Cap I: Questo capitolo mira a stabilire un punto di partenza per quanto riguarda questa tesi, ricostruendo una definizione ampiamente accettata dalla comunità internazionale su ciò che si deve intendere come concetto di vittime di crimini atroci, concetto sviluppato e perfezionato dal diritto internazionale pubblico, in particolare i contributi a tale concetto proverranno dal diritto internazionale dei diritti umani e dal diritto penale internazionale, inoltre si analizzerà ciascuno degli obiettivi dei modelli di giustizia restaurativa e la di giustizia retributiva per le vittime, dimostrando che esiste un punto di convergenza o di visione eclettica tra i due modelli nel diritto penale internazionale a favore delle vittime di crimini atroci. In questo capitolo si pretende introdurre un concetto simile a quello riconosciuto a livello internazionale come la carta dei diritti umani, in questo caso si introdurrà il concetto di Carta Internazionale dei diritti delle Vittime di crimini atroci, carta fondamentale composta da quattro documenti essenziali e la riunione degli stessi sarà la loro carta dei loro diritti, nel senso di fornire la protezione, difesa e riconoscimento dei loro diritti come Lex specialis, termine utilizzato non per privilegiare l'applicazione di una norma, ma per la costruzione di un corpo legale attraverso l'unione di vari pezzi che contiene disposizioni specifiche e generali, che di per sé non corrispondono ad una posizione cronologica, allo stesso modo, questa Carta delle Vittime si vedrà arricchita dal retaggio di due tradizioni giuridiche del common law e del civile law che hanno inciso nei tribunali internazionali penali e/o dei diritti umani, che rendono effettiva la protezione delle vittime . È allora che si tratterà: In primo luogo, sugli apporti che realizzano i Principi fondamentali di giustizia per le vittime di reati e dell'abuso di potere. In secondo luogo, si approfondirà sui contributi dei principi e delle linee guida sul diritto delle vittime di violazioni manifeste delle norme internazionali dei Cap I diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario a interporre ricorsi e ottenere riparazioni, si farà riferimento agli strumenti e alla giurisprudenza del Sistema Universale Dei Diritti Umani, il Sistema regionale Interamericano Dei Diritti Umani, il Sistema Regionale Europeo Dei Diritti Umani e il Sistema Regionale Africano Dei Diritti Umani. In modo uguale si tratterà di garantire in ogni momento alle vittime il diritto di ottenere un risarcimento per le violazioni verificatesi ai loro diritti internazionalmente riconosciuti o per le violazioni del diritto internazionale umanitario. In terzo luogo, si analizzeranno i contributi apportati dai Principi contro l'impunità, in particolare i principi del diritto di sapere, del diritto alla giustizia e del diritto alla riparazione. Quarto luogo: Si descriveranno le caratteristiche generali del riconoscimento dei diritti delle vittime nel Sistema della Corte Penale Internazionale. ; cap II: Questo capitolo analizzerà i principi generali che regolano il processo penale internazionale, in particolare quelli a favore delle vittime e degli imputati coinvolti nel processo. Questi principi saranno definiti e spiegati sulla base della giurisprudenza internazionale dei diritti umani, del diritto penale internazionale e della dottrina internazionale. Di conseguenza, saranno trattati come principi per le vittime; l'accesso alla giustizia che tratta il ricorso effettivo contro i gravi crimini perpetrati, che comprendono: il diritto di accedere a un rimedio adeguato e idoneo, il diritto a un ricorso effettivo e il diritto a un ricorso opportuno. Il principio della quarta istanza a favore delle vittime, in particolare l'esame del diritto penale internazionale sulla cosa giudicata fraudolenta l principio dell'adozione di misure di protezione a favore delle vittime di crimini atroci: il principio delle Norme imperative di diritto internazionale generale, jus cogens ed i principi secondo i quali l'imputato deve essere presente nel processo. Allo stesso modo, per sviluppare il processo e come garanzia per gli indagati e imputati e talvolta della vittima, si svilupperanno i principi di: la presunzione di innocenza; il principio di indipendenza e di imparzialità dei giudici; il principio della parità e della ragionevolezza della durata del procedimento; l'uguaglianza delle parti; la pubblicità del procedimento; accesso obbligatorio all' informazione, la confidenzialità e la riservatezza; la durata ragionevole del procedimento e il principio della doppia istanza. ; Cap III: Una volta definiti i diritti delle vittime, Carta Internazionale dei diritti delle Vittime di crimini atroci, questo capitolo mira a descrivere le fasi proprie del processo dinanzi alla Corte Internazionale Penale quale massimo esponente del diritto penale internazionale; per questo, la procedura sarà spiegata in modo dettagliato e illustrativo, facendo riferimento alle norme pertinenti degli Statuti e delle regole di procedimento e prova dell'TPIY, dell'TPIR e della Corte Internazionale Penale CPI, nonché alla prassi giuridica dei tribunali penali ad hoc, così come all'influenza degli strumenti e della giurisprudenza dei Tribunali penali internazionali di diritti umani. Pertanto, descriverà il modo di attivazione della Corte da parte di: Gli Stati, il Consiglio di sicurezza, la Procura della CPI, introducendo la partecipazione delle vittime alla trasmissione di informazioni sui reati atroci alla Procura della CPI; così come sitratterà dell'accesso e capacità di azione delle vittime, il diritto di partecipazione al diritto penale internazionale, in particolare dinanzi alla Corte Internazionale Penale, nonché i diritti riconosciuti dallo Statuto di Roma agli indagati e che si trovano in un processo internazionale penale in confronto con gli strumenti relativi ai diritti umani. Dopo di ciò si procederà ad affrontare le varie fasi del processo avviato dalla Corte Internazionale Penale, vale a dire la fase di apertura dell'inchiesta da parte del Procuratore, il principio di complementarità e il test di ammissibilità, le condizioni per l'avvio delle indagini, Lo svolgimento delle indagini e delle indagini da parte del Procuratore della CPI, comprese: la cooperazione giudiziaria degli Stati, la procedura di arresto in attesa di processo, La presentazione dell'atto d'accusa e delle accuse, la procedura preliminare all'udienza. A sua volta si tratterà tutto ciò che riguarda il Processo, vale a dire la presentazione del caso, le norme sulle prove, la delibera, la determinazione della pena, e la procedura di appello o la revisione del processo. Inoltre, questo capitolo mirerà a definire e descrivere le modalità di partecipazione delle vittime all'intero procedimento dinanzi alla Corte Internazionale Penale. Le Corti Internazionali Penali sono state istituite in diversi contesti per indagare e punire crimini gravi; tuttavia, né il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, né il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Iugoslavia e attualmente il Tribunale Penale Internazionale, non sono dotati di forze di polizia che possa operare liberamente nel territorio degli Stati interessati, motivo per cui gli agenti internazionali sono spesso costretti a intervenire per impedire che gli stessi funzionari siano ostacolati, sia per la loro incapacità che per la loro riluttanza, da certe violazioni. Non essendo dotate di un'autorità di polizia, accade spesso che la loro vera funzione sia relegata dagli Stati e non vi sia più azione. È per questo che la sfida particolare nei confronti degli Stati che esplicitamente o tacitamente sono riluttanti a tali ricerche, è quello di trovare la combinazione tra coercizione legale ed estendere un qualche tipo di azione che permetta un'indagine adeguata. Occorre sottolineare che molti degli sviluppi giurisprudenziali e statutari derivanti dall'esperienza dei tribunali per l'ex Iugoslavia e il Ruanda sono stati inseriti nello Statuto e nelle regole della Corte Internazionale Penale. Nella pratica, tuttavia, esistono differenze importanti che spesso riflettono i diversi contesti di ciascuna situazione. È importante notare che l'innovazione apportata dallo Statuto che è rilevante per le vittime può essere analizzata su tre aspetti specifici: 1. La Protezione, che è stata trattata nel capitolo precedente, 2. La Partecipazione, che sarà trattata nel presente capitolo, e 3. La riparazione o Risarcimento che sarà trattata nel capitolo III. D'altro canto, nonostante il fatto che, in questo secolo, il movimento per i diritti umani abbia significato per molte persone una lotta contro l'impunità, è stato anche espresso in modo contraddittorio, poiché, mentre ha rafforzato la responsabilità penale di coloro che li hanno violati, ha significato anche l'emanazione di molte leggi di amnistia opposte che potrebbero ostacolare tale responsabilità . In relazione alla conclusione del capitolo sui rimedi efficaci, numerose organizzazioni per i diritti umani e autorità giudiziarie sono giunte alla conclusione che gli Stati sono responsabili di indagare, perseguire e punire penalmente le persone che commettono crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, nell'ambito delle molteplici violazioni dei diritti umani che possono verificarsi. Di conseguenza, il fatto che uno Stato venga meno ai propri doveri implica una violazione del diritto internazionale dei Diritti Umani. Inoltre, questo movimento ha portato come conseguenza l'aumento della lotta contro l'impunità, in quanto la responsabilità è considerata una caratteristica importante nella risoluzione dei conflitti ; Cap IV: Questo capitolo svilupperà il diritto internazionalmente riconosciuto al risarcimento e le forme di risarcimento previste dal diritto penale internazionale a favore delle vittime di crimini atroci su base individuale e collettivamente, spiegando a tal fine che per risarcimento si deve intendere la giurisprudenza e i principi elaborati dalla Corte penale internazionale e da altri organismi che hanno affrontato questo concetto. A sua volta si spiegherà il fondo fiduciario a favore delle vittime, modello sussidiario al risarcimento diretto che si decreta contro l'autore di crimini atroci, ma che segna una pietra miliare nel diritto penale internazionale moderno e dimostra con la sua adozione una posizione di Stati di compassione e di solidarietà verso le persone che hanno sofferto sofferenze indicibili. Nel corso di questo capitolo si farà inoltre riferimento alle sentenze della Corte penale internazionale e al modo in cui si sono svolte le varie riparazioni ordinate a favore delle vittime. ; Cap V: Dopo aver spiegato come per il diritto internazionale, le vittime possono contare su diritti unici e obblighi a carico degli Stati e dei Tribunali Internacionali dei Deritti Umani e Penali Internacionali, Carte Fondamentali delle Vittime; che esistono principi che guidano i procedimenti nel diritto penale internazionale e che, in particolare ce ne sono di fondamentali per le vittime, le persone indagate e / o accusate e in generale per garantire un processo giusto ed equo; Che il diritto internazionale moderno, attraverso la Corte Penale Internazionale, riflette nelle sue procedure i diritti delle vittime di partecipare al processo e di ricevere un'adeguata riparazione individuale e collettiva, questo è il consolidamento della giurisprudenza delle corti internazionali per i diritti umani a favore delle vittime. A sua volta è spiegato come questa riparazione è stabilita e come le vittime possono accedere al ripristino o alla riparazione dei loro diritti direttamente o attraverso un fondo fiduciario proprio della Corte Penale Internazionale. Il presente capitolo ha lo scopo di riaffermare gli interessi e gli obiettivi comuni dell'Umanità di giustizia contro i perpetratori di crimini atroci, cioè perseguire, giudicare e condannare i responsabili. Vale a dire riaffermare il valore della non impunità di fronte a crimini gravi. Secondo il fatto che amnistie e indulti, perdoni amnesici, etc. possono essere riproposti nel mondo nel quadro della giustizia di transizione non autentica o difettosa. Che cercheranno di sottrarre la persona responsabile dalle conseguenze criminali stabilite a livello internazionale. Ecco perché è stato discusso nel capitolo II di questa tesi, oltre all'importanza del concetto della Quarta Istanza a favore delle vittime e della cosa giudicata fraudolenta per l'attivazione della giurisdizione della Corte penale internazionale. In questo capitolo si cercherà di trattare l'impegno del l'intera comunità internazionale per la repressione penale dei crimini più gravi di rilevanza internazionale, la messa al bando dell'impunità nel diritto penale internazionale, l'esigenza di una pena privativa della libertà per crimini atroci per il diritto penale internazionale, il principio del diritto alla giustizia per il diritto penale internazionale, i parametri per l'imposizione di pene detentive per il diritto penale internazionale, il divieto di amnistia o indulto per crimini atroci e la giurisprudenza internazionale dei tribunali per i diritti dell'uomo che sancisce la pena detentiva per crimini atroci. ; Cap VI: Nell'accordo concluso tra lo Stato della Colombia e il gruppo delle Farc, è stata istituita una giustizia transizionale, che in ogni caso sostituisce la giurisdizione penale della Colombia, le pene previste e le rispettive procedure, denominata "Giurisdizione per la pace e/o Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione, di seguito il SIVJRNR. La presente analisi comparativa sarà effettuata esclusivamente tra le norme internazionali del diritto penale internazionale e del diritto internazionale dei diritti dell'uomo e la giurisprudenza dei loro tribunali trattati nei capitoli precedenti, rispetto all'accordo concluso tra le parti, lo Stato della Colombia e il gruppo delle Farc, denominato: accordo 5, sulle Vittime del Conflitto: "Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione". Questo perché tale accordo avrà un impatto diretto sulla legislazione nazionale della Colombia per la sua attuazione. Tuttavia, non mi soffermerò sul modo in cui è stato attuato a livello interno. Tale accordo tra il gruppo insurrezionale e lo Stato annunciava che il risarcimento delle vittime è al centro dell'Accordo tra il Governo Nazionale e le FARC-EP. In tal senso, in seno al Tavolo delle Trattative dell'Avana, si è discusso e raggiunto un accordo sul punto 5 dell'Agenda "Vittime" che comprende i seguenti punti: 1. Diritti umani delle vittime e 2. Verità, cercando di dare contenuti che soddisfino le rivendicazioni di coloro che sono stati colpiti dal lungo confronto sulla cui soluzione politica oggi, mediante questi nuovi consensi e importanti misure e accordi di disarmo, si è compiuto un passo fondamentale verso la costruzione di una pace stabile e duratura e la fine di una guerra di più di mezzo secolo che ha dissanguato il paese" Con il presente capitolo e sulla base dei precedenti si intende dimostrare che l'accordo concluso tra le parti non è conforme a quanto stabilito a livello di diritto penale internazionale e di diritto internazionale dei diritti umani.
Dopo un'introduzione all'argomento, il primo capitolo si struttura presentando, in primis, un tentativo di definizione del fenomeno della tossicodipendenza. L'approccio delle varie discipline riflette, infatti, una differente visione sia del tossicodipendente singolarmente considerato che della dipendenza da sostanze come vero e proprio problema sociale. Il "soggetto deviante", non conforme ai parametri condivisi dal contesto socio-culturale di appartenenza, viene emarginato senza considerare che potrebbe presentare patologie fisiche e psicologiche (oltre che disadattamento sociale). Le politiche criminali meramente repressive hanno incrementato il mercato illegale di traffico e circolazione di stupefacenti ma altre, invece, hanno abbracciato una logica antiproibizionista ed ottenuto risultati quali la riduzione di morti per overdose e della criminalità correlata al consumo e vendita di sostanze. Diverse teorie interpretative hanno poi tentato di spiegare l'origine della dipendenza per poter individuare una soluzione effettiva. I modelli proposti seguitano con uno studio della relazione tra tossicodipendenza e criminalità: i vari stadi di intossicazione e di inserimento nel tessuto delle organizzazioni sottostanti determinano, infatti, l'entità, la probabilità e le differenze dei vari comportamenti contra legem. Le statistiche presentano dati in crescita; la poliassunzione, le nuove droghe sintetiche in circolazione nel mercato globalizzato ed i costi sociali droga-correlati (relativi al mantenimento dei detenuti, alla pubblica sicurezza ed ai procedimenti giudiziari) forniti da vari organismi creano allarme sociale e richiedono interventi di riforma. Le convenzioni internazionali – nonché la legislazione interna ai singoli Stati – dovrebbero essere aggiornate, ovvero adattate e reinterpretate: le strategie di riduzione della domanda e dell'offerta di droga non sono più sufficienti ed i progressi in campo medico e terapeutico hanno portato ad innovazioni non ancora istituzionalmente considerate. Per quanto concerne l'esecuzione della pena vige un regime particolare per i soggetti "tossicodipendenti", come delineato dal DPR 9 Ottobre 1990 n. 309. È da evidenziare, però, come non esista una definizione di tossicodipendenza generale e sganciata dagli elenchi Ministeriali; la necessità di individuare una nozione giuridica omnicomprensiva ridurrebbe quella di continuo aggiornamento delle relative tabelle e, magari, permetterebbe ad una platea più ampia di usufruire del percorso offerto. L'evoluzione del sistema sanzionatorio passa dunque dal RD 355/1922 in attuazione della Convenzione Internazionale dell'Aja del 1912 al RD 1398/1930, dalla Convenzione di Ginevra del 1931 al TU delle Leggi Sanitarie (RD 27 luglio 1934 n. 1265). In questo quadro normativo il fenomeno della tossicodipendenza è quasi equiparato ad una malattia ed il tossicomane è un soggetto a cui applicare le procedure di ricovero coatto modellate sulla Legge manicomiale del 1904. La successiva L 1041/1954 è poi inadatta agli sviluppi della nuova realtà sociale e solo con l'art. 84 della L 685/1975 si riconosce, per la prima volta, la tutela del diritto alla salute per soggetti tossicodipendenti in esecuzione della pena. Il TU attualmente in vigore è quello del 1990, come modificato dal referendum del 1993. Il sovraffollamento carcerario e le necessità di trattamento individualizzato hanno portato all'esigenza di ridurre la popolazione detenuta. La Corte Costituzionale è intervenuta con sentenza n. 32/2014, dichiarando l'illegittimità della Legge 49/2006 – improntata ad una logica dichiaratamente repressiva – ma il numero di presenze in carcere non sembra essere drasticamente diminuito. E' essenziale capire, infatti, come un soggetto con problemi di tossicodipendenza possa accedere all'Istituto detentivo e quale sia il trattamento applicabile. La tendenza punitiva dell'ordinamento è oggi equilibrata dal riconoscimento del tossicodipendente come persona malata e da recuperare mediante una serie di strumenti di stampo solidaristico. Viene così stabilito per il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria l'impegno a collaborare con Regioni ed ASL ai fini della miglior tutela della salute di tali soggetti. Questo non comporta il solo richiamo al diritto alle cure mediche, ma anche di poter vivere in maniera dignitosa il tempo trascorso fra le mura del carcere. Sicuramente, infatti, dovrebbe evitare di peggiorare la situazione di salute fisica e psicologica presente al momento dell'ingresso; gli eventi critici (quali atti di violenza auto od etero-imposta), l'incidenza delle malattie, l'area delle dipendenze, lo stato igienico-sanitario, l'organizzazione degli Istituti penitenziari ed il sovraffollamento rendono, però, difficile l'attuazione di questo compito. Nella seconda parte viene analizzato il profilo effettivo-trattamentale all'interno delle carceri. Dal momento dell'arresto al primo ingresso è necessario adottare, infatti, procedure ad hoc. Le necessità di accertamento delle eventuali patologie, la tempestiva raccolta delle informazioni utili, ovvero l'immediato trattamento dello stato di astinenza richiedono attenzioni specifiche. Il Ser.T., previi opportuni accordi con la ASL di competenza, viene coinvolto il prima possibile e non oltre le 36 ore si attivano gli interventi dello psicologo per la valutazione del rischio di auto od etero-lesionismo. Seguono tutti gli specialisti di cui si renda necessaria la consulenza, con particolare riguardo allo psichiatra. In tale contesto la visita di primo ingresso assume la funzione di "filtro", atto ad individuare precocemente quali siano gli interventi necessari. In questa fase viene pertanto sperimentata la capacità degli operatori di conciliare il proprio ruolo istituzionale con il tentativo di orientare il soggetto tossicodipendente nella direzione di un programma di recupero socio-riabilitativo. La documentazione medico-legale, richiesta per fruire delle misure di esecuzione esterna, viene formata seguendo metodologie differenti in base alle diverse sedi e questo potrebbe dunque costituire un problema per chi non risulti positivo secondo i test somministrati. La dipendenza da sostanze, infatti, è definita su base clinica diagnostica e non solo anamnestica o auto dichiarata, ma solo il 26% dei soggetti con problemi droga correlati risulta essere stato sottoposto al drug test al momento dell'ingresso in carcere. Il trattamento penitenziario prevede, poi, la fase della "osservazione della personalità del reo", mirata alla predisposizione di interventi in base alle peculiarità del caso per affrontarne le dinamiche relazionali e personali. Superata la "crisi di astinenza" grazie anche – ma non sempre – alla disintossicazione fisica, il tossicodipendente dovrebbe dunque essere integrato in attività lavorative e sociali. Questo soggetto presenta problemi diversi che richiedono una serie di accertamenti particolari ed interventi specifici, che non possono essere affrontati e risolti solamente attraverso un'azione di mero sostegno psicologico e/o farmacologico. L'organizzazione funzionale intra-muraria è gestita da un gruppo misto, composto da personale facente capo all'Amministrazione penitenziaria e da personale delle ASL con formazione specifica (équipe penitenziaria di osservazione e trattamento a contatto diretto con il detenuto, da considerare quale presupposto base per qualificare funzionalmente l'azione trattamentale). Il regime previsto ed i programmi individualizzati sono funzionali alla "sperimentazione penitenziaria" delle potenzialità di recupero del detenuto; il tempo trascorso in carcere, dunque, viene finalizzato al cambiamento ovvero come momento di valutazione motivazionale del soggetto. Per quanto concerne l'erogazione dei trattamenti si evidenzia una diversità sostanziale: quelli farmacologici sono legati alla sede ambulatoriale (Ser.T. a cui accede solo una minima parte dei detenuti con problemi droga-correlati), mentre per le comunità terapeutiche, ovvero il carcere, si nota una maggior componente meramente psico/socio-riabilitativa. La difficile integrazione dei servizi coinvolti per le diverse modalità di approccio al "problema tossicodipendenza", la discrepanza tra approccio custodiale ed approccio terapeutico, il sovraffollamento e la promiscuità carceraria rendono difficile la strutturazione di un intervento nelle sezioni ordinarie e lo riducono ad un mero trattamento di tipo sanitario; la problematicità di istituire un rapporto medico/paziente attraverso un contatto adeguato, la difficoltà di comunicazione tra tutti gli operatori che intervengono (come i servizi di volontariato e le comunità terapeutiche) porta ad una frammentazione degli interventi stessi; la diversificazione delle posizioni giuridiche (come la custodia cautelare, la pena definitiva, la pena breve o quella lunga) rende inoltre difficoltoso quantificare i tempi di permanenza per la strutturazione di progetti di recupero infra-murari. Lo svolgimento dei programmi previsti presupporrebbe un'adatta edilizia penitenziaria e lo stanziamento di fondi per l'apertura di nuove strutture ovvero la ristrutturazione delle esistenti ma la situazione di crisi della finanza pubblica ha consentito di attuare soltanto parzialmente le previsioni legislative. Tali carenze spesso impediscono di attivare una completa differenziazione e separazione tra le varie tipologie di detenuti. Le direzioni di numerosi istituti sono state costrette, infatti, ad occuparsi prevalentemente degli aspetti custodiali e della sicurezza ed hanno sovente instaurato un regime penitenziario indifferenziato per la totalità della popolazione ristretta. In tale situazione le esigenze di sicurezza vengono privilegiate rispetto a quelle del trattamento. Il modello "a custodia attenuata" risulta essere maggiormente efficace. Questi circuiti vengono differenziati in positivo grazie alla netta prevalenza delle esigenze di solidarietà e recupero sociale rispetto alle istanze repressive e detentive. Si tratta, infatti, di strutture aperte ed integrate nel territorio, nelle quali vengono ulteriormente attenuate le limitazioni grazie anche alla rete di agenzie pubbliche e private operanti nel settore. Sono costituite da sezioni annesse a grandi Istituti ed hanno gestione particolare ed indipendente, ovvero da Istituti autonomi a bassa capienza. Si basano sul meccanismo del "contratto di trattamento" e su una selezione accurata della popolazione ivi ristretta. Altra difficoltà interna al circuito "ordinario" risulta essere l'introduzione di sostanze vietate. Secondo uno studio dell'Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze lo stato di detenzione non implicherebbe, infatti, necessariamente la cessazione del consumo di stupefacenti (nonostante gli strumenti perquisitori messi a disposizione del personale penitenziario). I controlli effettuati dipendono dal regolamento interno ma si può sottolineare come – anche a livello europeo – i Paesi membri siano stati tenuti ad implementare le misure a riguardo. Questa problematica incrementerebbe il rischio di infezioni e trasmissione di malattie (quali l'HIV), date le modalità utilizzate per l'assunzione degli stupefacenti, e richiederebbe, dunque, un intervento coordinato, ovvero delle linee guida univoche idonee all'eliminazione di questo fenomeno interno alle diverse realtà carcerarie. Nel capitolo finale vengono poi analizzate le strategie e le prassi attinenti al trattamento dei tossicodipendenti in carcere per la maggior parte dei Paesi Europei. In più Stati si prevede la possibilità di accesso ad un programma di trattamento; molte prigioni offrono forme di disintossicazione farmacologica ma – in generale – viene preferita la forma assistenziale-terapeutica senza medicinali ovvero politiche di intervento improntate alla logica della riduzione del danno. Bisogna inoltre considerare come i servizi di trattamento debbano attualmente rispondere alla maggiore complessità delle esigenze sanitarie della popolazione detenuta; si dovrebbe dare priorità a programmi terapeutici a lungo termine (nonostante l'impossibilità oggettiva data dal panorama delle differenti situazioni giuridiche e dall'incertezza circa le reali intenzioni del reo). Le terapie sostitutive ma anche la fornitura di aghi e siringhe sono interventi sviluppati nell'ambito di una risposta al consumo di oppiacei per via parenterale ed ai relativi problemi, tra cui in particolare la diffusione di malattie infettive e i decessi per overdose. Riconoscere a livello sovranazionale che la la tossicodipendenza sia legata ad un disturbo di salute complesso, multi- fattoriale, cronico ed a tendenza recidivante (ovvero legato a fattori sociali) è necessario per fornire sia un trattamento farmacologico che programmi di cura e riabilitazione atti all'effettivo recupero e reinserimento sociale di questi soggetti tramite strategie uniformi e condivise. A livello nazionale è stata analizzata la situazione delle carceri nella Regione Toscana grazie alle Relazioni del Garante dei diritti per i detenuti ed alle Relazioni degli organismi che si occupano di elaborare i dati relativi alla sanità in quest'ambito. La qualità dei presidi sanitari interni alle carceri (in termini di attrezzatture e spazi disponibili) e l'attività del personale – a fronte dell'elevato numero di "eventi critici" – sono apparsi inadatti. Spesso, infatti, i detenuti lamentano di non essere presi in carico dai servizi territoriali (Ser.T.) o di non effettuare sufficienti colloqui con gli psichiatri. Il problema viene identificato nella diversità applicativa dei criteri diagnostici utilizzati per definire il soggetto "tossicodipendente"; la suddetta certificazione assume un ruolo primario sia per l'accesso alle cure che per l'accesso alle misure alternative alla detenzione. I diversi parametri adottati rischiano, invece, di diversificare e condizionare il percorso del detenuto in base al luogo di detenzione, andando dunque contro il principio cardine di parità di trattamento. All'interno della struttura si dovrebbe fornire al soggetto tossicodipendente un'assistenza sanitaria uguale a quella fornita all'esterno delle mura del carcere, cosa non possibile se non accompagnata da un significativo investimento di risorse. L'azione dei servizi di assistenza dovrebbe garantire la continuità delle cure anche – e soprattutto – al momento della scarcerazione (per evitare o ridurre ipotesi di recidiva ed i relativi costi sociali). Sarebbe necessario l'effettivo recepimento degli accordi sottoscritti in Conferenza Unificata e delle normative conseguenti, ma anche la definizione ed aggiornamento dei Livelli Assistenziali Essenziali (LEA) specifici per le persone detenute. Sarebbe auspicabile dunque la creazione di una cartella sanitaria unica ed informatizzata ed una scheda di terapia con la correlativa modulistica specifica. L'appropriata formazione del personale sanitario e di quello legato al sistema della giustizia potrebbe poi portare ad una migliore collaborazione informata e "bidirezionale" tra i settori della Sanità e della Giustizia. Sarebbe necessario anche l'utilizzo di metodologie diagnostiche ed organizzative univoche, ripetibili ed omogenee con programmi improntati alla riduzione del danno. La disomogeneità fra Regioni per quanto concerne lo stanziamento di fondi ed in materia di scelte politiche, infine, crea una diseguaglianza di diritti. Sono stati avviati dei tavoli di lavoro tematici durante gli Stati Generali del 21 Novembre 2016, tra questi il quarto, in particolare, ha visto un gruppo di esperti interessarsi dell'area della vulnerabilità e delle dipendenze. L'istituto penitenziario non riesce, infatti, a curare o rieducare il detenuto ma soltanto a mantenerlo ovvero a "contenerlo" nei limiti delle sue possibilità: le numerose carenze strutturali ed organizzative evidenziano, infatti, una distanza profonda tra obiettivi di politica criminale ed i risultati concretamente conseguibili.
