interesse positivo al contratto può venire in considerazione, in particolare, nel caso in cui si possa individuare in maniera distinta sia un interesse alla prestazione migliorativa, che un interesse alla prestazione conservativa. CAP. 4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce. Nel capitolo precedente abbiamo visto come attraverso l'espediente del contatto sociale, come fonte di protezione tra medico e paziente, si compie una perfetta omologazione in punto di disciplina della responsabilità del medico a quella della struttura e viene salvaguardata, in nome della radice comune delle due responsabilità, l'unitarietà del regime di regole applicabile ad entrambi. Dal "fatto illecito del medico", che negli anni 80 aveva sorretto la configurazione di un regime unitario di regole di responsabilità, si trascorre oggi alla "non diligente esecuzione della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente nell' ambito dell' organizzazione sanitaria" . In tal modo si individua nell' "operato professionale", in cui si incardina il "fare" del sanitario/dipendente della struttura, quel "fatto dannoso comune" che sorregge la responsabilità solidali di medici e strutture. Quindi la responsabilità del medico dal paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa, trascorre al paradigma di una responsabilità semi-oggettiva in quanto la prova liberatoria ad esso richiesta non è quella dell' assenza di colpa bensì quella specifica dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa di danno alla salute . Tutto ciò perché nell' interpretazione che ormai si impone in giurisprudenza con riguardo alla ben nota regola probatoria contenuta nell' art. 1218, nel riferimento anche all' inesatto adempimento di obbligazioni che hanno per oggetto un fare professionale del medico, l'intero carico probatorio si sposta sulla struttura e sul medico e senza distinzioni di sorta si richiede ad entrambi come prova liberatoria, a fronte dell' allegazione dell' inadempimento da parte del paziente, non la prova dell' assenza di colpa bensì quella dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa del danno alla salute del paziente . Si giunge cosi a considerare esigibile dal medico "strutturato", oltreché dall' ente, quel "risultato conseguibile, secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, all'abilità tecnica del primo, e alla capacità tecnico-organizzativa dell' ente" , del quale entrambi sono chiamati a rispondere fino alla prova di quell' evento imprevisto/imprevedibile/non prevenibile, che è stato causa dell' insuccesso del trattamento sanitario o del mancato miglioramento della salute del paziente. Oggi il medico, se dipendente di struttura, nonostante nelle massime si continui a declamare la sua responsabilità per colpa al pari degli altri professionisti intellettuali, diviene oggi "garante della salute" del paziente rispondendo di qualsiasi insuccesso della terapia fino al limite della complicanza non prevedibile o non prevenibile, e ciò anche nei casi in cui l' insuccesso sia riconducibile a fattori risalenti all' organizzazione . Ovviamente si parla sempre di responsabilità da violazione di obblighi che, a prescindere dalla fonte, vuoi da contatto sociale vuoi da contratto, vengono comunque ricondotte all' art. 1218, salvo differenziarsi sui contenuti della prova liberatoria posta a carico del medico. Per il primo, si richiede l' identificazione della causa, eccezionale e non prevedibile con la diligenza ordinaria, che sia stata all' origine dell' insuccesso del trattamento e/o del danno alla salute del paziente; per il secondo, che svolge la sua opera al di fuori di un'organizzazione sanitaria, si ritiene essere sufficiente, come prova liberatoria, quella della corretta esecuzione della prestazione o comunque del fatto che l'inadempimento non sia stato causa del danno. Ovviamente nel nostro sistema ciò è avvenuto, senza abbandonare il modello unitario di disciplina della responsabilità di medici e strutture che si regge su un fatto dannoso comune come presupposto fondante entrambe le responsabilità; modello che se in passato ha condotto ad omologare la responsabilità della struttura a quella del medico, oggi, in una inversione di tendenza, fa si che sia la responsabilità del medico ad adeguarsi in punto di disciplina, a quella della struttura. In questo clima dunque la nostra classe medica è stata attratta dal vortice della medicina difensiva, della quale abbiamo avuto modo di parlare all' inizio del paragrafo. L'obiettivo del legislatore è, allora, quello di farsi carico con misure concrete del problema, tentando di porre un freno al dilagare del contenzioso giudiziario e dei costi connessi. A completare il quadro l'estrema specializzazione di ogni operatore sanitario, insieme alla crescente difficoltà di aggiornamento e alla complessità della strumentazione moderna; lo svolgimento del lavoro in equipe e all' interno delle strutture sanitarie; la presenza di norme sempre più dettagliate e l'enfatizzazione del diritto alla salute, che ha fatto salire il livello di attesa di un risultato favorevole. In tale contesto si inserisce l' art. 3 del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.189, articolo specificamente dedicato alla "responsabilità professionale dell' esercente la professione sanitaria", che pare riportare la responsabilità del medico nella disciplina dell' illecito. L'art 3 del decreto legge stabiliva: Al comma I, che :"Fermo restando il disposto dell' art. 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell' attività dell' esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell' art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell' osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità nazionale e internazionale.". Al comma quarto che: "Fatto salvo quanto previsto al comma I, la responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario medico e non medico, occorsi nell' ambito di una struttura sanitaria pubblica, privata accreditata e privata è sempre a carico della struttura stessa". - In tali casi resta comunque fermo l' obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo"; Il comma quarto è stato, invece rimosso dal testo legislativo finale. Inoltre parte della dottrina, tra cui l'autore N. Todeschini, affermano che il legislatore avrebbe introdotto una mera lex specialis, per i soli dipendenti del sistema medico sanitario, senza tener conto che la responsabilità del medico fa parte delle "responsabilità nei servizi sanitari"; sottolineando anche come il ritorno all' applicazione della disciplina sull' illecito aquiliano, più gravosa per il paziente in ordine all' onere probatorio ed ai termini di prescrizione, volta a ridurre il contenzioso sulla responsabilità del medico,indebolirebbe sia il diritto alla salute, sia il diritto ad essere curati dal servizio sanitario, sia la stessa tutela della salute . Volendo passare in rassegna le due versioni della norma vediamo come il legislatore abbia inteso perseguire il proprio obiettivo focalizzando l'attenzione sulla "colpa professionale" del medico, così restituendo all' elemento soggettivo, troppo spesso trascurato nelle decisioni dei giudici, un ruolo centrale nella responsabilità del medico. Questa scelta definita da molti autori "demolitiva", da un lato, lascia intendere che per l'ente continuino a valere quelle regole già coniate prima dell' entrata in vigore della recente modifica; regole all' insegna di una responsabilità semioggettiva, che trova il proprio limite nella dimostrazione dell' evento imprevisto ed imprevedibile che abbia causato il mancato miglioramento del paziente; dall' altro lato, porta a ritenere che la volontà del legislatore di dettare una norma dedicata esclusivamente alla responsabilità del medico, significhi, implicitamente, aver ammesso che il regime applicabile al sanitario deve considerarsi disciplinato da regole separate ed autonome, sia con riguardo alla fonte, sia alla natura della responsabilità, rispetto a quelle indirizzate alla struttura. Come emerge dalla lettura proposta del comma 1, dell'art. 3, si ritiene che il legislatore, con l'ultima versione dell' articolato, abbia operato una "scelta di campo" a favore della natura extracontrattuale della responsabilità del medico, con le relative conseguenze in tema di elemento soggettivo, termine di prescrizione ed onere della prova . 3 della l. 8.11.2012 come disposizione, espressamente dedicata a disciplinare la responsabilità degli "esercenti la professione sanitaria", rivela dunque, nel silenzio serbato nei confronti di chi è oggi il protagonista chiave nel giudizio civile e cioè la struttura che è anche solidalmente responsabile con il medico, di voler guardare alla responsabilità del medico, in modo del tutto autonomo dalla responsabilità della struttura, confermandone il suo inquadramento nell' ambito delle responsabilità professionali da status. 3 del decreto sanità, nel riferimento alla prova di una diligenza, qualificata dall' applicazione delle L.G., con importanti implicazioni sulla quantificazione del risarcimento del danno in termini di riduzione, abbia inteso, nel rinvio all' art. 2043 c.c., far gravare sul paziente la prova della colpa medica all' insegna di un non dovuto o non richiesto dalle circostanze del caso, adeguamento alle L.G., che solo al medico compete individuare tra le diverse accreditate dalle Società scientifiche. Molti autori sostengono in definitiva che la norma del decreto Balduzzi sia "precettiva" con riguardo alla colpa penale e al criterio di quantificazione del danno in sede civile, mentre è una norma "interpretativa" con riguardo alla colpa civile del medico; la sua rilevanza nella gerarchia delle fonti consiste nell' evidenza di riassegnare un ruolo centrale alla responsabilità da fatto illecito, in linea con la tradizione, e conferma l'intuizione dottrinale dell' attualità, per così dire, del paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa . In senso favorevole a una restaurazione del sistema vertente sulla natura aquiliana della responsabilità del medico, il Tribunale di Varese, nella sentenza 26 novembre 2012, n.1406, si è pronunciato motivando il revirement in forza di una maggiore coerenza con i nuclei ispiratori della disciplina di riforma sanitaria. Ciò in considerazione dell' aumento esponenziale e spesso pretestuoso del contenzioso nei confronti dei sanitari. Viene sottolineato anche il fatto che se il richiamo all' art. 2043 c.c. imponesse l'adozione di un modello extracontrattuale, l'applicazione rigorosa della norma ne comporterebbe l'applicazione anche alle ipotesi pacificamente contrattuali, quali i rapporti fra pazienti e medici liberi professionisti, dal momento che il primo periodo dell' art. 3, comma 1, secondo periodo della legge Balduzzi, in conformità con la collocazione sistematica e con la ratio dell' intervento legislativo, ha il solo scopo di richiamare la disposizione cardine espressione del principio del neminem laedere e del conseguente obbligo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del suddetto principio. 3 del decreto legge 158/2012 scolpiva la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria pubblica, e dei medici pubblici dipendenti, il novellato art. 3 della legge di conversione, opta per la soluzione opposta, facendo scomparire ogni riferimento esplicito alla qualificazione in termini contrattuali della responsabilità del medico pubblico dipendente, con il chiaro ed indubbio riferimento all' art. 2043. Come abbiamo già visto poi la legge di conversione, ribaltando la norma del decreto legge che faceva una chiara scelta in tema di responsabilità risarcitoria del medico pubblico dipendente, richiama espressamente i criteri della responsabilità aquiliana, ritenendo che la responsabilità civile del medico non debba rifarsi ad una responsabilità da inadempimento con gli indubbi vantaggi del paziente in tema di prescrizione ed onere della prova, ma alla responsabilità aquiliana. In altri termini, al fine di contenere gli oneri risarcitori della spesa pubblica, il nuovo art. 3 della l. 189/2012, intende intervenire sul "diritto vivente", operando una scelta di campo finalizzata al valore del risparmio e non della salute del paziente. Il Tribunale di Torino non utilizza la teorica del contatto sociale e quindi rigetta la domanda del paziente per i danni subiti in ospedale, nel caso di specie la frattura del femore, per non aver fornito la prova della colpa delle parti convenute, e quindi del fatto illecito. Tralasciando i riscontri penalistici, per il caso di colpa lieve, che per molti è limitata alla sola imperizia e non anche alla negligenza e imprudenza, la persistenza della stessa responsabilità civile va riportata all' art. 2043 c.c., infatti la norma sottolinea come :" In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 c.c. Ovviamente il giudice nella determinazione del risarcimento del danno terrà conto della condotta del medico richiamata nel primo periodo dell' art. 3, e quindi anche se l'esercente si attiene alle c.d. L.G. e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, nel momento in cui provochi dei danni al paziente, sarà tenuto al risarcimento danni ex art. 2043; se poi verrà accertato che la sua attività sia stata condotta con negligenza e imprudenza e non solo imperizia, risponderà anche in sede penale. Tutto ciò fa si che la paziente abbia stipulato, al momento dell'accordo con il medico dr. Le due sentenze ribadiscono che la responsabilità del medico, così come quella della struttura sanitaria, ha ancora natura contrattuale; anche l' obbligazione del medico dipendente dall' azienda sanitaria nei confronti del paziente, seppur fondata sul contatto sociale, costituisce vincolo contrattuale. La tutela del paziente passa in primo piano senza però sfociare in eccessive estensioni della responsabilità, civile e penale, che in passato hanno fomentato il ricorso alla medicina difensiva. Il richiamo all' art. 2043 c.c. all' interno dell'art.3 della legge Balduzzi è stato letto da molti autori come un vero e proprio fondamento normativo della responsabilità del medico ospedaliero di natura extracontrattuale. A conferma di questa prima interpretazione sono intervenute numerose sentenze, tra le quali è utile ricordare quella del tribunale di Milano che afferma come: Sembra corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell' onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno". La tesi che però oggi è prevalente in giurisprudenza è quella che qualifica come "contrattuale" la responsabilità medica, per agevolare la posizione del paziente, responsabilità che nasce non dal contratto atipico di spedalità, che riguarda il rapporto del paziente con la struttura, bensì dal "contatto sociale" istituito tra medico ospedaliero e paziente. In conclusione del presente lavoro appare opportuno richiamare alcune novità contenute negli articoli 6 e 7 del ddl sulla responsabilità professionale n. 1324 dell' 8 luglio 2013. La prima novità si lega a una delle critiche mosse alla legge Balduzzi: avere fatto un riferimento troppo generico alla colpa. Inoltre, per quello che ci interessa più da vicino, dalla natura "extracontrattuale" della responsabilità in capo all' esercente la professione sanitaria sono esclusi i liberi professionisti . La responsabilità contrattuale delle strutture viene allargata anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime intramurario, nonché attraverso la "telemedicina". 1912, 744. CARUSI, Responsabilità del medico e obbligazione di mezzi, in Rass. giur. Treccani, 1990. CASTRONOVO C., Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979 in La responsabilità medica, Giuffrè editore, Milano, 2004 , 22. CATTANEO C., La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 313. CATTANEO C., La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, 11. CHINDEMI D., La responsabilità contabile e danno erariale della asl e del medico, in Resp. 2011, 1400. CHINDEMI D., Resonsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, terza edizione, Milano, 2015, 60ss. DE LUCA M, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma, 2012, 24-78. DE MATTEIS R., Dall' atto medico all' attività sanitaria. Un sottosistema della responsabilità civile, Cedam, Padova, 1995, 3. DE MATTEIS R., Responsabilità in ambito sanitario, Cedam, 2014, 133ss. 1996, 899. FORZIATI, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il "contatto sociale" conquista la Cassazione, in Resp. 1999, 681. GALGANO F., Contratto e responsabilità contrattuale nell' attività sanitaria, in Riv. Civ., 1984, 710. GALGANO F., La responsabilità medica. Un sottoinsieme della responsabilità civile, Padova, 1995, in La responsabilità medica: dal torto al contratto, Massimo Paradiso. IAMICELI P., La responsabilità civile del medico, Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon P., La responsabilità civile, Utet, Torino, 316. IAMICELI P., Responsabilità del medico dipendente: interessi protetti e liquidazione del danno, in Corr.giur., 2000, 376 ss. INTRONA F., Un paradosso: con il progresso della medicina aumentano i processi contro i medici, in Riv.med. MAZZAMUTO S., Note in tema di responsabilità civile del medico, in Europa e dir. , 2013. PIZZETTI F.G., La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da "contatto sociale", in in Giur. it., 2000, 746. PRINCIGALLI, La responsabilità del medico, Napoli, 1983, 36. PUCELLA R., Trattato breve della responsabilità civile., Civ., 2013, 77. ZAMBRANO, Interesse del paziente e responsabilità medica nel diritto civile italiano e comparato, Napoli, 1993, 232. ZAULI F., La responsabilità professionale da contatto sociale del medico e inadempimento contrattuale dell'azienda sanitaria, in Ragiusan 2011, 331. ZENO, ZENOCOVIC V., Il danno al nascituro, in Nuova giur. Civ. comm., 2001, 1574. Cass., 29 aprile 2003, n. 6673, in La responsabilità penale e civile del medico, 2013. Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, in Danno e resp., 11 marzo 2013, n. 11493, in Guida al dir., 13 settembre 2013 n. 37764, in Guida al dir.
L'oggetto di questa tesi è la peculiare comparsa del termine imperator in un numero esiguo, ma comunque significativo di documenti provenienti dal regno di Asturia e León e dalla Britannia del X secolo. Se già di per sé questa sorta di "incongruenza storica" cattura l'attenzione, il fatto che i due fenomeni imperiali siano praticamente contemporanei e si sviluppino in due contesti molto distanti nello spazio, senza un apparente collegamento, evidenzia l'opportunità di uno studio comparativo. Ad una più attenta analisi, non si può fare a meno di notare come, in entrambi gli ambiti, il secolo immediatamente precedente sia stato caratterizzato da un momento particolarmente favorevole per la cultura – el renacimiento asturiano e the alfredian renaissance – reso possibile dall'azione attiva di due monarchi, Alfonso III di Asturia e León (866-910) e Alfred di Wessex (871-899). Nelle corti di questi sovrani vennero redatte delle cronache (le Crónicas Asturianas e la Anglo-Saxon Chronicle) nelle quali si proponeva una chiave di lettura della storia tesa a ricercare una nuova identità per i rispettivi popoli e si sottolineava il ruolo centrale delle rispettive dinastie regnanti. L'obiettivo della tesi è pertanto duplice: da una parte si desidera comprendere in quale modo e in quale senso sia stato utilizzato il termine imperator nella documentazione presa in esame, dall'altra si prova a capire quale peso ebbero le nuove identità etniche, religiose e territoriali, elaborate nelle già citate cronache, all'interno di questi fenomeni imperiali. Per una miglior resa dell'argomentazione si è deciso di dividere la tesi in due blocchi, il primo dedicato alle cronache del IX secolo e il secondo ai documenti in cui compare il titolo imperiale, risalenti al secolo successivo. A sua volta ciascun blocco si divide quindi in due capitoli, all'interno dei quali le tematiche vengono declinate nel caso ispanico e in quello anglosassone. La tesi si apre con la presentazione dei criteri impiegati nella selezione del corpus di "documenti imperiali" (Cap. 1) – nome con cui si definiscono i diplomi al cui interno compare il titolo di imperator – che ammontano ad un totale 38, di cui 20 asturiano-leonesi (privati e pubblici) e 18 anglosassoni (esclusivamente pubblici). A seguire viene fornito il contesto storico (Cap. 2) e lo status quaestionis (Cap. 3). Nel primo capitolo del primo blocco (Cap. 4) vengono trattate le tre cronache prodotte nella corte asturiano-leonese alla fine del IX secolo: conosciute anche come Crónicas Asturianas, sono intitolate rispettivamente Crónica Albeldense, Crónica Profetica e Crónica de Alfonso III. Per rendere il quadro qui esposto il più completo possibile si inizia trattando il patrimonio librario a disposizione degli autori delle cronache. A seguire si delineano i profili delle tre opere, soffermandosi in particolar modo sulla loro paternità e datazione. Si forniscono quindi indicazioni sulla tradizione manoscritta di queste cronache per poi tracciare un percorso tra le fonti. In questa parte si chiariscono concetti come quello di identità (etnica, religiosa e geografica), e si assiste alla comparsa di temi storiografici come quelli della Reconquista e del neogoticismo. Questi elementi costituiscono il punto di partenza per un ragionamento teso a far