In the past ten years, thanks to some important and innovative rulings by the European Court of Justice ("ECJ") the right to damages for infringements of competition law has been recognized to private parties. The European Union ("EU") case law has thus introduced along with the public enforcement of the European Commission and the National Competition Authorities ("NCAs"), the possibility for private parties to bring actions for infringements of Articles 101 and 102 of the Treaty on the Functioning of the European Union ("TFEU") or of the relevant corresponding provisions of national law (i.e., private enforcement). However, to date, most victims of cartels and collusions have not received compensation for their losses. Although established by the TFEU, the practical exercise of the right to full compensation has been hampered by the lack of homogeneity between legal systems and operational uncertainties as to the applicable procedure. Indeed, there are regulatory differences between Member States that make some jurisdictions (such as Germany, England and the Netherlands) more attractive than others when it comes to initiating an antitrust litigation, such differences often entail forum shopping. In Italy, although the number of civil actions initiated as a result of NCA decisions has gradually increased, the number of private enforcement actions is still far from the expected and desired enforcement levels. In light of the context described in the first part of the thesis, after a detailed analysis of some preliminary issues, namely what private enforcement of competition law is, why it is necessary, and what is its systematic and normative foundation, I will analyze the legal provisions and the remedies implemented in recent years and currently available to consumers in Europe for the purposes of ensuring the compensation of the damage suffered as a result of infringements of competition law. I will then move to the developments at the national and European level, focusing on one hand, on the very recently approved Directive of the European Commission and, on the other hand, on the evolution of private enforcement in the main EU Jurisdictions. At the European level, there were many efforts made by the institutions to increase the use of private enforcement to protect and raise the level of effectiveness of the rules in place to safeguard the market. Against this background, an essential role must be undoubtedly recognized to the European Commission and its initiatives in the field to remove barriers that make it difficult for businesses and consumers to sue for compensation for damages suffered. After the formal recognition of the right to compensation for victims of antitrust behaviors, several studies and legislative proposals were published in order to overcome the significant differences between the various remedies across Member States and eliminate unequal treatment between EU undertakings, ensuring this way the proper functioning of the internal market. First, the Green Paper on "Damages actions for breach of EC antitrust rules" in 2005 was published with the intent to facilitate private enforcement and lay down the foundations for a common EU approach, and then the White Paper was published in 2008 with the primary objective, unfortunately not reached, to clarify the conditions for the exercise of the right to compensation by individuals. In November 2014, the Commission finally approved a Directive and established new rules to facilitate claims by the victims of violations of antitrust infringements, thereby managing to overcome the different positions among Member States, which in the past had prevented to reach the consensus on the matter. A first attempt by the Commission to present a legislative proposal in the field of private enforcement was, in fact, aborted for lack of consensus on certain aspects of the discipline that were considered particularly crucial, such as the introduction of an American-type collective redress mechanism, that is to say a mechanism based on an opt-out system, the pre-trial disclosure, and the cumulative compensation for damages. The thesis delineates the most recent legislative developments across Member States and briefly analyzes the remedies available in the main European jurisdictions. In particular, it focuses on the English legislative proposal (i.e., Consumer Rights Bill), which introduces a new opt-out system with respect to collective actions (as opposed to the opt-in recommended by the Commission) and that broadens the jurisdiction of the Competition Appeal Tribunal ("CAT"), making it the main venue for private actions in the field of competition law, as well as the new French law (known as Loi Hamon), which came into force in March 2014, thereby introducing for the first time class action rules with peculiar characteristics compared to those found in other states Members). The new French law established an "expressed opt-in system" and a specific remedy for infringements of competition law (the so-called "actione de groupe en réparation des Causes Prejudices par une pratique anticoncurrentielle"). However, such remedy is available only for follow-on actions, i.e., after a decision by the NCA. The Loi Hamon also introduced a simplified class action in cases where the victims have been or would easily be identified. Finally, the analysis focuses on the Directive adopted in November 2014 and enacted with the aim to harmonize and ensure the effective application, throughout the EU, of rules on damages actions caused by infringements of competition law. The Directive is an important milestone, which improves and updates the European competition law in light of the current challenges. It is still hard to predict what will be the impact that the Directive will have within the single Member States. Certainly the Directive, together with the recent national legislative developments in relation to class actions (such as the French and English ones) is evidence of the efforts to overcome the poor results achieved so far by Member States with respect to private actions by indirect victims and to the various causes that have for a long time prevented consumers from bringing such actions. Nevertheless, we can rest assure there are still several problematic aspects that the Directive decided not to address. The paper concludes, therefore, with a reflection on the unsolved problems and proposes new solutions in this respect. Among the unresolved issues that seem to undermine the system of private enforcement, of particular interest are those related to the funding of collective actions. Unfortunately, a class action can entail really high costs. In particular, class action claimants in an opt-in system must bear, besides the traditional legal fees, the costs required in order to give publicity to the class and to collect the signatures of those consumers interested in joining the action. Following the analysis of several proposals and initiatives taken in the most advanced systems of private enforcement, amongst all possible funding solutions to ensure effective access to justice for consumers, the thesis favors (the most discussed and controversial, but also the most effective) solution of third parties funding of class actions. ; Negli ultimi dieci anni, per effetto di alcune fondamentali ed innovative pronunce giurisprudenziali della Corte di Giustizia europea, è stato riconosciuto il diritto dei soggetti privati, danneggiati da illeciti concorrenziali, di ottenere il ristoro dei danni subiti. La giurisprudenza comunitaria ha introdotto, così, accanto al c.d. public enforcement inerente l'attività svolta da parte della Commissione Europea e delle Autorità di Concorrenza nazionali, la possibilità per i privati di promuovere azioni basate sulla violazione degli articoli 101 e 102 del Trattato dell'Unione Europea ("TFUE") o delle corrispondenti norme nazionali (c.d. private enforcement). In verità, ad oggi, la maggior parte delle vittime di cartelli e di collusioni non ha, comunque, ottenuto indennizzi per il danno subito. Pur garantito dal TFUE, l'esercizio pratico del diritto al pieno risarcimento è stato in concreto ostacolato dalla disomogeneità fra gli ordinamenti interni ed dalle incertezze operative in ordine al procedimento applicabile. Infatti, tra i diversi Stati membri sussistono differenze normative che rendono alcune giurisdizioni (come ad esempio la Germania, l'Inghilterra e l'Olanda) più attraenti per instaurare un contenzioso antitrust rispetto ad altri, con la creazione di fenomeni di forum shopping. In Italia, sebbene il numero delle azioni civili avviate a seguito dei provvedimenti sanzionatori dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ("AGCM"), sia progressivamente aumentato, il numero di casi di private enforcement è, comunque, ancora ben lontano dai livelli attesi ed auspicati. In considerazione del descritto contesto nella prima parte dell'elaborato, previa disamina di alcune questioni preliminari, cioè cos'è il private enforcement delle regole della concorrenza, perché è necessario e qual è il suo fondamento sistematico e normativo, si analizzano gli strumenti giuridici e le tutele, funzionalizzate ad assicurare il risarcimento del danno subito a seguito dell'illecito concorrenziale, apprestate negli ultimi anni ed attualmente a disposizione dei consumatori in Europa. Si ripercorrono, poi, gli sviluppi in materia, al livello nazionale ed europeo, soffermandosi, da un lato, sulla proposta (poi approvata) di direttiva della Commissione europea e, dall'altro, sull'evoluzione del private enforcement nei principali Stati Membri. Al livello europeo, difatti, molteplici sono stati, infatti, gli sforzi compiuti dalle istituzioni per accrescere il ricorso dei privati a tale strumento di tutela ed incrementare il livello di effettività delle norme preposte alla salvaguardia del mercato. Al riguardo un ruolo essenziale va indubbiamente riconosciuto alla Commissione europea ed alle iniziative da questa messe in campo per rimuovere gli ostacoli che rendono difficile per imprese e consumatori agire in giudizio per il risarcimento dei danni patiti. Dopo il formale riconoscimento, del diritto al risarcimento dei danni delle vittime delle condotte antitrust, si sono susseguiti studi e proposte legislative tese a superare le significative divergenze relative ai diversi rimedi risarcitori offerti dagli Stati Membri, in vista di eliminare qualsiasi disparità di trattamento tra le imprese comunitarie e garantire il corretto funzionamento del mercato interno. Ciò è avvenuto, dapprima, attraverso la pubblicazione del Libro Verde sulle "Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie" (2005), con l'intento di agevolare il private enforcement e porre le basi per una strategia condivisa, e poi con la pubblicazione nel 2008 del Libro Bianco con l'obiettivo primario, purtroppo non raggiunto, di chiarire i presupposti per l'esercizio del diritto al risarcimento del danno da parte dei privati. A novembre 2014, la Commissione ha finalmente approvato una direttiva e stabilito nuove norme per facilitare le richieste di indennizzo da parte di chi è vittima di violazioni delle regole antitrust, riuscendo a superare le diverse posizioni fra stati membri, che in passato, avevano impedito di pervenire ad una disciplina al riguardo. Un primo tentativo della Commissione di presentare una proposta legislativa in tema di private enforcement era, infatti, abortito per la mancanza di condivisione su alcuni aspetti della disciplina ritenuti particolarmente delicati, quali la prospettata introduzione dello strumento delle class actions di impronta nordamericana, ovvero di quelle azioni basate su un sistema c.d. di opt-out, della divulgazione predibattimentale (c.d. disclosure) e del risarcimento cumulativo dei danni. L'elaborato ripercorre, quindi, le evoluzioni legislative più recenti degli Stati Membri e analizza brevemente le tutele apprestate nelle principali giurisdizioni europee. In particolare esamina la proposta di legge inglese (c.d. Consumer Rights Bill), che introduce la procedura opt-out per le azioni collettive (in contrasto con il regime di opt-in raccomandato dalla Commissione) e con cui si ampliano i poteri del Competition Appeal Tribunal ("CAT"), rendendolo così la sede principale per le azioni private in tema di concorrenza, nonché la nuova legge francese (c.d. Loi Hamon), entrata in vigore nel marzo 2014, che introduce per la prima volta una disciplina per le azioni di classe con caratteristiche proprie rispetto a quelle presenti negli altri stati Membri. Nella nuova legge francese, in specie, si prevede una azione con opt-in espresso ed una tutela specifica per gli illeciti anticoncorrenziali (c.d."actione de groupe en réparation des préjudices causés par une pratique anticoncurrentielle") esperibile, però, solo in seguito ad una decisione di condanna da parte dell'Autorità nazionale per la Concorrenza. La Loi Hamon prevede, altresì, una azione di classe semplificata per tutti quei casi in cui il procedimento è più semplice poiché l'identità dei consumatori lesi è già conosciuta o lo sarebbe facilmente. Da ultimo, l'analisi si sofferma sulla direttiva approvata a Novembre 2014, emanata, proprio, per armonizzare e garantire l'effettiva applicazione delle regole di risarcimento del danno proveniente da violazioni delle norme antitrust all'interno dell'Unione Europea. Trattasi di un importante traguardo, che migliora la legge europea sulla concorrenza e la adatta alle ultime necessità. L'impatto che avrà la direttiva all'interno dei singoli Stati membri è ad oggi solamente ipotizzabile, certamente tale direttiva insieme con i recenti sforzi legislativi quali quello francese ed inglese in tema di class action, mostrano la volontà di superare i risultati modesti ottenuti sinora all'interno degli Stati Membri nell'utilizzo delle azioni private da parte dei danneggiati indiretti e di superare le varie cause che hanno per lungo tempo scoraggiato i consumatori a proporre tali azioni. Ciò nonostante, ci sono ancora diversi profili problematici che la Direttiva non affronta. L'elaborato si conclude, quindi, con una riflessione sulle problematiche irrisolte e sui possibili rimedi. Tra le questioni irrisolte che sembrano indebolire il sistema del private enforcement, significative e di particolare interesse risultano quelle legate al finanziamento delle azioni di classe. Le azioni di classe hanno, purtroppo, costi molto elevati. In particolare, chi propone un'azione di classe nei sistemi opt-in, oltre le tradizionali spese legali, deve sostenere i costi per dare pubblicità alla classe e per raccogliere le adesioni dei consumatori interessati a partecipare all'azione. E fra tutti i possibili rimedi, anche alla luce delle proposte ed iniziative adottate nei sistemi di private enforcement più evoluti per garantire l'accesso alla giustizia dei consumatori, nell'elaborato si privilegia proprio la soluzione (più discussa e controversa, ma che appare anche la più efficace) del finanziamento delle azioni di classe da parte di terzi. ; Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia: interessi rilevanti e tutele (XXVI.Ciclo)
Il tema dell'internazionalizzazione occupa nel contesto socio-culturale attuale una posizione di trasversalità privilegiata. Si tratta di un concetto che si pone in diretta ed immediata relazione sia con l'orizzonte amplissimo della globalizzazione, poiché ha le stesse coordinate storico-geografiche, sia con il fenomeno dei flussi migratori. L'esperienza della migrazione, con la sua ricaduta sociale oggi particolarmente problematica, fa parte da sempre, in realtà, della vicenda umana. A più riprese, dall'epoca del patriarcato, le contraddizioni della dialettica tra nomadi e stanziali si sono manifestate in una relazione complicata ulteriorimente dalla coincidenza storico-geografica che ha visto ritrovarsi negli stessi luoghi e negli stessi anni gruppi stanziali e gruppi nomadi. E' chiaro che solo dalla coincidenza di questi due fattori può configurarsi quel fenomeno sociologico che ha visto mutare nel tempo le relazioni tra indigeni e migranti e porre le basi concettuali del paradigma interculturale tanto più fiorente quanto più critica nel tempo si è rivelata le convivenza di gruppi diversi. Non è sempre stato difficile come oggi per i popoli abitare lo stesso luogo e lo stesso tempo. La memoria di un medioevo lungamente oscurato da una storiografia ostile sta lentamente riassumendo caratteri di luminosità nel proporsi come l'epoca della felice isola di un sincretismo dimenticato fatto di dialoghi tra le sponde del Mediterraneo, tra i confini più lontani e le arti più disparate. Se oggi appare superficialmente rivoluzionario parlare di globalizzazione e di internazionalismo, è proprio a causa dell'amnesia che ha occultato alla comune percezione storica il peso che l'idea di nazione ha esercitato sulla storia moderna. Dall'insorgenza delle monarchie nazionali al fenomeno imperialista per arrivare ai totalitarismi che hanno condotto al disastro della seconda guerra mondiale, lo stato nazionale, nato sul presupposto dell'omogeneità culturale di lingua, razza, religione come da relative tracce nel pensiero fichtiano, non ha cessato di difendere la sovranità del limite elevando la sacralità del confine, al punto di farne una vera e propria religione. In questo arco temporale, si può solo sostenere di aver rimosso la memoria di un internazionalismo che appartiene alla storia dei popoli e quindi presentarne il concetto con la sua istanza non ingenuamente innovatrice o innovativa, ma solo con la sua connotazione restauratrice, per così dire, di una dimensione già vissuta in molti momenti della storia dell'umanità. Il suo carattere apparentemente innovativo, senz'altro legato alla rivoluzione tecnologica, quella sì, originale, non riflette oggi che la necessità di tornare a dialogare pacificamente per culture che altri paradigmi hanno separato, messo le une contro le altre, posto in discussione concettualizzando ad hoc un'ideologia culturale ancora dura da mettere definitivamente da parte, nonostante il dibattito relativista. La risposta è nella formulazione di un nuovo concetto di cittadinanza, compito che lasciamo ai giuristi, ma che qui rimane al centro della riflessione in virtù del legame che lega in ogni paese la scuola, la carta costituzionale e la costituzione europea ad oggi parzialmente concretizzata nel Trattato di Lisbona. Al confine tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sovranazionale siede la complessità del problema in questione: internazionalizzare la scuola per tutti senza tradire i patrimoni nazionali e senza rinunciare alla costruzione di un'identità e di un orizzonte di senso comuni. 2. L'Unione Europea, il corpo diplomatico e l'internazionalismo La storia dell'Unione Europea e dello sviluppo delle sue istituzioni è la traccia più evidente oggi di questa necessità: un bisogno che si è manifestato nella sua massima forza proprio nell'immediato postbellico degli anni successivi al 1945, un progetto di pace statuito nella Dichiarazione Schumann e simbolicamente fondato sulla condivisione delle risorse minerarie che sono state la causa dei ripetuti conflitti franco-tedeschi al quale madri e padri dell'Europa hanno partecipato con il loro contributo economico, diplomatico e intellettuale ponendosi al servizio dei governi in grado di determinare un nuovo orientamento unitario nella politica mondiale capace di salvaguardare a lungo gli equilibri totalmente sconvolti dalle due guerre del XX secolo. In tal senso, emerge chiaramente il ruolo delle diplomazie internazionali e la necessità di un lavoro alacre in questa direzione. Il corpo diplomatico vanta un prestigio e un ruolo che affonda le sue origini in età rinascimentale, quando tra una corte e l'altra della penisola frammentata si rendevano necessari interventi di mediazione politica e di dialogo. I negoziati, spesso condotti da grandi personalità del mondo della cultura, dovevano rivelarsi capaci di tutelare gli interessi dei governanti e di garantire la prosperità delle loro signorie. Si trattava di missioni che all'epoca solo chi fosse già in possesso di lauti mezzi di sussistenza poteva permettersi, dal momento che avevano un costo elevato, non finanziato dalle corti, dovuto alla condizione del viaggio. E si trattava di compiti che da soli bastavano ad aumentare il prestigio personale di coloro che accettavano di mettersi a disposizione dei signori per tali incarichi. Tra questi personaggi, in Italia, si contano numerose figure legate agli ambienti letterari. La diplomazia ha un posto importante in ogni discorso che riguardi l'internazionalità e l'internazionalizzazione e anche in questa sede costituisce la cerniera tra la prima e la seconda parte del saggio che si intende qui presentare sinteticamente. Negli anni Cinquanta, con lo sviluppo delle prime istituzioni europee, sono nate, infatti, esigenze legate alle professioni diplomatiche che si svolgono per loro stessa natura all'interno di quelle che definiamo per comodità coordinate migratorie, caratteristiche stabili dell'orizzonte esistenziale di chi le svolge: periodica mobilità, segmentazione dei percorsi di vita, sradicamento, prestigio economico e sociale. I diplomatici sono parte di una carovana migrante elitaria e, nel loro flusso, portano con sé esperienze e relazioni particolari, legate al mix culturale che oggi sembra l'eccezione, ma che in altri tempi era la regola. Famiglie dove normalmente si parlano due o tre lingue, figli bilingui o trilingui con percorsi educativi segmentati e spesso insoddisfacenti dal punto di vista affettivo, nuclei ricchi di altro, ma privi di una stabilità di cui bambini e adolescenti hanno bisogno per strutturare e sviluppare su basi solide la propria identità di persone e di parlanti. Per loro il rapporto tra l'identità e il linguaggio assume dimensioni non trascurabili, soprattutto perché si trovano ad affrontare situazioni di mobilità ripetuta e non priva di disagi. Una volta costruite le basi per la costruzione di una storia familiare propria, spostarsi non è stato facile nemmeno per i diplomatici di più antica tradizione familiare. 3. Le Scuole Europee di Bruxelles E' così che, nel cuore dell'Europa, si è pensato di dare loro un incentivo alla mobilità che non fosse solo di carattere economico salariale, ma che tendesse proprio alla risoluzione pratica di un problema: quale educazione per la prole europeista? Quale sistema di riferimento per allievi privi di riferimenti stabili, certi, continui e durevoli? Ecco, dunque, nel 1953, nascere la prima Scuola Europea nello Stato di Lussemburgo, il primo di una serie di istituti che apriranno nel tempo per intercettare e rispondere a questo bisogno e che costituiranno una vera e propria minirete dell''istruzione internazionale. Diverse dalle Scuole Internazionali e dalle scuole di paesi presenti sul suolo di altri stati, le Scuole Europee, ad oggi 15 tra quelle di tipo I e quelle di tipo II e III, si ispirano a un modello europeista più tendente a valorizzare le differenze nell'omogeneità dell'offerta formativa rispetto al modello americano più teso all'omologazione filo-occidentalista. Tutti gli altri tipi di scuole sono legate agli istituti di cultura nazionali di origine e fanno capo, di concerto, ai rispettivi ministeri dell'educazione e degli esteri. Di fatto, costituiscono il riferimento educativo delle famiglie che, dal loro paese, sono migrate in un altro, ma che desiderano mantenere nelle generazioni un legame con la tradizione culturale da cui provengono. Questa rete di scuole classificata sotto la denominazione di Scuole Europee di Bruxelles nasce, in primo luogo, per tutelare la differenza linguistica, dunque per garantire un insegnamento nella lingua madre degli allievi iscritti, armonizzando i programmi scolastici in modo che gli stessi contenuti siano affrontati parallelamente in tutte le sezioni linguistiche differenti. E' dall'analisi della struttura pedagogica e amministrativa, passando per programmi didattici, curricoli e materiali in adozione, ma anche per regolamenti inerenti la politica delle iscrizioni e il reclutamento del personale docente e educativo, che si evincono punti di forza e di debolezza rispetto agli obiettivi dichiarati nella Convenzione recante statuto delle Scuole Europee che ne sta a fondamento 4. Teoria, strumenti e metodi Per quanto riguarda la teoria, gli strumenti e i metodi adottati in questa ricerca, i punti di riferimento dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesi-membri dell'Unione Europea sono gli stessi ai quali sono stati ancorati gli strumenti pensati per osservare le Scuole Europee di Bruxelles: parametri di carattere pedagogico e normativo utilizzati nelle statistiche degli osservatori educativi internazionali, infatti, vengono analizzati e posti in relazione alle teorie di pensatori come il francese Durkheim de L'éducation morale, Education et Sociologie, L'évolution pédagogique en France, De la division du travail social, come l'americano Dewey di Le fonti di una scienza dell'educazione, The school&Society, Democracy and Education, come il belga Decroly di Le programme d'une école dans la vie o come Kymlicka de La cittadinanza multiculturale: autori ed opere selezionati secondo un criterio tematico piuttosto che monografico. D'altro canto ne vengono analizzate le specifiche e gli obiettivi raggiunti anche attraverso l'analisi secondaria dei dati ufficiali del Segretariato Generale delle Scuole Europee, del Sistema Statistico Europeo, Eurostat, Istat, dei rapporti Ocse e del Consiglio d'Europa, dei dati Eurydice nonché degli osservatori nazionali sull'internazionalizzazione della scuola e sull'intercultura. L'attenzione ai dati si integra e completa con la raccolta di interviste biografiche nel convincimento che il metodo quali-quantitativo sia il più adeguato alla costruzione di un quadro il più esaustivo possibile, ma anche per sopperire alle limitazioni di cui ha sofferto la rilevazione delle informazioni nel corso della ricerca sul campo. 5. Analisi dei sistemi educativi nazionali dell'Unione Europea L'intento comparativo della ricerca, tenendo fisso lo scopo della maturazione della cittadinanza europea, si fonda su un secondo cardine, quello dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesimembri dell'Ue nei loro aspetti amministrativi e didattici e si concentra in particolare sui contenuti, sulla misura e sugli strumenti delle discipline umanistiche previste nei curricoli con attenzione alle lingue straniere. In questo quadro, emerge un margine di flessibilità curricolare che costituisce, come nel caso delle Scuole Europee, un'apertura positiva verso il migliore raggiungimento del risultato, anche se, ad oggi, l'attenzione a spostare l'asse educativo verso l'acquisizione di competenze di cittadinanza sovranazionale è ancora carente. Si tende più facilmente, infatti, a risolvere il problema mediante l'aggiunta di materie di contenuto civico ad ambiti disciplinari che le comprendano anche dal punto di vista di una valutazione globale di area e comunque ancorate ai paradigmi ordinamentali nazionali. Si tratta di una soluzione di compromesso nata dalle tensioni conseguenti all'adozione del metodo intergovernativo che genera frizioni, competizioni e attitudini di chiusura tra stati costantemente sulla difensiva e poco disposti a porre in discussione il proprio canone culturale di riferimento. Poiché l'aspetto più interessante ai fini di questa ricerca è l'accessibilità a un sistema educativo europeizzante e inclusivo, perché tutti gli allievi possano tramite i suoi curricoli diventare futuri cittadini europei, pare opportuno considerare con maggiore attenzione la fascia della scuola dell'obbligo, le diverse tipologie di indirizzi nella scuola secondaria compresi nell'obbligatorietà e le fonti di finanziamento pubblico anche nel caso degli stati in cui la scuola di riferimento è quella privata. 6. Politica e educazione nell'Unione Europea Nel corso dello studio di questa tematica, la forbice filosofica tra le società della conoscenza così come viene delineata nel Trattato di Lisbona e la società della cittadinanza europea rappresenta lo stesso gap che esiste oggi tra l'Europa finanziaria e l'Europa sociale. E' per questo che viene offerta altresì una panoramica della storia politica europea, dei cambiamenti che nel quadro educativo hanno prodotto gli avvicendamenti delle maggioranze e dei punti di vista che si sono confrontati nei dibattiti interni alla Commissione, al Parlamento Europeo e all'organizzazione internazionale cui inizialmente era stato affidato lo sviluppo di un dibattito che favorisse l'integrazione delle culture dei paesi d'Europa e non solo, il Consiglio d'Europa. Lo sviluppo delle azioni e dei programmi successivi debitamente sostenuti è stato anche il risultato di un'elaborazione condivisa che ha condotto al consolidamento del ricorso alla mobilità, dello scambio e delle buone pratiche non solo al livello di utenza, ma al livello di comunità scolastica, dove cioè anche la formazione dei docenti e dei dirigenti ha il suo ruolo. E' un cammino di datazione trentennale dal quale la riflessione sullo sviluppo della scuola europea per tutti non può prescindere nonostante l'esigenza di fondarsi su basi più stabili e radicate sia ormai alle porte non solo per restare in vetta alla classifica del mercato mondiale, ma soprattutto perché le opportunità offerte dal mercato comune, dall'internazionalizzazione dei percorsi personali e professionali sia ampliata trasversalmente a tutte le classi sociali e non limitata alle esclusive capacità economiche di una borghesia medio-alta. L'anno europeo delle lingue, come ogni altra iniziativa legata alla diffusione delle L2 e L3, ha rappresentato un'occasione storica in tal senso e costituisce la premessa di un potenziamento del monte ore delle lingue nei curricoli nazionali anche in corso di riforma nonché di una definitiva, articolata e diffusa applicazione del clil-teaching, ossia dell'insegnamento di discipline non linguistiche in una L2 veicolare, nelle scuole di ogni ordine e grado con particolare attenzione al segmento dell'obbligo. 7. Una scuola europea inclusiva per i cittadini europei di domani In questo senso la strada da percorrere è lunga e necessita di svariati interventi di diversa natura. Una proposta curricolare di facile adozione e adattabilità ai patrimoni culturali nazionali dell'Europa a 27 viene avanzata e sottoposta all'attenzione degli ipotetici decisori politici nonostante resti aperto un problema di metodi mutuati dalla storia della diplomazia del continente e di competenze determinate da scelte politiche. In questo quadro, un progresso significativo si è concretizzato con la nascita e con l'ampliamento degli uffici della Direzione Generale Istruzione e Cultura della Commissione Europea che rappresenta in qualche modo le istanze discusse e dibattute in altri luoghi di elaborazione privi di forza istituzionale. Il cammino verso un sistema educativo internazionale è aperto e l'obiettivo della cittadinanza europea come risultato dell'unità nella diversità sempre più vicino.
È oggetto del presente lavoro di ricerca il pensiero filosofico-politico e giuridico di frate Bartolomé de Las Casas. Senza pretese di completezza e con il solo scopo di fornire linee guida per la sua valutazione critica, ho analizzato la complessa struttura intellettuale di Las Casas, le cui idee non si manifestano come rispondenti a un'unica e specifica scuola di pensiero, ma si avvicinano a diverse correnti di opinione e si collocano in una posizione d'avanguardia rispetto alla cultura medievale. Pur richiamandosi spesso ai maestri della Scuola di Salamanca e rifacendosi a numerosi fonti tradizionali del diritto, Las Casas riesce a organizzare il materiale così ricavato in maniera coerente, adattandolo a una situazione inedita e rendendolo effettivamente originale. Senza intento di dare risposte definitive, ho provato a offrire uno schema lineare e completo dell'apparato ideologico lascasiano, al fine di dimostrare l'importanza del suo contributo nell'ambito della Filosofia del diritto e della Filosofia politica. Ho scelto di studiare e approfondire le tre opere portanti del pensiero lascasiano: l'Apologética Historia Sumaria, il De Unico Vocationis Modo e il De Regia Potestate, nell'intento di fornire una visione d'insieme del progetto intellettuale di Las Casas e dare una spiegazione organica delle sue tendenze antropologiche, religiose, politiche e giuridiche, tra loro strettamente connesse. Dalla lettura critica dell'Apologética Historia Sumaria si ricava che: 1. in Las Casas esiste l'idea portante di unità del genere umano e da detta idea prende spunto l'intera sua speculazione filosofica: tutti gli uomini, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche, dalle condizioni sociali e dal livello culturale, sono uguali, in quanto dotati di ragione. Di conseguenza, tutti gli uomini, di qualsiasi nazione, godono degli stessi diritti naturali, inalienabili e inviolabili e devono essere rispettati allo stesso modo; 2. Las Casas crede nell'ideale evolutivo della società: non esistono società superiori o inferiori per definizione, ma esistono società temporalmente più antiche, che hanno accumulato una maggiore esperienza storica e che, per questo motivo, possono fungere da modello di civilizzazione, come nel caso della società europea. D'altra parte, tutte le società, finanche quella indigena, possiedono la capacità di giungere al livello più alto della cultura mediante l'educazione; 3. infine, Las Casas riprende criticamente il concetto aristotelico di "servo di natura" per interpretarlo mediante gli strumenti fornitigli dal cristianesimo: tutti gli uomini sono ugualmente degni e non esistono servi di natura se non per cause puramente accidentali. Di conseguenza, tutti gli uomini godono dei diritti naturali fondamentali, che non possono essere violati in nessun caso, neppure in nome di una presunta superiorità. Dalla lettura critica del De Unico Vocationis Modo si ricava che: 1. la religione è la colonna portante del pensiero lascasiano, tanto è vero che la fonte più citata nelle sue opere, salvo che nel De Regia Potestate, è la Sacra Scrittura. Pur mantenendo un'impostazione prevalentemente ortodossa, Las Casas mostra degli elementi di avanguardia, schierandosi contro l'assolutismo etico e dicendosi consapevole del fatto che neppure l'universalismo del cattolicesimo può appiattire le differenze; 2. Las Casas è un deciso difensore del rispetto delle credenze, delle culture e dei costumi, anche se diversi da quelli europei. Pur sostenendo che la verità è unica e appartiene alla sola religione cristiana, egli lotta per l'autodeterminazione religiosa dei popoli, i quali devono decidere autonomamente se aderire alle idee evangeliche o meno. Si colloca fuori dalla grazia di Dio chi tenta di imporre il Vangelo mediante la violenza e la sopraffazione, perché l'unico modo per attrarre gli uomini alla vera religione è quello persuasivo dell'intelletto e attrattivo della volontà. Solo il metodo pacifico è legittimo e conduce gli uomini sulla via della giustizia; 3. dunque, secondo Las Casas non è possibile imporre un sistema di valori, in generale, e una religione, in particolare, per quanto detentrice della verità. Nello specifico, egli si schiera contro l'uso della guerra al fine di evangelizzare: essa è iniqua, tirannica e ingiusta e costituisce un grave attentato contro il diritto naturale; 4. infine, Las Casas getta le fondamenta perché si possa incominciare a parlare di libertà religiosa, intesa non solo come un tentativo di non forzare i popoli a convertirsi al cristianesimo, ma anche e soprattutto come impegno a rispettare le culture e le credenze religiose diverse e proprie di ciascun popolo. Dalla lettura critica del De Regia Potestate si ricava che: 1. in Las Casas è preponderante la visione contrattualista: l'uomo è un soggetto comunicativo e l'insicurezza, il bisogno e la precarietà lo inducono a riconoscere l'altro, a stringere con lui patti certi e a rispettarli; 2. il pensiero di Las Casas è democratico e anticipa la modernità, basti pensare ad alcuni principi tipici del giusnaturalismo posteriore: il popolo come unica fonte del potere sovrano, il patto sociale come costitutivo del potere, il carattere volontario dell'associazione politica, il potere del principe come giurisdizione e non come dominio, il governo delle leggi e non delle persone, le libertà originarie e l'uguaglianza di tutti i popoli; 3. i principi sopra elencati diventano costitutivi dell'identità e autonomia di ciascun popolo e da essi nasce il concetto di libertà politica, intesa come la possibilità di godere e di esercitare nella pratica i propri diritti. Las Casas è chiaro nell'affermare che i cittadini, nell'assoggettarsi a un'autorità non perdono la loro sovranità, né tantomeno le loro libertà primigenie. Infatti, il grado di perfezione di una comunità è direttamente proporzionale alla libertà di cui godono i suoi cittadini: a maggiore libertà corrisponde maggiore perfezione; 4. infine, il nucleo centrale del trattato consiste nell'ammonizione dei governanti che compiono fatti o atti lesivi degli interessi e dei diritti dei cittadini. Nella pratica, afferma Las Casas, il governante non può alienare la giurisdizione, i beni fiscali o le proprietà del regno e dei privati. Egli, infatti, è solo un mandatario della comunità e non può agire se non avallato dal consenso di tutti i componenti. Esponendo l'idea del dominium, cioè della proprietà su se stessi e sui propri beni, Las Casas denuncia le prevaricazioni degli spagnoli sugli indios e, in particolare, la pratica dell'encomienda. Come è evidente, l'originalità del pensiero di Las Casas non risiede nelle idee singolarmente considerate, facilmente riconducibili a correnti filosofiche a lui precedenti, quanto nel loro congiunto: studiate organicamente, esse rappresentano un armonico inno alla libertà, alla democrazia e alla pace e fanno di Las Casas il filosofo dei diritti. Partendo da fonti tradizionali e ricorrendo a dottrine che non destano il sospetto di eterodossia, Las Casas propone qualcosa di nuovo, che servirà da spinta verso la modernità. Egli riprende i materiali intellettuali tipici del medioevo e della cristianità per disporli in maniera originale, così che possano essere adattati ai prima inimmaginabili scenari, che con l'incontro dell'America si prospettano reali per l'umanità. In tal senso, non bisogna dimenticare che Las Casas vive e scrive in un periodo di transizione epocale, in cui si verificano episodi cruciali per il passaggio dalla tradizione alla modernità. Egli opera in un periodo in cui un nuovo mondo può essere costruito, oltre che immaginato: infatti, l'originalità del progetto lascasiano diventa ancora più pregnante se si considera il suo impegno nel realizzarlo nel contesto delle Indie. Oltre a dimostrare coraggio morale e forza intellettuale, Las Casas è esempio di attivismo; infatti, la sua produzione, che si compone di una grande quantità di opere, è interamente finalizzata all'applicazione pratica. Con le sue teorie Las Casas vuole riuscire a gestire l'incontro tra Vecchio e Nuovo Mondo e a mediare tra gli interessi di popoli diversi, che adottano universi simbolici in gran parte discordanti tra loro. Egli prova ad affrontare la difficile transizione storica che l'Europa si trova a vivere dopo la scoperta dell'America, senza cadere in logiche imperialiste e in ideologie belliciste, ma piuttosto proponendo un modello che, ante litteram, potrebbe definirsi di pluralismo pacifista. Con un atteggiamento che non ha precedenti nella cultura europea, Las Casas inaugura un approccio plurale alla realtà prospettatasi dopo il 1492: egli abbandona il triviale pregiudizio razzista e incomincia ad ascoltare il punto di vista degli "altri", anche se infedeli, e tenta di accogliere serenamente le diversità. Las Casas non propone l'immagine della superpotenza europea destinata a governare il mondo, ma sottolinea la reciprocità di diritti e doveri tra spagnoli e indigeni autoctoni, insistendo sul doveroso rispetto dei costumi altrui. Egli è convinto sostenitore che ciascun popolo possiede una propria storia, un proprio destino e propri valori di riferimento, che devono essere rispettati. In altri termini, ogni popolo possiede una propria cultura, le cui caratteristiche dipendono dalle precondizioni antropologiche e sociologiche in cui si forma e che, di conseguenza, è particolare, contingente e provvisoria. Las Casas, dunque, si schiera contro il monismo culturale e pur riconoscendo la possibilità dell'esistenza di culture temporalmente più avanzate, come quella europea, non conferisce loro una funzione egemonica, ma anzi si prodiga perché le diverse culture possano rispettarsi e dialogare tra loro al fine di migliorarsi vicendevolmente. Ad esempio, così come gli spagnoli possono insegnare agli indigeni l'arte della dialettica, gli indigeni possono insegnare agli spagnoli l'arte del vivere secondo natura, ed entrambi trarne beneficio. Dunque, Las Casas denuncia il carattere ingannevole delle visioni imperialiste e propone un modello socio-politico meno ambizioso e presuntuoso, capace di accettare senza scandalo le diversità culturali, le discontinuità storiche e la frammentazione dei saperi. Egli promuove ante tempora gli ideali di solidarietà, fratellanza e uguaglianza e, in virtù di questi, combatte l'aggressività degli europei che nel XVI sec. vengono totalmente travolti dalla logica bellicista della conquista. Egli condanna gli spagnoli che, in nome di una presunta eccellenza morale, inneggiano alla guerra e benedicono idoli sanguinari, degradando uomini già deboli e sconfitti. Essi emettono sistematicamente sentenze di morte collettiva contro uomini che non hanno compiuto alcun illecito: la loro unica colpa è essere indios. Las Casas denuncia la magniloquenza e la violenza omicida degli aggressori e, da buon cristiano, si schiera dalla parte dei deboli, degli indigeni, dei poveri, dei vinti e di tutti quei soggetti che sono oppressi da una struttura sociale ingiusta. Egli condanna l'ideologia della "guerra giusta" e la considera solo una supina legittimazione a posteriori delle sistematiche prevaricazioni perpetrate dagli europei a discapito degli aborigeni americani: infatti, la guerra che gli spagnoli conducono contro gli indios è una vera e propria guerra di aggressione, asimmetrica e impari, in cui il potere degli aggressori è irresistibile e la difesa degli aggrediti senza speranza. In questo senso, l'unica "guerra giusta" è la guerra di difesa condotta dai popoli autoctoni continuamente vessati. Las Casas è lontano dall'intendere la guerra che ha come scenario le terre americane come una guerra del bene contro l'asse del male: nessuna civiltà, come nessun uomo, è detentrice del puro bene o del puro male. Tutte le civiltà, come tutti gli uomini, presentano in sé una parte di bene e una parte di male e, perciò, perché sia possibile un miglioramento, devono procedere insieme, dialogando e confrontandosi tra loro. Quindi, Las Casas propone un nobile ideale comunitario, basato sulla collaborazione tra popoli e sul rispetto e l'integrazione del diverso. Disegna il suggestivo quadro di un nuovo mondo fondato sulla giustizia, in cui è possibile la convivenza pacifica e in cui tutti gli uomini possono considerarsi ugualmente liberi. Questo è ciò che fa di Las Casas un pensatore straordinariamente e drammaticamente attuale. Non è un caso che ancora oggi la sua figura continui a suscitare molto interesse e numerose controversie interpretative: basti pensare che, a distanza di cinquecento anni, i movimenti che in Latino America si ispirano alla teologia della liberazione e perseguono l'obiettivo del rinnovamento cattolico, ufficialmente esposto per la prima volta dal Concilio Vaticano II, riprendono benevolmente la figura di Bartolomé de Las Casas. A titolo di esempio, si consideri la diocesi del Chapas, in cui Las Casas ha svolto la funzione di vescovo, che ancora oggi è impegnata nella lotta degli indios nella selva Lacandona e nella diffusione della dottrina cattolica-sociale. Las Casas ha proposto e affrontato questioni che nei nostri giorni rimangono aperte: egli ha vissuto e descritto tragici eventi, attribuendo loro una portata universale che va ben oltre alla questione indigena e coinvolge tutti gli uomini, di ogni luogo e tempo. In particolare, è stupefacente constatare la continuità che esiste tra gli argomenti utilizzati da Las Casas nel XVI sec. e quelli utilizzati oggi dai critici della politica espansionista dell'Occidente: in un'epoca in cui l'Occidente tenta di esportare i propri valori, in virtù di una presunta maggiore razionalità, e il mondo islamico non riesce a rispondere se non con lo strumento del terrorismo, la figura di Bartolomé de Las Casas ritorna di estrema attualità. In un mondo in cui a governare è l'economia di mercato e la politica incentiva la conflittualità tra popoli, Las Casas ritorna a ricordare i principi cattolici di fratellanza e uguaglianza, si erge nuovamente a simbolo di tolleranza, difende rigorosamente il pacifismo e riconosce l'alterità in nome della comune condizione umana.
L'APPLICAZIONE DELLA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE IN ITALIA La giustizia civile va sempre più verso una lenta e progressiva paralisi, se venti anni fa un processo poteva durare 3-4 anni oggi si parla di processi ventennali o, nel penale, di procedimenti che si chiudono con nulla di fatto per sopraggiunta prescrizione del reato. E' sempre più radicata l'opinione che la società moderna necessiti di strade diverse, più veloci, economiche e semplici; ormai è un dato acquisito che gli ordinamenti occidentali (sia negli Stati Uniti sia in Europa) si indirizzino verso le c.d. Alternative Dispute Resolution. Con il decreto legislativo n.28/2010 e' stata introdotta nell' ordinamento italiano una disciplina organica della mediazione delle liti civili e commerciali che è divenuta, così, uno strumento finalizzato alla conciliazione in caso di controversie tra i cittadini e tra essi e le imprese o tra le imprese. La mediazione nella disciplina vigente è definita un istituto destinato ad operare in via stragiudiziale, ossia fuori dal processo civile, e in forma amministrata, essendo affidata alla gestione di organismi di natura pubblica o privata. Essa è considerata come "l'attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti, sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia (c.d. Mediazione compositiva), sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della controversia (c.d. Mediazione propositiva)". Il procedimento obbligatorio di mediazione viene previsto più precisamente per quei contratti in cui il rapporto fra le parti è destinato a protrarsi nel tempo anche in un momento successivo alla definizione della controversia, ne sono un esempio quelle relative al condominio, locazione, comodato, affitto d'azienda, nonché per quei contratti che presentano una maggiore diffusione di massa e, pertanto, sono maggiormente soggette a contenzioso, ne sono un esempio contratti assicurativi, bancari e finanziari. Vengono inserite, inoltre, altre materie come: diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia notoriamente a forte incidenza di litigiosità, nonché il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, che oggi danno vita ad un contenzioso in notevole aumento. La condizione di procedibilità, posta dal D.Lgs. 28/2010, è fondamentale perchè ponendo la mediazione come obbligatoria e come premessa per poter accedere al processo, viene ad essa conferita dignità di procedimento vero, incentivando gli interessati a percorrere quest'alternativa con la giusta credibilità e serietà. Le parti, infatti, attualmente preferiscono il giudice perchè lo ritengono "più importante" del mediatore, socialmente e professionalmente. Di conseguenza l'invito ad accedere alla mediazione potrebbe essere visto come una svalutazione dell'importanza del loro problema. Come nella tesi è stato sottolineato l'obbligatorietà potrebbe essere solamente una tappa, in quanto in futuro potrebbe essere eliminata, ma per poter entrare a pieno regime ha bisogno di penetrare nella società la cultura della mediazione; necessità ,dunque, di un forte appoggio da parte di tutti e l'obbligatorietà sarebbe un segnale molto forte verso un cambiamento in positivo. Il 23 ottobre 2012 la Corte Costituzionale sarà, dunque, chiamata a giudicare la legittimità o meno dell'impianto obbligatorio della mediazione civile e commerciale. Se venisse dichiarata legittima, la mediazione finalizzata alla conciliazione diverrebbe per molte materie oggetto di contenzioso lo strumento obbligatorio e "naturale" di possibile risoluzione delle controversie. Se al contrario, fosse dichiarata illegittima, l'utilizzo della mediazione dipenderebbe solo ed esclusivamente dalla volontà di tutte le parti in conflitto, sarebbe la sua fine e significherebbe, inoltre, buttare al vento tutti i nostri sforzi economici e professionali fino ad ora sostenuti. Secondo il parere di una parte degli avvocati l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione è "un passaggio forzato per la ricerca di un consenso fuori dalle aule dei tribunali che provocherà un ritardo nel ricorso alla giustizia ordinaria, incrementando i tempi e provocando così un'ulteriore difficoltà per l'accesso alla giustizia civile". A nostro avviso viene, però, spontaneo considerare che qualora le previsioni della mediazione entrassero a pieno regime e i dati continuassero a seguire il positivo trend su citato il contenzioso nelle aule giudiziarie si ridurrebbe del 70-80 per cento del totale. Allora sarebbe difficile argomentare la tesi secondo cui l'istituto della mediazione risulterebbe un aggravio dei costi e della durata dei processi. A tal riguardo si è da poco pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea che giustifica l'obbligatorietà della mediazione asserendo che "…la mediazione obbligatoria, purponendosi come misura restrittiva rispetto all'accesso al giudice, è giustificata dal fatto che essa realizza legittimi obiettivi di interesse generale, tra cui quello della composizione più rapida delle controversie, che è fissato specificatamente nell'interesse delle parti". In particolare, il termine di quattro mesi non è considerato tale da comportare un ritardo nell'introduzione di un successivo eventuale giudizio. Attraverso la mediazione non si intende risolvere i problemi atavici che frenano la macchina giudiziaria ma questo istituto se correttamente diffuso, utilizzato e applicato può fornire il suo valido contributo, magari in collaborazione con altri sistemi(istituti). La convinzione che si è creata attorno all'istituto della mediazione è che esso sia nato per svolgere solo ed esclusivamente una funzione deflattiva per il contenzioso civile ma approfondendo le ricerche e gli studi si scopre che questo istituto ha radici storiche più nobili e più profonde. Essa, infatti, si inserisce nell'ottica di una giustizia "coesistenziale" all'interno della quale le parti in lite, sovente, riescono a mantenere tra loro una relazione sociale ed economica durevole, preservando quindi le loro relazioni future. Diversamente da quanto accade nel corso di un processo civile, che con la sua perpetua ricerca di un torto e una ragione, spesso determina una rottura insanabile. L'idea di fondo è che alla giustizia statale debba essere riservato il ruolo di rimedio estremo per la soluzione del conflitto, e questo non solo per una questione economica. Attraverso la mediazione, concepita sulla base delle esigenze delle parti il vero accordo si raggiunge in modo volontario e la relazione amichevole sarà preservata più facilmente. L'incapacità di accettare nelle relazioni la frustrazione del limite e dell'impotenza produce violenza e scorciatoie mentali, primitive e semplificatorie, le quali impediscono di intrecciare legami costruttivi. La possibilità di promuovere nuovi patti sociali si trova, al contrario, nella capacità di stare nei conflitti, di viverli come forme altamente evolute in grado di generare felicità e accrescere competenze personali. Cambia l'ottica: non si tratta di convivere senza conflitti, ma piuttosto di convivere proprio grazie ai conflitti. Per poter mediare, dunque, occorre un cambio di mentalità, un forte ridimensionamento soprattutto del pensiero "professionale" educato alla lotta piuttosto che alla cooperazione,alla vittoria di una parte e alla sconfitta di un'altra. Sarà fondamentale passare da una mentalità avversariale ad una mentalità cooperativa con una nuova cultura di conflitto che superi la tradizionale evocazione dell'idea di contrapposizione come scontro, lotta, combattimento, guerra che conduce a ritenerlo elemento patologico da curare solo con decisioni autoritative. Per rafforzare il cammino in questa direzione è necessario che la formazione alla pace non trasmetta solo informazioni, ma deve mirare anche allo sviluppo di competenze pratiche per affrontare in modo costruttivo i conflitti ed alla crescita personale di chi vi partecipa, cioè saper gestire i conflitti pacificamente e valorizzando le differenze nel rispetto della dignità di ciascuna persona, con il conseguente miglioramento della qualità della vita culturale e sociale. Da queste riflessioni e motivazioni personali, prende spunto la ricerca condotta in questa tesi di analizzare la fase applicativa della mediazione civile e commerciale in Italia ad un anno e mezzo dalla sua introduzione nel nostro ordinamento. Lo studio parte dai precedenti logici e storici di questa innovazione, passando in rassegna i principi comunitari che nel tempo sono stati elaborati in tema di metodi ADR, con decisioni aventi forza persuasiva o vincolante per gli Stati membri, fino alla Direttiva n. 2008/52/CE, fondamentale in materia. Sono state poi esaminate le forme di conciliazione, giudiziali ed extragiudiziali, esistenti nell'ordinamento italiano prima del D.Lgs. 28/2010, che hanno avuto alterna fortuna, ma senza dubbio hanno consentito di far riflettere gli operatori del settore, ed un ampio numero di cittadini, su questo metodo amichevole di risoluzione dei conflitti, creando un movimento sempre più favorevole alla sua diffusione. L'esame del D.Lgs. 28/2010 si è concentrato soprattutto sui principi ispiratori e sulle indubbie novità che ha portato in termini di contenuti e di procedura. Lo sforzo principale della ricerca ha riguardato poi la ricostruzione delle problematiche derivanti dall'applicazione della mediazione civile e commerciale, attraverso una dettagliata analisi dei regolamenti e delle circolari elaborati dal Ministero della giustizia, chiamato dal decreto a disciplinare molti aspetti di questo nuovo istituto, con forte rilevanza sul procedimento giudiziario. Lo stesso Ministero ha anche dovuto rispondere ai numerosi dubbi interpretativi insorti nell'ambito dei criteri di iscrizione nell'apposito registro degli organismi di mediazione, stante la scelta preferenziale data alla sola mediazione amministrata. Si è occupato anche della preparazione tecnica e professionale dei mediatori, in un panorama occupato da tante improvvisate agenzie formative e da tante persone rapidamente "convertite" a questa nuova attività. Ha esercitato infine il controllo sui regolamenti di procedura, lasciati alla libera determinazione degli organismi almeno nelle parti facoltative, per valutare la loro coerenza con la normativa vigente. Sono state affrontate le problematiche connesse all'istituzione del Registro degli organismi di mediazione, con un'attenzione particolare alla natura degli organismi ed al principale atto di funzionamento degli stessi rappresentato dal regolamento che deve essere obbligatoriamente adottato in questa forma di mediazione amministrata. Ma l'aspetto più interessante, e per certi versi più originale, della tesi è stata la ricerca statistica condotta sui dati del registro e sulle informazioni fornite dal Ministero, nonché su un campione di organismi di mediazione iscritti, incentrata sulle scelte adottate riguardo ai punti facoltativi del regolamento. Questo tipo di elaborazione ha l'obiettivo di dare un contributo all'analisi oggettiva della situazione esistente e mette in evidenza luci ed ombre della pratica della mediazione civile e commerciale. L'integrazione dei dati statistici finora noti, cerca così di superare la visione unicamente deflattiva di questo nuovo istituto rispetto ai processi civili, allargandosi alla comprensione di un fenomeno che richiede una valutazione culturale diversa. L'analisi è stata effettuata utilizzando una rilevazione a campione su una percentuale elevata di organismi (10%) suddivisi per gruppi omogenei: Pubblici (Camere di commercio), Privati e Ordini professionali. Questo metodo garantisce l'attendibilità dei risultati sul piano statistico. Prendendo in considerazione i dati rilasciati dal Ministero della Giustizia relativi alle mediazioni svolte nel periodo 21 Marzo 2011 – 31 Marzo 2012 è stato, inoltre, possibile analizzare e commentare i risultati ottenuti dalla mediazione civile e commerciale ad un anno dall'entrata in vigore dell'obbligatorietà. Il trend segnala una crescita costante delle mediazioni svolte nell'arco dell'anno, l'unico calo c'è stato nel mese di agosto, ma la causa è da imputare al periodo feriale. Comunque sia, soprattutto negli ultimi mesi si registrano dei numeri sempre più incoraggianti, il boom vero e proprio dei procedimenti di mediazione c'è stato con l'entrata in vigore del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di condominio e risarcimento danni da circolazione veicoli e natanti avvenuta con un anno di ritardo (20 marzo 2012) visto l'eccessivo numero di liti e controversie riguardanti le suddette materie. Nel mese di marzo l'incremento dei procedimenti è stato del 26 per cento circa, per un totale di 12.175, rispetto ai 9.757 di febbraio. Gli esiti delle mediazioni, definite nel periodo dal 21 marzo 2011 al 31 marzo 2012, presentati dalla statistica del ministero della giustizia lasciano ben sperare per il futuro della mediazione in Italia. Facendo il punto della situazione ad un anno dall'entrata in vigore dell'obbligatorietà, possiamo affermare che comincia a decollare questo meccanismo che naturalmente ha bisogno di essere rodato. I problemi riguardano soprattutto la mancata partecipazione delle parti al tentativo obbligatorio di conciliazione. Come viene rappresentano nei grafici presenti nella tesi il numero delle volte in cui l'aderente compare sono circa il 35 per cento; numeri confortati dal fatto che quando le parti si presentano l'accordo viene raggiunto nel 48 per cento dei casi. Ciò significa che se le parti vanno davanti al mediatore una volta su due viene raggiunto l'accordo. Per quanto riguarda le categorie della mediazione, o meglio il motivo per cui si accede alla mediazione, sempre secondo i dati forniti dall'Ufficio Statistica del Ministero per l'anno 2011 la motivazione non sempre è data dall'obbligatorietà dell'istituto prima di ricorrere al giudice, ma con una percentuale che arriva quasi al 20 per cento si fa volontariamente. Quindi se, come è abbastanza ovvio, il 77,2 per cento delle persone si presentano presso un organismo di mediazione per la sua obbligatorietà, una buona percentuale lo fa di spontanea iniziativa. Mentre lo 0,5 per cento inizia ad inserirlo tra le clausole contrattuali di lavoro, nel 2,7 per cento dei casi è il giudice a demandare il tentativo di conciliazione prima di agire in giudizio. Da qui nasce la necessità di arrivare a delle convenzioni tra magistratura e organismi di mediazione per definire quali tipi di controversie potrebbero essere affidate con maggiore efficacia alla mediazione. Simone Sanna