emergere il background ideologico comune a tutte e tre cronache. Nel corrispettivo capitolo inglese (Cap. 5) si delinea un profilo della produzione letteraria, in particolare storiografica, che ha caratterizzato le ultime due decadi del IX secolo anglosassone. Si inizia inquadrando gli uomini che formarono parte della cosiddetta alfredian reinassance per poi analizzare il ruolo avuto, all'interno di questo momento di rinascita culturale, dalle traduzioni in Old English delle grandi opere storiografiche. Infine, si propone una rilettura dell'unica opera storiografica scritta ex novo – l'Anglo-Saxon Chronicle – dalla quale emerge come fil rouge il concetto di overlordship. Questo è il nome che gli studiosi moderni hanno dato all'autorità che alcuni re anglosassoni poterono esercitare al di sopra degli altri regni dell'isola: si trattava di una supremazia principalmente militare che portava un re, per periodi spesso brevi, ad imporre la propria sovranità – e talvolta dei tributi – a popolazioni diverse dalla propria. Questa idea di sovranità sovrapposta era già presente in Beda e viene recuperata dai cronisti anglosassoni che la ricollegano, in maniera evidente, alla dinastia dei re del Wessex, coniando per quei re che la detennero la parola bretwalda. A conclusione del primo blocco è presente un capitolo di confronto (Cap. 6) che permette di tirare le somme della prima metà della tesi. Si ribadiscono alcuni punti in comune tra i due casi di studio qui definiti "macrocongruenze": sia la Britannia che la Spania erano parte dell'impero romano, ma non di quello carolingio e subirono un'invasione durante l'Alto Medioevo (danesi/norvegesi la prima e islamici la seconda); in entrambi i casi la produzione di cultura scritta durante il IX secolo orbitava attorno alla figura del monarca; le cronache del periodo celebrano la dinastia regnante come elemento cardine della storia "nazionale" e così facendo ne legittimano l'autorità; fra le pagine di queste cronache vengono proposte nuove identità per entrambe le popolazioni. Tuttavia, al di là di queste evidenti somiglianze, si è notato come, all'interno della cronachistica, si sia arrivati a due modi particolari di rappresentare sé stessi, il proprio regno, il proprio popolo e il proprio contesto geografico. Sono queste differenze a suscitare un particolare interesse dal momento che, come è stato chiaro sin dalla sua fase embrionale, in nessun modo lo scopo di questa ricerca è l'omologazione: non si sta cercando di uniformare la storia inglese del IX e X secolo con quella spagnola dello stesso periodo, per quanto esse abbiano sicuramente dei punti in comune. Nel capitolo di confronto si riflette quindi sulle particolari soluzioni autorappresentative soluzioni a cui sono giunti i cronisti asturiani e anglosassoni riguardo a tre punti chiave: il recupero del passato, la concezione territoriale dell'ambiente geografico e la questione identitaria. Non si può infatti trascurare il differente peso che ebbero nei relativi ambiti il ricordo del regno visigoto e quello dell'Eptarchia anglosassone e dunque, rispettivamente, le opere di Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile. Sarebbe inoltre sbagliato non sottolineare le differenze tra le due nuove proposte identitarie: quella inglese su base spiccatamente etnica (Angelcynn) e quella ispanica su base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Non poteva infine mancare un paragrafo dedicato ai differenti rapporti tra i due ambiti studiati e il mondo carolingio contemporaneo. Nel secondo blocco vengono sviscerati i fenomeni imperiali. Il capitolo dedicato all'ambito ispanico (Cap. 7) si apre con una riflessione sulle varie figure di scriptores del regno di León e sul peso avuto dai formulari visigoti nella documentazione altomedievale. Al principio del corrispettivo capitolo inglese (Cap. 8) vengono invece presentati due casi di utilizzo del termine imperiale precedenti il X secolo: quello di sant'Oswald di Northumbria (634-642) nella Vita Sancti Columbae di Adomnano di Iona e quello di Coenwulf di Mercia (796-821) nel documento S153. Seguono due paragrafi dedicati alla documentazione di Edward the Elder (899-924) e Æthelstan (924-939) che mettono in luce un sostanziale sviluppo della titolatura regia, indice di un progressivo ampliamento dell'autorità di questi monarchi. Il centro di entrambi i capitoli del secondo blocco consiste nella dettagliata analisi dei documenti imperiali e nelle riflessioni che da questa scaturiscono. Nel caso spagnolo è possibile affermare con una certa sicurezza che l'uso del titolo imperator ebbe inizio con il figlio, Ordoño II, che lo attribuì al padre per rafforzare la propria posizione di re di León. Tra la morte di Ordoño II (924) e l'ascesa al trono di Ramiro II (931) il titolo cominciò ad essere adoperato anche nella documentazione privata, senza per questo scomparire da quella regia. Non è purtroppo possibile cercare di ricondurre il fenomeno imperiale ispanico alla figura di uno scriptor in particolare – a differenza del caso inglese –; va però fatto presente che alcuni testi risalenti alla seconda metà del secolo differiscono dai documenti di Ordoño II nell'impiego del termine, poiché questo viene usato in riferimento al re vivente, anziché al padre defunto. Il titolo, almeno all'inizio del X secolo, non sembra riflettere un'autorità superiore (per l'appunto imperiale), ma richiama la sua più antica accezione, quella di "generale vittorioso" e costituisce una prerogativa dei sovrani leonesi. Per quanto riguarda il fenomeno imperiale inglese, invece, è possibile individuare un punto di inizio nei famosi alliterative charters, probabilmente redatti da Koenwald di Worcester (928/9- 957), sulla cui paternità si discute lungamente nella tesi. Sembra chiaro che imperator altro non sia che la traduzione latina di quello che gli storici hanno definito overlord. Tramite l'impiego di tale titolo i sovrani anglosassoni hanno voluto rappresentare la loro crescente egemonia sugli altri regni dell'isola, rivendicando così un'autorità più territoriale che etnica. Occorre però far presente che l'uso della terminologia imperiale forma parte di quel più ampio processo di evoluzione della titolatura regia già iniziato con Edward the Elder. Queste riflessioni vengono poi messe in relazione con quelle del primo blocco e sviluppate nelle conclusioni (Cap. 9). Esse vertono su quattro punti fondamentali: l'uso del documento e della lingua latina nei due ambiti; la Britannia e la Spania come universi a sé; il significato di imperator nei due contesti documentari; la concezione territoriale come presupposto teorico e geografico di questo utilizzo. La lettura delle fonti ci permette di affermare che entrambi i contesti rappresentavano per i rispettivi sovrani degli universi idealmente a sé stanti. I sovrani leonesi e anglosassoni ereditarono dai loro predecessori non solo una "missione" politica – di riconquista per i primi e di controllo per i secondi –, ma anche una specifica concezione – diversa per ciascun caso – dell'ambiente geografico in cui si trovavano a operare. La Britannia del re-imperatore anglosassone è la Britannia di Beda, frammentata e divisa, eppure tutto sommato unita. La Spania dei re leonesi è la Spania di Isidoro, unita, omogenea, ma drammaticamente perduta. Tuttavia, per il caso spagnolo e nel periodo qui preso in esame, al titolo non venne mai accostato un riferimento spaziale che rimandasse ad un dominio su tutta la penisola. In quello inglese, invece, tale accostamento ci fu, ma il riferimento geografico alla Britannia non fu un'esclusiva del titolo imperiale. Possiamo quindi dire che, nel caso inglese, il titolo nacque per il bisogno di tradurre in latino un'autorità indiretta ed egemonica (come quella di un rex regum), e perse poi questo significato – e quindi l'uso –, quando la situazione politica del regno si modificò; nel caso spagnolo invece, avvenne un'elaborazione quasi simmetricamente opposta. Il titolo, inizialmente usato nel suo significato più antico di "generale vittorioso" o "signore potente", venne poi reinterpretato quando nell'XI e XII secolo cambiarono gli equilibri politici della penisola. In questo periodo troviamo infatti sovrani come Alfonso VI e Alfonso VII impiegare titolature quali imperator totius Hispaniae. In entrambi i casi, l'imperator venne inteso come sinonimo di rex regum, ma in due momenti diversi: ovvero quando ve ne fu effettivamente bisogno. La tesi è provvista di mappe e della bibliografia, divisa tra fonti e studi. Inoltre si è considerato utile aggiungere in appendice i testi dei documenti imperiali. ; The subject of this thesis is the peculiar presence of the term imperator in a small, but still significant, number of 10th century documents from the reign of Asturia and León and from Britain. The fact that these two "imperial phenomena" coexisted and developed in two very distant contexts, without an apparent connection, makes a comparative study necessary. Also, in both areas the previous century was characterized by a particularly favorable moment for culture - el renacimiento asturiano and the alfredian renaissance - made possible by the action of two monarchs, Alfonso III of Asturia and León (866-910) and Alfred of Wessex (871-899). In these sovereigns' courts, chronicles were drawn up (the Crónicas Asturianas and the Anglo-Saxon Chronicle), proposing an interpretation of history which tend to seek a new identity for the respective peoples, highlighting the central role of the respective ruling dynasties. The aim of the thesis is therefore twofold: on the one hand, to understand in what way and in what sense the term imperator was used in the documentation examined; on the other hand, to estimate what weight the new ethnic, religious and territorial identities had within these imperial phenomena. For a better performance of the argument, it was decided to divide the thesis into two parts, the first dedicated to the chronicles of the 9th century and the second to the documents of the following century in which the imperial title appears. In turn, each part is divided into two chapters focused on Hispanic and Anglo-Saxon cases. The thesis opens with the presentation of the criteria used in the selection of the corpus (Ch. 1), which amounts to a total of 38 imperial documents, of which 20 Asturian-Leonese (private and public) and 18 Anglo-Saxon (exclusively public). The historical context (Ch. 2) and the status quaestionis (Ch. 3) are provided below. The first chapter of the first part (Ch. 4) deals with the three chronicles produced in the Asturian-Leonese court at the end of the 9th century. Also known as Crónicas Asturianas. they are respectively entitled Crónica Albeldense, Crónica Profetica and Crónica de Alfonso III. This chapter starts treating the Asturian library, available to the authors of the chronicles, and follows with the description of each chronicle, focusing on their paternity and dating. It then provides information about the manuscript tradition of each chronicle and it finally ends with an overall reading of the sources. Here, concepts such as identity (ethnic, religious and geographic) are clarified, and we observe the origin of historiographic themes such as those of the Reconquista and neo-Gothicism. These elements constitute the starting point for a reflection aimed at bringing out the ideological background common to all three chronicles. In the corresponding English chapter (Ch. 5) is outlined a profile of the literary production, in particular historiographic, which characterized the last two decades of the 9th century in England. We start by framing the men who formed part in the so-called alfredian reinassance and then analyze the role played in this moment of cultural rebirth by the translations in Old English of the great historiographic works. Finally, we propose a rereading of the only historiographic work written ex novo, the Anglo-Saxon Chronicle, where the concept of overlordship emerges as a common thread. Overlordship is the name that modern scholars have given to the authority that some Anglo-Saxon kings were able to exercise over other kings in the island. It is a predominantly military supremacy which leads a king, for often short periods, to impose his sovereignty - and sometimes tributes - on populations other than his own. This idea of overlapped sovereignty was already present in Beda and is recovered by the Anglo-Saxon chroniclers who relate it, explicity, to the dynasty of the kings of Wessex, coining for those kings who held it the term bretwalda. At the end of the first part there is a comparison chapter (Ch. 6) that draws the conclusions of the first half of the thesis. Some points in common (here called "macrocongruenze") between the two case studies are reiterated: both Britain and Spania formed part of the Roman Empire, but not of the Carolingian Empire and both suffered an invasion during the Early Middle Ages (Danes / Norwegians and Muslims); in both cases the production of written culture, during the 9th century, orbited around the figure of the monarch; the chronicles celebrate the reigning dynasty as the centre of "national" history to legitimize its authority; among the pages of these chronicles new identities are proposed for both populations. However, beyond these obvious similarities, it has been noted that the chronicles adopted two different ways of self-representing themselves, their kingdom, their people and their geographical context. The comparison chapter therefore reflects on three key points: the recovery of the past, the territorial conception of the geographical environment and the identity issue. In fact, we cannot neglect the different importance that the memory of the Visigoth kingdom and of the Anglo-Saxon Heptarchy (and therefore, respectively, the works of Isidore of Seville and the Venerable Bede) had. It would also be wrong not to underline the differences between the two new identity proposals: the English one had a distinctly ethnic base (Angelcynn), while the Hispanic base was mainly religious base (regnum Xristianorum). The last paragraph if finally dedicated to the different relationships between the two areas studied and the contemporary Carolingian world could not be missing. In the second block imperial phenomena are examined. The chapter dedicated to the Hispanic context (Ch. 7) opens with a reflection on the various figures of scriptores of the kingdom of León and on the weight of Visigoth formulae in the early medieval documentation. At the beginning of the corresponding English chapter (Ch. 8) are presented two cases of a use of the imperial term preceding the 10th century: that of Saint Oswald of Northumbria (634-642) in the Adomnan of Hy's Vita Sancti Columbae of and that of Coenwulf of Mercia in the charter S153. These cases are followed by two paragraphs dedicated to Edward the Elder's and Æthelstan's documentation, which highlight a substantial development of the royal title, pointing out an expansion of the authority of these monarchs. The center of both the chapters of the second block consists in the detailed analysis of the imperial documents and in the reflections that arise from it. In the Spanish case, it is possible to affirm with some certainty that the use of the imperator title began with his son, Ordoño II, who attributed it to his father to strengthen his position as king of León. Between the death of Ordoño II (924) and the ascent to the throne of Ramiro II (931), the title also began to be employed into private documentation, without disappearing in the public one. Unfortunately, it is not possible, as it is in the English case, to trace the Hispanic imperial phenomenon back to a particular scriptor. However, it should be noted that some texts dating from the second half of the century differ from the charters of Ordoño II in the use of the term, adopting it in reference to the living king, rather than the deceased father. The title, at least at the beginning of the tenth century, does not seem to reflect a superior (or imperial) authority, but recalls its most ancient meaning, of "victorious general" and constitutes a prerogative of the Leonese sovereigns. As for the English imperial phenomenon, however, it is possible to identify a starting point in the famous alliterative charters, probably drawn up by Koenwald of Worcester (928/9- 957), whose authorship is largely discussed in the thesis. It seems clear that imperator is nothing but the Latin translation of what historians have called overlord. Through the use of this title, the Anglo-Saxon rulers wanted to represent their growing hegemony over the other kingdoms of the island, thus claiming a more territorial than ethnic authority. However, it should be noted that the use of imperial terminology forms part of the broader process of evolution of the royal title that started with Edward the Elder. These reflections are then related to those of the first part and developed in the conclusions (Ch. 9). They focus on four fundamental points: the use of the documentation and the Latin language in the two areas; Britain and Spania as self-contained universes; the meaning of imperator in the two documentary contexts; the territorial conception as a theoretical and geographical assumption of this use. Reading the sources allows us to affirm that both contexts represented universes ideally self-contained for their respective sovereigns. The Leonese and Anglo-Saxon rulers inherited from their predecessors not only a political "mission" - reconquering for the former and control for the latter -, but also a specific conception - different for each case - of the geographical environment in which they found themselves operate. The Britannia of the Anglo-Saxon king-emperor is Bede's Britannia, fragmented and divided, but spiritually united. The Spania of the Leonese kings is Isidoro's Spania, united, homogeneous, but dramatically lost. However, for the Spanish case in the period examined here, the imperial title was never related to a geographical reference; in the English one, the geographical reference to Britannia existed, but was not exclusive to the imperial title. We can therefore say that, in the English case, the title was born out of the need to translate into Latin an indirect and hegemonic authority (like that of a rex regum), and then lost this meaning - and therefore the use - when the political situation of the kingdom changed. In the Spanish case, conversely, an almost symmetrically opposite processing took place. The title, initially used in its oldest meaning as "victorious general" or "powerful lord", was reinterpreted in the 11th and 12th centuries, when the political balance of the peninsula changed. In this period, we find in fact rulers like Alfonso VI and Alfonso VII employing titles such as imperator totius Hispaniae. In both cases, the emperor was intended as a synonym for rex regum, but in two different moments - always when it was more needed. The thesis is equipped with maps and bibliography, divided between sources and studies. Furthermore, it was considered useful to add a final appendix with the texts of the imperial documents. ; El tema de esta tesis es la aparición peculiar del término imperator en un número pequeño, pero significativo, de documentos del siglo X procedentes de los reinos de Asturias y León y de Inglaterra. Si en sí mismo este tipo de "coincidencia histórica" capta la atención, el hecho de que los dos fenómenos imperiales sean prácticamente contemporáneos y se desarrollen en dos contextos muy distantes en el espacio, sin una conexión aparente, pone de manifiesto la necesidad de un estudio comparativo. Tras una ulterior búsqueda, no pasa desapercibido cómo, en ambas áreas, el siglo inmediatamente anterior se caracterizó por ser un momento particularmente favorable para la cultura – el renacimiento asturiano y the alfredian reinassence –, hecho posible por la acción de dos monarcas, Alfonso III de Asturias y León (866-910) y Alfred de Wessex (871-899). En los entornos de estos soberanos, se elaboraron crónicas (las Crónicas Asturianas y la Anglo-Saxon Chronicle) que proponían una lectura de la historia destinada a buscar una nueva identidad para los respectivos pueblos, subrayando el papel central de las respectivas dinastías gobernantes. El objetivo de la tesis es, por lo tanto, doble: por un lado, se quiere entender de qué manera y en qué sentido se utilizó el término imperator en la documentación examinada y, por otro lado, tratamos de comprender qué peso tenían las nuevas identidades étnicas, religiosas y territoriales, dentro de estos fenómenos imperiales. Para una mejor presentación de los argumentos, se decidió dividir la tesis en dos bloques: el primero dedicado a las crónicas del siglo IX y el segundo a los documentos del siglo siguiente en los que aparece el título imperial. A su vez, cada bloque se divide en dos capítulos donde se desarrollan las temáticas en los casos hispanos y anglosajones. La tesis comienza con la presentación de los criterios utilizados para la selección del corpus de "documentos imperiales" (Capítulo 1) – los diplomas donde aparece el título de imperator –, que asciende a un total de treinta y ocho, veinte de los cuales son asturianos-leoneses (privados y públicos) y dieciocho anglosajones (exclusivamente públicos). El contexto histórico (Capítulo 2) y el status quaestionis (Capítulo 3) se proporcionan a continuación. En el primer capítulo del primer bloque (Capítulo 4) se presentan las tres crónicas producidas en la corte asturiano-leonesa a finales del siglo IX. También conocidas como Crónicas Asturianas, estas son la Crónica Albeldense, la Crónica Profética y la Crónica de Alfonso III. Para conseguir una visión lo más completa posible, comenzamos viendo los libros que los autores de las crónicas tenían a su disposición. A continuación, se analizan las tres obras, con una particular atención a su autoría y datación. Finalmente, proporcionamos indicaciones sobre la tradición manuscrita de estas crónicas y trazamos un camino entre las fuentes. En esta parte se van perfilando cuestiones cruciales, como la identidad (étnica, religiosa y geográfica), y temas historiográficos, como la Reconquista y el neogoticismo. Estos elementos constituyen el punto de partida para un razonamiento destinado a resaltar el trasfondo ideológico común a las tres crónicas. En el capítulo sucesivo (Capítulo 5) se traza un perfil de la producción literaria, en particular historiográfica, que caracterizó las últimas dos décadas del siglo IX anglosajón. Se comienza enmarcando a los hombres que formaron parte del llamado alfredian reinassance y analizando sucesivamente el papel desempeñado por las traducciones en Old English de las grandes obras historiográficas en este momento de renacimiento cultural. Finalmente, proponemos una nueva lectura de la única obra historiográfica escrita desde cero, la Anglo-Saxon Chronicle, a partir de la cual el concepto de overlordship emerge como un hilo conductor. Este es el nombre que los eruditos modernos le han dado a la autoridad que algunos reyes anglosajones pudieron ejercer sobre los otros reyes de la isla. Es una supremacía predominantemente militar que lleva a un rey – a menudo por períodos cortos – a imponer su soberanía, y a veces tributos, a poblaciones distintas de la suya. Esta idea de soberanía superpuesta ya estaba presente en Beda y es recuperada por los cronistas anglosajones que la relacionan, evidentemente, con la dinastía de los reyes de Wessex, acuñando para aquellos reyes la palabra bretwalda. Al final del primer bloque hay un capítulo de comparación (Capítulo 6) que permite resumir las conclusiones de la primera mitad de la tesis. Se reiteran algunos puntos en común entre los dos estudios del caso: tanto Britannia como Spania formaron parte del Imperio Romano, pero no del Imperio Carolingio y sufrieron una invasión durante la Alta Edad Media (Daneses / Noruegos e islámicos); en ambos casos, la producción de cultura escrita durante el siglo IX orbitaba alrededor de la figura del monarca. Las crónicas resultantes de este período celebran la dinastía reinante como la piedra angular de la historia "nacional" y al hacerlo legitiman su autoridad; entre las páginas de estas crónicas se proponen nuevas identidades para ambas poblaciones. Sin embargo, más allá de estas similitudes obvias, se ha observado que dentro de las crónicas ha habido dos formas particulares de representación de sí mismos, de su reino, de su gente y de su contexto geográfico. Son estas diferencias las que despiertan un interés particular, ya que, como ha quedado claro desde el principio, no hay absolutamente ningún intento de homologar la historia inglesa de los siglos IX y X con la historia española del mismo período, aunque sin duda tienen puntos en común. Por lo tanto, el capítulo de comparación reflexiona sobre las particulares formas de auto-representación proporcionadas por los cronistas asturianos y anglosajones y se centra en tres puntos clave: la recuperación del pasado, la concepción territorial del entorno geográfico y la cuestión relativa a la identidad. De hecho, no podemos descuidar el peso diferente que tuvo el recuerdo del reino visigodo y el de la Heptarquía anglosajona y, por lo tanto, respectivamente, las obras de Isidoro de Sevilla y de Beda la Venerable. También sería un error no subrayar las diferencias entre las dos nuevas propuestas de identidad: la inglesa, con una base claramente étnica (Angelcynn) y la hispana, con una base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Finalmente, no podía faltar un párrafo dedicado a las diferentes relaciones entre las dos áreas estudiadas y el mundo carolingio contemporáneo. En el segundo bloque se examinan los fenómenos imperiales. El capítulo dedicado al contexto hispano (Capítulo 7) comienza con una reflexión sobre las diversas figuras de los scriptores del reino de León y sobre el peso de las fórmulas visigodas en la documentación altomedieval. Al comienzo del capítulo correspondiente en inglés (Capítulo 8) se presentan dos casos de uso del término imperial anterior al siglo X: el de San Oswald de Northumbria (634-642) en la Vita Sancti Columbae de Adomnano de Iona y el de Coenwulf de Mercia (796-821) en el documento S153. Siguen dos párrafos dedicados a la documentación de Edward the Elder (899-924) y Æthelstan (924-939), donde se destaca un desarrollo sustancial del título real que indica una expansión de la autoridad insular de estos monarcas. El centro de ambos capítulos del segundo bloque consiste en el análisis detallado de los documentos imperiales y en las reflexiones que surgen de esto. En el caso español se puede concluir que, aunque hay rastros de un empleo del título imperial en la documentación de Alfonso III, es posible afirmar con cierta certeza que el uso del título imperator comenzó con su hijo, Ordoño II (914-924), quien lo atribuyó a su padre para fortalecer su posición como rey de León. Entre la muerte de Ordoño II (924) y el ascenso al trono de Ramiro II (931), el título también pasó a la documentación privada, sin desaparecer de la pública. Desafortunadamente, no es posible, como en el caso inglés, tratar de rastrear el fenómeno imperial hispano hasta la figura de un escritor en particular. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que algunos textos que datan de la segunda mitad del siglo difieren de los documentos de Ordoño II en el uso del término, ya que se emplea en referencia al rey vivo y no al padre fallecido. El título, al menos a principios del siglo X, no parece reflejar una autoridad superior (precisamente imperial), pero recuerda su significado más antiguo, el de "general victorioso" y constituye una prerrogativa de los soberanos leoneses. En cuanto al fenómeno imperial inglés, por otro lado, es posible identificar un punto de partida en los famosos alliterative charters, probablemente producidos por Koenwald de Worcester (928/9- 957), cuya autoría se discute extensamente en la tesis. Parece que imperator no es más que la traducción latina de lo que los historiadores han llamado overlord. Mediante el uso de este título, los gobernantes anglosajones querían representar su creciente hegemonía sobre los otros reinos de la isla, reclamando así una autoridad más territorial que étnica. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que el uso de la terminología imperial forma parte de ese proceso más amplio de evolución del título real que ya comenzó con Edward the Elder. En las conclusiones (Capítulo 9) se relacionan estas reflexiones con las del primer bloque desarrollándolas. Se centran en cuatro puntos fundamentales: el papel del documento y del idioma latino en las dos áreas; Britannia y Spania como universos en sí mismos; el significado de imperator en los dos contextos documentales y, por último, la concepción territorial como una premisa teórica y geográfica de este empleo de la terminología imperial. Tras leer las fuentes podemos afirmar que ambos contextos representaban, a los ojos de sus respectivos soberanos, universos dentro del universo. Los gobernantes leoneses y anglosajones heredaron de sus predecesores no solo una "misión" política – de reconquista para los primeros y de control para los segundos – sino también una concepción específica, diferente para cada caso, del entorno geográfico en el que se encontraban. La Britannia del rey-emperador anglosajón es la Britannia de Beda, fragmentada, dividida y, sin embargo, unida. La Spania de los reyes leoneses es la Spania de Isidoro, unida, homogénea, pero dramáticamente perdida. Sin embargo, para el caso español, en el período examinado aquí, nunca se encuentra el título imperial en relación a una referencia territorial que evoque un dominio sobre toda la península. En el inglés, sin embargo, existía este uso, pero la referencia geográfica a Britannia no era exclusiva del título imperial. Por lo tanto, podemos decir que, en el caso inglés, el título nació de la necesidad de traducir al latín una autoridad indirecta y hegemónica (como la de un rex regum), y luego perdió este significado – y su uso – cuando la situación política del reino cambió. En el caso español, sin embargo, tuvo lugar un procesamiento casi simétricamente opuesto. El título, utilizado inicialmente en su significado más antiguo como "general victorioso" o "señor poderoso", fue reinterpretado más tarde cuando el equilibrio político de la península cambió en los siglos XI y XII. En este período encontramos, de hecho, gobernantes como Alfonso VI y Alfonso VII que emplean títulos como imperator totius Hispaniae. En ambos casos, imperator fue concebido como sinónimo de rex regum, pero en dos momentos diferentes; cuando realmente se necesitaba. La tesis está provista de mapas y bibliografía, dividida entre fuentes y estudios. Además, se consideró útil agregar los textos de los documentos imperiales al apéndice.
The purpose of an entrepreneurship is to build and scale a sustainable business model through an enterprise. The lack of tangible and intangible resources is often at this very early stage. According to previous studies, new ventures could overcome the lack of resources -key to their success- forming relationships with partners (networking) through open innovation (OI) processes. However, the structure of each network affects their own processes and outcomes; the innovation processes and the network structure mutually shape each other. Opening up the innovation process implies the involvement of startups in relationships with different typologies of actors: Incubators, Large corporations, Higher education institutions, among others. Understanding the role, relation, position and power of each actor in the ecosystem allow us identify its network position which is critical for resource access. In order to determine the level of ecosystem maturity and its interactions is necessarily to analyze the entrepreneurship context. According to the Ecuadorian Entrepreneurship Profile (GEM, 2019) Ecuador has a strong position related to physical infrastructure, cultural and social norms and entrepreneurial education at post-school stage comparing with the media of the World. However, indicators like entrepreneurial finances, taxes and bureaucracy, government support, R&D transfer and entrepreneurship programs are quite far from the global average. Utilizing the newly publish Ecuadorian Organic Law for Entrepreneurship and Innovation (Official Registry No. 151, 2020) which aims to provide a normative framework that encourages the entrepreneurship, innovation and technological development this article analyzes startup's network centrality elements focusing on: Main actors and the nature of these relations; Institutions which hold the central position in the network; Partnerships and networks to support innovation processes and outcomes;Financial mechanisms to support entrepreneurship and innovation; and, Education to carry out partnerships.As a consecuence, the main actor determined by law is CONEIN as a ruling body and the Entrepreneurship Advisory Council. The presence of individual entrepreneurs is scarce. Although, CONEIN holds the central position in the network, in that aspect is a vast opportunity for Entrepreneurship Advisory Council to boost participation among private sector members and be a higher influence in the public policy making. By law, partnerships and networks to support innovation processes and outcomes are not clear, but entrepreneurs acquire greater centrality in the ecosystem than before, which could privilege their access to resources and knowledge especially from Higher education institutions. Financial mechanisms to support entrepreneurship and innovation are established, but will be necessary to allocate budget for this instrument, as well as for the entrepreneurship national strategy. The private investment is mentioned, nevertheless deep legal reforms are demanded in order to incentive its presence. Education regulation is incorporated in the law to carry out entrepreneurship and innovation. In the hereafter, will be necessary to incorporate partnership and financial education programs.The conception of adequate articulated programs for entrepreneurship, management, research and development, transfer, R&D funding, networking and human capital strengthen could favor open innovation. However, other instruments are necessary in terms of information release, taxability, bureaucracy, labor and direct investment that allows open innovation appear. The purpose of the Government is key to ensure governance, rule of law, and accountability of itself and entrepreneurship actors to ensure stability and economic prosperity. KEY WORDS: Entrepreneurship, open innovation, networking, networking structures, performance, rule of law. JEL CODE: K, L25, L 26 ; ABSTRACTThe purpose of an entrepreneurship is to build and scale a sustainable business model through an enterprise. The lack of tangible and intangible resources is often at this very early stage. According to previous studies, new ventures could overcome the lack of resources -key to their success- forming relationships with partners (networking) through open innovation (OI) processes. However, the structure of each network affects their own processes and outcomes; the innovation processes and the network structure mutually shape each other. Opening up the innovation process implies the involvement of startups in relationships with different typologies of actors: Incubators, Large corporations, Higher education institutions, among others. Understanding the role, relation, position and power of each actor in the ecosystem allow us identify its network position which is critical for resource access. In order to determine the level of ecosystem maturity and its interactions is necessarily to analyze the entrepreneurship context. According to the Ecuadorian Entrepreneurship Profile (GEM, 2019) Ecuador has a strong position related to physical infrastructure, cultural and social norms and entrepreneurial education at post-school stage comparing with the media of the World. However, indicators like entrepreneurial finances, taxes and bureaucracy, government support, R&D transfer and entrepreneurship programs are quite far from the global average. Utilizing the newly publish Ecuadorian Organic Law for Entrepreneurship and Innovation (Official Registry No. 151, 2020) which aims to provide a normative framework that encourages the entrepreneurship, innovation and technological development this article analyzes startup's network centrality elements focusing on: Main actors and the nature of these relations; Institutions which hold the central position in the network; Partnerships and networks to support innovation processes and outcomes;Financial mechanisms to support entrepreneurship and innovation; and, Education to carry out partnerships.As a consecuence, the main actor determined by law is CONEIN as a ruling body and the Entrepreneurship Advisory Council. The presence of individual entrepreneurs is scarce. Although, CONEIN holds the central position in the network, in that aspect is a vast opportunity for Entrepreneurship Advisory Council to boost participation among private sector members and be a higher influence in the public policy making. By law, partnerships and networks to support innovation processes and outcomes are not clear, but entrepreneurs acquire greater centrality in the ecosystem than before, which could privilege their access to resources and knowledge especially from Higher education institutions. Financial mechanisms to support entrepreneurship and innovation are established, but will be necessary to allocate budget for this instrument, as well as for the entrepreneurship national strategy. The private investment is mentioned, nevertheless deep legal reforms are demanded in order to incentive its presence. Education regulation is incorporated in the law to carry out entrepreneurship and innovation. In the hereafter, will be necessary to incorporate partnership and financial education programs.The conception of adequate articulated programs for entrepreneurship, management, research and development, transfer, R&D funding, networking and human capital strengthen could favor open innovation. However, other instruments are necessary in terms of information release, taxability, bureaucracy, labor and direct investment that allows open innovation appear. The purpose of the Government is key to ensure governance, rule of law, and accountability of itself and entrepreneurship actors to ensure stability and economic prosperity. KEY WORDS: Entrepreneurship, open innovation, networking, networking structures, performance, rule of law. RESUMEN:El propósito de un espíritu empresarial es construir y escalar un modelo de negocio sostenible a través de una empresa. La falta de recursos tangibles e intangibles se encuentran a menudo en esta etapa muy temprana. Según estudios previos, los nuevos emprendimientos podrían superar la falta de recursos, clave para su éxito, formando relaciones con socios (networking) a través de procesos de innovación abierta (OI). Sin embargo, la estructura de cada red afecta sus propios procesos y resultados; los procesos de innovación y la estructura de la red se moldean mutuamente. Abrir el proceso de innovación implica involucrar a las startups en relaciones con diferentes tipologías de actores: Incubadoras, Grandes corporaciones, Instituciones de educación superior, entre otros. Comprender el papel, la relación, la posición y el poder de cada actor en el ecosistema nos permite identificar la posición de su red que es fundamental para el acceso a los recursos.Para determinar el nivel de madurez del ecosistema y sus interacciones es necesario analizar el contexto del emprendimiento. Según el Perfil de Emprendimiento Ecuatoriano (GEM, 2019) Ecuador tiene una posición fuerte relacionada con la infraestructura física, las normas culturales y sociales y la educación emprendedora en la etapa post-escolar en comparación con los medios del mundo. Sin embargo, indicadores como las finanzas empresariales, los impuestos y la burocracia, el apoyo gubernamental, la transferencia de I + D y los programas de iniciativa empresarial están bastante lejos del promedio mundial.Utilizando la recién publicada Ley Orgánica de Emprendimiento e Innovación (Registro Oficial No. 151, 2020) que tiene como objetivo proporcionar un marco normativo que fomente el emprendimiento, la innovación y el desarrollo tecnológico, este artículo analiza los elementos de centralidad de la red de startups enfocándose en:Principales actores y naturaleza de estas relaciones;Instituciones que ocupan una posición central en la red;Alianzas y redes para apoyar los procesos y resultados de innovación;Mecanismos financieros para apoyar el espíritu empresarial y la innovación; y, educación para realizar alianzasEn consecuencia, el actor principal que determina la ley es el CONEIN como órgano rector y el Consejo Asesor de Emprendimiento. La presencia de empresarios individuales es escasa. Si bien el CONEIN ocupa la posición central en la red, se presenta una gran oportunidad para que el Consejo Asesor de Emprendimiento impulse la participación de los miembros del sector privado y tenga una mayor influencia en la formulación de políticas públicas. Por ley, las alianzas y redes para apoyar procesos y resultados de innovación no son claras, pero los emprendedores adquieren una mayor centralidad en el ecosistema que antes, lo que podría privilegiar su acceso a recursos y conocimientos, especialmente de las instituciones de educación superior.Se establecen mecanismos financieros de apoyo al emprendimiento y la innovación, pero será necesario asignar presupuesto para este instrumento, así como para la estrategia nacional de emprendimiento. Se menciona la inversión privada; sin embargo, se demandan profundas reformas legales para incentivar su presencia. La regulación educativa está incorporada en la ley para llevar a cabo el emprendimiento y la innovación. En lo sucesivo, será necesario incorporar programas de asociación y educación financiera.La concepción de programas articulados adecuados de emprendimiento, gestión, investigación y desarrollo, transferencia, financiamiento de I+D, networking y fortalecimiento del capital humano podría favorecer la innovación abierta. Sin embargo, son necesarias otros instrumentos en términos de divulgación de información, tributación, burocracia, mano de obra e inversión directa que permitan que surja la innovación abierta. El propósito del Gobierno es clave para garantizar la gobernanza, el estado de derecho y la rendición de cuentas de sí mismo y de