Dottorato di ricerca in Economia e territorio ; Il cambiamento tecnologico comporta una "rimodellatura" e, a volte, un vero e proprio rovesciamento dell'ordine esistente all'interno delle organizzazioni produttive. La conoscenza generata dall'innovazione tecnologica, per essere "assorbita", necessita di un corredo di pratiche organizzative adeguate: per tale ragione è sempre più stretto il processo co-evolutivo tra sviluppo tecnologico e cambiamento organizzativo. Il coordinamento e la gestione delle sinergie e dei feedbacks tra diversi aspetti dell'attività innovativa diventa una specifica linea d'azione strategica per le imprese al fine di ottenere performances economiche superiori. La stretta complementarità tra investimenti in beni tangibili (nuove tecnologie) e intangibili (struttura organizzativa), da cui scaturisce una maggiore crescita della produttività, è il fulcro del nuovo approccio a queste tematiche. L'ipotesi di complementarità nei processi innovativi assume particolare rilievo con l'avvento delle tecnologie ICT, con la loro natura generalista o aspecifica (general purpose technology), il loro carattere ampiamente pervasivo, e l'esigenza connessa di una prestazione a più alto contenuto cognitivo e relazionale (Breshnahan et al. 2002, Brynjolfsson et al., 2000, Brynjolfsson et al., 2002, Bugamelli e Pagano 2004). La penetrazione di queste tecnologie nel tessuto produttivo favorisce lo sviluppo di diversi input complementari e comporta diverse ondate di innovazioni "secondarie" che creano nuovi prodotti e nuovi processi, dando luogo a periodi più o meno prolungati di aggiustamento strutturale che coinvolgono la riorganizzazione aziendale e l'implementazione delle pratiche del lavoro ad alta performance o High Performance Workplace Practices (Breshanan e Trajtenberg 1995). Quest'ultime si esplicitano in una serie di azioni che hanno nell'empowerment delle risorse umane l'elemento centrale, e che si concretizzano nella riduzione dei livelli gerarchici, nell'assunzione generalizzata di responsabilità, nel coinvolgimento dei lavoratori, nello svolgimento di ruoli attivi, nel lavoro in team, nella polivalenza e nella policompetenza, nei sistemi di valutazione della performance e dei suggerimenti dal basso, e infine nelle buone relazioni industriali. La concettualizzazione dell'organizzazione come un insieme di elementi profondamente eterogenei ma complementari risale a Milgrom e Roberts (1990 e 1995) che, dapprima, ne forniscono una definizione basata sulle proprietà di supermodularità della funzione di redditività dell'impresa, e poi modellano il raggruppamento delle pratiche risultanti dalla complementarità tra innovazioni tecnologiche e cambiamenti organizzativi. Implicita nella definizione di complementarità è l'idea che fare di più in una certa attività non impedisce di fare di più in un'altra, contrariamente alla teoria tradizionale dell'impresa in cui l'ipotesi di rendimenti di scala decrescenti può porre dei vincoli alla possibilità di incremento simultaneo delle variabili di scelta dell'impresa. Le analisi empiriche hanno messo in rilievo come frequentemente innovazioni tecnologiche ed organizzative siano adottate congiuntamente e come entrambe influiscano sulle performances delle imprese (Black e Lynch 2000, Bresnahan, Brynjolfsson e Hitt 2002, Brynjolfsson, Lindbeck e Snower 1996, Malone et al. 1994, Pini 2006, Pini et al. 2010). Nel nostro paese gli studi empirici sulle complementarità tra sfere innovative sono ancora pochi. I principali lavori di natura econometrica realizzati, sulla base di limitati campioni di imprese a livello provinciale, sono attribuibili a Cristini et al. (2003 e 2008), Leoni (2008), Mazzanti et al. (2006), Piva et al. (2005), Pini et al. (2010). Un aspetto poco indagato, anche nei lavori citati, è quello dell'interazione tra tecnologie ICT, cambiamenti organizzativi e pratiche lavorative ad alta performance sulla produttività del lavoro, che è proprio l'argomento specifico che ci siamo proposti di indagare. Preliminarmente abbiamo ricostruito il dibattito teorico ed empirico sul ruolo di driver al fine dell'ottenimento di performances superiori delle tecnologie ICT, dei cambiamenti organizzativi e delle nuove pratiche del lavoro, singolarmente presi. In una seconda fase abbiamo verificato l'esistenza di legami virtuosi tra le tre attività innovative e la produttività del lavoro mettendo in evidenza le complementarità tra le sfere innovative. Per questo abbiamo effettuato un'analisi empirica utilizzando due fonti principali: IX e X indagine sulle imprese manifatturiere del Mediocredito Centrale (ora Capitalia) e la Community Innovation Survey (Cis-4) dell'Istat. Questi ultimi dati sono integrati con quelli di bilancio delle imprese società di capitali attive dal 2001 al 2008, con i caratteri strutturali del Registro delle imprese (Asia), con i dati del commercio estero (Coe), e dell'occupazione (Oros). Seguendo il productivity approach, abbiamo ricercato i legami di complementarità eseguendo, con il software STATA 10, una serie di regressioni multivariate, utilizzando funzioni di produzione aggiustate con le strategie innovative e le loro interazioni. I modelli, stimati con la tecnica dell'Ordinary Least Square (OLS), sono differenti a seconda della tipologia di dati disponibili: con i dati Mediocredito si è stimata una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas, per i dati Cis-4 un stimato un modello a effetti fissi tramite una funzione di produzione di tipo Translog. Se il ricorso alla funzione Cobb-Douglas è ricorrente nella letteratura internazionale, soprattutto per stimare gli effetti delle singole strategie innovative sulla produttività del lavoro (Black e Lynch 2001, 2004, Breshnan et al. 2002, Gera e Gu 2004), l'utilizzo di una funzione Translog, è scelta assolutamente non ricorrente in letteratura per quanto riguarda l'oggetto di analisi. A tal riguardo ci si è ispirati al lavoro di Amess (2003), nel quale vengono valutati gli effetti del management buyouts sull'efficienza di lungo termine delle imprese manifatturiere della Gran Bretagna. Inoltre abbiamo testato la presenza di complementarità attraverso l'analisi delle differenze in termini di performance, suddividendo le imprese in base a diverse combinazioni nell'utilizzo delle strategie innovative. Un aspetto da rilevare è che, le nostre analisi realizzate sul panel integrato Cis-4 utilizzano un campione particolarmente numeroso e rappresentativo della realtà industriale italiana, un fatto, come detto, non frequente negli studi sull'argomento condotti nel nostro Paese. I risultati ottenuti dall'analisi di entrambi i campioni sono in linea con i principali studi empirici italiani (Cristini et al. 2003 e 2008, Mazzanti et al. 2006, Pini 2006, Pini et al. 2010), convalidando ampiamente l'ipotesi di un impatto positivo delle tre strategie innovative sull'aumento delle performances produttive delle imprese, anche se implementate singolarmente in azienda. Per quanto riguarda la verifica di un legame di complementarità tra le tre aree innovative emerge, chiaramente un effetto additivo sul valore aggiunto attraverso l'analisi dei differenziali e seguendo l'approccio sulla supermodularità di Milgrom e Roberts (1990, 1995). L'aspetto più rilevante dei risultati ottenuti è costituito dal fatto che alcune variabili diventano particolarmente significative quando le imprese le adottano simultaneamente: ciò vale in particolare per la formazione e la partnership in R&D. L'attività di formazione è associata positivamente alla presenza di tecnologie ICT e all'innovazione organizzativa, intesa come instaurazione di partnership per la R&D. Inoltre dall'analisi sui dati Mediocredito emerge, in conformità alla teoria skill biased technical change, una propensione a domandare lavoratori in possesso di qualifiche più elevate da parte delle imprese che hanno implementato in maniera significativa cambiamenti tecnologico-organizzativi (Berman, Bound e Griliches1994, Breshnan et al. 2002, Draca, Sadun e Van Reenen 2006). ; Technological development results in a "reshaping" and, sometimes, a complete change within existing productive structures. The knowledge brought about by technological innovations, to be incorporated need a wealth of suitable structural procedures: for this reason the evolution between the technological development and the structural change is getting narrower. The coordination and management of the sinergies and feedbacks among the different aspects of the innovative activity becomes a line of strategic action within the companies to obtain superior economic performances. The strict complementarity between investments in tangible goods (new technologies) and intangibles ones ( organization structure), which brings about a better productivity growth, is the pivot of the new approach to these thematics. The complementarity hypothesis in the innovative processes is particularly important with the advent of the ICT technologies, with their general purpose technology, their widely pervesive characters and the associated requirements of a knowledge at a higher contexct. (Breshnahan et al. 2002, Brynjolfsson et al., 2000, Brynjolfsson et al., 2002, Bugamelli e Pagano 2004). The penetration of these technologies in the productive frame favours the development of the different complementary inputs and allows several flows of "secondary" innovations, which creates new products and processes, bringing more or less long sructural adjustments which include the business reorganization and to carry out work documentation at high performance or High Performance Workplace Practices (Breshanan e Trajtenberg 1995). The latter can be explained in a series of actions which have in the human resources empowerment its central element (unit) and which are reliased with the reduction of the hierarchical levels of employment at general responsibility level, bringing in the employees in active running roles, in working as a team with many duties and competence, in the methods of valuing performance and suggesions from below and lastly in good industial relations. La concettualizzazione dell'organizzazione come un insieme di elementi profondamente eterogenei ma complementari risale a Milgrom e Roberts (1990 e 1995) che, dapprima, ne forniscono una definizione basata sulle proprietà di supermodularità della funzione di redditività dell'impresa, e poi modellano il raggruppamento delle pratiche risultanti dalla complementarità tra innovazioni tecnologiche e cambiamenti organizzativi. Implicita nella definizione di complementarità è l'idea che fare di più in una certa attività non impedisce di fare di più in un'altra, contrariamente alla teoria tradizionale dell'impresa in cui l'ipotesi di rendimenti di scala decrescenti può porre dei vincoli alla possibilità di incremento simultaneo delle variabili di scelta dell'impresa. The notion of the organisation as a collection of elements extremely different, but complementary, goes back to Milgrom and Roberts (1990 e 1995) who, at first, gave a definition based on the properties of modular dimensions of the firm income capacity and then they (the set of elements) put together the resulting documentation due to the complementarity between technological innovations and structural changes. Implicit to the complementariety definition, is the idea that to do more in a certain activity does not exclude to do more in another one; this is to the contrary to the firm traditional theory where the hypothesis of decreasing range efficiency can limit the possible simultaneous increase of the firm variable choices. The empiric analysis have put in evidence that often technological and structural innovetions are taken together and that both influence the firms performances (Black e Lynch 2000, Bresnahan, Brynjolfsson e Hitt 2002, Brynjolfsson, Lindbeck e Snower 1996, Malone et al. 1994, Pini 2006, Pini et al. 2010). In our country the empiric studies on the complementarity within the innovative fields are still few. The major econometric works realised, based on limited samples at provincial level are ascribed to Cristini et al. (2003 e 2008), Leoni (2008), Mazzanti et al. (2006), Piva et al. (2005), Pini et al. (2010). The integration within the ICT technologies, stuctural changes, work habits at high performance on work productivity are aspects investigated insufficiently even on the studies already mentioned. This is the specific subject we propose to examine. At first we have reconstructed the theoric and empiric argument on the driver role aiming to obtain performances better than the the ICT technologies, stuctural developments, work habits, each taken individually. In a second phase we have verified the existence of virtual bonds between the innovative activities and labour productivity putting in evidence the complementariety within the innovative areas. For this reason we carried out an empiric analysis using two main sources: IX and X investigation on manufactury firms of Mediocredito Centrale (now Capitalia) and the Community Innovation Survey (Cis-4) by Istat. These last data are put together with the ones of active plc (public limited companies) balances from 2001 to 2008 with structural characteristics according to Companies Register (Asia), foreign trade data (Coe) and employment (Oros). By following the productivity approach we searched complementarity bonds, achieved with software STATA 10, a range of changeble regressions, using production activities related to innovative strategies and their interactions. The samples, based on the Ordinary Least Square (OLS) technique, are different according to the type of data: available with Mediocredito data, we valued a production function of the Cobb-Douglas type; for the Cis-4 was valued a sample at fixed results using a production function of Tanslog type. If going back to the Cobb-Douglas function appears again in the international literature, especially to value the consequences of single innovative strategies on labour productivity (Black e Lynch 2001, 2004, Breshnan et al. 2002, Gera e Gu 2004), the use of a Translog funtion, is chosen absolutely, without going back to literature when referring to the object of the analysis. From this point of view, we were influenced by Amess' (2003) work, where were valued the results of the management buyouts on the long term efficiency of manifacturing industies in Great Britain. Besides we tested the presence of complementarity by using the analysis of the differences based on performance, by dividing the firms according to their different utilization of innovative strategies. An aspect to take into consideration is that, our analysis carried out on the integrated Cis-4 panel utilise a rather special and large sample which represents the Italian industrial reality, a fact, as already mentioned, not common in the studies undertaken in our Country on this subject. The results obtained from the analysis of both samples are in line with the principal Italian empiric studies (Cristini et al. 2003 e 2008, Mazzanti et al. 2006, Pini 2006, Pini et al. 2010), widely confirming the hipothesys of a positive impact within the three innovative strategies on the companies increase of the producteve performances, even if singularly employed by the business. As regards the examination of a complementarity connection within the three innovative areas, emerges clearly an additive effect on its added value using the analysis of the differentials and approching the super modularity of Milgrom e Roberts (1990, 1995). The most important aspect of these results is that some variables become particularly significative when the firms use them simultaneously: this is particularly valid at educational level and partnership in R&D. The activity at educational level is positively associated to ICT technologies and structural innovetions, understood as the setting up of partnership for R&D. In addition from the analysis of Mediocredito data emerges, according to the skill biased technical change theory, a tendency by the companies, which have made significant techinical-structural changes to look for employees with higher qualification levels (Berman, Bound e Griliches1994, Breshnan et al. 2002, Draca, Sadun e Van Reenen 2006).
Con il termine "amianto" viene indicato comunemente un gruppo di silicati caratterizzati da abito fibroso, ampiamente sfruttati per scopi industriali e applicazioni tecnologiche. L'estrazione, l'utilizzo e la commercializzazione di tali minerali sono stati vietati sia nell'Unione Europea che negli Stati Uniti d'America, a causa dei comprovati effetti dannosi, prevalentemente a carico dell'apparato respiratorio, che le fibre di amianto possono causare. Attualmente i rischi derivanti dall'esposizione ambientale a tali fibre provengono dalla impropria conservazione di manufatti che sono tuttora installati in ambienti di vita e lavoro e dalla perturbazione di rocce che per loro natura contengono minerali fibrosi classificabili come amianto. Gli affioramenti ofiolitici costituiscono siti in cui possono essere presenti minerali fibrosi potenzialmente dannosi per la salute, alcuni dei quali classificati come amianto. I minerali fibrosi occupano prevalentemente il riempimento di macro- e micro-fratture della roccia che li ospita. Processi naturali di alterazione chimico-fisica o attività antropiche in questi siti possono contribuire a rilasciare in atmosfera fibre minerali respirabili. In natura esistono inoltre decine di specie mineralogiche aventi abito fibroso, che non necessariamente hanno avuto un impiego industriale e che, pertanto, non vengono considerate amianto dalla normativa vigente. Alcuni di questi minerali possono avere rilevanza ambientale, in quanto è stato dimostrato che sono in grado di indurre le stesse patologie attribuibili all'esposizione a fibre di amianto. La normativa nazionale, nonostante sia conforme alle direttive comunitarie che vietano l'estrazione, l'utilizzo e la commercializzazione dei minerali classificati come amianto, consente l'estrazione e la commercializzazione di materiali in breccia, lastre e blocchi derivanti da rocce che possono contenere tali specie minerali. L'estrazione di queste rocce in Italia è regolamentata dal D.M. del 14 Maggio 1996. Questo decreto fornisce un elenco di rocce che possono contenere amianto e stabilisce che, ove interessate da attività estrattive, devono essere sottoposte ad indagini per la valutazione del contenuto in minerali fibrosi, ma manca di precise disposizioni per la regolamentazione di queste indagini. Tale decreto costituisce l'unico testo normativo che si occupa di amianto proveniente da fonte naturale, ma limitatamente ad attività estrattive. Il rischio che si può generare dalla movimentazione di rocce contenenti minerali fibrosi, però, non è legato soltanto ad attività estrattive, ma anche a scavi e sbancamenti per la costruzione di infrastrutture come strade e gallerie. Gli affioramenti ofiolitici degli Appennini costituiscono aree in cui sono presenti rocce che possono contenere minerali fibrosi, anche classificati come amianto, che possono avere rilevanza ambientale. Pertanto da diversi anni tali rocce sono oggetto di studio, sia dal punto di vista geologico che sanitario, per riuscire a caratterizzare le matrici ambientali al fine di fornire un contributo alla conoscenza di questi ambienti e definirne, se sussiste, il rischio associato ad esse. Il presente progetto di ricerca si inserisce nel quadro delle problematiche legate alla presenza nell'ambiente di rocce contenenti minerali fibrosi (classificati amianto e non) e intende proporre un approccio alternativo, a quello disposto dalla normativa, per la valutazione del contenuto in minerali fibrosi nella roccia. Il progetto si propone di studiare le caratteristiche peculiari e distintive di alcuni affioramenti ofiolitici dell'Appennino Settentrionale in cui sono naturalmente presenti minerali fibrosi, effettuando indagini di terreno e di laboratorio, allo scopo di determinare l'eventuale presenza e quindi la natura, la quantità e la distribuzione nello spazio dei minerali fibrosi, sia classificati come amianto che non. I casi di studio su cui è basato il lavoro di ricerca sono cave dismesse aperte in serpentiniti. Le finalità del lavoro svolto nei siti di studio sono le seguenti: • valutazione della presenza di minerali fibrosi sia classificati che non classificati amianto; •identificazione dei minerali fibrosi e determinazione della loro giacitura all'interno dell'ammasso roccioso; •analisi degli elementi utili a fornire i presupposti per delineare una procedura che permetta una corretta quantificazione del materiale potenzialmente pericoloso presente in affioramenti ofiolitici; •utilizzo e verifica critica di metodi e tecniche analitiche in grado di fornire supporto e validazione nella quantificazione dei minerali fibrosi. L'obiettivo finale del presente lavoro è quello di delineare una procedura di indagine che permetta un'adeguata e corretta caratterizzazione geologica di siti in cui sono presenti minerali dannosi per la salute, utile ad ulteriori valutazioni in merito ai rischi generabili da eventuali perturbazioni di carattere ambientale o antropico. La necessità di elaborare tale procedura nasce dall'evidente inadeguatezza della normativa in vigore e dall'esigenza di conoscere approfonditamente gli ambienti che possono costituire un rischio per la salute in presenza di recettori sensibili. Sono state studiate tre cave dismesse ubicate nel territorio della Regione Toscana e aperte in affioramenti ofiolitici appartenenti a tre contesti tettonici differenti dell'Appennino Settentrionale. Nelle aree di studio è stata impostata un'indagine multi-scala per determinate la presenza, la natura, la distribuzione nello spazio e la quantità di minerali fibrosi eventualmente contenuti nelle rocce. Le indagini di terreno hanno permesso di identificare e localizzare i litotipi presenti in ciascun sito, di individuare alla mesoscala le mineralizzazioni aventi morfologia fibrosa e definire la giacitura di entrambi gli elementi. Nelle aree di studio le serpentiniti sono il litotipo dominante, ma in due casi su tre, sono presenti altri litotipi (gabbri, rodingiti e cataclasiti) a cui sono associate mineralizzazioni fibrose di interesse ambientale. Pertanto è stato effettuato un campionamento ragionato in base alla varietà dei litotipi, alla tipologia di vene, mineralizzazioni e discontinuità, in modo da caratterizzare tutti gli elementi rappresentativi delle aree esaminate. I campioni prelevati sono stati sottoposti ad indagini petrografiche mineralogiche. L'osservazione delle sezioni sottili dei campioni delle rocce ha permesso, non solo di studiare la microstruttura e la composizione, ma anche di determinare la presenza di fasi fibrose. Infatti, non in tutti i litotipi presenti nelle cave studiate, sono presenti fasi minerali caratterizzate da morfologia fibrosa. Le indagini di laboratorio effettuate sono state molteplici. L'impostazione di tali indagini è stata modificata durante l'avanzamento dei lavori; infatti, sulla base dei risultati parziali, sono state selezionate quelle tecniche maggiormente immediate, di facile accesso per gli operatori del settore. Tali indagini hanno permesso di identificare i minerali aventi morfologia fibrosa e quindi di localizzarne la fonte nei siti di studio. Le tre cave esaminate versano in differenti condizioni di conservazione e presentano differenze in merito alla tipologia e alla giacitura dei minerali fibrosi. Nella cava di Pomaia sono stati individuati serpentiniti, gabbri e cataclasiti. Allo scopo di determinare la presenza e la natura di minerali fibrosi, sono state usate diverse tecniche analitiche (microscopia ottica, XRD, SEM-EDS, spettroscopia micro-Raman). Sono stati identificati: crisotilo, minerale considerato amianto, e antigorite e sepiolite, minerali non normati, ma ugualmente pericolosi per la salute. Il crisotilo è presente nelle serpentiniti in vene di spessore da sub-millimetrico a centimetrico e nelle cataclasiti, sia nei clasti di serpentinite che, diffusamente, nella matrice; l'antigorite è presente in vene nelle serpentiniti in prossimità delle zone di taglio; la sepiolite nelle cataclasiti e al contatto tra le serpentiniti massive e le fasce cataclastiche. Nella cava di Sasso Cinturino i litotipi identificati sono: serpentiniti e rodingiti. Le serpentiniti sono estremamente tettonizzate e presentano differenti tipologie di vene, sia di carattere fibroso che massivo, i cui rapporti reciproci sono rilevabili anche alla scala dell'affioramento. I minerali fibrosi identificati, tramite analisi di laboratorio (XRD e SEM-EDS), sono crisotilo e actinolite-tremolite, entrambi considerati amianto. Il crisotilo è presente nelle serpentiniti in vene di spessore variabile da sub-millimetrico a millimetriche, mentre la tremolite-actinolite è presente in vene, che si sovraimpongono a quelle di serpentino, di dimensioni centimetriche. Nella cava di Monte Fico sono presenti quasi esclusivamente serpentiniti fratturate, caratterizzate dalla presenza di vene e spalmature costituite da fasi minerali attribuibili al serpentino. Dalle analisi in diffrattometria a raggi X la maggior parte delle vene sono risultate essere composte da crisotilo, minerale classificato amianto. Tali vene sono maggiormente frequenti a ridosso delle zone di taglio. Identificate le fasi fibrose, limitatamente alle serpentiniti, è stata circoscritta la loro localizzazione tramite l'analisi di immagine. Per la cava di Pomaia è stato possibile impostare quest'analisi a più scale. Mentre negli altri siti, a causa delle condizioni degli affioramenti non è stato possibile effettuare l'analisi d'immagine alla mesoscala. La localizzazione degli elementi potenzialmente fonte di fibre minerali è stata circoscritta con l'ausilio dell'analisi d'immagine alla microscala, ovvero effettuata su scansioni di sezioni sottili. Dai risultati della caratterizzazione dei tre affioramenti ofiolitici, appartenenti a diversi contesti tettonici, si evince come questi siti, che la normativa in vigore considererebbe omogenei rispetto al litotipo dominante, presentano associazioni litologiche differenti, a loro volta contenenti minerali fibrosi di diversa natura e con diverse giaciture. È possibile quindi ipotizzare una relazione tra il contesto geologico-strutturale e le caratteristiche delle mineralizzazioni fibrose; tale ipotesi va verificata a scala regionale e con ulteriori analisi di terreno e di laboratorio. Sono stati rilevati sia minerali fibrosi classificati amianto, che minerali fibrosi non regolamentati, aspetto importante, perché evidenzia i limiti della definizione legislativa di amianto. I risultati della quantificazione degli elementi che, in base alle analisi mineralogiche, sono risultati sede di minerali fibrosi, sono paragonabili in tutti i siti di studio; le percentuali risultano variabili dal 20% al 64% e, pertanto, elevate nei valori massimi. Le elevate percentuali di materiale potenzialmente fonte di fibre dimostrano come la normativa necessiti di regolamentare una procedura di studio preliminare alle valutazioni che prevede. La procedura impostata nel presente lavoro, finalizzata all'identificazione e alla quantificazione preliminare dei minerali fibrosi in ammassi rocciosi, si può sintetizzare come di seguito: •lavoro di terreno: -individuazione dei litotipi, -individuazione delle fasi fibrose alla mesoscala, -misurazione della giacitura degli elementi presenti, -campionamento rappresentativo; •caratterizzazione mineralogica e petrografica: -studio delle sezioni sottili dei campioni di roccia, -analisi mineralogiche integrate per l'identificazione delle fasi fibrose; •quantificazione delle fasi potenzialmente fonti di fibre: -analisi di immagine a più scale. Fondamentali, per effettuare una corretta caratterizzazione dei siti oggetto di studio, sono: •un campionamento rappresentativo dei litotipi presenti nel sito di studio, •l'analisi dell'affioramento a differenti scale, •l'identificazione dei minerali fibrosi, •l'opportuna integrazione e selezione delle metodologie di analisi utilizzate ai fini di una corretta stima del materiale in grado di rilasciare fibre. L'integrazione dei dati ottenuti ha permesso di determinare la quantità di materiale potenzialmente in grado di rilasciare fibre minerali tramite l'analisi d'immagine. Ma il metodo utilizzato presenta dei limiti legati sia al fatto che la quantificazione è frutto di una valutazione in due dimensioni, che alla difficile riproducibilità. Infatti non sempre è possibile disporre di siti che presentano esposizioni di roccia su cui si può operare un'analisi di immagine. I risultati della quantificazione risultano comunque validi per una caratterizzazione preliminare degli ammassi rocciosi, ma hanno significato se validati da analisi mineralogiche. Un altro limite è costituito dall'accessibilità, sia economica che tecnica, di strumenti di indagine per gli operatori del settore. Pertanto la tecnica maggiormente utilizzata per le analisi mineralogiche è stata la diffrattometria a raggi X; tale tecnica risulta tra le più utilizzate e accessibili e, permette un'identificazione efficace e relativamente economica delle fasi minerali che presentano criticità dal punto di vista dell'impatto sull'ambiente e la salute. L'approccio metodologico utilizzato è risultato idoneo a caratterizzare il contenuto in amianto di un ammasso roccioso. Il confronto con la normativa mette in evidenza come questa sia carente e necessiti di dotarsi di una procedura maggiormente dettagliata, soprattutto ai fini di un corretto campionamento finalizzato alla valutazione dell'effettivo contenuto in amianto di una roccia (indice di rilascio). Se la normativa, nel disporre i criteri per le indagini di terreno, considera le rocce oggetto di studio dei corpi omogenei, il presente lavoro dimostra come sia importante identificare e localizzare tutti gli elementi di variabilità, soprattutto per eseguire un adeguato campionamento. Da ciò si può dedurre come l'unico testo normativo presente nel nostro paese che si occupa, anche se limitatamente all'ambito di attività estrattive, della gestione di ambienti caratterizzati da rocce contenenti amianto, sia inadeguato alla valutazione del rischio associato alla mobilitazione di fibre asbestiformi provenienti da sorgenti naturali. Come già evidenziato nel presente lavoro, valutare adeguatamente il contenuto di minerali fibrosi e la quantità degli stessi in grado di essere potenzialmente immessa nell'ambiente, non può esimersi dall'effettuare uno studio preliminare e di dettaglio che si occupi della geologia di un sito a rischio. La normativa italiana e, nello specifico, il già citato D.M. 14 Maggio 1996, manca di una procedura efficiente che definisca una tale tipologia di studio. L'approccio metodologico delineato in questo lavoro intende essere un contributo per migliorare la regolamentazione nella gestione di siti in cui sono presenti rocce contenenti minerali pericolosi per la salute, in quanto non andrebbero regolamentati solo i siti interessati da attività di carattere estrattivo, ma anche tutti quei siti interessati da attività di natura infrastrutturale o interventi di ripristino e protezione ambientale di zone degradate (cave, affioramenti, ecc.) in cui sono presenti rocce contenenti minerali fibrosi. Caratterizzare preliminarmente dal punto di vista geologico aree che presentano affioramenti di roccia contenente minerali fibrosi, come per le ofioliti, è molto utile per la loro gestione, in presenza o meno di perturbazioni di origine antropica, ed è un importante ausilio, non solo per una valutazione della pericolosità di ambienti in cui sono presenti minerali dannosi per la salute, ma anche per un'oculata pianificazione dell'uso del territorio.
L'applicazione del principio di avidità in un mondo caratterizzato da incertezza, quale di fatto è quello su cui vengono scambiati i prodotti finanziari, implica la necessità che alla considerazione del possibile rendimento futuro di qualsivoglia portafoglio finanziario debba essere associata la considerazione del rischio finanziario concernente la variabilità del futuro valore del medesimo. All'interno delle diverse tipologie di rischio che concorrono alla formazione del rischio finanziario di un portafoglio, quelle sulle quali si è maggiormente incentrato l'interesse degli studiosi e degli operatori, anche in adempimento a precise normative legislative relative alle attività di vigilanza degli intermediari finanziari, sono costituite dal rischio di mercato e dal rischio di credito. Mentre il rischio di mercato si associa al rischio di prezzo di un dato portafoglio, incentrando così l'analisi sulle possibili fluttuazioni delle variabili di mercato rilevanti, il rischio di credito (credit risk) considera l'eventualità che il valore di un portafoglio sia influenzato dalla situazione finanziaria dei soggetti in esso coinvolti. La quarta fonte di rischio è il rischio internazionale (international risk). Un'impresa si trova a dover fronteggiare questo tipo di rischio quando la valuta nella quale sono misurati gli utili ed è espresso il prezzo del titolo azionario è diversa dalla valuta dei flussi di cassa del progetto, come accade nel caso di progetti intrapresi al di fuori del mercato nazionale. La principale innovazione introdotta da Markowitz nella misurazione del rischio di un portafoglio consiste nella considerazione della distribuzione congiunta dei rendimenti di tutti i titoli in esso presenti. Il modello media varianza, sebbene sia tuttora largamente utilizzato nella pratica, presenta limiti intrinseci dovuti alla considerazione esclusiva dei primi due momenti della distribuzione dei rendimenti. In primo luogo, deve tenere in debito conto la dispersione dei rendimenti effettivi attorno al rendimento atteso, misurata dalla varianza (o dallo scarto quadratico medio) della distribuzione; maggiore è la differenza fra rendimenti effettivi e rendimento atteso, maggiore è la varianza. 2.2.2. Rendimento e rischio: la frontiera efficiente Supponiamo che un investitore abbia delle stime dei rendimenti attesi, degli scarti quadratici medi dei singoli titoli e delle correlazioni tra i titoli. Nella scelta della migliore combinazione di titoli da detenere, un investitore cercherà ovviamente un portafoglio con un rendimento atteso elevato e un basso scarto quadratico medio dei rendimenti. Pertanto è opportuno considerare: la relazione tra il rendimento atteso dei singoli titoli e il rendimento atteso di un portafoglio composto da questi titoli; la relazione tra gli scarti quadratici medi dei singoli titoli, le correlazioni tra questi titoli e lo scarto quadratico medio di un portafoglio composto dagli stessi. Consideriamo un portafoglio composto da due titoli. Il titolo A ha un rendimento atteso di µA e una varianza dei rendimenti di σ2A, mentre il titolo B ha un rendimento atteso di µB e una varianza dei rendimenti di σ2B . Il rendimento atteso e la varianza di un portafoglio di due titoli può essere scritta come funzione di questi input e del peso che questi hanno sul valore del portafoglio. Dove e rappresentano la quota del titolo A e del titolo B nell'intero portafoglio. L'eliminazione di parte del rischio è possibile perché di solito i rendimenti dei singoli titoli non sono perfettamente correlati tra loro; pertanto parte del rischio viene "eliminata grazie alla diversificazione". Concettualmente, il rischio di un singolo titolo dipende da come il rischio di un portafoglio cambia quando quel titolo viene aggiunto. Come avremo modo di evidenziare in seguito, il Capital Asset Pricing Model (CAPM) mostra che il rischio di un singolo titolo è rappresentato dal suo coefficiente beta che, in termini statistici, indica la tendenza di un titolo azionario a variare nella stessa direzione del mercato (per esempio, l'indice composito S&P): il beta misura la reattività del rendimento di un singolo titolo rispetto al rendimento del portafoglio di mercato. In generale, il numero dei termini di covarianza può essere scritto come una funzione del numero dei titoli. dove n è il numero dei titoli presenti nel portafoglio. Per motivi di semplicità, assumiamo che i titoli abbiano in media una deviazione standard dei rendimenti di , che la covarianza dei rendimenti tra coppie di titoli sia in media e che i tutti i titoli siano presenti nel portafoglio nella stessa proporzione: Il fatto che la varianza possa essere stimata per portafogli composti da un ampio numero di titoli suggerisce un approccio di ottimizzazione nella costruzione del portafoglio, nel quale gli investitori contrappongono rendimento atteso e varianza. Se un investitore può specificare l'ammontare massimo di rischio che è disposto a sopportare (in termini di varianza), il problema dell'ottimizzazione del portafoglio diventa la massimizzazione dei rendimenti attesi dato questo livello di rischio. Graficamente, questi portafogli possono essere rappresentati sulla base delle dimensioni del rendimento atteso e della deviazione standard come nella figura sottostante. Per passare dall'approccio tradizionale di Markowitz a quello del Capital Asset Pricing Model, dobbiamo considerare l'aggiunta di un titolo privo di rischio all'interno del mix dei titoli rischiosi. Il titolo privo di rischio, per definizione, ha un rendimento atteso che risulta sempre uguale al rendimento attuale. Mentre il rendimento dei titoli rischiosi varia, l'assenza di varianza nei rendimenti dei titoli privi di rischio li rende non correlati con i rendimenti dei titoli rischiosi. Per esaminare ciò che accade alla varianza di un portafoglio che combina un titolo privo di rischio con un portafoglio rischioso, assumiamo che la varianza del portafoglio rischioso sia e che sia la quota dell'intero portafoglio investita in questi titoli rischiosi. Il rendimento atteso cresce data la pendenza positiva della retta passante per il livello del tasso privo di rischio. Detta retta prende il nome di Linea del mercato dei capitali o Capital Market Line (CML). Piuttosto, combinerà i titoli di M con l'attività priva di rischio nel caso in cui abbia un'alta avversione al rischio. In un mondo in cui gli investitori tengono una combinazione di due soli titoli (titolo privo di rischio e portafoglio rischioso) il rischio di ogni titolo individuale verrà misurato in base al portafoglio di mercato. In particolare, il rischio di ogni asset diverrà il rischio aggiunto al portafoglio di mercato. Per giungere all'appropriata misurazione di questo rischio aggiunto assumiamo che sia la varianza del portafoglio di mercato prima dell'aggiunta del nuovo titolo, e la varianza del titolo individuale che verrà aggiunto a questo portafoglio sia . Il peso del titolo sul valore di mercato del portafoglio è e la covarianza dei rendimenti tra il titolo individuale e il portafoglio di mercato è . Conseguentemente, il primo termine dell'equazione dovrebbe essere prossimo a zero, e il secondo termine dovrebbe tendere a , lasciando così il terzo termine ( , la covarianza) come misura del rischio aggiunto dal titolo i. Dividendo questo termine per la varianza dei rendimenti del portafoglio di mercato si determina il beta del titolo: Beta del titolo = 2.2.3. Un esempio di diversificazione Supponiamo di fare le seguenti tre ipotesi : 1. tutti i titoli hanno la stessa varianza, che indichiamo con . Il rischio di portafoglio ( ), è il rischio corso anche dopo aver raggiunto la completa diversificazione. Il rischio di portafoglio è spesso chiamato anche rischio sistematico o rischio di mercato. Nel modello base si stabilisce una relazione tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, detto beta. Il beta misura quanto il valore del titolo si muova in sintonia col mercato. Matematicamente, il beta è proporzionale alla covarianza tra rendimento del titolo e andamento del mercato; tale relazione è comunemente sintetizzata tramite la Security Market Line (SML) , illustrata nel grafico sottostante. Figura 3.1. La Security Market Line: relazione tra rischio (beta) e rendimento atteso nel CAPM La SML, solitamente chiamata linea di "mercato degli investimenti", presenta come intercetta il tasso privo di rischio e come pendenza la differenza tra il rendimento del mercato e quello privo di rischio: la retta è positivamente inclinata se il rendimento atteso del mercato è maggiore del tasso privo di rischio ( È facile dimostrare che la linea della Figura 5 è retta. Questo aggiustamento dei prezzi farebbe aumentare i rendimenti attesi dei due titoli e continuerebbe finché i due titoli non si trovassero sulla linea di mercato degli investimenti. La linea del mercato rappresenta la frontiera dei portafogli efficienti formati sia da attività rischiose che dall'attività priva di rischio; ogni punto sulla retta rappresenta un intero portafoglio. Il portafoglio composto da ogni attività trattata sul mercato viene chiamato portafoglio di mercato (market portfolio). Seguendo tale impostazione ogni investitore sceglierà lo stesso identico portafoglio, cioè il portafoglio di mercato, quindi la diversa propensione al rischio di ciascun investitore nelle scelte di investimento emerge nella decisione di allocazione, vale a dire nella decisione di quanto investire nel titolo privo di rischio e quanto nel portafoglio di mercato. Investitori più avversi al rischio sceglieranno di investire gran parte o la totalità del proprio patrimonio nel titolo privo di rischio, mentre investitori meno avversi al rischio investiranno principalmente o esclusivamente nel portafoglio di mercato. Anzi, potranno investire nel portafoglio di mercato non solo tutto il loro patrimonio, ma anche fondi presi a prestito al tasso privo di rischio. La prima è che esista un titolo privo di rischio, ovvero un titolo il cui rendimento atteso sia certo. La seconda è che gli investitori, per ottenere la combinazione ottimale fra titolo privo di rischio e portafoglio di mercato (data la propria propensione al rischio), possano dare e prendere in prestito fondi al tasso privo di rischio. Come già ricordato in precedenza il rischio di ciascuna attività per un investitore corrisponde al rischio aggiunto da quell'attività al suo portafoglio. Nel contesto del CAPM, dove tutti gli investitori scelgono di detenere il portafoglio di mercato, il rischio di una singola attività per un investitore corrisponde al rischio che quest'attività aggiunge al portafoglio di mercato. Statisticamente, questo rischio addizionale è misurato dalla covarianza dell'attività con il portafoglio di mercato. Maggiore è la correlazione fra l'andamento di un'attività e l'andamento del portafoglio di mercato, maggiore è il rischio aggiunto da tale attività ( i movimenti non correlati all'andamento del portafoglio di mercato vengono invece eliminati quando si aggiunge un'attività al portafoglio). Possiamo tuttavia standardizzare la misura del rischio dividendo la covarianza di ciascuna attività con il portafoglio di mercato per la varianza del portafoglio di mercato. Otteniamo in questo modo il cosiddetto beta di un'attività: Dato che la covarianza del portafoglio di mercato con se stesso non è altro che la varianza del portafoglio di mercato, il beta del portafoglio di mercato (e quindi il beta di una ipotetica attività media) è 1. Quindi le attività più (meno) rischiose della media saranno quelle con un beta superiore (inferiore) ad 1. Il titolo privo di rischio avrà ovviamente un beta pari a zero. Il fatto che ciascun investitore possieda una combinazione del titolo privo di rischio e del portafoglio di mercato ha un'importante implicazione: il rendimento atteso di un'attività è strettamente correlato al suo beta. In particolare, il rendimento atteso di un'attività sarà una funzione dal tasso di rendimento del titolo privo di rischio e del beta dell'attività. Il nucleo del CAPM è una relazione attesa tra il rendimento di un qualsiasi titolo ( ) e il rendimento del portafoglio di mercato, che può essere espressa come: dove sono il rendimento lordo del titolo in questione e del portafoglio di mercato e è il rendimento lordo privo di rischio. Secondo questa formula il rendimento atteso di un'attività rischiosa è dato dal rendimento di un titolo privo di rischio maggiorato di un premio per il rischio, che sarà più o meno elevato a seconda del rischio aggiunto dall'attività al portafoglio di mercato. È chiaro quindi che per usare il CAPM sono necessari i seguenti tre input: Tasso di rendimento del titolo privo di rischio. Per titolo privo di rischio si intende il titolo il cui rendimento atteso nel periodo di riferimento sia noto all'investitore con certezza. Di conseguenza, il tasso di rendimento di un titolo privo di rischio da utilizzare nel CAPM varierà a seconda che il periodo di riferimento sia 1, 5 o 10 anni. • Premio per il rischio. Il premio per il rischio indica la remunerazione richiesta dai risparmiatori per investire nel portafoglio di mercato (che comprende tutte le attività rischiose) piuttosto che nel titolo privo di rischio. Il beta è l'unico input specifico del titolo analizzato (ad es. un'azione). Per esempio, abbiamo ipotizzato che investire nei Buoni del Tesoro sia completamente senza rischio. (Nel CAPM, tali portafogli sono i Buoni del Tesoro e il portafoglio di mercato.) Nei CAPM modificati i rendimenti attesi dipendono ancora dal rischio sistematico, ma la definizione di rischio sistematico dipende dalla natura del portafoglio di riferimento. Il CAPM ipotizza che un investitore richieda un rendimento atteso più elevato per un rischio maggiore, e non ammette che un investitore accetti un rendimento minore, o un rischio maggiore, ceteris paribus. L'ipotesi cruciale nella derivazione proposta sopra è che le preferenze degli investitori siano formulate esclusivamente in termini di media e varianza dei rendimenti dei titoli; l'ipotesi di normalità dei rendimenti (lognormalità dei prezzi) è una condizione sufficiente, ma non necessaria, affinché ciò sia verificato. Il CAPM ipotizza che il profilo rischio-rendimento atteso di un portafoglio possa essere ottimizzato, determinando un portafoglio ottimo, che presenti il minimo livello di rischio possibile per il proprio rendimento atteso. Nel secondo passo, si utilizzano le stime come osservazioni dei regressori nei modelli di regressione lineare, nella dimensione cross-section: Il CAPM risulterà non rifiutato se, sulla base della regressione sopra, il coefficiente a sarà pari al tasso d'interesse privo di rischio , e se il coefficiente b sarà pari al premio per il rischio del portafoglio di mercato. Usando dati dagli anni trenta agli anni sessanta, alcuni ricercatori dimostrarono che il rendimento medio di un portafoglio di azioni è una funzione crescente del beta del portafoglio , una scoperta coerente con il CAPM. In sostanza, qualunque test del CAPM sarebbe per Roll riconducibile all'ipotesi che il portafoglio di mercato, il cui rendimento è indicato da sopra, appartenga alla porzione efficiente della frontiera dei portafogli. Un test del CAPM si tradurrebbe di fatto in un test sull'appartenenza alla frontiera efficiente della particolare proxy del portafoglio di mercato utilizzata. La popolarità del CAPM è essenzialmente legata alla sua semplicità, nonché alla capacità di ricondurre il valore di un titolo a un singolo fattore di rischio, rappresentato dal rischio legato al portafoglio di mercato. Dunque, un investitore può creare un portafoglio abbastanza simile al portafoglio di mercato del CAPM combinando vari fondi indicizzati, ciascuno in proporzione al valore di mercato del mercato cui l'indice fa riferimento. Così, in questo periodo di 60 anni, i rendimenti sono davvero aumentati all'aumentare del beta. Come risulta dalla Figura 3.2, il portafoglio di mercato negli stessi 60 anni ha fornito un rendimento medio di 14 punti percentuali sopra il tasso risk-free e , è ovvio, ha avuto un beta pari a 1. Il CAPM sostiene che il premio per il rischio dovrebbe aumentare in proporzione al beta, in modo che i rendimenti di ciascun portafoglio si collochino sulla linea del mercato azionario inclinata positivamente delle Figure 3.4 e 3.5. Figura 3.4. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1931-1965 Figura 3.5. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1966-1991 Poiché il mercato ha fornito un premio per il rischio del 14%, il portafoglio dell'investitore 1, con un beta di 0,49, dovrebbe avere fornito un premio per il rischio leggermente inferiore al 7% e il portafoglio dell'investitore 10, con un beta di 1,52, dovrebbe avere fornito un premio leggermente superiore al 21%. Sia l'APT che il CAPM implicano una relazione crescente tra rendimento atteso e rischio. Inoltre l'APT considera il rischio in maniera più generale rispetto alla semplice covarianza standardizzata o al beta di un titolo con il portafoglio di mercato. Come il CAPM, anche l'Arbitrage Pricing Model scompone il rischio in rischio specifico d'impresa e rischio-mercato. In primo luogo, il rendimento normale o atteso del titolo, cioè la parte del rendimento che gli azionisti sul mercato prevedono o si aspettano. La seconda parte è il rendimento incerto o rischioso del titolo. Nella misura in cui gli azionisti avevano previsto l'annuncio del governo, tale previsione dovrebbe essere incorporata nella parte attesa del rendimento calcolato all'inizio del mese, cioè in . D'altro canto, se l'annuncio del governo è una sorpresa, nella misura in cui influenza il rendimento del titolo azionario farà parte di U, la parte non anticipata del rendimento. La parte non anticipata del rendimento, quella che deriva dalle sorprese, costituisce il vero rischio di ogni investimento. In termini statistici, 4.2. Le fonti del rischio-mercato Il fatto che le componenti non sistematiche dei rendimenti di due società non siano correlate tra loro non implica che anche le componenti sistematiche siano incorrelate. Nonostante il CAPM e l'APM facciano entrambi una distinzione fra rischio specifico d'impresa e rischio-mercato, essi si differenziano poi nell'approccio alla misurazione del rischio-mercato. Il coefficiente beta, β, indica la reazione del rendimento di un titolo azionario a un tipo di rischio sistematico. Nel CAPM il beta misurava la variazione del rendimento di un titolo a uno specifico fattore di rischio, il rendimento del portafoglio di mercato. Viene utilizzato questo termine perché l'indice impiegato come fattore è un indice dei rendimenti dell'intero mercato (azionario). Il modello di mercato può essere quindi espresso come M) + ε dove rappresenta il rendimento del portafoglio di mercato e β è detto coefficiente beta. Considerando Xi la proporzione del titolo i nel portafoglio, sappiamo che la loro somma deve essere pari a 1 e che il rendimento del portafoglio è la media ponderata dei rendimenti delle singole attività nel portafoglio Nel paragrafo precedente abbiamo visto che il rendimento di ciascuna attività è a sua volta determinato sia dal fattore F che dal rischio non sistematico rappresentato da . La prima riga è la media ponderata dei rendimenti attesi dei singoli titoli. Il rendimento di un portafoglio può essere rappresentato come la somma di due medie ponderate: la media ponderata dei rendimenti attesi delle attività nel portafoglio e al media ponderata dei beta associati a ciascun fattore. La componente dei rendimenti specifica della singola impresa (ε) scompare a livello di portafoglio per effetto della diversificazione. Se assumiamo infatti che il portafoglio sia composto da molti titoli tutti presenti nella medesima proporzione , possiamo notare che al crescere del numero dei titoli compresi nel portafoglio la componente del rischio idiosincratico si annulla: Per ogni singola azione ci sono due fonti di rischio. Il premio atteso per il rischio di un'azione dipende dai fattori macroeconomici di rischio e non è influenzato dal rischio specifico. Il portafoglio A ha un beta (rispetto a questo unico fattore) di 2,0 e un rendimento atteso del 20%; il portafoglio B ha un beta di 1,0 e un rendimento atteso del 12%; il portafoglio C ha un beta di 1,5 e un rendimento atteso del 14%. Si noti che investendo la metà del proprio patrimonio nel portafoglio A e la metà nel portafoglio B, si potrebbe ottenere un portafoglio con un beta (sempre rispetto all'unico fattore) pari a 1,5 e un rendimento atteso del 16%. Di conseguenza nessun investitore vorrà investire nel portafoglio C finché non scenderanno i prezzi delle attività in tale portafoglio, portandone così il rendimento atteso al 16%. In alternativa, un investitore può comprare la combinazione dei portafogli A e B, con un rendimento atteso del 16%, e vendere il portafoglio C, con un rendimento atteso del 15%, ottenendo così un profitto pulito dell'1% senza investire nulla e senza assumere alcun rischio. Per impedire tale "arbitraggio", il rendimento atteso di ciascun portafoglio deve essere una funzione lineare del beta. Ogni azione deve offrire un rendimento atteso coerente con il suo contributo al rischio del portafoglio. Secondo l'APM questo contributo dipende dalla sensibilità dei rendimenti dell'azione alle variazioni inattese dei fattori macroeconomici. 5.1. Il tasso di interesse privo di rischio La maggior parte dei modelli di rischio e rendimento in finanza partono da un investimento definito "privo di rischio" e considerano il rendimento atteso da quell'investimento come tasso privo di rischio . I rendimenti attesi da investimenti rischiosi vengono poi calcolati aggiungendo al tasso privo di rischio un premio per il rischio atteso. Abbiamo definito "investimento privo di rischio" un'attività della quale l'investitore conosce con certezza il rendimento atteso. Il rendimento atteso su di un portafoglio pienamente diversificato deve essere misurato in relazione al tasso di rendimento atteso su un titolo privo di rischio . Quando ci riferiamo ai rendimenti (yields) di un titolo di stato come titolo risk-free rate, ci riferiamo al fatto che esso sia privo del rischio di fallimento, riconosciamo però che esso incorpori il maturity risk: la sola parte del rendimento che risulta priva di rischio è dunque la componente degli interessi. Come risultato, l'evidenza empirica di lungo termine è che i rendimenti dei bond a lunga scadenza in media eccedono i rendimenti dei T.Bill. L'horizon premium compensa gli investitori per questo rischio di mercato. Nel primo caso, dovrebbe utilizzare come tasso privo di rischio il tasso di un Treasury Bond statunitense, nel secondo invece un tasso privo di rischio in pesos. Per calcolare un rendimento atteso in termini reali, è necessario partire da un tasso di rischio espresso in termini reali. La soluzione più comune in questi casi (sottrarre al tasso di interesse nominale un tasso di inflazione attesa) fornisce nel migliore dei casi soltanto una stima approssimativa del tasso privo di rischio in termini reali. Nell'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, la stima dell'ERP è il premio per il rischio (rendimento azionario realizzato in eccesso rispetto al tasso privo di rischio) che gli investitori hanno, in media, realizzato su periodi di investimento passati. Se i rendimenti periodali dei titoli azionari (ad esempio rendimenti mensili) non sono correlati (i rendimenti di questo mese non sono stati adeguatamente predetti dai rendimenti dell'ultimo mese) e se i rendimenti attesi sono stabili nel tempo, allora la media aritmetica dei rendimenti storici fornisce un'adeguata stima dei rendimenti futuri attesi. Conseguentemente, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati fornisce una stima appropriata dei premi per il rischio futuri attesi (ERP). Differenze nell'approccio per la stima dell'ERP scaturiscono dalla misurazione dei rendimenti attesi sui titoli rischiosi (equity securities). Nell'applicare l'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, l'analista seleziona il numero di anni dei rendimenti storici da includere nella media. L'SBBI Yearbook contiene il riassunto dei rendimenti delle azioni e dei titoli di Stato degli USA derivanti da questi dati . (Nel primo periodo, il mercato era composto quasi interamente da titoli bancari, mentre nella metà del diciannovesimo secolo, il mercato era dominato dai titoli delle ferrovie. ) Per questi periodi sono stati assemblati anche i rendimenti dei titoli governativi. La tabella 5.1 fornisce il premio per il rischio medio annuo realizzato da titoli azionari tratti da varie fonti con riferimento a differenti periodi fino al 2006. Si misura il premio per il rischio realizzato confrontando i rendimenti del mercato azionario realizzati durante il periodo con il rendimento dei titoli governativi di lungo termine (o lo yield to maturity per gli anni precedenti il 1926). Dall'osservazione del tabella quello che può risultare sorprendente è che il valore più grande della media aritmetica dei rendimenti annui è quello degli 81 anni dal 1926 al 2006. Per il calcolo dell'ERP viene impiegato il rendimento dei titoli governativi a lungo termine perché in ogni periodo rappresenta il rendimento atteso dei titoli al tempo dell'investimento. Tabella 5.1 Premi per il rischio storici: Rendimenti del mercato azionario – T.Bond 5.3. Il premio per il rischio (risk premium) Il premio per il rischio è un elemento essenziale nel contesto dei modelli di rischio e rendimento. Nel presente paragrafo esamineremo le determinanti fondamentali del premio per il rischio e diversi approcci pratici alla sua stima. Nel CAPM il premio per il rischio misura il rendimento addizionale richiesto in media dagli investitori per spostarsi da un investimento privo di rischio a investimenti rischiosi (il portafoglio di mercato). Ne consegue che il premio per il rischio dovrebbe essere una funzione di due variabili: L'avversione degli investitori al rischio: maggiore l'avversione al rischio, maggiore il premio richiesto dagli investitori. Tale avversione al rischio è in parte congenita, ma dipende anche dalla situazione economica (in un'economia in crescita, gli investitori saranno più propensi ad assumere rischi) e dalla recente performance del mercato (il premio per il rischio tende a salire in seguito a un significativo calo del mercato). Allo stesso modo, nell'APM e nei modelli multifattoriali, i premi per il rischio utilizzati per ciascuno dei fattori saranno pari alla media ponderata dei premi richiesti dai singoli investitori per ciascuno dei fattori. 5.3.1. Equity Premium Puzzle In finanza, l'Equity Premium Puzzle o enigma del premio azionario si riferisce all'osservazione empirica che i rendimenti osservati sui mercati azionari nell'ultimo secolo sono stati superiori a quelli dei titoli di stato; in particolare, il premio per il rischio medio per i titoli azionari nell'ultimo secolo sarebbe pari a circa il 6%, laddove il rendimento medio dei titoli di stato a scadenza breve (considerato una buona approssimazione del rendimento privo di rischio) sarebbe intorno all'1%. La teoria economica suggerisce che gli investitori dovrebbero sfruttare l'evidente opportunità d'arbitraggio rappresentata dalla differenza tra premio per il rischio azionario e rendimento medio dei titoli di stato. Una maggiore domanda provocherebbe a sua volta un aumento dei prezzi medi dei titoli azionari; essendo il rendimento nient'altro che una misura dello scarto tra il prezzo attuale e quello futuro, un aumento del prezzo attuale, ceteris paribus, riduce il rendimento atteso, e con esso il premio per il rischio (dato dalla differenza tra rendimento atteso e tasso di rendimento privo di rischio). In equilibrio, si ridurrebbe dunque lo scarto tra il premio per il rischio dei titoli azionari e il tasso di rendimento privo di rischio, fino al punto in cui tale scarto riflette il premio per il rischio che un investitore rappresentativo richiede per investire nei titoli azionari, caratterizzati da una maggiore rischiosità. Rovesciando questo ragionamento, lo scarto osservato tra i due rendimenti dovrebbe riflettere la valutazione del rischio da parte dell'investitore medio. Gli studiosi che negano l'esistenza del premio per il rischio fondano il proprio convincimento nelle seguenti considerazioni: L'evidenza empirica mostra che negli ultimi quaranta anni (1969-2009) non c'è stato un significativo premio per il rischio azionario sul mercato USA; - Errori di selezione (selection bias) del mercato statunitense: il mercato azionario di maggior successo nel corso del XX° secolo. 5.4.2. Premi storici Il metodo più comune per stimare il premio (o i premi) per il rischio nei modelli di rischio e rendimento è l'estrapolazione da dati storici. Nel CAPM il premio viene calcolato come differenza fra rendimenti medi azionari e rendimenti medi su titoli privi di rischio lungo un esteso periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi, questo tipo di approccio consta di tre tappe successive: 1) definire un arco temporale per la stima; 2) calcolare il rendimento medio di un indice azionario e il rendimento medio di un titolo privo di rischio nel periodo in questione; 3) calcolare la differenza fra tali rendimenti e utilizzarla come stima del premio per il rischio atteso per il futuro. La rischiosità media del portafoglio "rischioso" (l'indice azionario nel nostro caso) non sia cambiata in modo sistematico nel tempo. 5.4.3. Premi azionari impliciti Esiste un altro approccio alla stima dei premi per il rischio che non richiede dati storici né correzioni per tenere conto del rischio-Paese. Sottraendo da tale rendimento il tasso privo di rischio, si ottiene un premio implicito per il rischio azionario. Inoltre affinché il premio per il rischio risultasse positivo , dovrebbe verificarsi che: Al fine di illustrare questo metodo, supponiamo che il livello attuale dell'indice S&P 500 sia 900, che il tasso di dividendo atteso sull'indice sia del 2%, e che il tasso di crescita atteso degli utili e dei dividendi nel lungo termine sia del 7%; risolvendo per il rendimento atteso sul capitale netto otteniamo: ; Dato un tasso privo di rischio del 6%, il premio implicito per il rischio azionario sarà pari al 3%. • Risolvendo l'equazione per r, si ottiene una stima del rendimento atteso sul capitale netto pari a 8,39%. Sottraendo da tale stima il tasso dei Treasury Bond (4,02%) si ottiene un premio azionario implicito del 4,37%. Da tali input emerge un rendimento azionario atteso del 10,70% che, se confrontato con il tasso dei Treasury Bond a quella data (4%), implica un premio azionario implicito del 6,70%. Questo fatto ha interessanti implicazioni per la stima del premio per il rischio. Allo stesso modo, il premio del 2% che abbiamo osservato alla fine della bolla speculativa delle società Internet (dot-com boom) degli anni '90 è tornato rapidamente ai livelli medi, durante la correzione del mercato del 2000-2003. Data questa tendenza, possiamo concludere con una migliore stima del premio per il rischio implicito, guardando non solo al premio corrente, ma anche alle linee di tendenza storiche. Tre motivi, tuttavia, spiegano l'esistenza di stime del premio per il rischio così diverse. Ad esempio, data una deviazione standard annuale dei prezzi azionari fra il 1928 e il 2003 pari al 20%, la Tabella 6.1 riporta l'entità dell'errore standard associato alla stima del premio per il rischio in funzione della lunghezza del periodo di stima. Tabella 6.1 Errori standard nelle stime dei premi di rischio La scelta del titolo privo di rischio La banca dati Ibbotson riporta i rendimenti si a dei Treasury Bill sia dei Treasury Bond, sicchè il premio per il rischio degli investimenti azionari può essere stimato rispetto a entrambi. Il tasso privo di rischio alla base della stima del premio deve essere coerente con il tasso privo di rischio utilizzato nel calcolo dei rendimenti attesi. Nella maggior parte dei casi, in finanza aziendale, il tasso privo di rischio rilevante è quello di lungo periodo. Le medie aritmetiche e geometriche Un ultimo elemento di controversia nella stima dei premi storici consiste nel modo in cui calcolare le medie dei rendimenti. La media aritmetica consiste nella semplice media dei rendimenti annuali, mentre la media geometrica si riferisce al rendimento composto. In effetti, se i rendimenti annui non sono correlati nel tempo, la media aritmetica rappresenta la stima più corretta del premio per il rischio atteso per l'anno prossimo. In primo luogo, studi empirici sembrano indicare che i rendimenti degli investimenti azionari sono negativamente correlati nel corso del tempo. Tabella 6.2 Premi di rischio storici (%) del mercato statunitense, 1928-2008 Tirando le somme, le stime del premio per il rischio possono variare a seconda delle differenze in termini di periodo di stima, scelta del titolo di Stato come tasso privo di rischio (a breve o lungo termine), e utilizzo di medie aritmetiche oppure geometriche. Se ci atteniamo al proposito di selezionare un premio basato sulla media geometrica a lungo termine rispetto al tasso dei Treasury Bond a lungo termine, la stima migliore del premio per il rischio sulla base di dati storici è 4,82%. 