los actores empresariales para garantizar la estabilidad y la prosperidad económica. CÓDIGO JEL: K, L25, L26 ; Le but d'un entrepreneuriat est de construire et de faire évoluer un modèle commercial durable à travers une entreprise. Le manque de ressources matérielles et immatérielles est souvent à ce stade très précoce. Selon des études antérieures, les nouvelles entreprises pourraient surmonter le manque de ressources, clé de leur succès, en établissant des relations avec des partenaires (mise en réseau) grâce à des processus d'innovation ouverte (IO). Cependant, la structure de chaque réseau affecte leurs propres processus et résultats ; les processus d'innovation et la structure du réseau se forment mutuellement. L'ouverture du processus d'innovation implique l'implication des startups dans des relations avec différentes typologies d'acteurs : Incubateurs, Grandes entreprises, Établissements d'enseignement supérieur, entre autres. Comprendre le rôle, la relation, la position et le pouvoir de chaque acteur dans l'écosystème nous permet d'identifier sa position dans le réseau qui est critique pour l'accès aux ressources.Déterminer le niveau de maturité de l'écosystème et ses interactions passe nécessairement par l'analyse du contexte entrepreneurial. Selon le Profil de l'entrepreneuriat équatorien (GEM, 2019), l'Équateur a une position forte en ce qui concerne les infrastructures physiques, les normes culturelles et sociales et l'éducation entrepreneuriale au stade post-scolaire par rapport aux médias du monde. Cependant, des indicateurs tels que les finances entrepreneuriales, les impôts et la bureaucratie, le soutien gouvernemental, les transferts de R&D et les programmes d'entrepreneuriat sont assez éloignés de la moyenne mondiale.En utilisant la nouvelle loi organique équatorienne pour l'entrepreneuriat et l'innovation (registre officiel n° 151, 2020) qui vise à fournir un cadre normatif qui encourage l'entrepreneuriat, l'innovation et le développement technologique, cet article analyse les éléments de centralité du réseau de startups en se concentrant sur:Acteurs principaux et nature de ces relations ;Les institutions qui occupent la position centrale dans le réseau;Partenariats et réseaux pour soutenir les processus et les résultats d'innovation;Mécanismes financiers pour soutenir l'entrepreneuriat et l'innovation; et,L'éducation pour réaliser des partenariats.En conséquence, le principal acteur déterminé par la loi est le CONEIN en tant qu'organe dirigeant et le Conseil consultatif de l'entrepreneuriat. La présence d'entrepreneurs individuels est rare. Bien que CONEIN occupe la position centrale dans le réseau, dans cet aspect, il s'agit d'une vaste opportunité pour le Conseil consultatif sur l'entrepreneuriat de stimuler la participation des membres du secteur privé et d'avoir une plus grande influence dans l'élaboration des politiques publiques. Selon la loi, les partenariats et les réseaux pour soutenir les processus et les résultats de l'innovation ne sont pas clairs, mais les entrepreneurs acquièrent une plus grande centralité dans l'écosystème qu'auparavant, ce qui pourrait privilégier leur accès aux ressources et aux connaissances, en particulier des établissements d'enseignement supérieur.Des mécanismes financiers pour soutenir l'esprit d'entreprise et l'innovation sont mis en place, mais seront nécessaires pour allouer un budget à cet instrument, ainsi qu'à la stratégie nationale pour l'esprit d'entreprise. L'investissement privé est évoqué, néanmoins de profondes réformes juridiques sont demandées afin d'encourager sa présence. La réglementation de l'éducation est incorporée dans la loi pour mener à bien l'entrepreneuriat et l'innovation. Dans l'au-delà, il faudra intégrer des programmes de partenariat et d'éducation financière.La conception de programmes articulés adéquats pour l'entrepreneuriat, la gestion, la recherche et le développement, le transfert, le financement de la R&D, la mise en réseau et le renforcement du capital humain pourrait favoriser l'innovation ouverte. Cependant, d'autres instruments sont nécessaires en termes de diffusion d'informations, de fiscalité, de bureaucratie, de main-d'œuvre et d'investissements directs qui permettent l'innovation ouverte. L'objectif du gouvernement est essentiel pour assurer la gouvernance, l'état de droit et la responsabilité de lui-même et des acteurs de l'entrepreneuriat afin d'assurer la stabilité et la prospérité économique. MOTS CLÉS: Entrepreneuriat, innovation ouverte, mise en réseau, structures de mise en réseau, performance, État de droit. CODE JEL: K, L25, L26 ; Lo scopo di un'imprenditorialità è costruire e scalare un modello di business sostenibile attraverso un'impresa. La mancanza di risorse materiali e immateriali è spesso in questa fase molto precoce. Secondo studi precedenti, nuove iniziative potrebbero superare la mancanza di risorse -chiave per il loro successo- formando relazioni con i partner (networking) attraverso processi di innovazione aperta (OI). Tuttavia, la struttura di ciascuna rete influisce sui propri processi e risultati; i processi di innovazione e la struttura di rete si plasmano reciprocamente. L'apertura del processo di innovazione implica il coinvolgimento delle startup nelle relazioni con diverse tipologie di attori: incubatori, grandi imprese, istituti di istruzione superiore, tra gli altri. Comprendere il ruolo, la relazione, la posizione e il potere di ciascun attore nell'ecosistema ci consente di identificare la sua posizione di rete che è fondamentale per l'accesso alle risorse.Per determinare il livello di maturità dell'ecosistema e le sue interazioni è necessario analizzare il contesto imprenditoriale. Secondo l'Ecuadorian Entrepreneurship Profile (GEM, 2019) l'Ecuador ha una posizione forte in relazione alle infrastrutture fisiche, alle norme culturali e sociali e all'educazione imprenditoriale nella fase post-scolastica rispetto ai media del mondo. Tuttavia, indicatori come le finanze imprenditoriali, le tasse e la burocrazia, il sostegno del governo, il trasferimento di ricerca e sviluppo e i programmi di imprenditorialità sono piuttosto lontani dalla media globale.Utilizzando la Legge organica ecuadoriana per l'imprenditorialità e l'innovazione di recente pubblicazione (Registro ufficiale n. 151, 2020) che mira a fornire un quadro normativo che incoraggi l'imprenditorialità, l'innovazione e lo sviluppo tecnologico, questo articolo analizza gli elementi di centralità della rete di startup concentrandosi su:Attori principali e natura di queste relazioni;Istituzioni che detengono la posizione centrale nella rete;Partnership e reti a supporto dei processi e dei risultati dell'innovazione;Meccanismi finanziari per sostenere l'imprenditorialità e l'innovazione; e,Educazione alla realizzazione di partenariati.Di conseguenza, l'attore principale determinato dalla legge è il CONEIN come organo di governo e il Consiglio consultivo per l'imprenditoria. Scarsa la presenza di imprenditori individuali. Sebbene CONEIN ricopra la posizione centrale nella rete, in questo aspetto rappresenta una vasta opportunità per il Consiglio consultivo per l'imprenditorialità per aumentare la partecipazione tra i membri del settore privato e avere una maggiore influenza nell'elaborazione delle politiche pubbliche. Per legge non sono chiari partenariati e reti a supporto dei processi e degli esiti dell'innovazione, ma gli imprenditori acquisiscono maggiore centralità nell'ecosistema rispetto a prima, che potrebbe privilegiare il loro accesso a risorse e conoscenze soprattutto da parte degli Istituti di istruzione superiore.Sono stati istituiti meccanismi finanziari per sostenere l'imprenditorialità e l'innovazione, ma sarà necessario stanziare budget per questo strumento, nonché per la strategia nazionale per l'imprenditorialità. Si parla dell'investimento privato, tuttavia si richiedono profonde riforme giuridiche per incentivarne la presenza. La regolamentazione dell'istruzione è incorporata nella legge per esercitare l'imprenditorialità e l'innovazione. In seguito, sarà necessario incorporare programmi di partenariato e di educazione finanziaria.La concezione di adeguati programmi articolati per l'imprenditorialità, la gestione, la ricerca e sviluppo, il trasferimento, il finanziamento di R&S, il networking e il rafforzamento del capitale umano potrebbe favorire l'innovazione aperta. Tuttavia, sono necessari altri strumenti in termini di rilascio di informazioni, tassazione, burocrazia, lavoro e investimenti diretti che consentono l'innovazione aperta. Lo scopo del governo è fondamentale per garantire la governance, lo stato di diritto e la responsabilità di se stesso e degli attori imprenditoriali per garantire stabilità e prosperità economica. PAROLE CHIAVE: Imprenditorialità, innovazione aperta, networking, strutture di rete, performance, stato di diritto. CODICE JEL: K, L25, L26 ; O objetivo de um empreendedorismo é construir e dimensionar um modelo de negócios sustentável por meio de uma empresa. A falta de recursos tangíveis e intangíveis costuma ocorrer nesse estágio inicial. De acordo com estudos anteriores, novos empreendimentos poderiam superar a falta de recursos-chave para seu sucesso- formando relacionamentos com parceiros (networking) por meio de processos de inovação aberta (OI). No entanto, a estrutura de cada rede afeta seus próprios processos e resultados; os processos de inovação e a estrutura da rede se moldam mutuamente. A abertura do processo de inovação implica o envolvimento das startups nas relações com diferentes tipologias de atores: Incubadoras, Grandes empresas, Instituições de Ensino Superior, entre outros. Compreender o papel, a relação, a posição e o poder de cada ator no ecossistema nos permite identificar sua posição na rede que é crítica para o acesso aos recursos.Para determinar o nível de maturidade do ecossistema e suas interações é necessário analisar o contexto do empreendedorismo. De acordo com o Perfil de Empreendedorismo Equatoriano (GEM, 2019), o Equador tem uma posição forte em relação à infraestrutura física, normas culturais e sociais e educação empreendedora na fase pós-escolar em comparação com a mídia do mundo. No entanto, indicadores como finanças empresariais, impostos e burocracia, apoio governamental, transferência de P&D e programas de empreendedorismo estão muito longe da média global.Utilizando a recém-publicada Lei Orgânica de Empreendedorismo e Inovação do Equador (Registro Oficial No. 151, 2020), que visa fornecer uma estrutura normativa que incentiva o empreendedorismo, a inovação e o desenvolvimento tecnológico, este artigo analisa os elementos de centralidade da rede de startups com foco em:Principais atores e a natureza dessas relações;Instituições que ocupam a posição central na rede;Parcerias e redes para apoiar processos e resultados de inovação;Mecanismos financeiros de apoio ao empreendedorismo e à inovação; e,Educação para realizar parcerias.Como conseqüência, o principal ator determinado por lei é o CONEIN como órgão regulador e o Conselho Consultivo de Empreendedorismo. A presença de empreendedores individuais é escassa. Embora o CONEIN detenha posição central na rede, nesse aspecto é uma grande oportunidade para o Conselho Consultivo de Empreendedorismo aumentar a participação dos membros do setor privado e ter maior influência na formulação de políticas públicas. Por lei, as parcerias e redes de apoio a processos e resultados de inovação não são claras, mas os empreendedores adquirem maior centralidade no ecossistema do que antes, o que poderia privilegiar seu acesso a recursos e conhecimentos, especialmente de instituições de ensino superior.Estão estabelecidos mecanismos financeiros de apoio ao empreendedorismo e inovação, mas serão necessários para alocar orçamento para este instrumento, bem como para a estratégia nacional de empreendedorismo. O investimento privado é mencionado, mas profundas reformas legais são exigidas de forma a incentivar a sua presença. A regulamentação da educação está incorporada na lei para realizar o empreendedorismo e a inovação. No futuro, será necessário incorporar programas de parceria e educação financeira.A concepção de programas articulados adequados para o empreendedorismo, gestão, pesquisa e desenvolvimento, transferência, financiamento de P&D, networking e fortalecimento do capital humano poderia favorecer a inovação aberta. No entanto, outros instrumentos são necessários em termos de divulgação de informações, tributação, burocracia, mão de obra e investimento direto que possibilitem a inovação aberta. O objetivo do Governo é fundamental para garantir a governança, o Estado de Direito e a responsabilidade de si mesmo e dos atores do empreendedorismo para garantir estabilidade e prosperidade econômica. PALAVRAS-CHAVE: Empreendedorismo, inovação aberta, networking, estruturas de networking, desempenho, Estado de Direito. CÓDIGO JEL: K, L25, L26
La presente tesi non è solo l'esito di una ricerca su un precetto giuridico controverso, ma è anche la narrazione di un processo personale di scoperta, che a partire dallo studio di una specifica norma ha fatto emergere la complessità delle interazioni nell'ambito delle politiche in materia penale, economica, e finanziaria. Partendo da un approccio microsociologico focalizzato sull'analisi di una determinata norma penale, il reato di riciclaggio,1 la ricerca ha dovuto confrontarsi con temi di interesse macrosociologico, al fine di inserire l'analisi della legge all'interno di un contesto più ampio di politiche nazionali, europee e internazionali, di attori e di governance transnazionale. Per mantenere la scientificità dell'elaborato ho omesso di esprimere opinioni personali sui temi, talvolta di carattere fortemente politico, e ho cercato, invece, di presentare aspetti critici e discussioni aperte fornendo una visione completa e imparziale delle contrastanti argomentazioni in modo da lasciare il lettore libero di trarre le proprie conclusioni. Il riciclaggio di denaro sporco è il processo tramite cui a proventi di reati viene data un'apparenza di essere stati guadagnati in modo illecito. È un reato tipico della cosiddetta 'zona grigia', poiché avviene al confine tra la sfera della legalità e quella dell'illegalità. Nel momento in cui profitti realizzati illecitamente si mescolano ai flussi di denaro lecito è molto difficile discernere ciò che ha un'origine legale da ciò che è stato guadagnato illegalmente. Il reato di riciclaggio di denaro sporco è stato introdotto proprio per affrontare questa difficoltà ed impedire che le strutture legittime dell'economia e della finanza globale venissero abusate da trasgressori al fine di ripulire i proventi di reato. Infatti i flussi di denaro sporco utilizzano spesso gli stessi canali usati per le transazioni lecite; la loro riuscita dipende dalla cooperazione di professionisti quali avvocati commerciali, agenti finanziari, commercialisti, la cui reputazione è raramente sospetta. Data questa promiscuità spesso la gravità del fenomeno è sottovalutata dal pubblico che non ha gli strumenti per riconoscerne la pericolosità, anche a causa dell'assenza di vittime dirette. Dall'altra parte le stime sulla quantità di proventi di reato riciclati a livello mondiale (che oscillano tra il 2,5 % e il 5,5 % del PIL globale) richiamano l'attenzione su quella che Dalla Chiesa definisce la mitologia del volume dell'economia criminale,2 e una parte della letteratura descrive il riciclaggio come il lato oscuro della globalizzazione,3 e come uno dei maggiori problemi dell'era moderna.4 Con questa ricerca ho voluto mettere in discussione l'efficacia del reato di riciclaggio nel far fronte al fenomeno dell'infiltrazione dei flussi di denaro sporco nell'economia lecita. Sebbene la pratica di nascondere i proventi di reato in modo da evitare la persecuzione giudiziaria risalga probabilmente a molto tempo addietro, il concetto giuridico di riciclaggio è relativamente recente ed è stato introdotto nei codici penali nella maggior parte del mondo a partire dalla fine degli anni 80.5 Nel frattempo un gran numero di autori si è scagliato contro la scarsa efficacia delle legislazione anti-riciclaggio6, nonostante le innumerevoli novità introdotte e i cospicui ammendamenti che hanno in larga parte espanso il campo di applicazione della normativa. La decisione di scegliere il contesto tedesco come caso di studio deriva dal fatto che il paese è considerato avere un rischio particolarmente alto di riciclaggio di denaro sporco. Secondo il rapporto emesso dal 2010 dal GAFI (Groupe d'Action Financière), dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico)7 ci sono alcuni fattori che rendono la Germania propensa ad essere usata al fine di riciclaggio di denaro sporco: il volume del sistema economico-finanziario, la locazione strategica al centro dell'Unione Europea con forti legami internazionali, l'uso diffuso di denaro contante,8 l'apertura delle frontiere, la vastità del settore informale, l'importante ruolo a livello di economia globale, e il coinvolgimento nei flussi di denaro transfrontalieri. Anche i media, a partire soprattutto dalla pubblicazione del citato rapporto, hanno attirato l'attenzione del pubblico sul fenomeno, descrivendo la Germania come "paradiso" o "Eldorado" per i riciclatori. Alcuni recenti scandali hanno visto coinvolte prominenti banche tedesche, come la Deutsche Bank, la Commerybank e l'Hyopovereinsbank, contro cui procure straniere hanno sollevato l'accusa di riciclaggio di denaro sporco.9 La legislazione in atto, ed in particolare l'articolo 261 del codice penale tedesco, non sembra essere sufficientemente efficace per contrastare il fenomeno, nonostante gli abbondanti emendamenti e il continuo processo di aggiornamento e di espansione del campo di applicazione della norma. Al fine di spiegare questa per lo meno apparente incapacità della norma di fare fronte al fenomeno del riciclaggio, ho costruito l'ipotesi di ricerca sulla base delle teorie sociologico-giuridiche relative all'efficacia del diritto, alle funzioni manifeste e latenti delle norme e quindi alle intenzioni espresse e non dal legislatore, all'efficacia simbolica del diritto e di singole legislazioni e all'impatto, inteso come comprensivo degli effetti indesiderati o collaterali. L'ipotesi di ricerca è che la norma esplichi una funzione simbolica di allineamento dell'ordinamento nazionale a quello europeo e transnazionale, di compromesso tra gli interessi politici in gioco, e di creazione di consenso pubblico verso il legislatore per essersi occupato della questione. Si ipotizza che il legislatore abbia quindi consapevolmente accettato o addirittura scelto di formulare una norma strumentalmente poco efficace, ma simbolicamente capace di raggiungere i suoi obiettivi latenti. Si solleva inoltre l'ipotesi che la norma sia stata appositamente approvata con lo scopo di non modificare lo status quo delle relazioni e strutture economiche, e di permettere quindi l'ingresso di capitali sporchi nel paese, sulla base del motto pecunia non olet. La suddetta ipotesi viene parzialmente smentita dai risultati della ricerca empirica. La ricostruzione del processo di produzione legislativa mette in risalto l'esistenza di svariati e contrastanti interessi e della forte pressione esercitata dagli organismi internazionali per l'introduzione e lo sviluppo del reato di riciclaggio, e conferma, quindi, l'argomentazione che la norma sia stata approvata in un contesto di pressione politica esterna e di necessità di trovare un compromesso tra diverse parti politiche. Anche l'analisi degli aspetti problematici dell'articolo 261 del codice penale tedesco messi in risalto dalla dottrina supporta l'ipotesi della simbolicità della norma. Il fatto che il legislatore abbia formulato un reato così complesso crea evidenti problemi di integrazione dello stesso all'interno del sistema penale tedesco, e quindi di accettazione da parte degli studiosi e potenzialmente da parte degli operatori del diritto. Inoltre, la scelta di costruire un reato così complesso riflette la necessità di venire a compromesso con opposti interessi, ma potrebbe essere anche essere interpretata come un disinteresse al raggiungimento di un'efficacia materiale. La ricerca empirica sull'implementazione dell'articolo 261, invece, smentisce l'idea che la norma abbia un'efficacia puramente simbolica. Infatti il numero di condanne, di investigazioni, ed in generale l'uso ricorrente della legge riscontrato nelle statistiche criminali provano che essa conduca ad effetti strumentali, oltre che simbolici. Inoltre, nella prospettiva di alcuni degli operatori del diritto e degli esperti intervistati, l'articolo 261 è percepito come una norma particolarmente efficiente, sia in relazione alle quote di chiarimento, che come strumento di demarcazione tra comportamenti leciti e illeciti, in un contesto di deregolamentazione del settore finanziario. Da un'analisi piè ravvicinata delle statistiche e di altri rapporti emessi da enti internazionali e nazionali emerge però un quadro non così univoco: La norma sembra colpire più le vittime dei network criminali che operano a livello transnazionale che gli autori, perché spesso i colpevoli sono coinvolti in transazioni sospette in cambio di guadagni monetari. Le cospicue indagini finanziarie non riescono a raggiungere coloro