6.1. Periodicità dei dati storici Anche se accettiamo l'ipotesi che i rendimenti siano effettivamente indipendenti, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati basati su rendimenti di 1 anno potrebbe non essere la migliore stima dei rendimenti futuri. I tradizionali modelli dei rendimenti dei titoli (es. CAPM) sono generalmente modelli uniperiodali che stimano i rendimenti su orizzonti di tempo non specificati. Allora nell'utilizzare i rendimenti realizzati per stimare i rendimenti attesi, dobbiamo calcolare i rendimenti realizzati su periodi di due anni (media geometrica dei rendimenti annui di due anni consecutivi) e poi calcolare la media aritmetica delle medie geometriche dei due anni per ottenere una stima incondizionata dei rendimenti futuri. Gli autori mostrano che l'utilizzo della media geometrica dei rendimenti storici a un anno produce una stima dei rendimenti cumulati che approssima maggiormente la mediana dei rendimenti cumulati (il 50% degli investitori realizzerà un rendimento maggiore di quello mediano e il 50% un rendimento inferiore a quello mediano). Essi dimostrano che la differenza tra la mediana dei rendimenti cumulati ottenuta dall'impiego della media aritmetica rispetto alla media geometrica dei rendimenti storici a un anno aumenta poiché aumenta l'orizzonte d'investimento atteso. 6.2. Selezione del periodo di riferimento Il premio per il rischio realizzato medio risulta essere sensibile al periodo che viene scelto per calcolare tale media. I modelli di rendimento possono cambiare nel tempo. Concentrandosi sul recente passato si ignorano i drammatici eventi storici e il loro impatto sui rendimenti del mercato. Gli anni dal 1942 fino al 1951 furono un periodo di stabilità artificiale dei tassi dei bond statunitensi. Includendo questo periodo nel calcolo dei rendimenti realizzati equivale a valutare i titoli delle linee aere di oggi facendo riferimento ai titoli delle linee aeree prima della deregulation. Tabella 6.4 Premi per il Rischio realizzati sui rendimenti dei T.Bond Se il premio per il rischio medio è cambiato nel corso del tempo, allora la media del rischio realizzato utilizzare la più lunga serie dei dati disponibili diviene discutibile. A partire dalla metà degli anni '50 fino al 1981, i rendimenti dei bond hanno registrato un trend crescente, dettando una generalizzata diminuzione del prezzo dei medesimi. I rendimenti realizzati dai bond erano generalmente più bassi dei rendimenti attesi al momento della loro emissione (l'investitore che avesse venduto prima della scadenza avrebbe registrato una perdita). Dal 1981 i rendimenti dei titoli di Stato hanno iniziato a diminuire, provocando una generalizzata crescita del loro prezzo. Nella tabella 6.5 presentiamo statistiche riassuntive per i rendimenti dei titoli azionari, dei Treasury Bill a 6 mesi e dei Treasury Bond a 10 anni dal 1928 al 2008: Tabella 6.5 Statistiche riassuntive Utilizzando questa tabella possiamo iniziare a stimare un premio per il rischio facendo la differenza tra il rendimento medio delle azioni e il rendimento medio dei titoli di Stato: il premio per il rischio è del 7,30% per le azioni rispetto ai T.Bills (11,09% - 3,79%) e 5,64% per le azioni rispetto ai T.Bonds (11,09% - 5,45%). I premi per il rischio storici per i mercati emergenti possono fornire interessanti spunti di riflessione, ma non possono essere impiegati nei modelli di rischio e rendimento. Consideriamo per prima cosa l'assunzione fondamentale che il premio per il rischio per gli investitori non sia cambiato nel corso del tempo e che l'investimento rischioso medio (nel portafoglio di mercato) sia rimasto stabile nel periodo di tempo esaminato. Nel periodo compreso tra il 1926 e il 2000, gli investimenti in molti degli altri mercati dei capitali avrebbero prodotto premi molto più contenuti rispetto al mercato USA, e alcuni di essi si sarebbero tradotti, per gli investitori, in rendimenti più contenuti o negativi nel corso del periodo. Tabella 6.7 Premi per Rischio storici di differenti mercati: 1900-2005 Dall'analisi della tabella risulta che i premi per il rischio, risultanti dalla media dei 17 mercati, sono più bassi dei premi per il rischio degli Stati Uniti. Per esempio, la media geometrica del premio per il rischio tra i vari mercati è solo del 4,04%, più bassa del 4,52% del mercato USA. La figura 5.1 riporta i premi per il rischio – ossia i rendimenti addizionali – ottenuti investendo in azioni piuttosto che titoli di Stato a breve e lungo termine nel periodo in questione per ciascuno dei diciassette mercati. In Francia, invece, le cifre corrispondenti sarebbero state del 9,27% e del 6,03%. Nella prima parte di questa sezione, rimarremo all'interno del mercato statunitense tentando di apportare delle modifiche al premio per il rischio facendo riferimento a specifiche caratteristiche dell'impresa (la capitalizzazione del mercato rappresenta l'esempio più comune). Nella seconda parte, estendiamo l'analisi osservando mercati emergenti come Asia, America Latina e Europa orientale, provando l'approccio basato sulla stima del premio per il rischio Paese che aumenta poi il premio per il rischio statunitense. Il primo si riferisce a se ci dovrebbe essere un premio per il rischio addizionale quando si valutano i titoli in questi mercati, dovuto al rischio Paese. Il secondo quesito si ricollega invece alla stima del premio per il rischio dei mercati emergenti. L'altro è considerare i rendimenti eccedenti come l'evidenza che i beta sono misure inadeguate del rischio e come compensazione del rischio tralasciato. Per giungere a questo premio gli analisti fanno riferimento ai dati storici sui rendimenti degli small cap stocks e del mercato, aggiustato per il beta risk, e attribuiscono il rendimento eccedente allo small cap effect. Tabella 6.8 Excess Returns per classi del valore di mercato: titoli USA 1927-2007 Se si aggiunge al costo del capitale delle piccole imprese uno small cap premium del 4-5%, senza attribuire tale premio ad un rischio specifico, siamo esposti al pericolo di conteggiare doppiamente tale rischio. 6.5.2. Il Premio per il Rischio Paese Per molti mercati emergenti, sono disponibili pochissimi dati storici, e quelli che esistono sono troppo volatili per giungere a una stima sensata del premio per il rischio. In questi casi, il premio per il rischio può essere così calcolato: Il premio per il rischio-Paese riflette il rischio addizionale associato a un mercato specifico. Per determinare il premio base per un mercato azionario maturo è opportuno fare riferimento al mercato azionario statunitense che, oltre ad essere il mercato finanziario più efficiente, offre dati storici sufficienti a ottenere una stima ragionevole del premio per il rischio. 1. Gli analisti che utilizzano i differenziali per il rischio di insolvenza come misure del rischio-Paese di solito li sommano sia al costo del capitale netto sia a quello del debito di ciascuna impresa quotata nel Paese in questione. Per esempio, il costo del capitale netto di una impresa brasiliana, stimato in dollari statunitensi, sarà del 2,15% maggiore del costo del capitale netto di un'impresa statunitense simile. Dato un premio per il rischio per i mercati azionari maturi (Stati Uniti) del 4,00% e un tasso privo di rischio del 3,80% (Treasury Bond statunitensi), il costo del capitale netto di una società brasiliana con un beta di 1,2 può essere stimato nel modo seguente: Alcuni analisti sommano il differenziale per il rischio di insolvenza al premio per il rischio statunitense, moltiplicando la somma così ottenuta per il beta. Questo procedimento risulta in un maggiore (minore) costo del capitale netto per le imprese con beta maggiore (minore) di 1. Volatilità del mercato azionario rispetto a mercati azionari maturi Alcuni analisti ritengono che i premi per il rischio azionario dei mercati debbano riflettere le differenze in termini di volatilità fra i diversi mercati. Una misura convenzionale del rischio azionario è la deviazione standard dei prezzi azionari: deviazioni standard più elevate indicano di solito un rischio maggiore. Questa deviazione standard relativa, moltiplicata per il premio utilizzato per le azioni statunitensi, fornisce una possibile stima del premio per il rischio totale di un mercato. Se assumiamo una relazione lineare tra il premio per il rischio e la deviazione standard del mercato azionario, oltre alla possibilità di calcolare il premio per il rischio del mercato statunitense (utilizzando ad esempio dati storici), allora il premio per il rischio del Paese X è: Assumiamo, per il momento, di utilizzare per gli Stati Uniti un premio per il rischio del 4%. La tabella 6.9 elenca i dati della volatilità del Paese per alcuni mercati emergenti ed i risultanti premi per il rischio totale e Paese per questi mercati, basato sull'assunzione che il premio per il rischio degli Stati Uniti sia del 4%. Tabella 6.9 Volatilità del mercato azionario e Premi per il rischio Per esempio, il premio per il rischio della Cina è 5,52%, utilizzando questo approccio, ben al di sopra del premio per il rischio di Nigeria, Namibia e Egitto, ognuno dei quali dovrebbe essere un mercato rischioso quanto la Cina. Differenziali per il rischio di insolvenza + volatilità del mercato rispetto ai titoli di Stato I differenziali per il rischio di insolvenza del Paese associati ai rispettivi rating, pur rappresentando una prima tappa importante, misurano soltanto il premio per il rischio di insolvenza. Per capire di quanto, si può calcolare la volatilità del mercato azionario di un Paese rispetto alla volatilità dei titoli di Stato utilizzati per la stima del premio per il rischio azionario del Paese. A titolo illustrativo, prendiamo il caso del Brasile. Il premio addizionale per il rischio azionario del Paese che ne risulta per il Brasile è il seguente: Va notato che il premio per il rischio del Paese aumenterà al crescere del differenziale per il rischio di insolvenza del Paese e della volatilità del mercato azionario. Inoltre, va ricordato che esso va sommato al premio per il rischio azionario di un mercato maturo. I primi due approcci per la stima dei premi per il rischio del Paese tendono a risultare in una stima più bassa rispetto al terzo. Nel caso del Brasile, per esempio, i premi per il rischio del Paese vanno dal 2,76% (secondo approccio), al 6,01% (primo approccio), fino a un picco del 4,43% (terzo approccio). Va ricordato che l'unico rischio rilevante ai fini della stima del costo del capitale netto è il rischio di mercato, ossia il rischio non diversificabile. Se, al contrario, i mercati azionari dei Paesi si muovono nella stessa direzione, il rischio-Paese avrà una componente di rischio di mercato no diversificabile e per la quale è necessario un premio. 7. PARAMETRI DI RISCHIO Gli ultimi dati di cui abbiamo bisogno per mettere in pratica i nostri modelli di rischio e rendimento sono i parametri di rischio per una specifica attività. Nel CAPM il beta di un'attività deve essere stimato rispetto al portafoglio di mercato. Nel contesto del CAPM, il beta viene poi ottenuto esaminando la relazione fra questi rendimenti e i corrispondenti rendimenti di un indice del mercato azionario. Infine, nell'APM è l'analisi fattoriale dei rendimenti azionari a fornire i vari beta. 7.1.1. Procedura per la stima dei parametri del CAPM Il beta di un'attività può essere stimato come coefficiente di una regressione dei rendimenti di una singola azione (Rj) sui rendimenti del mercato azionario (Rm). L'intercetta della regressione fornisce una semplice misura della performance effettivamente ottenuta nell'arco temporale analizzato, rispetto alla performance attesa alla luce del CAPM. Dal punto di vista finanziario va interpretato come proporzione del rischio complessivo di un'azione (varianza) attribuibile al rischio di mercato; ne segue che la differenza (1-R2) indica invece la proporzione del rischio complessivo di un'azione attribuibile al rischio specifico d'impresa. Un ultimo dato statistico di interesse è l'errore standard della stima del beta. La prima riguarda la durata del periodo di stima. 7.1.2. Procedura di stima dei parametri di rischio nell'APM e nel modello multifattoriale Come il CAPM, anche l'APM considera solo il rischio non diversificabile; tuttavia, nella misurazione del rischio, a differenza del CAPM, l'APM tiene conto di una molteplicità di fattori economici. Sebbene il processo di stima dei parametri di rischio sia diverso, molti problemi legati alle determinanti del rischio nel CAPM si presentano anche per l'APM. La derivazione del beta dai fondamentali rappresenta un approccio alternativo alla stima del beta, in cui si dà minore rilievo alla stima basata su dati storici e maggiore rilievo all'intuizione economica. Intensità della leva finanziaria (financial leverage) Il beta delle attività dell'impresa è la media ponderata del beta del capitale netto (rischio a carico degli azionisti) e del beta del debito (rischio a carico degli obbligazionisti). A parità di condizioni, a un aumento della leva finanziaria (cioè del rapporto d'indebitamento ) seguirà un aumento del rischio a carico degli azionisti (e quindi del beta del capitale netto). Il beta dell'insieme di due attività è la media ponderata del beta di ciascuna attività, con i pesi proporzionali al loro valore di mercato. 1. Calcolare il beta unlevered dell'impresa come media ponderata dei beta unlevered delle varie attività, usando come pesi la percentuale del valore di mercato dell'impresa rappresentata da ciascuna attività.
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"Da die demokratischen Institutionen und Haltungen weiterhin existieren, merken wir nicht, dass die Demokratie geschwächt und die Macht innerhalb des politischen Systems auf eine kleine Elite aus Politikern und Konzernen übergegangen ist, die eine Politik nach den Wünschen Letzterer betreiben."Dieses drastische Zitat, welches eine dramatische Betrachtung der gegenwärtigen Lage der westlichen Demokratien darstellt, ist nicht etwa aus dem Wahlprogramm einer populistischen Partei entnommen. Ebenso wenig sind es Auszüge aus einer Wutrede von Alice Weidel oder Sarah Wagenknecht. Diese rigorosen Worte stammen vom britischen Sozialwissenschaftler Colin Crouch und fassen weite Teile seiner Postdemokratie-These pointiert zusammen (Crouch 2021, S. 21).Die vermeintliche Nähe zu rechten Verschwörungsmythen und populistischen Narrativen von korrupten Eliten in angeblichen Scheindemokratien rückt Crouch auf den ersten Blick in kein gutes Licht (vgl. Mudde 2020, S. 55 f.). Ist er durch seine Kritik am Zustand der westlichen Demokratien womöglich als latenter Komplize der aufsteigenden Kräfte des rechtsradikalen Spektrums auszumachen?Hinsichtlich der evidenten Defizite in der Entwicklungsrichtung etablierter Demokratien der westlichen Hemisphäre erscheint eine kritische Analyse als durchaus sinnvoll. So bestätigt die Realität durch Wahlergebnisse und zahlreiche Umfragen beispielsweise zunehmend das vielzitierte Phänomen der Politikverdrossenheit sowie das verbreitete Misstrauen der Bürger*innen in Politik und deren Institutionen (vgl. Best et al. 2023, S. 18-21). Daher möchte der vorliegende Beitrag folgenden Fragestellungen nachgehen:Ist die Postdemokratie-These notwendige Kritik an politischen Missständen oder Wasser auf die Mühlen des Rechtspopulismus?Sind die Ausführungen Crouchs damit als Chance oder Gefahr für die Demokratie zu bewerten? Aus Gründen des begrenzten Umfangs beziehen sich die folgenden Ausführungen explizit auf den Rechtspopulismus und klammern den durchaus existierenden Populismus des politisch linken Spektrums aus. Angesichts des fortwährend wachsenden Einflusses politischer Akteur*innen der Neuen Rechten sowie der Verbreitung einschlägiger rechtsradikaler Narrative im öffentlichen Diskurs scheint dieser Fokus aktuell von ungleich größerer Bedeutung zu sein (vgl. Mudde 2020, S. 13-17).Der inhaltliche Gedankengang des Beitrags sei an dieser Stelle knapp skizziert: Die Leitfrage soll aus verschiedenen Perspektiven bearbeitet werden, um den ambivalenten Potenzialen der These Colin Crouchs gerecht zu werden. Dabei wird der schmale Grat zwischen angebrachter Kritik, welche zu einer verbesserten Demokratie beitragen kann, und der Nähe zu rechtspopulistischen Narrativen mit gegenteiliger Wirkung thematisiert.Insbesondere die zentralen Unterscheidungsmerkmale zwischen Crouchs analytischen Ausführungen und rechtspopulistischer Eliten-Kritik sollen anschließend als sinnvolle Abgrenzung herausgearbeitet werden. Dies wird als Schlüssel zu einer gewinnbringenden praktischen Verwertung der Postdemokratie-These betrachtet, um sie als Chance im Sinne einer konstruktiven Kritik an negativen Entwicklungen der westlichen Demokratien fruchtbar werden zu lassen.Colin Crouch: "Postdemokratie"Der britische Politikwissenschaftler und Soziologe Colin Crouch sorgte bereits in den frühen 2000er Jahren mit Veröffentlichungen um seine These der Postdemokratie für internationales Aufsehen. Seine Gegenwartsanalyse beschreibt einige Tendenzen, die insbesondere in den etablierten Demokratien der westlichen Welt zu beobachten sind und durch komplexe Zusammenhänge eine zunehmende Schwächung der Demokratie bedeuten.Gemäß der Wortneuschöpfung mit der bedeutungsschweren Vorsilbe "post" charakterisiert er den aktuellen Zustand als Niedergang der lebhaften Demokratie nach der politischen und gesellschaftlichen Hochphase demokratischer Prozesse. Solch ein vergangener "Augenblick der Demokratie" (Crouch 2021, S. 22) zeichne sich in der Theorie durch die Verwirklichung sämtlicher demokratischer Ideale aus. Insbesondere eine lebendige Zivilgesellschaft partizipiert dabei öffentlich am politischen Prozess, wobei die aktive Beteiligung der gleichberechtigten Bürger*innen über den regelmäßigen Gebrauch des Wahlrechts hinausgeht. Eine angemessene und wirkungsvolle Verbindung zwischen dem Staat und seinen Bürger*innen gewährleistet eine funktionierende Repräsentation der Bevölkerung durch demokratisch legitimierte politische Amtsträger*innen (vgl. Crouch 2021, S. 22 f.).Die neoliberale Vorherrschaft in grundlegenden politischen Entscheidungen und Handlungen seit den 1980er Jahren führte zu wachsender Ungleichheit, die auch im politischen Diskurs spürbar wurde. So dominieren in Folge von ökonomischer Globalisierung und der Entstehung mächtiger Megakonzerne wirtschaftliche Eliten zunehmend den politischen Diskurs sowie durch gezielten Lobbyismus den Raum der politischen Entscheidungsfindung.Demokratische Prozesse werden subtil ausgehöhlt, indem Wirtschaftseliten den Platz von formal gleichberechtigten Bürger*innen als bedeutendste Instanz im demokratischen Raum einnehmen. Dies führe mitunter zu einer folgenschweren einseitigen Zuwendung politischer Akteur*innen hin zu wirtschaftlichen Eliten und deren Interessen der Profitsteigerung, was mit einer symptomatischen Entfremdung der Volksvertreter*innen von der zu repräsentierenden Bevölkerung einhergehe (vgl. Crouch 2021, S. 9 f.; S. 24-26). Der renommierte Philosoph und Soziologe Jürgen Habermas fasst die Zusammenhänge der These bezüglich der vorherrschenden neoliberalen Ideologie pointiert zusammen:"Ich habe den Begriff 'Postdemokratie' nicht erfunden. Aber darunter lassen sich gut die politischen Auswirkungen der sozialen Folgen einer global durchgesetzten neoliberalen Politik bündeln." (Habermas 2022, S. 87)Ein weiterer einschneidender Umbruch ist in der Zivilgesellschaft selbst verortet. So nimmt die herkömmliche Bindung an soziale Klassen und Kirchen als gesellschaftliche und politische Verortung der kollektiven Milieus innerhalb einer Gesellschaft seit Jahrzehnten massiv ab. Damit gehe in vielen Fällen auch ein Raum der politischen Betätigung und Meinungsbildung verloren, was zuweilen zur politischen Orientierungslosigkeit der Bürger*innen führe. Dies erschwere das Aufrechterhalten der Bindung politischer Akteur*innen an deren Basis in vielerlei Hinsicht. Denn nicht zuletzt orientiert sich auch die etablierte Parteienlandschaft an den einst zentralen sozialen Zugehörigkeiten der Bürger*innen (vgl. Crouch 2021, S. 26-30).Rund 20 Jahre nach den ersten einschlägigen Veröffentlichungen erneuerte Crouch seine These mit einigen Ergänzungen und Korrekturen, welche vor dem Hintergrund zeitgeschichtlicher Entwicklungen durch den Abgleich mit der politischen Realität notwendig erschienen. Doch die Kernthese der Postdemokratie blieb grundlegend erhalten (vgl. Crouch 2021, S. 10-17):
Als knapper inhaltlicher Exkurs am Rande der Kernthematik sei an dieser Stelle ein kritischer Vermerk bezüglich relevanter politischer Entwicklungen seit 2020 eingefügt. Nach der Veröffentlichung der Originalausgabe des Buches "Postdemokratie revisited", welches die damals aktualisierte Version der Postdemokratie-These von Colin Crouch hinsichtlich veränderter politischer Umstände enthält, sind einschneidende weltpolitische Ereignisse zu bedeutenden Prägefaktoren der transnationalen und nationalen Politiken geworden.Die Corona-Pandemie und der anhaltende russische Angriffskrieg auf die Ukraine führten zu politischen Entscheidungen, welche mitunter unmittelbar spürbar für große Teile der Bürger*innen waren und dies noch immer sind. Damit einhergehend wurde eine zunehmende Politisierung der Bevölkerung einiger demokratischer Staaten beobachtet (vgl. Beckmann/Deutschlandfunk 2021). In der deutschen Gesellschaft sind zudem seit einigen Wochen zahlreiche Demonstrationen gegen Rechtsextremismus zu verzeichnen, welche vom Soziologen und Protestforscher Dieter Rucht bereits als "größte Protestwelle in der Geschichte der Bundesrepublik" bezeichnet wurden (Fuhr/FAZ.NET 2024).Crouch spricht in diesem Kontext aktuell von einer durchaus verbreiteten Abneigung gegenüber den rechtsextremen Strategien von Hass und Hetze in entwickelten demokratischen Gesellschaften. Diese müsse aktiviert und politisch mobilisiert werden im Sinne einer gestärkten Demokratie gegen rechtsextreme Bestrebungen. Doch könne dies lediglich einhergehend mit ökonomischen Lösungen der wachsenden sozialen Ungleichheit seitens der politischen Akteur*innen nachhaltig wirksam werden (vgl. Hesse/fr.de 2024). Nicht außer Acht zu lassen sind diese zuweilen folgenschweren Ereignisse in der politischen und zeitgeschichtlichen Gesamtschau, wenngleich die zahlreichen raschen politischen sowie demoskopischen Wendungen der vergangenen Jahre in den folgenden Ausführungen nicht umfänglich Berücksichtigung finden können.Relevanz der AnalyseWie bereits das zustimmende Zitat des namhaften zeitgenössischen Philosophen Habermas im vorausgehenden Abschnitt anklingen lässt, treffen Crouchs Ausführungen hinsichtlich zahlreicher analysierter Missstände politischer und gesellschaftlicher Art durchaus zu. So wird die Relevanz der kritischen Gegenwartsanalyse bezüglich einiger Aspekte in Teilen angesichts der Studienergebnisse zum Thema "Demokratievertrauen in Krisenzeiten" der Friedrich-Ebert-Stiftung aus dem Jahr 2023 deutlich.Unter Berücksichtigung der multiplen Krisen der Gegenwart wurden in einer repräsentativen Zufallsstichprobe volljährige wahlberechtigte Deutsche zu Themen befragt, welche die Funktionalität des repräsentativ-demokratischen Systems sowie den gesellschaftlichen Zusammenhalt betreffen (vgl. Best et al. 2023, S. 5 f.). Dabei konnte ermittelt werden, dass etwas mehr als die Hälfte der Befragten unzufrieden ist mit dem gegenwärtigen Funktionieren der Demokratie. Obgleich in der Gegenüberstellung mit der Vorgängerstudie aus dem Jahr 2019 ein leichter Rückgang dieses Prozentsatzes auszumachen ist, muss ein anhaltend hohes Niveau der generellen Unzufriedenheit bezüglich der Funktionalität unseres politischen Systems diagnostiziert werden (vgl. Best et al. 2023, S. 17 f.).Dass der soziale Status der befragten Bürger*innen als einflussreicher Parameter in dieser Frage herausgestellt werden konnte, lässt sich widerspruchsfrei in Crouchs Analyse der zunehmend elitär gestalteten Politik einfügen. Denn es erscheint folgerichtig, dass Menschen aus unteren sozialen Schichten mit vergleichsweise wenig Einkommen häufiger unzufrieden sind mit dem politischen System, in welchem vermehrt die Interessen höherer sozio-ökonomischer Gruppen begünstigt werden (vgl. Crouch 2021, S. 44-47).Außerdem beklagen deutliche Mehrheiten in der Befragung die Undurchschaubarkeit komplexer Politik sowie unzureichende Möglichkeiten der politischen Partizipation, was Crouchs Ausführungen zur Entpolitisierung der Mehrheitsgesellschaft im Zuge der zunehmenden Politikverdrossenheit bestärkt (vgl. Best et al. 2023, S. 18-20). Vor die Wahl verschiedener Regierungsmodelle gestellt, bevorzugt lediglich ein Drittel der Befragten die repräsentative Demokratie, während beinahe die Hälfte zur direkten Demokratie tendiert (vgl. Best et al. 2023, S. 21 f.).Passend dazu ist das Vertrauen in die politischen Institutionen lediglich hinsichtlich der Judikative, dem Bundesverfassungsgericht, bei der großen Mehrheit unter den befragten Bürger*innen in hohem Ausmaß vorhanden. Der eklatant angestiegene Anteil der Menschen ohne jegliches Vertrauen in das Parlament und die Bundesregierung könnte im Sinne Colin Crouchs als Folge der Entfremdung der politischen Akteur*innen vom Großteil der Bevölkerung gekennzeichnet werden (vgl. Best et al. 2023, S. 26-31; Crouch 2021, S. 216 f.).Ein weiterer zentraler Kritikpunkt Crouchs wird sinngemäß durch die Frage nach konkreten Problemen der deutschen Demokratie angesprochen. So sehen über 70 Prozent der Befragten den Einfluss von Lobbygruppen als problematisch an, wobei sich diese Ansicht in vergleichbarer Weise durch alle politischen Lager zieht. Colin Crouchs kritischer Blick bezüglich eines überbordenden Lobbyismus mit unverhältnismäßigem Einfluss im politischen Prozess wird somit durch diese Studie demoskopisch gestützt (vgl. Best et al. 2023, S. 32 f.; Crouch 2021, S. 68 f.).Auch andere wissenschaftliche Veröffentlichungen, wie der aktuelle "Transformationsindex BTI 2024" der Bertelsmann-Stiftung, analysieren einen ähnlichen Zustand der politischen und gesellschaftlichen Lage westlicher Demokratien im Sinne einer akuten Krise des Liberalismus vor dem Hintergrund der neoliberalen Vorherrschaft.Das positive Potential der Postdemokratie-These liegt angesichts der ernstzunehmenden Problematiken in einer möglichen Stärkung der Demokratie durch praktische Konsequenzen auf Grundlage dieser kritischen Befunde. Praktische Ansätze im Bereich der strenger regulierten Lobbyarbeit sowie neue Formen der Bürger*innenbeteiligung sind bereits Teil der politischen Agenda und werden erprobt. Ob diese den Zweck einer erstarkenden Demokratie real erfüllen werden, ist aktuell noch offen. Im besten Falle können gestärkte demokratische Strukturen nicht zuletzt demokratiegefährdende Akteur*innen aus dem rechtspopulistischen und rechtsextremen Spektrum zurückdrängen.Jedoch klingt an dieser Stelle ein Widerspruch an. Denn stärkt nicht gerade Crouchs Framing der Kritik an politischen Eliten und an der Entwicklung des politischen Systems die antidemokratischen radikalen Kräfte am rechten Rand angesichts der vermeintlichen narrativen Überschneidungen?Parallelen zu rechtspopulistischen NarrativenCrouch selbst schreibt in seinem Buch von neuen "Bewegungen […], die ähnliche Klagen über die heutigen Demokratien vorzubringen scheinen, wie ich sie in Postdemokratie geäußert habe, und insbesondere den Vorwurf äußern, dass die Politik von Eliten dominiert werde, während normale Bürger kein Gehör mehr fänden." (Crouch 2021, S. 136).Gemeint sind aufsteigende populistische Gruppierungen und Parteien, wovon jenen aus dem rechtsradikalen Lager aktuell die höchste politische Relevanz beigemessen wird. Um die Leitfrage des Beitrags angemessen multiperspektivisch zu beleuchten, sollen nun die vermeintlichen Gemeinsamkeiten zwischen den Erkenntnissen des britischen Sozialwissenschaftlers und rechtspopulistischen Narrativen herausgestellt sowie kritisch betrachtet werden.Die augenscheinlichste Parallele liegt im Bereich der Elitenkritik, wie Crouch es im angeführten Zitat selbst andeutet. Politische Entscheidungsträger*innen und wirtschaftliche Eliten handeln überwiegend im eigenen Interesse und entfernen sich dabei immer mehr von den Bürger*innen, insbesondere von jenen mit geringem sozialen Status, und deren Anliegen. Diese Analyse Crouchs erinnert an die rechtspopulistische Dichotomie, welche die abgehobene Elite dem normalen Volk gegenüberstellt. Der Wille des Volkes werde gemäß diesem Narrativ von der etablierten Politik bewusst übergangen (vgl. Crouch 2021, S. 41 f.; Mudde 2020, S. 55 f.).Doch bereits in der Formulierung wird ein zentraler Unterschied hinsichtlich der Vorstellung der regierten Bürger*innen deutlich. So wird im rechtspopulistischen Narrativ das Volk als homogene Masse mit einheitlichem Willen angesehen, während Crouch von Bürger*innen mit verschiedenen sozioökonomischen Hintergründen und pluralen Interessen spricht (vgl. Wodak/bpb 2023; Crouch 2021, S. 258 f.).Die Globalisierung als nach wie vor prägende Entwicklung mit Auswirkungen auf alle gesellschaftliche Sphären ist Anhaltspunkt einer weiteren vermeintlichen Schnittmenge. Als hintergründige Ursache für die zunehmende Entfremdung politischer Akteur*innen von weiten Teilen der Bevölkerung sowie für den unverhältnismäßig hohen Einfluss kapitalorientierter Großkonzerne konstatiert Crouch die Globalisierung der Wirtschaft.Des Weiteren führe die Tatsache, dass Wirtschaftspolitik vor diesem Hintergrund weitgehend auf transnationaler Ebene betrieben wird, zu einem Bedeutungsverlust der nationalstaatlichen Politik. Debatten im nationalen Kontext seien somit laut Crouch oftmals als politisch gegenstandslose Scheindebatten zu kennzeichnen (vgl. Crouch 2021, S. 25 f.). Diese Beschneidung des Nationalstaats durch eine zunehmende Globalisierung wird von Akteur*innen der Neuen Rechten im Sinne ihres charakteristischen Nationalismus massiv beklagt. Damit einher geht eine misstrauische bis konsequent ablehnende Haltung gegenüber transnationaler Politik insbesondere bezüglich einschlägiger Institutionen wie der Europäischen Union (vgl. Mudde 2020, S. 56-59; S. 132 f.).Populist*innen gerieren sich grundsätzlich als wahre Stimme des Volkes, welches exklusiv durch sie vertreten werde in einem von eigennützigen Eliten regierten System (vgl. Mudde 2020, S. 46). Hinsichtlich der Postdemokratie-These lässt dies vermuten, dass populistische Bewegungen als basisdemokratischer Stachel im Fleisch der Postdemokratie charakterisiert werden können. Mitunter würde das die massive Abneigung der etablierten Parteien ihnen gegenüber erklären (vgl. Crouch 2021, S. 139-141).An dieser Stelle könnte auf eine zumindest teilweise Zustimmung Colin Crouchs hinsichtlich rechtspopulistischer Narrative geschlossen werden. Im Vorgriff auf die Ausführungen der folgenden Abschnitte sei jedoch vor einer voreiligen Gleichsetzung ohne die notwendige politikwissenschaftliche Differenzierung gewarnt. So weist Crouch selbst deutlich auf die Diskrepanz hin, welche die antidemokratischen Tendenzen rechtspopulistischer Bewegungen zweifellos von einer zukunftsorientierten Kritik an postdemokratischen Problemen trennt (vgl. Crouch 2021, S. 139).GefahrenpotentialIst Crouchs These angesichts der verwandten Anklagen Wasser auf die Mühlen der Rechtspopulist*innen? Trägt die Publizierung seiner massiven Kritikpunkte womöglich zur fortschreitenden Enttabuisierung radikaler Positionen im öffentlichen Diskurs bei?In der aktuellen politischen und gesellschaftlichen Debatte lässt sich eine einflussreiche rechtspopulistische Strategie der Diskursverschiebung beobachten. Einschlägige illiberale Narrative werden hierbei im politischen Diskurs salonfähig durch schrittweises Verrücken der roten Linien, welche das legitime demokratische Meinungsspektrum umgrenzen. Das "Perpetuum mobile des Rechtspopulismus" (Wodak/bpb 2023) lässt in einem schleichenden Prozess xenophobe und diskriminierende Haltungen durch kalkulierte rhetorische Grenzüberschreitungen rechtspopulistischer Akteur*innen zunehmend vertretbar erscheinen.Des Weiteren wird so Einfluss auf die Themensetzung im demokratischen Diskurs genommen, was nicht zuletzt durch die partielle Übernahme seitens ursprünglich gemäßigter konservativer Parteien des politischen Establishments befördert wird. Die beobachtbare Diskursverschiebung stellt eine ernstzunehmende Gefahr für liberale Demokratien dar, wie bereits an autokratischen Entwicklungen in einigen Ländern mit Regierungen des äußerst rechten Spektrums abzulesen ist (vgl. Wodak/bpb 2023).Crouchs Ausführungen bezüglich postdemokratischer Tendenzen bergen insbesondere mit Blick auf die Elitenkritik das Gefahrenpotential einer narrativen Instrumentalisierung durch illiberale Akteur*innen. Doch hinsichtlich eines entscheidenden Aspekts eignet sich die Argumentation Colin Crouchs nur schwerlich als Hilfestellung zur Enttabuisierung rechtsradikaler Positionen. So sind vereinfachende Schuldzuweisungen mitnichten Teil der analytischen Ausführungen Crouchs, und es werden keine Feindbilder unter gesellschaftlichen Minderheiten ausgemacht, was der zentralen Ideologie der äußersten Rechten entgegensteht (vgl. Crouch 2021, S. 143 f.). Vortrag von Ruth Wodak über Rechtsruck und Normalisierung: Die von Crouch geforderte Politisierung der Zivilgesellschaft sollte in diesem Zusammenhang nicht mit der fortschreitenden Polarisierung der Öffentlichkeit einhergehen oder gar gleichgesetzt werden. Dies würde gefährliche aktuelle Tendenzen der gesellschaftlichen Spaltung verstärken und somit den gesellschaftlichen Zusammenhalt zusätzlich gefährden. In jener Hinsicht kann enorme politische und gesellschaftliche Polarisierung Demokratien destabilisieren, wie dies beispielsweise in der US-Amerikanischen Gesellschaft zu beobachten ist (vgl. Crouch 2021, S. 150-154). Unter Berücksichtigung dieses Gesichtspunktes können soziale Bewegungen der äußersten Rechten kaum als anerkennenswerte Belebung der Demokratie gewertet werden, ganz zu schweigen von der antidemokratischen Ideologie, welche dahintersteht (vgl. Mudde 2020, S. 152-155).Crouch selbst geht im Buch in einem eigenen Kapitel auf die "Politik des nostalgischen Pessimismus" (Crouch 2021, S. 136) ein und stellt durch eine eingehende Analyse der populistischen Strategien und Inhalte eine kritische Distanz zu einschlägigen Bewegungen heraus. Insbesondere den Rechtspopulismus heutiger Akteur*innen der Neuen Rechten ergründet der Soziologe als antipluralistisch, antiegalitär und im Kern antidemokratisch, wenngleich diese Ausrichtungen in vielfältiger Weise öffentlich verschleiert werden (vgl. Crouch 2021, S. 169-172).ZwischenfazitDie Postdemokratie-These hat Potenziale für beide politischen Stoßrichtungen, welche in der Leitfrage des Beitrags pointiert gegenübergestellt wurden. Entscheidend sind ein reflektierter Umgang mit den Analysen sowie die gebotene Einordnung der Schlussfolgerungen im jeweiligen politischen Kontext. Zweifelsfrei ist dabei die Maxime zu beachten, niemals den Populismus antidemokratischer Kräfte zu stärken. Gleichermaßen darf die mögliche Angst vor dem schmalen Grat zwischen reflektierter sozialwissenschaftlicher Kritik und rechtspopulistischer Aufwiegelung keinesfalls zur Ignoranz postdemokratischer Missstände führen. Denn im Sinne von Jan-Werner Müllers Definition von Populismus sind "[a]lle Populisten [..] gegen das »Establishment« – aber nicht jeder, der Eliten kritisiert, ist ein Populist." (Müller 2016, S. 18 f.).Um die missbräuchliche argumentative Übernahme von Crouchs These durch demokratiefeindliche Rechtspopulist*innen wirksam zu verhindern, ist eine differenzierte Klarstellung im Sinne der politischen Einordnung von Crouchs Analysen erforderlich.Lösungsansatz: DifferenzierungAls Schlüssel zur fruchtbaren Berücksichtigung von Crouchs These im politikwissenschaftlichen und gesamtgesellschaftlichen Diskurs kann die Differenzierung zur Abgrenzung von rechtspopulistischen Narrativen dienen. Eine deutliche Unterscheidung ist im Sinne Colin Crouchs herauszustellen und in der Argumentation im Kontext der öffentlichen Debatte stets zu beachten, um sich deutlich von rechtspopulistischen Parolen abzugrenzen. So kann einer drohenden Enttabuisierung radikaler Positionen vorgebeugt werden, um diese Gefahr für die liberale Demokratie nicht zusätzlich argumentativ zu stützen. Zentrale Unterscheidungsmerkmale sollen nachfolgend erläutert werden.Rechtspopulistische Bewegungen sind lediglich vordergründig für mehr Demokratie und Mitbestimmung des Volkes. Denn im Kern widersprechen ihre kennzeichnenden Ideologeme liberaldemokratischen Werten, wie insbesondere der Antipluralismus deutlich macht. Die antipluralistische Ideologie steht in enger Verbindung mit dem exklusivistischen Vertretungsanspruch des Volkes und deren homogenen Interessen. Alle Gruppen und Individuen, welche sich aus diversen Gründen nicht diesem normalen Volk zurechnen lassen, werden rhetorisch exkludiert und sind Feindbilder der Rechtspopulist*innen. Dieser xenophobe Antipluralismus veranlasst die grundlegende Einordnung jener Bewegungen als illiberal und antidemokratisch (vgl. Wodak/bpb 2023).Crouch dagegen plädiert für die plurale Interessensvertretung heterogener Gruppen und Individuen als gleichberechtigte Teile einer demokratischen Gesellschaft. Darüber hinaus wird die Emanzipation jeglicher unterdrückter Gruppen innerhalb Crouchs Theorie als erstrebenswerter Moment der Demokratie angesehen, was in diametralem Gegensatz zum ideologischen Antifeminismus und Rassismus sowie zur Queerfeindlichkeit der äußersten Rechten steht (vgl. Crouch 2021, S. 22 f.).Das Verhältnis zum neoliberalen Kapitalismus markiert ebenfalls eine signifikante Differenz zwischen Crouchs Thesen und vorherrschenden Denkweisen der äußersten Rechten. Akteur*innen rechtspopulistischer Politik weisen deutliche antiegalitäre Überzeugungen auf, was programmatisch beispielsweise im angestrebten faktischen Abbau des Sozialstaats ersichtlich wird. Politisch forcierte Umverteilung im Sinne stärkerer sozialer Gerechtigkeit und striktere Regulierung von Lobbyarbeit, wie es von Crouch gefordert wird, steht dieser antiegalitären Haltung entgegen. Der sozialpolitisch im linken Spektrum einzuordnende Soziologe Crouch zeigt sich deutlich kritisch gegenüber neoliberal dominierter Politik und der Macht von Wirtschaftseliten. Als grundlegender zentraler Angriffspunkt der politischen Entwicklungen seit mehreren Jahrzehnten gilt der Neoliberalismus innerhalb seiner gesamten Analyse (vgl. Crouch 2021, S. 143; S. 234-238).Die Art der Beschreibung von Ursachen hinter beklagten Problemen der aktuellen politischen Situation stellt ein weiteres Unterscheidungsmerkmal dar. So weisen rechtspopulistische Narrative zuvörderst liberale Eliten und Migrant*innen als schuldige Sündenböcke aus, wobei diesen Akteur*innen prinzipiell unlautere Absichten unterstellt werden. Die vereinfachende Personifizierung von Schuld fungiert als bedeutender Aspekt der rechtspopulistischen Kommunikationsstrategien (vgl. Mudde 2020, S. 49-56).Die kritische Auseinandersetzung Crouchs mit postdemokratischen Tendenzen hingegen ist geprägt von der Darstellung komplexer Zusammenhänge von multiplen Ursachen. Simple Schuldzuweisungen werden dabei vermieden (vgl. Crouch 2021, S. 9; S. 24-26). Generell unterscheiden sich die Ausführungen Colin Crouchs im Charakter diametral von rechtspopulistischen Narrativen. Die nüchterne sozialwissenschaftliche Analyse beinhaltet die Herausarbeitung komplexer Entwicklungen und Zusammenhänge, während der Rechtspopulismus von allgemeiner Vereinfachung mit personalisierten Schuldzuweisungen und Feindbildern geprägt ist, welche zentrale Bestandteile rechtspopulistischer Kommunikation sind (vgl. Wodak/bpb 2023).FazitZusammenfassend ist zunächst die Relevanz der kritischen Ausführungen Crouchs zu rekapitulieren. Um die Zukunftsvision einer verbesserten Demokratie mit konkreten Maßnahmen anzustreben, ist eine analytische Grundlage bezüglich gegenwärtiger Probleme von Nöten, welche in der Postdemokratie-These gefunden werden kann. Die Ambivalenz der These angesichts einer möglichen Instrumentalisierung durch Populist*innen wurde verdeutlicht, wenngleich keine konkreten Zusammenhänge zwischen Crouchs These und dem Aufstieg der neuen Rechten nachgewiesen werden konnten.Die anschließende Erläuterung der Unterscheidungsmerkmale stellt eine unzweifelhafte Abgrenzung der Postdemokratie-These von der polemischen Ideologie der Rechtspopulist*innen dar. Dies verdeutlicht die aktuelle Notwendigkeit, im gesellschaftlichen Diskurs auf differenzierte Weise Entwicklungen des politischen Systems zu kritisieren, ohne dabei Wasser auf die Mühlen des Rechtspopulismus zu geben. Denn die Gefahr, haltlose rechtspopulistische Parolen durch unangemessene Gleichsetzungen mit sachlichen Gegenwartsanalysen soziologisch aufzuladen und damit substantiell zu überhöhen, ist schließlich nicht zu missachten. Wenn jedoch die sozialwissenschaftlichen Analysen der Postdemokratie-These Crouchs wahrheitsgetreu Eingang in die politische Debatte finden, könnten sie der polemischen Argumentation vom rechten Rand die Substanz entziehen und diese als antidemokratisch entlarven, ohne dabei angezeigte Kritik am Status Quo der etablierten Demokratien auszuklammern.Die Fähigkeit zu einer solchen Differenzierung stellt insbesondere für angehende politische Bildner*innen eine bedeutende Kompetenz dar. Neben der stetigen Arbeit an den eigenen Fähigkeiten in diesem bedeutsamen Bereich kommt Lehrkräften die elementare Aufgabe zu, die Kompetenz der reflektierten Differenzierung an Schüler*innen zu vermitteln. Denn diese ist unerlässlich hinsichtlich der übergeordneten Zielperspektive, sie zu mündigen Bürger*innen als Teil einer lebendigen Demokratie werden zu lassen. Insbesondere angesichts der zunehmenden Polarisierung sämtlicher politischer und gesellschaftlicher Themen, die nicht zuletzt durch den Einfluss von Sozialen Medien und deren einschlägigen Mechanismen gefördert wird, ist dieser Ansatz nicht zu unterschätzen (vgl. Crouch 2021, S. 259 f.).Außerdem sind neue politische und gesellschaftliche Entwicklungen stets mitzudenken, was die Notwendigkeit einer fortwährenden Aktualisierung der sozialwissenschaftlichen Gegenwartsanalyse Colin Crouchs hervorhebt und eine stetige kritische Prüfung der Postdemokratie-These vor dem Hintergrund neuartiger Entwicklungen zweifellos miteinschließt.LiteraturBeckmann, Andreas (2021): Pandemie und Demokratie. Wurde der Kurs in der Corona-Politik ausreichend ausgehandelt? (Deutschlandfunk vom 02.09.2021), https://www.deutschlandfunk.de/pandemie-und-demokratie-wurde-der-kurs-in-der-corona-100.html [25.03.2024].Best, Volker; Decker, Frank; Fischer, Sandra et al. (2023): Demokratievertrauen in Krisenzeiten. Wie blicken die Menschen in Deutschland auf Politik, Institutionen und Gesellschaft? Friedrich-Ebert-Stiftung e.V. (Hrsg.), Bonn.Crouch, Colin (2021): Postdemokratie revisited, Suhrkamp: Berlin.Fuhr, Lukas (2024): Protestforscher Dieter Rucht: "Der Höhepunkt der Demowelle liegt wohl hinter uns" (FAZ.NET vom 16.02.2024), https://www.faz.net/aktuell/politik/inland/demos-gegen-rechtsextremismus-werden-laut-protestforscher-nachlassen-19518795.html#void [20.03.2024].Habermas, Jürgen (2022): Ein neuer Strukturwandel der Öffentlichkeit und die deliberative Politik, Suhrkamp: Berlin.Hesse, Michael (2024): "Im Westen hält die Brandmauer noch": Politologe Colin Crouch über Rechtsextremismus (Frankfurter Rundschau vom 12.02.2024), https://www.fr.de/kultur/gesellschaft/rechtsextremismus-politologe-colin-crouch-im-westen-haelt-die-brandmauer-noch-populismus-92826654.html [20.03.2024].Mudde, Cas (2020): Rechtsaußen. Extreme und radikale Rechte in der heutigen Politik weltweit, Dietz: Bonn.Müller, Jan-Werner (2016): Was ist Populismus?, Suhrkamp: Berlin.Wodak, Ruth (2023): Rechtspopulistische Diskursverschiebungen, in: Aus Politik und Zeitgeschichte (bpb.de vom 20.10.2023), https://www.bpb.de/shop/zeitschriften/apuz/diskurskultur-2023/541849/rechtspopulistische-diskursverschiebungen/ [26.03.2024].
L'invecchiamento della popolazione è un processo irreversibile e un cambiamento globale senza precedenti che l'umanità intera deve affrontare e gestire. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 le persone con oltre 60 anni saranno quasi 2 miliardi (World Health Organization 2012, 6). Le cause sono riconducibili a due importanti fattori: il calo delle nascite e il progressivo allungamento della vita, i quali stanno provocando una graduale ma inevitabile riduzione della quota di popolazione giovane a vantaggio di quella più adulta. Prenderne atto costituisce solamente il primo passo verso la consapevolezza che queste dinamiche demografiche stanno mutando non solo la struttura della popolazione, ma anche quella della società con tutti i rapporti e le relazioni che in essa avvengono. In una sorta di reazione a catena sociale, sono destinate a cambiare anche le strutture produttive, gli schemi culturali, il welfare, i consumi, il mercato del lavoro, i rapporti intergenerazionali: in sostanza va progressivamente ripensata l'intera società in vista delle sfide che si dovranno necessariamente affrontare. In particolare, l'aumento dell'età di una popolazione pone questioni importanti in relazione ai riassetti del mercato del lavoro e dei sistemi pensionistici (questi ultimi non sono oggetto di studio nella ricerca). Infatti, la combinazione tra i fattori demografici precedentemente descritti, le barriere all'ingresso delle giovani generazioni e gli interventi volti a ristabilire l'equilibrio finanziario del sistema pensionistico pubblico (la cosiddetta riforma Fornero del 2011), ha profondamente ridisegnato la struttura per età del mercato del lavoro italiano degli ultimi venti anni circa, contribuendo alla crescita dell'offerta di lavoro collocata nella seconda parte della carriera lavorativa. Il presente contributo concentra l'analisi sugli effetti che l'invecchiamento sta producendo sulla forza lavoro e nel mercato del lavoro, tentando di riflettere su alcuni aspetti intorno ai quali si sta declinando il discorso sul rapporto fra policy, invecchiamento e mercato del lavoro, nell'ottica di approfondire le trasformazioni in corso, sui problemi aperti di cui danno riscontro le statistiche inerenti il mercato del lavoro. In questo contesto, la ricerca è divisa in tre parti. Nella prima si approfondiscono le principali definizioni della tematica oggetto di studio cercando di fornire anche un breve quadro demografico dello scenario italiano con l'utilizzo dei dati dell'Indagine Istat "Rilevazione sulle Forze di Lavoro"; la seconda esplora le modalità con cui le aziende hanno affrontato i recenti mutamenti demografici ed economici nonché le scelte gestionali adottate specificamente in relazione al fattore età attraverso i dati dell'Indagine Inapp " La gestione della forza lavoro matura da parte delle piccole e medie imprese private italiane"; infine la terza analizza i risultati dell'Indagine Istat riguardante "La partecipazione degli adulti alle attività formative", in quanto proprio queste ultime possono svolgere un ruolo chiave, non solo per contrastare il declino delle competenze, ma anche per favorirne l'aggiornamento e l'ampliamento costante, specialmente per la popolazione in età avanzata. In particolare, dall'indagine con oggetto le piccole medie imprese realizzata dall'Inapp emerge, sostanzialmente, che la composizione demografica dell'impresa non rappresenta un ostacolo allo sviluppo. Le PMI non considerano l'età un fattore determinante per il rendimento professionale di un lavoratore, mentre in fase di reclutamento del proprio personale le imprese privilegiano sia l'esperienza che le competenze professionali. L'esperienza viene spesso vista come garanzia di qualità e ciò è sottolineato dall'importanza della trasmissione della conoscenza e del saper fare: spesso infatti i lavoratori anziani istruiscono, attraverso corsi, i lavoratori in entrata. Nonostante la considerazione prevalentemente di "svantaggio", con la quale viene percepito l'invecchiamento, cresca con l'aumentare della numerosità aziendale, proprio le imprese più grandi sembrano adottare comportamenti virtuosi in una prospettiva di sviluppo a lungo termine, nell'ottica dell'intero ciclo di vita lavorativo di ciascun individuo e delle politiche di gestione delle differenze. Tali comportamenti sono anche in linea con quanto auspicato dall'Unione Europea che ha posto l'accento sull'opportunità di sviluppare politiche in un'ottica di ciclo di vita, piuttosto che di target group isolati, seguendo un approccio orientato alla gestione dell'età e della diversità lungo tutto l'arco dello sviluppo professionale, che tenga conto dell'evolversi del rapporto fra individui, mercato del lavoro e vita familiare. Pertanto, nelle medie aziende e ancor di più in quelle di grandi dimensioni, è più probabile rilevare politiche e interventi strutturati rivolti all'età nell'ambito delle gestione delle risorse umane, nonché esperienze ispirate a criteri di responsabilità sociale e sviluppate in un'ottica di lungo periodo che contribuiscono alla costruzione dell'identità aziendale all'interno del sistema territoriale. In generale, a prescindere dalla dimensione aziendale, le imprese non vivono l'invecchiamento delle proprie risorse umane particolarmente come un problema, ma piuttosto come una risorsa per la crescita dell'intero sistema produttivo, considerandolo sostanzialmente un vantaggio, un'opportunità, e nel contempo individuano nella formazione uno degli strumenti principe dei processi ri-organizzativi e per lo sviluppo dei percorsi di carriera, anche se declinato in modalità differenziate in relazione alla tipologia aziendale. Il percorso che dovrebbero intraprendere le piccole e medie imprese, e che le grandi hanno già intrapreso, nell'affrontare il problema dell'invecchiamento dei lavoratori sembra caratterizzato da alcuni passaggi obbligati che vanno da una prima fase di sensibilizzazione al tema dell'ageing, una seconda con l'implementazione di interventi specifici, passando attraverso una fase propedeutica di analisi della composizione demografica del personale (mirata a identificare l'incidenza e le caratteristiche dei lavoratori più anziani, rispetto alla popolazione aziendale complessiva o in relazione alle altre generazioni di lavoratori), fino a una terza fase, altrettanto importante, di progettazione, attuazione e valutazione di "progetti pilota" e politiche mirate. Complessivamente, gli interventi analizzati sono riconducibili a tre tematiche prioritarie - formazione, valorizzazione dell'esperienza e sostegno al dialogo intergenerazionale - la cui finalità generale è quella di sostenere la redditività complessiva dell'impresa attraverso il mantenimento e il miglioramento della produttività dei lavoratori, specialmente quelli più maturi che generalmente rappresentano un costo più elevato. Infatti, l'attuale economia, in rapida trasformazione e sempre più rivolta all'innovazione, sta rendendo le competenze dei lavoratori obsolete più rapidamente che mai. Oltre ad aggiornare le proprie competenze per adeguarsi alle mutevoli esigenze, sta emergendo anche la domanda di nuove tipologie di capacità professionali. Le attività formative sono comunque abbastanza diffuse in un'ottica del lifelong learning quale strumento principale per il sostegno all'occupabilità della forza lavoro e alla competitività delle imprese. Ma tali attività non sono rivolte a tutti i dipendenti in egual misura: emerge infatti, sin dalle prime analisi, che la partecipazione alla formazione differisce tra gli adulti, a dimostrazione che sono presenti alcuni gruppi che richiederebbero politiche specifiche e mirate. A parte i non occupati, che nel presente lavoro non sono stati oggetto di studio, coloro che hanno il minimo accesso all'apprendimento sono i lavoratori vicini al pensionamento (over 50) e quelli con scarse qualifiche professionali. Inoltre, la partecipazione alla formazione professionale continua è positivamente correlata al livello di istruzione. A tal riguardo, l'indagine AES (Adult Education Survey) ha evidenziato come le motivazioni chiave e le barriere relative alla formazione siano correlate al lavoro. Se si considera che oltre il 60% dei percorsi di formazione non formale è finanziato o sponsorizzato dal datore di lavoro, la partecipazione e il ruolo del datore di lavoro nel fornire nuove opportunità di apprendimento sono di fondamentale importanza. Incoraggiare quindi i datori di lavoro, in particolare le piccole e medie imprese, a sviluppare opportunità di apprendimento è fondamentale. Se a volte è la mancanza di consapevolezza della necessità di apprendimento una delle ragioni principali che ostacola la partecipazione formativa, anche altri motivi sono molto frequenti: la mancanza di tempo a causa di responsabilità familiari e di orari di lavoro, la mancanza di risorse finanziarie, la lontananza da casa o dal luogo di lavoro, ragioni di salute e di età. Esempi di buone pratiche mostrano comunque approcci su come aumentare il livello di competenza dei lavoratori più anziani. In alcuni casi infatti, gli interventi formativi sono dedicati specificamente ai lavoratori meno giovani: si tratta principalmente di iniziative mirate all'aggiornamento di competenze tecniche in ambiti particolari (es. competenze informatiche, quando è molto forte la propensione all'innovazione tecnologica) o alla riqualificazione dei lavoratori più anziani nel ruolo di formatori (quando la cultura aziendale è orientata alla valorizzazione dell'esperienza). Valorizzare l'esperienza è infatti un fattore chiave per garantire il trasferimento delle conoscenze tra le generazioni e per individuare le attività in cui i lavoratori più anziani sono produttivi: è quindi anche utile per la capacità di innovazione di tutta l'azienda. Ciò che però ancora manca in Italia è una strategia sistematica di aggiornamento e incremento delle competenze degli adulti, in particolare dei senior. Cofinanziamento pubblico alle azioni formative dirette ai senior, diverse modalità di apprendimento, distribuzione temporale dell'azione formativa potrebbero fare da contrappeso a propensioni e atteggiamenti negativi degli individui e delle imprese verso il lifelong learning. Altrettanto importante è promuovere forme di flessibilità e di organizzazione del lavoro, tecnologie e modelli di cultura manageriale che consentano di valorizzare le competenze dei lavoratori anziani. In questo ambito, in tutta Europa si stanno sviluppando esperienze aziendali di successo sulla promozione dell'apprendimento intergenerazionale e della condivisione delle conoscenze tra i lavoratori giovani e anziani. Si tratta di un'attività complessa e dagli esiti non scontati, che richiede una forte disponibilità da parte delle aziende nello sviluppo di un'adeguata cultura di gestione delle risorse umane e di un sistema in grado di capitalizzare gli esiti dell'applicazione di strumenti di apprendimento intergenerazionale. In generale, sarà comunque fondamentale aumentare il livello di formazione professionale continua per i lavoratori in futuro, sia in termini di numero di ore, sia allargando la partecipazione ai gruppi che tendono purtroppo a rimanerne fuori più facilmente, i cosiddetti non learners. Oltre al livello di partecipazione in questa doppia veste, è importante sviluppare anche una cultura dell'apprendimento all'interno del posto di lavoro, individuando particolari esigenze di formazione. Il buon funzionamento del mercato del lavoro si basa su una corrispondenza precisa tra le competenze e le qualifiche formali dei lavoratori e quelle che i datori di lavoro cercano e richiedono. Molto spesso però vi è una carenza significativa di fabbisogni professionali in quanto, le qualifiche formali, pur essendo uno strumento importante per segnalare i livelli di abilità, sono a volte molto diverse dalle reali competenze del lavoratore e, nelle diverse occupazioni, non sono sufficienti a colmare l'incontro tra il fabbisogno di competenze reali e l'offerta di queste ultime. Di conseguenza, a causa di questa sorta di disallineamento, i responsabili politici e gli attori del mercato del lavoro spesso si trovano a contare su segnali imperfetti in tema di esigenze di competenze. Fortunatamente, sulla base delle raccomandazioni della Commissione Europea, nel 2012 sono state promosse misure per la validazione delle competenze acquisite al di fuori del sistema di istruzione formale e per convalidare quindi i percorsi di formazione non formale e di apprendimento informale, quali ad esempio la formazione in azienda, le risorse digitali, il volontariato, l'esperienza di lavoro e l'esperienza di vita in generale. Dal 2018 gli Stati membri, con l'ausilio della EAEA (European Association for the Education of Adults), hanno accettato di mettere in atto tali misure per la convalida delle esperienze (VNFIL - Validation of Non Formal and Informal Learning) degli individui, permettendo loro di ottenere una qualifica. Tali esperienze sarebbero legate alle qualifiche e in linea con il quadro europeo delle qualifiche con norme equivalenti a quelle utilizzate per l'istruzione formale. A parte alcune problematiche (quali l'accettazione professionale di convalida che resta in molti paesi inferiore rispetto all'accettazione dell'istruzione formale, il livello di burocrazia e i costi di validazione), la convalida di queste competenze è particolarmente rilevante per le persone con qualifiche basse, i disoccupati, coloro che sono a rischio di disoccupazione, chi ha bisogno di cambiare i propri percorsi di carriera, in generale per identificare ulteriori esigenze di formazione ed eventuali opportunità di riqualificazione professionale. Infatti, un sistema di istruzione/formazione ben progettato, efficiente, accessibile e con forti legami con il mercato del lavoro, è di cruciale importanza per facilitare l'incontro tra domanda e offerta di competenze richieste e per dedicare particolare attenzione a quei lavoratori particolarmente svantaggiati analizzati precedentemente. A tal proposito, l'Istat ha reso noto che l'intero sistema statistico sull'istruzione e formazione, nel quale è inserita l'indagine sulla partecipazione degli adulti alle attività formative (AES), è in continua evoluzione e in futuro sarà disponibile il nuovo regolamento comunitario. Le principali innovazioni metodologiche, concordate nell'ottica di raccordare maggiormente le informazioni che attengono all'istruzione e alla formazione provenienti dall'Indagine AES, dall'indagine sulle Forze di lavoro e dall'Indagine CVTS (la Rilevazione sulla formazione del personale nelle imprese) saranno l'adozione della classificazione ISCED 2011 e la realizzazione dell'indagine AES ogni quattro anni invece di cinque. Riassumendo, questa è una sfida che l'Unione Europea, governi, imprese e lavoratori devono affrontare e superare, in quanto, a causa dei recenti cambiamenti demografici, la futura evoluzione del mercato del lavoro può essere sostenuta solo attraverso una maggiore produttività che si ottiene con un elevato livello di competenze e di misure di sostegno e di gestione dell'età. I programmi di formazione dovrebbero essere considerati come una parte fondamentale delle politiche attive del mercato del lavoro e quindi di responsabilità dei governi. Di conseguenza, i datori di lavoro potrebbero essere incoraggiati a impegnarsi in un continuo miglioramento delle competenze del proprio personale e a modernizzare le proprie politiche di reclutamento in accordo con i responsabili delle risorse umane rimuovendo le barriere relative all'età in fase di assunzione. Inoltre, è necessaria una forte motivazione da parte dei lavoratori stessi ad aggiornare le proprie competenze e, infine, vi è un ruolo particolare per l'Europa per quanto riguarda il riconoscimento transnazionale delle abilità, in quanto sono necessari sforzi legali e amministrativi per assicurare una corretta comparabilità tra i professionisti in termini di qualifiche ottenute e validità di diplomi conseguiti. Di conseguenza sono necessari efficaci investimenti in materia di istruzione e formazione per le competenze e l'attuazione di strumenti che favoriscano il loro sviluppo. Ciò richiede una prospettiva di lungo periodo, poiché, sulla base delle previsioni della futura domanda di mercato e coerentemente all'esigenza di investire nel capitale umano, è necessario infatti evidenziare anche la redditività dell'investimento formativo e dimostrare la sua efficacia, efficienza, le conseguenze e gli impatti non solo di ordine economico ad esso collegati. In conclusione, tutte le imprese, non solo le grandi, dovrebbero sviluppare strategie di age management. Prima di tutto incrementando l'utilizzo di strumenti per un "demographic check" aziendale e per una corretta "age structure analysis" in modo da poter sviluppare strategie ad hoc per ogni specifica situazione aziendale e misure di age management per aumentare la produttività, l'occupabilità e le condizioni lavorative. Non è un compito facile, in quanto purtroppo, la maggioranza delle aziende italiane è di piccole dimensioni e di conseguenza con un numero limitato di risorse umane da dedicare alle problematiche relative all'invecchiamento della forza lavoro. Comunque, a tal proposito, manuali e guide sulle buone pratiche di gestione dell'età dovrebbero essere diffusi su più larga scala. In secondo luogo, è fondamentale sviluppare in futuro una maggiore cultura della formazione durante tutto l'arco della carriera professionale per tutti i lavoratori, in particolare dopo i 50 anni, dove assume un ruolo fondamentale come misura di contrasto al declino delle competenze, abbracciando il messaggio che "non è mai troppo tardi per imparare". L'auspicio è che il presente lavoro di ricerca, visto il continuo prolungamento della vita lavorativa, non solo possa contribuire ad una migliore comprensione delle misure di sostegno di gestione dell'età e dei modelli di partecipazione formativa, ma anche ad un ulteriore sviluppo di politiche di formazione e di buone pratiche di age management in grado di promuovere un più equo e inclusivo accesso degli over 50 al mercato del lavoro, considerando questi ultimi non più solo un problema ma anche una risorsa e un'opportunità da saper cogliere. Questo sarebbe il vero cambiamento.