che operano dietro gli esecutori dei reati minori, ed infatti la maggior parte di esse si concludono senza una condanna per riciclaggio. Questo a fronte di un volume di denaro sporco circolante nel paese che rimane allarmante, secondo alcuni degli studi analizzati. Se da una parte i risultati dell'applicazione della norma, sebbene strumentali, non possono considerarsi soddisfacenti, perché non sono riusciti ad evitare l'ingresso di capitali illeciti nell'economia nazionale, dall'altra parte sembra che l'esistenza di interessi profondamente contrastanti in gioco renda quasi impossibile la formulazione di un reato piè efficace. La tesi è composta da cinque capitoli, un'introduzione e una conclusione. Nel primo capitolo espongo le teorie sociologiche adottate per la valutazione di efficacia della norma e il metodo della ricerca. Inizialmente richiamo concetti di efficacia forniti da discipline affini alla sociologia del diritto - tra cui per esempio il concetto di efficienza e di efficienza indipendente rispetto allo scopo (zielunhabhängige Effizienz) riferito agli apparati amministrativi - che torneranno utili per l'interpretazione dei risultati delle interviste. Successivamente procedo con una panoramica sulle definizioni di efficacia del diritto fornite in sociologia del diritto, sulla ci base adotto una nozione "elastica" -riprendendola da Ferrari- di efficacia di una norma che guarda alle funzioni della norma e alle intenzioni del legislatore, in una prospettiva "intenzionalistica": "la corrispondenza fra un disegno politico di utilizzo di uno strumento normativo e i suoi effetti". Tale nozione, oltre a prestarsi ad un'analisi critica del diritto, fornisce indicazioni utili per l'analisi empirica dell'efficacia della legge in questione. In particolare ritengo utile considerare le seguenti variabili: le intenzioni latenti e manifeste del legislatore, gli scopi diretti e ed indiretti, l'eventuale efficacia simbolica del diritto, l'implementazione, la ricezione della norma nel senso di accettazione nel sistema giuridico e di interpretazione e percezione da parte degli operatori giuridici. Nella seconda parte si evidenzia il rilievo di tali variabili con riferimento specifico al diritto penale. In conclusione, sulla base delle riflessioni teoriche, formulo l'ipotesi sull'efficacia simbolica del reato di riciclaggio nell'ordinamento tedesco, che verrà poi verificata nei capitoli successivi. Nello specifico, presumendo che il reato di riciclaggio, introdotto come strumento fondamentale della lotta alla criminalità organizzata, così com'è formulato non adempie agli scopi dichiarati, nonostante gli innumerevoli emendamenti finalizzati proprio ad aumentarne l'efficacia, ipotizzo un'efficacia simbolica della norma, introdotta per offrire un'immagine di efficienza al pubblico (elettori). Inoltre sollevo l'ipotesi che la norma sia stata emanata appositamente inefficace per neutralizzarne le aspirazioni di punizione delle condotte illecite tipiche dei colletti bianchi, in una lettura moderna del conflitto sociale che avviene tramite l'emanazione di norme, con la volontà di decriminalizzare secondariamente comportamenti tipici delle classi forti. Nel secondo capitolo analizzo il processo legislativo a livello internazionale, europeo e nazionale. Il processo che ha portato alla creazione del reato di riciclaggio a livello internazionale viene ricostruito tramite dichiarazioni di intenti degli attori partecipanti, opinioni pubblicate, trascrizioni dei dibattiti parlamentari. Una particolare attenzione è posta sulle diverse intenzioni degli attori che hanno partecipato alla formulazione del reato. Il processo legislativo che ha portato alla formulazione dell'attuale legislazione anti-riciclaggio è un processo complesso, in cui diversi attori partecipanti hanno contribuito con differenti aspettative e dunque attribuendo diverse funzioni alla criminalizzazione del riciclaggio. Al fine di permettere svariate interpretazioni del dettato normativo in modo da soddisfare i differenti bisogni, e con lo scopo di trovare un compromesso tra gli interessi divergenti, il reato di riciclaggio è stato formulato in modo vago. Mentre alcuni Stati (ad esempio la Francia) inizialmente sostenevano l'introduzione del reato con lo scopo di combattere i paradisi fiscali e rafforzare la lotta all'evasione fiscale, altri Stati, come la Svizzera, hanno accettato di firmare l'accordo internazionale sulla criminalizzazione del riciclaggio solo a condizione che l'evasione fiscale non fosse inserito nella lista dei reati antecedenti. Con la nascita del GAFI la policy viene usata allo scopo di difendere l'integrità del sistema finanziario dall'infiltrazione di capitale illecito e dal 2001 si aggiunge la funzione di lotta al finanziamento del terrorismo. Tramite la soft law emanata dal GAFI per la prevenzione del riciclaggio, si trasferiscono compiti solitamente pubblici al settore privato: banche e istituti finanziari devono segnalare alla polizia ogni transazione sospetta, devono raccogliere e mantenere informazioni sui clienti e verificare le identità dei clienti. L'Unione Europea finora ha emanato quattro direttive nell'ambito del riciclaggio, l'ultima risale al 20 maggio 2015. Inizialmente la CE non aveva competenza in ambito penale, perciò la materia riciclaggio fu assorbita nella sfera economica (DG Economia e industria). La funzione dichiarata dal legislatore è la protezione del mercato interno, con particolare riguardo al fatto che i criminali possano sfruttare la libera circolazione dei capitali e l'eliminazione delle frontiere. Le direttive esprimono anche la volontà di impedire agli stati membri di emanare regolamentazioni che possano bloccare il libero mercato al fine di difendere le proprie economie dall'infiltrazione di capitale illecito. Emerge dunque un ulteriore conflitto di interessi. Nella seconda parte ricostruisco il processo legislativo e le evoluzioni interne alla Germania fino al momento della scrittura e fornisco il quadro del sistema repressivo e di prevenzione anti-riciclaggio. L'articolo 261 StGB è stato introdotto con legge Gesetz zur Bekämpfung des illegalen Rauschgifthandels und anderer Erscheinungsformen der Organisierten Kriminalität, quindi nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata. Il dibattito parlamentare rileva che la norma è il frutto di un compromesso sotto diversi aspetti, non ultimo il fatto che è stata emanata del 1992, a pochi anni dalla riunificazione, e che quindi è parte del processo di negoziazione per la formazione di un diritto penale adattabile alle due culture giuridiche. Il legislatore tedesco evidenzia alcune funzioni della norma: la lotta al consumo di eroina e al traffico di stupefacenti, la diffusione e la pericolosità della mafia alla luce dei fatti recenti italiani, la volontà di proteggere l'amministrazione della giustizia e di isolare i criminali puntando alla criminalizzazione dei cosiddetti gate-keepers. Nel terzo capitolo individuo alcuni dei problemi sollevati dalla dottrina tedesca sul piano teorico con riferimento alla criminalizzazione del reato di riciclaggio nel contesto del sistema penale tedesco. Uno dei temi più discussi è relativo al bene giuridico protetto. La dottrina non ha ancora trovato un accordo su quale interesse sia protetto dall'articolo 261 StGB, le ipotesi sono: gli interessi dei reati antecedenti, l'amministrazione della giustizia, il sistema finanziario e la sicurezza. La vaghezza del dettato normativo non aiuta a trovare un interpretazione dottrinale univoca. La questione del bene giuridico protetto, lungi dall'essere una mera questione teorica, risente delle diverse funzioni attribuite alla norma dagli attori partecipanti al processo legislativo. Finora la giurisprudenza, che pur è intervenuta a chiarire altre questioni relative alla norma, non è intervenuta sul tema. Un altro tema su cui il dibattito è ancora aperto è il fatto di aver previsto al comma 5 l'ipotesi di colpa lieve, in controtendenza rispetto al legislatore europeo. Questo, secondo alcuni studiosi porta all'assurdo per cui anche il panettiere Tizio che vende del pane ad un evasore fiscale Caio potendo aver riconosciuto che Caio fosse un evasore, si rende colpevole di riciclaggio. La questione del livello di mens rea richiesto per una condanna per riciclaggio era sorta anche durante il dibattito parlamentare e l'introduzione del comma 5 è stato sostenuto da un emendamento della SPD che avrebbe voluto criminalizzare anche l'ipotesi di colpa lievissima. Questo, secondo la CDU avrebbe messo un freno al mercato e alle transazioni, poiché avrebbe costituito una minaccia per chiunque avesse intrapreso operazioni economiche. Essendo la funzione della norma incerta, la dottrina si divide tra chi sostiene che questa vasta criminalizzazione faccia perdere il senso del reato che sarebbe invece colpire i criminali che agiscono con intento, e chi invece sostiene che la norma abbia lo scopo di impedire qualsiasi infiltrazione di denaro illecito e quindi richieda una responsabilizzazione di tutti colori i quali prendano parte in operazioni finanziarie o economiche. Ancora una volta l'indeterminatezza del precetto legislativo è di ostacolo ad un'interpretazione univoca. Il quarto capitolo offre un'analisi qualitativa delle statistiche officiali sull'implementazione della legge dal 1992 ad oggi da parte delle istanze repressive e di prevenzione. Tra i dati analizzati i più rilevanti sono per esempio il numero di segnalazioni di transazioni sospette ricevuto dalle procure, il numero delle investigazioni condotte, il numero di condanne effettivamente inflitte ed eseguite e per quale delle ipotesi di riciclaggio, il volume di denaro confiscato. Essendo tali numeri indici del funzionamento del sistema penale e non del fenomeno del riciclaggio per sé, in conclusione si confrontano tali statistiche con le stime sul volume di flussi illeciti in Germania. Tale analisi, non potendo dare conto del numero dei reati evitati, sulla base dell'efficacia deterrente della norma, non intende esaurire il giudizio di efficacia della legislazione. Tra i risultati più rilevanti vi sono il fatto che il 60% delle persone condannate vengono condannate per l'ipotesi di colpa lieve, che solitamente consiste in casi in cui una persona poco abbiente ha accettato di far usare il proprio conto a terzi per operazioni sospette in cambio di un guadagno. Nel 5% dei casi le condanne sono inflitte per le ipotesi aggravate di commissione da membro di un'associazione criminale o in forma commerciale. Nel 90% dei casi le transazioni sospette segnalate alle procure portano a una chiusura dei procedimenti per mancanza di indizi che possano sostenere un rinvio a giudizio. La norma sembra colpire delinquenti minori e non grandi gruppi criminali, né altri delinquenti più potenti. Si ipotizza inoltre che l'incapacità di sostenere un rinvio a giudizio nonostante le informazioni acquisite e le indagini preliminari riduce la capacità deterrente della norma e permette, invece, ai criminali di conoscere le modalità di funzionamento del sistema repressivo e agire di conseguenza. Inoltre, le transazioni sospette sono segnalate nel circa 90% dei casi sa parte di istituti di credito, mentre gli altri enti obbligati dalla legislazione non sembrano partecipare attivamente al processo preventivo, in particolare il settore forense e immobiliare e del gioco d'azzardo. Sulla base di questi dati si ipotizza un effetto spill-over, ossia un trasferimento di illegalità dai settori più controllati a quelli meno controllati. I rapporti pubblicati dalla polizia, invece, considerano l'articolo 261 StGB come una norma con una delle più alte quote di chiarimento (ca 90%), quota calcolata sul numero di casi chiariti dal sistema penale, a prescindere dalle modalità di chiarimento. Per quanto riguardo il volume di denaro riciclato, il capitolo richiama alcune delle stime pubblicate da diversi enti, tra cui il Fondo Monetario Internazionale, il GAFI e la polizia criminale federale. Essendo il fenomeno del riciclaggio un campo in cui la cifra oscura è stimata essere molto alta, tali dati non possono essere presi come misura obiettiva del fenomeno. Infine il capitolo si conclude richiamando alcune analisi del tipo costi-benefici per misurare l'efficacia delle politiche anti-riciclaggio o alcune delle sue norme, condotte da enti terzi. Tali analisi sembrano concordare nel considerare i costi di implementazione della politica più alti rispetto ai benefici conseguenti. Nel quinto capitolo, infine, vengono discussi i risultati della ricerca empirica con gli operatori giuridici e con alcuni osservatori privilegiati, in modo da fornire una prospettiva interna sul funzionamento della norma. Tramite le interviste condotte si mettono in luce aspetti della prassi giuridica non fotografati dalle statistiche, allo scopo di offrire un'immagine dell'impatto della legge quanto più vicina possibile alla realtà. La ricerca empirica si avvale di interviste con operatori del diritto e con osservatori privilegiati che siedono in posizioni ministeriali rilevanti nella lotta al riciclaggio. La metodologia adottata è di tipo qualitativo, è stato fatto uso di interviste semi-strutturate a operatori del diritto e a osservatori privilegiati. Il capitolo presenta le percezioni degli intervistati su quattro temi principalmente: la dimensione del fenomeno del riciclaggio, l'adeguatezza tecnica della legislazione, i conflitti di interesse intrinseci alla legge e sorti dall'applicazione della norma e l'efficacia delle legge. A fronte di un rapporto emesso da quattro ONG nel novembre 2013, sulla base di statistiche prodotte dall'UNODC e dal Fondo Monetario Internazionale, e immediatamente riprese dai media, che descrive il paese come "Eldorado" per i riciclatori,10 le interviste sono dirette a cogliere l'opinione dei rispondenti sulle dimensioni del fenomeno del riciclaggio in Germania. Un intervistato ritiene inaccettabile desumere dal PIL tedesco il volume di affari del crimine organizzato nel paese, e obietta che non si possa, sulla base del giro d'affari del centro finanziario di Francoforte, definire lo stesso come centro di riciclaggio di denaro sporco. Un altro intervistato, dichiara, al contrario, che sicuramente il fatto che la Germania abbia un'economia stabile ed un settore bancario affidabile attiri coloro che vogliano investire proventi illeciti, neppure quest'ultimo possiede, però, dati affidabili sulla quantità di denaro riciclato. Il riciclaggio, come altri fenomeni legati alla criminalità organizzata, è una fattispecie che per definizione sfugge alle autorità e ai confini nazionali. Lo scopo dello stesso è nascondere proventi di reato e sottrarli in questo modo al sistema repressivo, questo è sicuramente un elemento che rende complessa, se non impossibile, la sua quantificazione. D'altra parte, osservano i soggetti intervistati autori del Rapporto del 2013, l'incapacità di fornire statistiche rilevanti dopo più di 20 anni di lotta al riciclaggio, sembra essere un sintomo di una carente volontà politica nel contrastare efficacemente il fenomeno. Secondo gli osservatori privilegiati se la Germania fosse davvero un paradiso per i riciclatori, ciò non sarebbe collegabile ad un deficit legislativo, dato l'impegno del governo nella lotta al riciclaggio, negando, quindi, l'accusa rivolta dai media per cui i criminali sceglierebbero il paese tedesco ai fini di riciclaggio di denaro sporco sulla base delle lacune normative. Agli intervistati è stato chiesto di evidenziare aspetti positivi e problematici della legislazione. Tra i più rilevanti vi sono: la necessità di bilanciare il bisogno di punire la condotta di riciclaggio e rispettare i principi fondamentali del sistema giuridico, il disinteresse da parte degli istituti finanziari nell'indagare l'origine del capitale investito dai clienti, anche in caso di sospetto di provenienza criminale, a causa della possibile conseguente perdita di reputazione nell'ipotesi di apertura di investigazioni da parte delle autorità sul cliente sospetto. Vi è poi una difficoltà materiale nel condurre indagini finanziarie, che spesso, conducono a condotte illecite commesse all'estero; sul punto si osserva che le condotte di riciclaggio, intese come operazioni atte ad ostacolare la provenienza delittuosa, non avvengono su territorio tedesco, bensì all'estero, il denaro che entra in Germania, è, quindi, già "pulito". Inoltre, l'articolo 261 è stato introdotto nel sistema tedesco come trasposizione di una direttiva Europea e non rifletteva una necessità interna dello Stato; la formulazione così vaga, infatti, si presta più per il sistema giuridico degli Stati Uniti, in cui non vige l'obbligo dell'azione penale, mentre in Germania, dove i pubblici ministeri hanno l'obbligo di azione penale, tale norma porta ad iniziare numerose indagini senza avere la capacità di proseguirle. In generale, gli intervistati rappresentanti dei Ministeri rilevano la forte pressione subita da parte del GAFI e dell'Unione Europea per l'emanazione della legge anti-riciclaggio e concordano nel dire che se la norma fosse stata creata sulla base di una necessità e di un dibattito nazionale sarebbe stata scritta diversamente. C'è chi individua nel sistema penale le cause di inefficacia dell'articolo 261, nello specifico, la limitata possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, le restrizioni in materia di inversione dell'onere probatorio, e lo scarso utilizzo della confisca dei proventi di reato a causa del disinteresse da parte delle procure (gestite a livello di Bundesländer) nell'investire risorse in tal senso dato che i beni confiscati non resterebbero in mano al Bundesland ma verrebbero raccolti in un fondo federale e poi spartiti. Si osserva una generale mancanza di risorse pubbliche che porta ad una carenza di personale coinvolto nelle investigazioni e, quindi, ad una incapacità di far fronte ai processi in corso in modo efficace. Per questo motivo, i pm non hanno la capacità di indagare più a fondo casi di riciclaggio all'apparenza semplici, ma che potrebbero portare alla luce organizzazioni criminali operanti nell'ombra. Alla totalità degli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'efficacia della legge. L'articolo 261 del codice penale tedesco è stato definito da un soggetto "una legge scritta in modo indecente, che produce risultati banali sul piano delle statistiche criminali, soprattutto con riferimento alle condanne per riciclaggio in grossi casi di criminalità economica". Il reato è così difficile da provare in giudizio, che risulta facile, per la difesa, sfruttare le lacune legislative per evitare una condanna per riciclaggio. I rappresentanti dei Ministeri confermano che la lettera dell'articolo 261 crea confusioni e che quindi l'accusa, pur trovandosi di fronte ad un caso di riciclaggio spesso preferisca perseguire i delitti presupposto. Questo non è, però, un sintomo di inefficacia, dato che l'effettività a cui mira il Ministero dell'interno non è data dal numero di condanne per riciclaggio, ma dal numero di casi risolti, e quindi dal numero di condanne in generale, a prescindere dall'imputazione. D'opinione opposta un altro intervistato che ritiene che l'articolo 261 non abbia alcuna capacità deterrente nei confronti della criminalità organizzata, "la norma ricorre così raramente nella prassi giudiziaria che di fatto non rappresenta una "minaccia" per i potenziali criminali". I soggetti intervistati esprimono più soddisfazione a riguardo della legislazione di prevenzione (GWG); in particolare, con riferimento alle piccole e medie imprese, per le quali è difficile riconoscere tra i partner commerciali coloro i quali investono denaro di provenienza illecita, la possibilità di affidarsi alle autorità investigative, in caso di sospetto è fondamentale. Un avvocato specializzato in compliance per società, descrive la norma preventiva come molto efficace e severa, tanto che è impossibile per le aziende, specialmente per quelle di medie o piccole dimensioni, adempiere a tutti gli obblighi prescritti dalla norma, ma, egli osserva, l'efficacia del sistema sta proprio nel fatto che le autorità di controllo, consapevoli dell'elevata rigorosità della legge, chiudono un occhio di fronte a lievi inadempienze. Una legge meno severa e un controllo più fiscale non otterrebbero la stessa efficacia, perché la norma non avrebbe lo stesso potenziale deterrente. L'efficacia all'interno delle amministrazioni responsabili per la lotta al riciclaggio è interpretata come efficienza dell'apparato, per questo motivo, non ci sono verifiche sull'efficacia degli strumenti giuridici sulla base degli scopi dichiarati, quanto piuttosto sulla correttezza del funzionamento dell'amministrazione e sulle possibilità di migliorarlo; il punto è capire come migliorare, non se il sistema sia efficace o no. Agli intervistati è stata chiesta un'opinione sull'eventuale efficacia simbolica della legislazione. La maggioranza delle risposte è stata negativa, gli sforzi compiuti da parte dello Stato -e quindi delle procure, della autorità competenti e della polizia- nel contrastare il riciclaggio e la criminalità economica non possono essere considerati simbolici. Alcuni intervistati ritengono assolutamente necessaria e strumentale – e quindi non simbolica- l'esistenza del reato nel codice penale come demarcazione di illegalità di tali condotte e come strumento atto a contrastare la criminalità economica perché mette in chiaro entro quali limiti le società possano perseguire profitti in modo legittimo. Di opinione diversa, invece, gli avvocati penalisti i quali si sono detti favorevoli a tale definizione sulla base dello scarso numero di condanne e soprattutto sulla mancata previsione da parte del Governo di mezzi adeguati per l'implementazione della legislazione. Lo stesso è osservato dal terzo settore, il quale sostiene che, a fronte di una legge complessa, oggetto di svariati emendamenti nel corso degli anni, non c'è stato un sufficiente impegno sul versante dell'implementazione; il coinvolgimento del GAFI e dell'OECD nella lotta al riciclaggio è percepito come un modo per creare posti di lavoro e nuove figure professionali, più che un'arena dove discutere efficaci strumenti di lotta ai reati economici. Altri elementi interessanti riscontrabili nelle interviste sono i conflitti di interessi che emergono dall'applicazione delle leggi anti-riciclaggio. Tra essi, vi è il dibattito tra il Ministero dell'Interno e quello di Giustizia in riferimento all'adeguatezza dello strumento penalistico nel contrastare la criminalità economica, dibattito già affrontato dalla dottrina, a cui, però finora, non è stata data una risposta univoca. Da una parte il Ministero dell'Interno auspica un intervento giuridico più deciso, che, per esempio, ricomprenda il reato di riciclaggio nella responsabilità penale degli enti (non ancora esistente in Germania) e sollecita una svolta politica generale in tema di criminalità economica dalla deregolazione del mercato finanziario all'intervento dello Stato in ambito economico ai fini di chiarire i comportamenti leciti e quelli illeciti. Dall'altra parte, il Ministero della Giustizia considera erroneo il ricorso al diritto penale ai fini di risolvere problemi di tipo economico o finanziario e cerca di frenare la tendenza moderna alla proliferazione penale, a favore di un intervento di tipo preventivo-sociale. A tal proposito, si osserva che agli incontri del GAFI a cui partecipano i rappresentanti dei Ministeri di Giustizia, coloro che provino a richiamare l'attenzione sulla necessità di rispettare i principi fondamentali costituzionali e di limitare l'intervento penale a tutela dei cittadini, vengano tacciati di non voler combattere la criminalità organizzata in modo efficace. In conclusione riapro la prospettiva a livello globale ed inserisco il reato di riciclaggio in una riflessione più ampia sulla governace finanziaria. In una prospettiva storica di analisi delle politiche economiche recenti si osserva come vi sia stata una tendenza a deregolare il mercato per mano delle istanze tradizionali pubbliche, e al contempo un aumento di strumenti transnazionali di cosiddetta soft-law che si sono fatti portatori di interessi particolari. Finché questa conflittualità non verrà risolta sarà impossibile impedire il riciclaggio di denaro sporco. Con particolare riferimento al contesto europeo, si prende atto che è stato molto più facile chiudere le frontiere per le persone fisiche e non a quelle giuridiche o ai capitali. ; This paper aims to question the sociolegal1 effectiveness of the money laundering offence.2 The literature that assesses the effectiveness of the anti-money laundering system is abundant. While most of it does not question the regime's goals this paper takes a step back and critically looks at the law-making process. In addition, while most studies have assessed the effectiveness of anti-money laundering law by looking at statistical outcomes, this paper takes a step forward and tries to explain those statistics by looking at legal praxis and at indirect effects. The significance of the research derives from the insertion of the analysis on money laundering offence in a broader political, economic and historical context. The methodology adopted is qualitative, with the intended purpose of underlining the complexity of the issue tackled, rather than reducing it through a quantitative approach. While most of the existing literature has quantitatively assessed the effectiveness of the anti-money laundering regimes on the basis of statistical data and other quantitative indexes and has tried to reduce the complexity of the issue by measuring it numerically, this research adopts a qualitative methodology, which instead highlights the entanglement and the different perspectives on the question. Money laundering is the process of giving profits originated illegally an appearance of having been made lawfully.3 Due to the tightening of economic criminal policies that limit the possibility of integrating ill-gotten gains in the legitimate economy, offenders have developed more and more complex methods and subterfuges to launder proceeds of crime, so the rise of a proper 'money laundering industry' (industria del riciclaggio) is mentioned.4 The total volume of money laundered is estimated to amount to between 2,5 and 5, 5 % of the world GDP.5 Due to the borderline nature of money laundering, which happens between the so-called 'legitimate economy' and the 'dirty economy', and thus involves different actors such as banks, the financial sector, certain professions and businesses, offenders, victims and law enforcement agencies, the legal response needs to compromise with all the various economic, political, social and financial interests at play. Furthermore, where legitimate business intermingles with illegal business and legitimate funds with illicit funds, it is very difficult to distinguish what is legal from what is not. The criminalisation of money laundering was specifically supposed to tackle this fine line. The goal of this research is to assess whether the choice of criminalising money laundering has been effective to tackle this fine line. In order to assess the impact of the domestic implementation of the existing legal framework, the research uses a case study that specifically questions the effectiveness of the money laundering offence in the German national criminal legal system. The interest in the German case derives from the fact that, according to the IMF, the OECD and the FATF, Germany might have 'a higher risk profile for large scale money laundering than many other countries'.6 There are some factors identified as enablers of money laundering activities, such as the large economy and financial centre, the strategical location in the middle of Europe, with strong international links, the substantial proceeds of the crime environment involving organised crime operating in most profit generating criminal spheres, the open borders, the large informal sector and a high use of cash, the large and sophisticated economy and financial sector, the important role in world trade, and finally the involvement in large volumes of cross-border trade and financial flows. The media have kept on reporting the fact that Germany is an ideal country, or even a paradise for money launderers.7 According to most recent media reports, corruption is increasing in Germany along with money laundering and organised crime,8 and illicit financial flows are estimated to amount to 50 Billion Euros annually.9 Renowned banks such as Commerzbank, Deutsche Bank, and Hypovereinsbank have been the focus of recent scandals due to their involvement in large tax evasion and money laundering schemes, investigated mostly by US law enforcement agencies.10 The legal framework has been considered as not being sufficient to tackle the estimated volume of money laundering. In 2007 and 2010 the European Commission initiated two proceedings against the German government for having contravened the European treaty by not having effectively transposed into national law the European framework to tackle money laundering and terrorist financing.11 In response to this wave of criticism, some important changes have been made.12 With specific regards to penal law, the legislature has amplified the scope of the money laundering offence and the sphere of criminal liability in order to improve the effectiveness of the existing legislation.13 Yet the continual expansion process has raised legal challenges that could constitute an obstacle for the effective enforcement of the measure. With regards to international legislation, scholars have often criticized the ineffectiveness of the anti-money laundering regime to not be able to achieve its goals and thus to be only appearance of public action. 14 While there is theoretical support for the perception that policies have contributed to a decrease in the incidence of money laundering, there is no evidence that this goal has actually been achieved.15 The official discourse describes the regime as a crucial tool to prevent and combat money laundering, and lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering laws. This work however takes a critical approach towards the existing legal framework and presents the view that questioning the effectiveness of the money laundering offence is essential before expanding the scope of the existing legal framework.16 On the background of the reflections based on the sociolegal framework that sets the definition of legal effectiveness with specific respect to criminal law, and on the critical literature on the inadequateness of the international anti-money laundering system to eliminate the targeted activity recalled in the introduction, the hypothesis underlying the case study is the following: Article 261 Gcc may be an example of a symbolic legislation, whose latent functions prevail on its declared functions. In particular, it is hypothesised that the law is an example of a 'compromise-law' that satisfy all parties taking part in the law-making process, thanks to the vagueness of the wording that allows a broad range of possible interpretations, and also thanks to the actual ineffectiveness, which pleases those who were contrary to the introduction of the provision. It is here necessary to recall the considerations on the 'legislator' being an heterogeneous group of parties not only constituted of members of the Parliament but often also by external actors, who can influence more or less transparently the law making-process. While the manifested function of tackling money laundering has in fact remained in the background, the thesis hypothesises that other latent goals have been pursued. It is further hypothesised that the 'law inaction' is part of a process of decriminalisation that intentionally grants impunity to a certain group of actors, in this case those laundering money, while giving the appearance that the practice is not accepted by law by labelling it as criminal. By using the concept of function, the study focuses on eventual conflicting interests emerging throughout the policy-making process and/or being displayed through the implementation of the provisions. In order to verify these hypotheses the research proceeds with a case study that aims at empirically assessing the sociolegal effectiveness of Article 261 Gcc. In particular, by applying the 'elastic' definition of effectiveness, the following chapters analyse the law-making process, the level of acceptance by legal scholars, the implementation, and the opinions of legal experts and professionals. The methodology adopted is qualitative. The research consists of a case study that includes a documental research, a qualitative analysis of statistical data and the conduction of interviews with privileged observers and legal actors. The study is a macro-sociological assessment of the effectiveness of a criminal legislation through the analysis of the motives that have triggered lawmakers to enact the current legal framework and the practical effects of the 'law in action'17 and of the 'law inaction'.18 Thanks to the use of sociological conceptual tools, as the ones of function, symbolic effectiveness, power, labelling, and legal culture, the research critically approaches the legal framework. In addition, the sociolegal perspective allows us to take into account the multidisciplinary nature of the phenomenon of money laundering and of its countermeasures and the diverse conflicting interests at play. The work has been conducted by a single person and not by a team of researchers; this has imposed a limit on the interviewing sample and the impossibility of undertaking, along with the qualitative analysis of the provision, a qualitative analysis of the jurisprudence and a quantitative analysis of the case law. In addition, criminal provisions have a deterrent purpose, yet in certain cases it is almost impossible to quantify the deterrence effect of those provisions, as in the case of the money laundering offence, and this represents a shortcoming of the current research. Official numbers are highly problematic, this element, despite impeding an objective quantification of the phenomenon, can represent a partial result for the qualitative analysis, because it highlights the complexity of the matter. The anti-money laundering regime is constantly evolving, and this would require continuously updating the assessment, instead the research provides a picture of the current situation. Yet the work offers the reader an instrument to critically interpret also possible changes in the wording of the money laundering offence that may be made following the publication of this work. The outcomes of the critical study on the reasons and effects of the current legislation can be used as a starting point for further research; the methodology set for the empirical analysis can be applied to assess the effectiveness of following developments. The structure of the thesis is the following: The first chapter presents the theoretical sociolegal framework and provides an operational definition of the concept of effectiveness that directs the empirical research. At the end the chapter describes the methodology of the qualitative research. Chapter two traces the genesis of the money laundering offence, as well on an internal, European and domestic level. The chapter analyses legislative intents, parliamentarian debates and other external contributions as declarations of intents and opinions through a desktop-study. The third chapter is dedicated to the doctrinal debate about the money laundering offence regulated in the German penal code. In particular the chapter highlights the controversial issues that have emerged through the abundant legal scholarship production, which might affect the effectiveness of the money laundering offence. Chapters four and chapter five present the empirical research. The fourth chapter analyses the quantitative data of the implementation of the money laundering offence from a qualitative perspective. The last chapter presents the results of the interviews. The main outcomes of the research are that the interests expressed more or less manifestly from the actors taking part in the initial phase of the creation of the anti-money laundering regime were strongly conflicting with each other. One representative example is the question whether to use the policy also to tackle large scale tax evasion or to leave proceeds deriving from fiscal crimes outside of the regime. Very different justifications were given for the criminalisation of money laundering at different stages. Often the declared motives did not correspond to the real goals of the actors taking part in the law-making process. The rhetoric connected to the seriousness of the drug issue was the manifest function of the new criminalisation of money laundering. However, other latent goals, for instance, the desire of financial institutions to clean their reputation and gain customs confidentiality or the interest of some governments to curb tax evasion were already present during this initial phase. Another controversial issue concerns the fact national states have adopted anti-money laundering measures under the pressure of the FATF, which is led by most industrialised countries.19 Despite lacking democratic legitimation, the FATF has imposed worldwide a brand new regime of criminalisation, prevention and enforcement. The legal framework has been used to address ever-new challenges, and this expansion process has been coupled by a rhetoric that scholars have defined the securitisation rhetoric.20 The most recent function manifestly attributed to the anti-money laundering legal framework, that is, in short, the protection of the soundness of the financial system. Especially in times of financial insecurity, the tendency of hardening laws against economic crimes increases. Having previously deregulated the financial system to enhance economic liberties, legislatures resort to criminal law to control illegality in the economy. As a response to the European financial crisis of 2007-2011, legislatures, instead of rethinking the approach towards the protection of the global finance, called for a tightening of economic crimes regulations. The European discourse on money laundering has mostly been related to the destabilisation of the market, the abuse of capitals' movement liberty, the disintegration of the internal economy. But, why was the EU so keen on imposing a common standard for the criminalisation of money laundering, without even enjoying competence in penal matters? The introduction of a common anti-money laundering control policy served to a latent function, namely to the purposes of the creation of the 'Single Market', by way of avoiding that Member States would have adopted measures inconsistent with the completion of the Internal Market, while taking action to protect their own national economies from money laundering.21 This was done by avoiding that domestic regulations implemented for protecting national economies from the infiltration of ill-gotten capital could have hampered the freedom of movement of capital within the European borders. The tension emerges, also in the wording of the most recent EU money laundering Directives, due to lack of Community action against money laundering could lead Member States, for the purpose of protecting their financial systems, to adopt measures which could be inconsistent with completion of the single market.22 There are thus conflicting interests between the claim for regulation to avoid the infiltration of illicit capital, and the demand for deregulation to foster the free market. The European legislature, however, did not declare completely this intention and justified, instead, the imposition of anti-money laundering rules given the threats posed by money laundering to the financial system and thus to society. According to this critical approach, the criminalisation of money laundering turns out to be more of a political tool aimed at achieving governance within the EU, while being presented to the public as an essential intervention to guarantee security and well-being. Once again, thus, the declared goals of the lawmakers did not correspond with the real intentions. It is especially in the interest of a research on the law's effectiveness to unveil functions that were undeclared, in order to evaluate the outcomes in a more critical way. Also from the analysis of the national law-making process emerged divergent opinions and expectations relating to the criminalisation of money laundering. The Parliamentarians debate that took place with regard to the introduction of the money laundering offence and other instruments to tackle drug-trafficking shows that the discussion was deeply embedded in the political-historical context. Given that Germany was just reunified after a period of two dictatorial regimes, the hearing gives the impression that lawmakers felt the responsibility of creating a new legal system against such historical background. In order to balance the very different legal cultures, the divergent approaches had to be compromised. The introduction of a new crime was particularly delicate due to the discriminatory and arbitrary use of criminal labels by the previous dictatorial regimes. Therefore, delegates would not easily give up on fundamental rights for the cause of persecuting criminals. The legislation can be seen as an attempt to balance the need to adopt more effective measures to tackle crime and the necessity of respecting the rule of law and creating a 'militant democracy'. Yet, given the external pressure of the FATF, the EU and of the media, the text was less of a compromise and rather a ratification of 'internationally' accepted standards. The rule of law was not the only issue emerged in the initial phase of the political debate. Controversial opinions were raised also with regard to the questions of the mens rea and the interest protected by the new criminal provision: Certain political parties supported the broadest criminal liability to ensure an effective prosecution of money laundering, other parties were worried that a widespread liability would have been cumbersome for the economic system. Moreover, along with the expansion of the international criminal legal framework to fight against money laundering, also the scope of Article 261 Gcc was extended to include ever-new predicate offences. From the analysis of the doctrinal debate, it emerged that legal scholars have revealed technical hindrances that hinder the provision's legitimacy and thus hamper a positive integration of the act in the criminal legal system. In addition, given that most controversial issues are caused by the wording of the offence, the chapter seems to uphold the idea of an intentional potential decriminalisation of money launderers. The wording of Article 261 Gcc has the potential of frustrating some of the intentions expressed by the legislature in occasion of the adoption of the provision. While the vague formulation of the money laundering offence was thought to tackle ever-new emergencies and has been justified by legislatures as necessary to ensure a more effective fight against money laundering, it has also raised issues that, far from being purely dogmatic, have undermined the acceptance of such law. If law makers have designed the offence in a broad way to allow the criminalisation of conducts that could not have been prosecuted by the existing offences before, the large discretion left to prosecutors, has resulted in a cumbersome element for the prosecution of money laundering. In addition, criminalising the reckless conduct without envisaging a specific criminal liability for security positions has widened the scope of the offence to the point that the law has missed its function of isolating criminals by criminalising gate-keepers' activities. In addition it emerged that there are some open questions with regard to the wording of the offence, for example the question of the interests protected by Article 261 Gcc. On one side a state intervention is considered necessary to contain the impact of economic misbehaviours to protect citizens, on the other side it is important to limit the resort to criminal law only for safeguarding individual or collective situations and not for defending an existing economic structure. The economic system may, in fact, not be considered as a collective interest that needs protection. Also, safeguards provided by penal law need to be substantial and not symbolic, because they urge to change a given situation of inequality, where criminals can profit from illegal practices while legitimate economic actors undergo unfair competition. From the doctrinal analysis it has instead emerged that the legislator seemed to be more interested in drafting a symbolic legislation that can be hardly integrated in the legal system and that raise strong challenges. Lawmakers have been focusing on expanding the reach of anti-money laundering in order to improve its effectiveness, yet without providing legitimacy for such expansion. One of the most meaningful fact observed in the qualitative analysis of statistical data is that organised crime and 'gross money laundering' are not persecuted through Article 261 Gcc. This fact can be inferred by the low number of convictions pursuant to Article 261 (4),23 by the low number of money laundering proceedings categorised as organised crime and by the low number of investigations in the field of money laundering, tax crimes and economic crimes recorded by public prosecutors offices in 2013, where more than one person was involved (18 %). Yet, this does not mean that the criminal justice system does not act against them, but rather that it uses other tools to achieve the goal. While the low conviction rate for serious money laundering cases could be also a symptom of a high degree of deterrence of the provision, it seems that law enforcement uses the money laundering charge as a fallback for authorities who are unable to acquire sufficient evidence in a preliminary phase for the predicate crime and necessitate further information otherwise not accessible. The charge of money laundering allows investigators to access the vast amount of information recorded pursuant to the GwG, which would not be otherwise accessible. Yet, after the investigative phase, prosecutors seem to prefer to modify the charge and opt for indictment for predicate offences instead. The law seems to be effective to the extent that it facilitates the initial investigations, while it does not serve directly the function of punishing money launderers. Besides having a substantial nature, the provisions seem to have a procedural function. It can be inferred that prosecutors find particularly difficult to bring evidence against organised money launderers also due to the fact that professional offenders do not leave traces. From the scarce use of Article 261 Gcc for tackling organised criminality, it can be inferred that the measure is not serving for one of the purposes declared by the legislature when introducing the offence. In addition, it can be hypothesised that other measures may be more suitable to tackle 'gross money laundering'. Given the high number of STRs filed and the low number of money laundering charges and of convictions deriving from the STRs since the introduction of the laws, it can be assumed that the system has been anyway maintained because it still provides some sort of benefits. It can be hypothesised that one benefit is the number of information provided to law enforcement agencies. This amount of recorded information is helpful not only to support further indictments, but also to increase the personnel awareness about the ever-changing money laundering techniques and schemes. Again the effect of the 'law in action' differs in respect to the declared legislative intentions, which justified the criminalisation of money laundering with the necessity of tackling organised crime's economic power. By spelling out this function, the assessment on the effectiveness of the law - as the possibility of collecting information - can be positive. Yet, this effect could be considered a social cost rather than a benefit. On a theoretical side, many scholars see the recording of personal information by private actors as an infringement of the right to privacy.24 On a more practical side such mechanism imposes significant costs on the designated businesses and professions that are in charge of collecting the data.25 When compared to the effective outcomes of the preventive regulations, in terms of law enforcement results, this aspect does not seem to win a cost-benefit analysis, as showed in the quoted researches. If one considers the advantages in terms of information collected, the policy may be considered worth the burden imposed, instead. However, the fact that the laws would have an effective impact on the long run on the fight against money laundering and organised crime may be seen as a diminished deterrence effect, because perpetrators would have the time to adapt to the new laws and find new ways of circumventing them. A collateral effect of the long-run effectiveness of the policy hypothesised on the basis of the outcomes of the research on the implementation is the fact that perpetrators could take advantage of the initiated but not completed cases, by acquiring knowledge about law enforcement strategies and thus develop subterfuges to elude them. On the contrary, it seems that the legislature is always running after to cope with the offenders' ever-new strategies. In fact, regulations about a new sector are updated when there is evidence that there is a risk of money laundering in that specific sector. Yet, offenders might have already moved their laundering activities to another sector. On the assumption that the inclusion of the reckless conduct would have potentially criminalised daily activities, a focus was posed on the number of convictions related to Article 261 (5) Gcc26 to verify the target of the criminal provision. Since 2005 a high number of convictions have been actually referring to reckless money laundering. This shows that the offence is used to punish primarily 'petty money laundering'. This fact can also be inferred from the relevant number of money laundering cases to the detriment of senior citizens, signalled by the FIU in the recent years. Also the fact that a significant number of STRs is filed in relation to the 'financial agents' phenomenon' is a symptom that the preventive mechanism targets more 'small fishes' rather than big perpetrators. Individuals convicted for the reckless conduct may be even victims of a fraud perpetrated by criminal networks. However, the criminal network acting behind the offender remains undetected. If on the one side it cannot be claimed that such offenders, given the lower degree of culpability should not be punished at all, on the other side this effect of the law involves a change of paradigm. The money laundering offence was initially introduced with the goal of tackling serious crimes. The observed effect, however, changes the function and the nature of the law, so that Article 261 Gcc could be considered rather a 'blue collar crime' more than a 'white collar crime'. From the analysis on the quality of STRs filed to the FIU, it can be inferred that certain designated professions and businesses are very reluctant in filing STRs, despite their notably exposure to money laundering risks. The list of designated professions and businesses has been amplified over the years exactly with the goal of facing this transfer of crime from one area to the other. Yet some professionals, such as legal advisors, do not report them, although they possess the capacity of recognising illicit transactions. The fact that some sectors do not actively participate in the effort of preventing money laundering, by allowing criminal proceedings to enter the legitimate economy, may lead to a general ineffectiveness of the system, because it can significantly hinder the capacity of the whole anti-money laundering system to respond to the ability of offenders to move their field of activity there where the law is lax. The provision does generate some instrumental effects by punishing offenders and by triggering a cooperation directed at signalling suspicious transactions between the obliged entities and law enforcement. However, some of the effects do not seem to completely fulfil the legislature's declared goals. For example the chapter seems to prove wrong the legislature's expectation of tackling the grey area by punishing gate-keepers or the attributed function of eliminating organised and serious crime. Given the high costs of implementation highlighted by the cost-benefits analyses, the rather low outcomes seem to be insufficient to fulfil the legislature's goals. Since it is sufficient that without latent functions it would be impossible to explain the adoption and maintenance of a legal act,27 it can be concluded that the intents declared by lawmakers do not satisfy the reasons why the provision was introduced. This opens up the hypothesis that Article 261 Gcc is an example of a symbolic legislation, which has been enacted with the purpose of compromising a complex parliamentarian debate. The analysis of the law-making process has revealed the existence of different expectations attributed to the introduction of Article 261 Gcc. Expectations that were conflicting with each other had to be negotiated and were compromised through the formulation of a vague offence that allowed different interpretations. Yet, the implementation of the law has led to the re-emersion of some of the conflicting situations. In addition, given that the policy regulates a complex and multifaceted issue new conflicts have emerged through its enforcement. The effects triggered by the norm can be indeed perceived positively or negatively by the different actors involved. In particular five principal conflicting situations have surfaced from the interviews. The first issue is the role played by external actors in the law-making process and the constant influence exercised by those actors in the process of updating the policy. The imposition of a US American approach to money laundering control through the role of the FATF has also been highlighted in the second chapter. Specifically, some scholars see the development of a global prohibition regime fostered by the US in the diffusion of anti-money laundering law. According to this literature, the powerful state creates an international regime focussed on achieving its own goals through global acceptance triggered by the securitisation rhetoric and compliance processes imposed through the menace of exclusion by international business relations. The second conflict that emanates from the words of the respondents is the one of the demand for criminal law to face financial misbehaviours and the necessity of limiting the tendency of expanding criminal law on the background of a situation of financial instability. Given the previous deregulation of the market, policy makers need to control and sanction economic abuse in order to protect fair competition and law-abiding individuals. On the other hand, the state needs to respect fundamental principles, such as the rule of law and the principle of ultima ratio that imposes a restriction of the use of criminal law in situations in which no other measures are suitable. This conflict has already been raised along the formulation of the money laundering offence with regards to the question of the interests protected by the law. Despite the legislator tying to limit the scope of the offence by attributing to Article 261 Gcc the protection of the administration of justice and of the interests protected by the predicate offences, this explanation was not considered suitable to the peculiarity of the offence. Indeed, shortly after the enactment, legal scholarship and the judiciary entered in a vivid debate in order to identify more suitable interests protected by the law, among them the financial and economic system under different perspectives. However, as chapter three shows, no solution could be found. In fact, the question concerning the suitability of criminal law to tackle illicit financial flows is perceived in the current research as still unsolved. The matter does not only concern money laundering control. On the contrary, it is a fairly widespread issue that has recently emerged due to the tendency of hardening economic crimes on the background of a situation of financial instability. The third conflict can be summarised as the following: on the one hand the policy being required to interfere with the personal sphere of suspected money launderers; on the other hand private institutions being interested in protecting their relations with loyal and trusted customers. Therefore, they are reluctant to give law enforcement the possibility to interfere too much in their business. The interest manifested by the private sector involved in the prevention of money laundering seems thus to collide with the legislative intent of preventing the infiltration of dirty money by way of preventing gate-keepers to help money launderers. The clash emerges at a micro-economic level and is triggered by the fact that the anti-money laundering policy demands an active participation by private sector in the detection of suspects. Private actors, are not appropriate to bear the burden of detecting offenders, moreover they need to protect the relationships with customers by avoiding unnecessary interferences. At the same time, the privatisation of crime control is questionable also from a governance point of view. It seems therefore that the public interest in persecuting crimes through having access to personal information from the private sector only marginally collides with the interest of protecting the right to privacy. Businesses and professions are predominantly interested in not interfering with their clients and in not bearing the burden of detecting offenders. The issue was also addressed during the national Parliamentarian debate, with regards to the degree of mens rea required for money laundering criminal liability. Making everybody taking part in economic or financial activities actively participating in the monitoring of the economic system under the threat of criminal liability for negligent money laundering was considered harmful for the business market. The same debate has been picked up by legal scholarship too. Yet, it seems that, despite the law being the result of negotiations, the question is still open. The fourth issue consists of discording opinions with regards to the opportunity of including tax evasion as predicate offence for money laundering. On one hand there is the interest of tackling tax evasion through the anti-money laundering regime, on the hand the concern of keeping the two phenomena distinct in order to avoid an overrating of money laundering. Since the genesis of the anti-money laundering policy, some actors taking part in the international law-making process, opposed the labelling of 'black money', naming money deriving from tax violations, as 'dirty money', indicating all proceeds of crime typically committed by organised crime. This distinction was based on the perception that tax-related offences were less serious and less harmful than capital flight and were advocated by financial centres in order to maintain a good reputation while still granting peculiar financial services, such as bank secrecy. This issue is a good example of the labelling theory, to the extent that it shows how a practice that was firstly not considered criminal enough to amount to a predicate offence for money laundering, has become part of the scope of the anti-money laundering regime on the basis of a political decision of labelling it as such. Respondents of the current research show to have different perceptions of the degree of the seriousness of tax laws violations and thus about the appropriateness and necessity of tackling them under the umbrella of the anti-money laundering policy. Again, the matter, which seemed to have been resolved through the negotiations on an international and European level, is still being debated at national level. The last two contrasting interests are the necessity of regulating the flows of money and the free movements of capitals in a neoliberal economy. The question is intrinsic in the nature of money laundering, which is a phenomenon that happens at the interface between legality and illegality. Regulations that facilitate the licit exchange of goods, capitals and services do also facilitate the flow of ill-gotten gains; there are thus conflicting interests between the public interest of persecuting crime and the claims for less regulation in a free market economy. From the interviews surfaced that not only opinions on the effectiveness of the law differ, but the very concept of effectiveness is perceived differently among the interview partners. Perceptions about how effective the anti- money laundering policy is appear to be similar among respondents belonging to the same experts' group. In particular, given the fact that the policy triggers many preliminary investigations, investigators work on a daily basis with the provision. This led to their opinion on the implementation of the legislation being rather positive. Positive opinions have common ground: they assert that the policy is not a simple one to implement, however, they believe that the legal practice has found its way through. On the contrary, defence attorneys specialised in economic crimes do not receive a significant amount of clients suspected for money laundering. For this reason they tend to have a rather negative opinion on the policy's effectiveness, also driven by the perception that the policy is not able to achieve the indirect goals. The diverse concepts of effectiveness provided by disciplines close to the sociology of law and the different definitions of effectiveness given by sociologists of law turn out to be useful here. Particularly the notions of 'efficiency' and of 'efficiency regardless of the goals' are proved very useful to interpret the respondents' opinions. Efficiency, is according to the administrative legal approach, the optimal relation between the goals achieved and the instruments used. A subcategory of this concept is the efficiency calculated through a cost-benefit analysis, of which some examples have been presented in the fourth chapter, which defines efficiency as the functioning of a legal order without assessing the goals achieved. This type of analysis focuses on the correctness of the operating system since the purpose of the system is its own existence. It refers to a whole legal order rather than to a specific single provision. Given that the anti-money laundering policy constitutes a legal order, due to the diverse regulations involved and the competent authorities created in order to achieve the goals of the policy, this notion can be applied. In the field of administrative legal theories, the first chapter has focussed on the approach that considers the (in)effectiveness of a law depending on its (failing) enforcement. A high degree of compliance of the anti-money laundering legislation might correspond to a high level of effectiveness of the policy with respect to its direct function, but at the same time to a rather low level of effectiveness with regards to its indirect purposes. The way to evaluate the degree of effectiveness is therefore also different. While compliance with legal provisions is calculated through a quantitative assessment of the processes in force and of the functioning of the system, the achievement of the indirect functions is measured on the impact of the policy. Interview partners have different perceptions about the indirect functions of the legislation too. This reflects, once again, the fact that the policy was a result of a compromise between different expectations and that the legislator was not able to limit the scope of its application to a particular goal. The different expectations and intents, which already emerged in the doctrinal debate about the legally protected interests, appears again in the different perceptions of the interviewees. The respondents were asked about the legislation's effectiveness with regards to one of the indirect functions, namely the capacity to deter organised crime. The legislator enacted the money laundering offence in the context of the fight against drug trafficking and other forms of organised crime, thus Article 261 Gcc's expressed rationale is the prevention and repression of organised crime. Finally, a relevant outcome regards the respondents' opinions on article 261 Gcc's latent symbolic function. Some of them agree with this. Others strongly oppose the hypothesis. They argue instead that the policy has instrumental effects on their daily practice, which cannot be defined as purely symbolic. According to most respondents, the law cannot be defined as symbolic, because it has led to instrumental effects. In the first place information gathered thanks to the GwG is used to start preliminary investigations under Article 261 Gcc. Secondly, the structure enacted to comply with the anti-money laundering policy is attainable and is visible and cannot be denied. Thirdly, the law is considered necessary because it labels a deviant behaviour. In particular, despite the fact that investigations do not lead to a conviction for money laundering they allow investigators to collect information in support of criminal cases for the predicate offences or to start a preliminary investigation for a predicate offence. In this sense, the function of the 'law in action', despite being questionable, is objectively instrumental. However, the fact that the law serves the purpose of tackling predicate offences through the support of investigations does not exclude the hypothesis that the law was enacted to pursue latent functions too. According to the sociologist Aubert, it is not necessary that the latent goal is the only one that plays a role, but it is necessary that the other purposes would not explain the analysed phenomenon completely. Indeed, in the opinions of those who exclude the symbolic function, yet the results achieved through compliance do not legitimate the burden imposed by the legislation. In other words, it seems that they recognise that the purpose of compliance cannot completely explain the policy makers' motivation, which re-opens the doors for the hypothesis of the existence of latent functions. In fact, such a demanding policy cannot be accepted for the sole purpose of re-enforcing the action of the criminal justice system in tackling predicate offences. On the other hand, compliance with the policy in terms of building of a structure and of expertise does not automatically mean fulfilling the policy's purpose. Particularly the creation of new professionalism, has been interpreted by scholars as a sign given to the public that the policy has produced certain effects. In conclusion, on the background of the research's outcome, the paper tries to reply to the question: (How) can the effectiveness of the money laundering offence be improved? While technical hindrances can (and perhaps) will be removed through legal reforms, 28 the inherent political economic and financial conflicting interests that impede a higher level of effectiveness are more difficult to solve. In contemporary industrialised economies there is a complicated and sometimes shifting boundary between legitimate and illegitimate transactions. This is particularly exacerbated in the context of financial capitalism, which 'subordinates the capitalist productive process to the circulation of money and monetary assets and hence to the accumulation of money profits'. Since the very beginning, determining the boundary between an area defined as 'criminal' and the space of 'legality' has been controversial. In fact, money has a neutral nature, pecunia non olet, making profit, irrespective of the monies' origin, is a very strong interest for both private and public entities, which collides with the one of eliminating illicit financial flows. In other words criminal policy goals diverge from purely economic interests. While one can assume the justice and correctness of the current financial system, and thus describes money laundering as harmful because it interferes with the existing economic order, one can also assume that the capitalist system leads per se to injustice and inequality, and that money laundering is actually embedded in this profit-oriented system and represents just the darker side of the capitalist economy. A compromised viewpoint is the one that describes money laundering as an accepted collateral effect of the capitalist system, that is to say 'a certain amount of illicit financial flows may be considered an acceptable price to pay for a market where free mobility of capital is guaranteed'. In other words, money laundering is intrinsic in or at least exacerbated by the capitalist system.
ABSTRACTThe indexes of crimes against the good functioning of the public administration in Ecuador are alarming. Although every year, there is an increase in efforts to fight corruption, concussion and acts that threaten sovereignty and democracy. These efforts have not provided significant changes despite living a state of emergency worldwide due to the COVID-19 pandemic, which threatens people's health with a high mortality rate, since there are people who only aim at personal enrichment, leaving aside the general interest. These illegal acts generate transaction costs from anti-democratic actions and actions that go against the Ecuadorian positive law since they limit the investment of these resources in the growth of relevant sectors for the evolutionary development of the country, such as the area of health, education, the incentive to sport, the emergence of new technologies. Besides, it is essential to consider the investment to eliminate the crimes that attempt against protected legal assets so that these would be reduced every year, that cost would be destined to the positive evolution of the country. Therefore, this article aims to analyze the importance of eliminating crimes against the proper functioning of public administration to eliminate the State transaction costs generated and thus strengthen democracy and legal security in the country. KEYWORDS: illegal cooperations, transaction costs, democracy, crimes, undemocratic acts, legal certainty. RESUMENLos índices de delitos contra la buena marcha de la administración pública en el Ecuador son alarmantes. Si bien cada año aumentan los esfuerzos por la lucha contra la corrupción, la concusión y actos que atentan contra la soberanía y democracia de un país, pero no han proporcionado grandes cambios a pesar de vivir un estado de emergencia a nivel mundial debido a la pandemia por COVID-19, que atenta contra la salud de las personas con un alto índice de mortalidad, ya que existen personas que solo tienen como objetivo el enriquecimiento personal, dejando de lado el interés general. Estos actos ilícitos generan costos de transacción a partir de las acciones antidemocráticas y acciones que van contra el derecho positivo ecuatoriano, puesto que limitan la inversión de esos recursos en el crecimiento de sectores relevantes para el desarrollo evolutivo del país como: el área de salud, la educación, el incentivo al deporte, el surgimiento de nuevas tecnologías; además, es importante considerar la inversión para eliminar los delitos que atentan contra bienes jurídicos protegidos, con el fin de que estos se redujeran cada año, ese costo sería destinado a la evolución positiva del país. Por lo cual, el objetivo del presente artículo es analizar la importancia de la eliminación de los delitos contra la correcta marcha de la administración pública, para eliminar los costos de transacción estatales que se generan, y así fortalecer la democracia y la seguridad jurídica del país. CÓDIGO JEL: K, K10, K42 ; ABSTRACTThe indexes of crimes against the good functioning of the public administration in Ecuador are alarming. Although every year, there is an increase in efforts to fight corruption, concussion and acts that threaten sovereignty and democracy. These efforts have not provided significant changes despite living a state of emergency worldwide due to the COVID-19 pandemic, which threatens people's health with a high mortality rate, since there are people who only aim at personal enrichment, leaving aside the general interest. These illegal acts generate transaction costs from anti-democratic actions and actions that go against the Ecuadorian positive law since they limit the investment of these resources in the growth of relevant sectors for the evolutionary development of the country, such as the area of health, education, the incentive to sport, the emergence of new technologies. Besides, it is essential to consider the investment to eliminate the crimes that attempt against protected legal assets so that these would be reduced every year, that cost would be destined to the positive evolution of the country. Therefore, this article aims to analyze the importance of eliminating crimes against the proper functioning of public administration to eliminate the State transaction costs generated and thus strengthen democracy and legal security in the country. KEYWORDS: illegal cooperations, transaction costs, democracy, crimes, undemocratic acts, legal certainty. JEL CODE: K, K10, K42 ; Les indices de délits contre le bon fonctionnement de l'administration publique en Equateur sont alarmants. Bien que chaque année, il y ait une augmentation des efforts pour lutter contre la corruption, les commotions cérébrales et les actes qui menacent la souveraineté et la démocratie. Ces efforts n'ont pas apporté de changements significatifs malgré le fait de vivre un état d'urgence dans le monde entier en raison de la pandémie de COVID-19, qui menace la santé des personnes avec un taux de mortalité élevé, car il y a des personnes qui ne visent que l'enrichissement personnel, laissant de côté l'intérêt général. Ces actes illégaux génèrent des coûts de transaction à partir d'actions antidémocratiques et d'actions qui vont à l'encontre du droit positif équatorien car ils limitent l'investissement de ces ressources dans la croissance de secteurs pertinents pour le développement évolutif du pays, tels que le domaine de la santé, l'éducation , l'incitation au sport, l'émergence de nouvelles technologies. En outre, il est essentiel de considérer l'investissement pour éliminer les délits qui portent atteinte aux biens juridiques protégés afin que ceux-ci soient réduits chaque année, ce coût serait destiné à l'évolution positive du pays. Par conséquent, cet article vise à analyser l'importance d'éliminer les infractions contre le bon fonctionnement de l'administration publique pour éliminer les coûts de transaction de l'État générés et ainsi renforcer la démocratie et la sécurité juridique dans le pays. MOTS-CLÉS: coopérations illégales, coûts de transaction, démocratie, délits, actes antidémocratiques, sécurité juridique. CODE JEL: K, K10, K42 ; Gli indici dei reati contro il buon funzionamento della pubblica amministrazione in Ecuador sono allarmanti. Sebbene ogni anno aumentino gli sforzi per combattere la corruzione, le commozioni cerebrali e gli atti che minacciano la sovranità e la democrazia. Questi sforzi non hanno prodotto cambiamenti significativi nonostante si viva uno stato di emergenza mondiale a causa della pandemia di COVID-19, che minaccia la salute delle persone con un alto tasso di mortalità, poiché ci sono persone che mirano solo all'arricchimento personale, tralasciando l'interesse generale. Questi atti illegali generano costi di transazione da azioni antidemocratiche e azioni che vanno contro la legge positiva ecuadoriana poiché limitano l'investimento di queste risorse nella crescita di settori rilevanti per lo sviluppo evolutivo del paese, come l'area della salute, dell'istruzione , l'incentivo allo sport, l'emergere di nuove tecnologie. Inoltre, è essenziale considerare l'investimento per eliminare i reati che attentano ai beni legali protetti in modo che questi si riducano ogni anno, quel costo sarebbe destinato all'evoluzione positiva del Paese. Pertanto, questo articolo si propone di analizzare l'importanza di eliminare i reati contro il corretto funzionamento della pubblica amministrazione per eliminare i costi di transazione dello Stato generati e rafforzare così la democrazia e la sicurezza giuridica nel Paese. PAROLE CHIAVE: collaborazioni illegali, costi di transazione, democrazia, crimini, atti antidemocratici, certezza del diritto. CODICE GEL: K, K10, K42 ; Os índices de crimes contra o bom funcionamento da administração pública no Equador são alarmantes. Embora a cada ano, aumentem os esforços de combate à corrupção, concussão e atos que ameaçam a soberania e a democracia. Esses esforços não proporcionaram mudanças significativas, apesar de vivermos um estado de emergência mundial devido à pandemia COVID-19, que ameaça a saúde das pessoas com uma elevada taxa de mortalidade, visto que há pessoas que visam apenas o enriquecimento pessoal, deixando de lado o interesse geral. Esses atos ilegais geram custos de transação a partir de ações antidemocráticas e contrárias ao direito positivo equatoriano, pois limitam o investimento desses recursos no crescimento de setores relevantes para o desenvolvimento evolutivo do país, como a área da saúde, educação. , o incentivo ao esporte, o surgimento de novas tecnologias. Além disso, é imprescindível considerar o investimento para eliminar os crimes que atentam contra o patrimônio legal protegido para que estes sejam reduzidos a cada ano, esse custo seja destinado à evolução positiva do país. Portanto, este artigo tem como objetivo analisar a importância da eliminação dos crimes contra o bom funcionamento da administração pública para eliminar os custos de transação gerados pelo Estado e, assim, fortalecer a democracia e a segurança jurídica no país. PALAVRAS-CHAVE: cooperações ilegais, custos de transação, democracia, crimes, atos não democráticos, segurança jurídica. CÓDIGO JEL: K, K10, K42
The study reconstructs the conceptual category of economic stability in its different forms (monetary, tax and financial) within the regulatory framework of international economic law, focusing, in particular, on the relative legal nature of global public good for the supply of which a plurality of public and private subjects and actors (states, international economic organisations, rating agencies, sovereign funds, multinational enterprises, hedge funds) are involved, operating on bases, perspectives and aims that do not always coincide and sometimes are even in potential conflict. A public good that — because of the properties that characterize it and the positive externalities it is able to produce — is in the common interest of all the subjects of international law and its various actors that make up the international economic community to commit themselves to its pursuit and supply, thus ensuring its widespread enjoyment for the benefit of all, while at the same time preventing dangerous opportunistic phenomena of free riding and moral hazard, which are at the root of many of the situations of instability that have occurred in recent decades. The research, in following the approach whereby international economic law is an area of public international law, i.e. of the part that regulates the economic nature of relations between states and other subjects of international law and whose sources can only belong to public international law, can only follow — in dealing with the issues related to this figure — a macro -economic approach of the problems in question, by firstly reconstructing the very complex contents of the above-mentioned category for which there is no legal concept at international level. We will then linger over the policies and stabilization mechanisms adopted at international and european level to overcome the current serious economic uncertainty, most of which are inspired by a strict conditionality. Solutions that have entailed and still entail significant costs if we consider the social repercussions that those choices have determined. Inevitably, many doubts and critical issues have been raised not only about the effective compatibility of those instruments with regard to the protection and promotion of economic and social human rights, but also about the limitations they have imposed on states, especially those most in need of economic and financial support in terms of exercising their (economic) sovereignty. This has also raised the question of how to reconcile democratic methods and technocratic solutions, especially when certain choices that have a decisive impact on the lives of individuals and the various national communities have been taken — partly because of the urgency of the moment — within fora and decision-making centers that lack effective democratic legitimacy. However, burden sharing that the production of the stability good imposes can only take place — as the study tries to demonstrate - through cooperative and multilateral strategies and based on the principle of differential treatment between developed and less developed countries, a concept that strongly influences international economic law. In fact, it reflects the need to consider not only the different material conditions that characterize the numerous situations involved, through a "gradation" of the obligations incumbent on them or through a better contextualization of these obligations, but also and above all it intends to recognize the different level of responsibility of the various countries and economic actors in determining the conditions of economic instability and the direct and consequential damages that can derive from the latter situation for the international economic order considered as a whole. Succeeding in implementing this aspect and, at the same time, combining economic reasons — especially those related to the balance of public accounts — with social reasons related to the defence of human rights is a very important challenge for states, for the international community and for humanity as a whole. The need to go beyond gross domestic product and other economic variables that work around that figure to measure economic growth, development in general and, above all, the well-being of a society, is becoming increasingly necessary without, however, chasing utopian models of happy degrowth. In fact, the use of new indicators and the achievement of new goals and targets as set out in the United Nations 2030 Agenda for Sustainable Development go in this direction. For these reasons, the study, in reconstructing the legal dimension of the principle of sustainable development, wants to emphasise how it can represent an opportunity to come to a method that is used to achieve an effective balance between political and economic interests and social interests, in some cases, as noted, opposed to each other. It expresses not only a new vision in terms of behaviour and method of action, but above all it can represent the means by which to reach a fair compromise at international legal level between the need to ensure a stable economic and financial system and the defence of the economic and social rights of the person, at least of those rights considered essential.This is the only way to prevent new crises and above all to protect the interests of future generations, as the Brundtland Report — which has given impetus to the principle of sustainable development — urges us to do.
For a long time, the theory of sovereignty has enabled governors to draw a watertight boundary between internal and external rules, social order and international anarchy, police and social on the one hand, war and diplomatic on the other. On the one hand, in the State of Austria, there is no rational, optimal choice for the individual and the horizon of democracy, and on the other in the Westphalian State, there is a risk of destruction, the calculation of states and the horizon of the conflict. There is a clearly named "We" and "Eux", a foreigner and a national. Realistic theories have always overvalued these distinctions and have sometimes become entrenched by confusing alterity and inimity (.). ; Pendant longtemps, la théorie de la souveraineté a permis aux gouvernants de tracer une frontière étanche entre les règles internes et externes, l' ordre social et l'anarchie internationale, la police et le social d'un côté, la guerre et le diplomatique de l'autre. D'un côté dans l'Etat weberien règne la rationalité, le choix optimal pour l'individu et l'horizon de la démocratie, de l'autre dans l'Etat westphalien, règne le risque de destruction, le calcul des Etats et l'horizon du conflit. Il existe un " Nous " et un " Eux " clairement désignés, un étranger et un national. Les théories réalistes ont toujours survalorisé ces distinctions et les ont parfois essentialisées en confondant altérité et inimitié (.).