L'obiettivo della mia tesi è quello di mostrare l'evoluzione compiuta dalla poesia di Giorgio Caproni a cominciare dalle prime prove (Come un'allegoria, Ballo a Fontanigorda e Finzioni) fino al raggiungimento della piena maturità poetica nel Passaggio di Enea. La prima parte si apre con l'analisi del testo Finzioni, appartenente alla raccolta omonima. Nel corso della lettura vengono messi in evidenza sia il peculiare uso che Caproni fa dei versi cantabili (settenario e ottonario, ma debitamente smorzati dalla frequenza degli enjambements), sia l'uso sapiente delle inversioni sintattiche, che permettono la stratificazione di significati nascosti all'interno del testo. Si riconosce, inoltre, come Caproni tenda spontaneamente verso una poesia impressionistica, che trae la sua ispirazione dalla percezione sensoriale del mondo fisico al fine di sfiorare la realtà senza rappresentarla in termini troppo puntuali e prosastici. Ci si interroga poi sulla natura della figura femminile (la "donna truccata") protagonista del componimento, ma per apprezzarne appieno la rilevanza è necessario ricostruire i modi e le forme in cui le donne erano presenti nelle raccolte precedenti. Si nota dunque che, se nella prima raccolta il mondo femminile era piuttosto anonimo e poco più che un elemento del paesaggio, in Ballo a Fontanigorda si incontrano due donne ben riconoscibili: Olga, la fidanzata di Caproni morta a Rovegno nel 1936, e Rina, la giovane moglie conosciuta l'anno dopo. Si crea così una coppia che incarna la tensione tra due forze opposte: Rina rappresenta la donna in praesentia, portatrice di pienezza vitale; lei consente il dispiegamento del paesaggio, il suo corpo si confonde con il mondo circostante e grazie ad esso l'io ha accesso alla realtà esterna (Altri versi a Rina: «Nei tuoi occhi è il settembre / degli ulivi della tua cara / terra, la tua Liguria / di rupi e di dolcissimi / frutti»). Dall'altra parte, invece, Olga è la donna in absentia, eternamente sfuggente, emblema dell'irreversibilità del tempo. Nelle poesie in cui ci si rivolge a Olga il paesaggio risulta inaccessibile, oppure svuotato da qualsiasi carica vitalistica, tanto da vanificare ogni possibilità di godimento sensoriale (Ad Olga Franzoni «ora che spenti / già sono e giochi e alterchi / chiassosi»). All'interno di questo disegno bipartito la figura della "donna truccata" riveste una funzione chiave: infatti nella poesia Finzioni il valore dell'esaltazione sensoriale viene spietatamente sospettato di inconsistenza, mentre balli e feste rischiano di diventare un semplice divertissement che distrae l'uomo non solo dal suo destino mortale, ma anche, in prospettiva non esistenziale ma storica, dal presentimento della guerra imminente. Solo la finzione può arginare il senso di non riscattabile precarietà che condanna l'essere umano, precarietà che penetra nel paesaggio fino ad avvelenarne la possibilità di godimento che aveva potuto suscitare nelle raccolte precedenti. Si passa poi ad osservare il tipo di io presente nelle prime raccolte caproniane, e si conclude che se in Come un'allegoria avevamo potuto riscontrare la presenza di un io autofondato, in grado di accedere liberamente al mondo esterno e di piegarlo alle proprie necessità autoespressive; a partire da alcuni testi di Ballo a Fontanigorda ci troviamo di fronte a un io parzialmente relazionale, le cui possibilità di autodefinizione e di interazione con la realtà sono in parte subordinate all'interazione con una figura femminile. L'alternanza di queste due posture prosegue anche all'interno della terza raccolta dove, nonostante l'indebolimento e l'assottigliamento identitario degli pseudo-personaggi femminili (che tutto sommato sono meno riconoscibili rispetto a Ballo a Fontanigorda), l'io conserva una propria dimensione relazionale. A questo punto si procede con l'individuare i modelli principali del giovane Caproni, tra i quali si possono annoverare Ungaretti (e direi l'Ungaretti di Sentimento del tempo piuttosto che dell'Allegria), i lirici dell'ottocento (Carducci, Leopardi, D'Annunzio, ma soprattutto Pascoli), ma anche i sonettisti e madrigalisti del cinquecento (Tasso, Rinuccini, Poliziano). Vengono poi evidenziati i tratti che differenziano la poesia caproniana tanto dagli autori modernisti quanto da quelli ermetici. Per quanto riguarda i primi, è facile osservare infatti come il loro senso della storia fosse ben più complesso e sfaccettato di quel che è possibile rintracciare nel primo Caproni. Il modernismo, infatti, tende a considerare il passato come un repertorio di forme e di poetiche da cui attingere, ma solo allo scopo di reimpiegare quelle forme e quelle poetiche per una comprensione profonda e critica del tempo presente. Dunque, mentre gli autori modernisti si pongono in atteggiamento agonistico nei confronti del presente e della modernità, il primo Caproni assume una postura molto diversa, che complessivamente definirei regressiva. Infatti l'inseguimento di contenuti universali e atemporali – esplicitamente riconosciuto da Caproni come un elemento cardine della sua poetica – di fatto inibisce le capacità della poesia di assumere spessore storico, e quindi di prendere di petto il proprio tempo, anche solo per una condanna seria e ragionata. Inoltre la consapevolezza dell'isolamento poetico e dell'incomunicabilità segna profondamente la produzione dei modernisti, i quali «non possono prescindere dalla rottura epistemologica di fine Ottocento e inizio Novecento rappresentata in modi diversi da Nietzsche, Bergson, Freud» . Non così nel primo Caproni, probabilmente troppo legato a una idea di poesia bloccata al di qua dei rivolgimenti filosofici di fine secolo, e pertanto sostanzialmente indifferente a certe problematiche sollevate dai risvolti socio-culturali dell'età moderna. Per quanto riguarda le differenze rispetto all'ermetismo, si nota subito come, eccezion fatta per Ungaretti, la tradizione simbolista e post-simbolista non sembra aver costituito un riferimento letterario fondamentale per Caproni. Inoltre il tentativo ermetico di dissolvere l'oggetto e di purificare il linguaggio allo scopo di riportare la parola poetica a una condizione di rinnovata perfezione è del tutto inconciliabile con la ricerca poetica caproniana, che passa impressionisticamente attraverso l'interrogazione del mondo esterno. Dunque, ancor prima dei fatti stilistici, è in primis il «diverso atteggiamento di fondo» a segnare la lontananza di Caproni dalle poetiche dell'ermetismo, soprattutto per quel che concerne il suo «attaccamento al "reale" o, più precisamente», il suo «continuo rodimento per l'imprendibilità del "reale" tramite la parola» . Si osserva poi come una simile attenzione verso gli aspetti materiali dell'esistenza sia stata probabilmente mediata dal pensiero filosofico di Giuseppe Rensi, che Caproni conobbe grazie all'amico Alfredo Poggi e di cui probabilmente frequentò le lezioni all'università di Genova negli anni '30. Malgrado ciò, nelle prime raccolte caproniane si rileva comunque la presenza abbastanza massiccia di quella che Mengaldo definisce «la grammatica ermetica» , ovvero una serie elementi retorici, linguistici e sintattici che in Il linguaggio della poesia ermetica lo studioso ha riconosciuto come tipici delle scritture ermetiche, e che contribuiscono a creare il senso di rarefazione riscontrabile nei versi di Caproni. La seconda parte del lavoro è dedicata a Cronistoria. Partendo dal componimento La città dei tuoi anni se fu rossa vengono messe in luce le caratteristiche principali del sonetto monoblocco, sia per quanto riguarda gli aspetti metrici, strofici e rimici, sia per quel che concerne i fatti sintattici e lessicali. Dal punto di visto contenutistico, invece, il dato più evidente non solo del testo in esame, ma dell'intera raccolta, è che la figura della donna assente ha decisamente conquistato un ruolo preminente, in questa maniera infrangendo gli equilibri della coppia donna vitale-donna mortifera che si erano riscontrati nelle raccolte precedenti. Parallelamente, possiamo osservare quanto sia mutato l'atteggiamento di Caproni verso la descrizione paesaggistica: gli scenari di Cronistoria appaiono espressionisticamente deformati, frantumati in singoli elementi sparsi che non riescono a ricomporre un quadro unitario, poiché il dolore dell'io lirico, deprivato del tu, penetra negli scenari e ne interrompe la continuità del flusso descrittivo. Insomma, l'avventura percettiva del soggetto viene minacciata dal vuoto della morte. Si passa poi all'osservare che a quest'altezza cronologica la poetica caproniana prevede l'abolizione dei dati cronachistico-biografici, o meglio, la loro trasfigurazione in simboli dalla valenza universale, all'interno dei quali il lettore possa rispecchiarsi senza alcun ostacolo. Tutto ciò si può far rientrare in un più ampio progetto dell'autore, consistente nel marginalizzare l'«individuo empirico» a vantaggio dell'«io trascendentale» , allo scopo di «portare a giorno quei nodi di luce che sono non soltanto dell'io, ma di tutta intera la tribù» . Ma quello che in special modo non manca di colpire il lettore è la totale assenza di dediche rivolte alla fidanzata morta, che da qui in avanti sarà una lacuna costante nell'opera caproniana, in ossequio ad una «strategia di cancellazione delle forme evidenti e personalizzate del lutto» . Si procede poi con l'individuare alcuni tratti che differenziano il tu lirico della prima sezione di Cronistoria (E lo spazio era un fuoco.) da quello della seconda (Sonetti dell'anniversario). Infatti, nonostante la donna sia comunque distante dall'io, nella prima parte è possibile riconoscere in controluce alcune caratteristiche che erano appartenute a Rina, quali la spinta vitale e la carica fisico-sensuale (Dove l'orchestra un fiato: «l'ore / le bruciava l'odore / della tua maglia – il vento / lieve che la tua bocca / senza colore, nel rosso / del teatro librava / il tuo sudore») e la capacità di sconfiggere l'inganno delle «umane finzioni», portando autenticità in un mondo falsificato e incline all'illusione: «deponi / ogni certezza sul bianco / delle tue orecchie scoperte, / sulle tue labbra più certe / prive d'umane finzioni». In tal senso è evidentissima l'influenza «sistema delle Occasioni» sulla costruzione del tu lirico di E lo spazio era un fuoco… Al contrario l'immagine della «fidanzata così completamente / morta» che emerge dai Sonetti dell'anniversario è costitutivamente inconciliabile con colei che nasconde «l'arte d'esistere». In altre parole, la figura femminile che domina la seconda sezione non può essere in alcun modo latrice di barbagli vitali, né viene mai rappresentata nei suoi aspetti fisico-sensuali, tipici della prima fase della produzione caproniana. Si spiega così per quali ragioni, a differenza delle Occasioni montaliane, quella di Caproni non sia una poetica epifanica. È innegabile, infatti, che le pseudo-apparizioni della figura femminile in Cronistoria non si configurino mai come «un episodio improvviso in cui l'io rievoca una verità, un'immagine, un ricordo che, in modo traumatico e istantaneo, riemergono e si rivelano» . E ciò per due motivi: innanzitutto, ad essere precisi, quelli rappresentati da Caproni non sono mai «episodi improvvisi» vissuti dall'io, quanto piuttosto delle visioni, o delle possibilità proiettate nel futuro che la realtà non manca mai di smentire o sommergere; in secondo luogo, il tu non è latore di alcuna verità superiore, non avviene alcuna rivelazione che accresca la consapevolezza dell'io su sé stesso o sul mondo – se non (ma molto genericamente) la continua riconferma della limitatezza e della caducità umana. In questo senso, mi sembra che i tentativi di far tornare la donna assente in Cronistoria possano essere ben spiegati utilizzando un altro tipo di strumentazione: come nota anche Zublena, incrociando le evidenze testuali con i dati biografici – che, benché costantemente rimossi, inevitabilmente segnano in profondità la composizione della raccolta – si può parlare dei ritorni femminili come la resa letteraria della mancata elaborazione di un lutto. Partendo dal presupposto che, in seguito ad un lutto correttamente elaborato, «la realtà pronuncia il verdetto che l'oggetto non esiste più, e l'Io, quasi fosse posto dinanzi all'alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere […] a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l'oggetto annientato» , possiamo affermare che l'io lirico realizza il desiderio che la donna sia viva proiettando in un futuro imprecisato la sua riapparizione. Questo ovviamente implica il fatto che la scomparsa della «fidanzata […] / morta» non è stata pienamente interiorizzata, in quanto l'io non riesce «a rinunciare all'oggetto dichiarandolo morto», né ad accettare che il mondo sarà per sempre privo dell'amata. D'altronde, la certezza che la morte di Olga abbia rappresentato un lutto difficile da elaborare per il giovane Caproni ce la danno sia una famosa lettera a Betocchi («Forse tutto il mio mondo era legato a quelle che se n'è andata. Forse su Lei poggiava tutta la mia certezza. Ora che lei è perita, finita, assente, impossibile mi è dire ciò che provo»), sia, soprattutto, la produzione narrativa dell'autore. In effetti, in racconti quali Il gelo della mattina l'autore affronta eventi autobiografici in maniera singolarmente esplicita, in questo modo chiarendo la portata del trauma causato dalla morte della giovane fidanzata. Il terzo capitolo è dedicato al Passaggio di Enea. Partendo dall'analisi del testo Le biciclette, viene discussa l'inclinazione di Caproni a conferire ai suoi componimenti un andamento poematico che lascia spazio a riflessioni di maggiore respiro e complessità. Continua inoltre il reimpiego «paradossale» e straniato di forme tradizionale quali la ballata. Un'operazione di tal genere consente infatti di opporre una barriera stilistica alle forze caotiche della storia, e spinge a collocare il Caproni del Passaggio di Enea nel solco del classicismo moderno. Poter attingere alle forme chiuse della tradizione consentiva infatti di riaffermare «la misura, il ritegno, l'autocontrollo» , ovvero «le qualità signorili e alto-borghesi che definiscono la strategia difensiva di questo ethos classico segnato da una profonda "agorafobia spirituale", da un "impulso di astrazione" che cerca di stilizzare uno spazio mutevole e precario, di contenere l'inquietudine in un ordine severo» . E tuttavia la «forma classica, chiusa e compiuta» non può assorbire totalmente il negativo storico; il contraccolpo, perciò, si può ben avvertire nell'effetto di «dissonanza», «con un ritmo aspro e movimentato» e, più in generale, nella «tendenza […] a confermare la norma proprio attraverso la sua negazione, aggregando e ricomponendo una tensione pietrificante con una dirompente, una contrazione centripeta con un'apertura centrifuga» . L'analisi contenutistica mette poi in evidenza come Caproni nelle Biciclette riesca a liquidare la stagione di Cronistoria dichiarando a chiare lettere che il «tempo» è «ormai diviso». Ciò implica innanzitutto che mentre la donna morta nella raccolta precedente era ancora capace di incerte riapparizioni, ora è per sempre confinata nel regno dei morti: «Alcina» (così viene chiamata la figura femminile nel testo) vive solo nelle illusioni del poeta, non ha niente a che fare con la realtà effettiva. Allo stesso modo Caproni dichiara irrecuperabile un passato che, a posteriori, appare come lo spazio di certezze granitiche e di istituzioni ben fondate, in netta opposizione ad un dopoguerra inevitabilmente scosso dai rivolgimenti politico-culturali generati dal conflitto. Attraverso la rapida analisi dell'Ascensore si evidenzia quindi come il Passaggio di Enea rappresenti per Caproni il passaggio dall'adolescenza alla maturità: il poeta, novello Enea, depone l'istinto regressivo che aveva caratterizzato le sue prime raccolte e segna definitivamente il passaggio dal tempo del mito – rappresentato da Genova e dalla madre – al tempo della storia – di cui sono emblemi la città di Roma, la moglie Rina e i figli di cui deve prendersi cura. Inoltre, proprio come l'eroe antico, Caproni intraprende il suo viaggio tenendo per una mano il vecchio padre (simbolo dei valori che, benché superati, non vanno rimossi) e per l'altra il figlio (rappresentativo di una generazione di giovani che dovrà ricostruire un paese devastato). In questa maniera si riafferma il già osservato istinto caproniano ad accordare fiducia al visibile piuttosto che all'invisibile, al presente piuttosto che all'assente e, soprattutto, ad evitare l'eccessivo intimismo lirico a cui si era spesso abbandonato nel corso di Cronistoria. Per la nuova raccolta si può dunque parlare di una certa influenza del clima neorealista, che se non agisce in profondità dal punto vista stilistico, certamente lascia dei segni da quello latamente ideologico. Si riconosce infatti la decisa propensione verso una poesia che riesca ad arginare il narcisismo lirico e che, quindi, possa rivolgersi senza distinzioni a tutti i membri di una comunità. Su questo stesso punto si radica la polemica anti-ermetica, più volte mossa da Caproni nei suoi interventi giornalistici: il nuovo obiettivo del poeta diventa quello «di ritentare insomma, dopo tanta effusione, la composizione, un'ombra almeno di ciò che comunemente si intende per poema, tentando alfine il salto, ricchi di tanta esperienza formale, dalla lirica pura alla poesia. Un salto sì, dall'alto in basso, ma appunto per questo dall'astrazione (dalla solitudine) alla vita concreta (alla società)».
Dottorato di ricerca in Scienze e tecnologie per la gestione forestale e ambientale ; La definizione di biodiversità può avere diverse interpretazioni, ma generalmente con questo termine si indica l'insieme delle specie presenti in un ecosistema: ad una maggior numero di esse, corrisponde una maggiore stabilità del sistema. A livello di specie, la biodiversità è principalmente correlata alle differenze genetiche tra individui; un ricco patrimonio genetico intra-specifico garantisce un ampio spettro di risposte alle pressioni ambientali. D'altro canto, popolazioni con scarsa biodiversità genetica tendono a rispondere in maniera univoca a condizioni di stress, dunque presentandosi più vulnerabili ad essi. Questo fenomeno è particolarmente enfatizzato in contesti di pressione antropica e climate change, specialmente a scala regionale o locale. Individui, popolazioni ed ecosistemi sono strettamente collegati tra loro, ed interagiscono nel mantenimento degli equilibri dei macro sistemi, sia paesaggistici, che socio-economici. Di conseguenza, il mantenimento della biodiversità deve essere garantita attraverso misure attive di conservazione implementate dalle più recenti ed innovative tecniche e politiche di settore. Per molte specie forestali, questo significa sollecitare la sensibilità sullo sviluppo di nuovi ed efficienti strumenti operativi da integrare con le tradizionali strategie di gestione, ad esempio la conservazione in situ ed ex situ del patrimonio forestale. Considerando queste premesse, un tale strumento potrebbe certamente essere identificato nella definizione e delimitazione delle Regioni di Provenienza, promosse dall'Unione Europea attraverso la Direttiva 105/99. I principali metodi finora utilizzati si riferiscono all'utilizzo di parametri ecologici (pedologici, fitoclimatici, ecc.), come descrittori di contesti ecologici omogenei a livello spaziali, quindi identificanti eco provenienze per ogni specie forestale come conseguenza della differenziazione evolutiva secondo i principi della selezione naturale. Tali eco regioni forniscono un quadro di sintesi relativo ad un territorio che, suddiviso in aree ecologicamente omogenee, garantisce l'identificazione dei soprassuoli idonei dai quali prelevare il materiale di propagazione di base, ossia coni, frutti e sementi, parti di piante ottenute da propagazione agamica, embrioni, ecc. Tra i soprassuoli vengono anche contemplati i cosiddetti boschi da seme, le piantagioni, il materiale parentale derivante da incroci, nonché i cloni. Ad oggi molti Paesi dell'Unione Europea hanno promosso dei metodi per determinare le Regioni di Provenienza, basandosi principalmente sulla suddivisione del territorio secondo criteri chimico-fisici; questa scelta è intrinsecamente motivata dal fatto che di tali parametri si ha un ricco database informativo derivante dai molti anni di studio del territorio. Come risultato, ogni Paese ha delimitato con rigidi confini le proprie zone ecologicamente omogenee. Tale approccio rappresenta sicuramente un primo passo fondamentale nel soddisfare appieno i requisiti presenti nella Direttiva 105/99, per quanto uno studio più approfondito viene incoraggiato per identificare le Regioni di Provenienza per ogni specie forestale. Alcuni Paesi come la Francia, la Spagna o la Germania stanno lavorando in questa direzione da circa 15 anni, mentre l'Italia è ancora qualche passo indietro. In particolare, la posizione italiana è anche condizionata dal regime giuridico che demanda le competenze in tema di ambiente dal governo centrale alle Regioni. Il risultato è che la suddivisione del territorio italiano in Regioni di Provenienza per le specie forestali è ancora incompleto o fermo allo stadio preliminare. Lo scopo principale di questo lavoro è stato, quindi, l'applicazione del metodo ampiamente utilizzato in Europa, adeguatamente arricchito con nuovi parametri chimico-fisici e fitoclimatici, per definire le Regioni di Provenienza valide per le specie forestali della Regione Lazio. Un primo passaggio ha interessato la raccolta e l'analisi dei dati presenti circa la caratterizzazione territoriale, in modo da poter selezionare le variabili ecologiche ed ambientali maggiormente rappresentative nel definire delle eco provenienze. Successivamente, in accordo con l'Allegato I della L.R. 39/2002, 28 specie di interesse forestale sono state scelte e mappate sul territorio. Tra queste, 10 specie sono state descritte con una puntuale carta della distribuzione, mentre per le rimanenti 18 specie un areale quantitativo è stato ricostruito dalle informazioni raccolte secondo un criterio di presenza/assenza applicato ad una scala 1:10000. A causa della necessità di identificare dei boschi da seme per queste specie, tali per cui vi fossero già delle condizioni di tutela a livello legislativo, solo la superficie forestale regionale che insiste all'interno delle aree protette è stata presa in considerazione. Un dossier cartografico di 432 mappe è stato realizzato a partire dalle informazioni precedentemente illustrate e correlato con delle informazioni di carattere statistico circa l'estensione ed il numero di siti per ogni specie, per ogni area protetta del Lazio. Allo stesso tempo, uno studio pilota è stato condotto sul pino domestico (Pinus pinea L.) in modo da completare il processo richiesto dalla Direttiva Europea e giungere dall'individuazione delle Regioni di Provenienza fino alla selezione dei soprassuoli candidati ad essere inseriti nel Registro regionale dei Boschi da Seme. Lo sviluppo di questa parte del lavoro ha richiesto un monitoraggio di tutte le principali pinete litoranee laziali, con la raccolta delle informazioni di carattere strutturale e dendrometrico. I risultati hanno composto un ulteriore dossier cartografico, questa volta dedicato al pino domestico, con informazioni relative alle singole pinete studiate. La sovrapposizione della distribuzione puntuale del pino domestico con la carta precedentemente realizzata delle Regioni di Provenienza, o più precisamente "Regioni di Raccolta", unitamente alle considerazioni derivanti dalle indagini in campo, ha permesso di identificare due zone (denominate "Litorale" e "Lauretum caldo") dalle quali sono stati scelti rispettivamente i boschi di Castelporziano e della Foresta Demaniale del Circeo come migliori candidati a boschi da seme. Di questi soprassuoli sono state altresì redatte delle proposte di gestione, da indirizzare all'Assessorato all'Ambiente della regione Lazio, in modo da completare le linee guida per la conservazione, amministrazione e certificazione del materiale di base da utilizzare nei piani di restauro ambientale o di rimboschimento. Infine, la multidisciplinarietà del presente lavoro ha offerto degli spunti di indagine paralleli ma strettamente inerenti le problematiche descritte in precedenza, che hanno condotto a delle ulteriori sperimentazioni confluite in altrettante pubblicazioni di carattere internazionale. In particolare, prendendo spunto dalle metodologie impiegate per la definizione delle Regioni di Provenienza secondo parametri chimico-fisici, è stata testata la possibilità di giungere ad un simile risultato partendo però dall'analisi di alcune risposte biologiche. In tal senso, uno studio ha interessato l'utilizzo combinato della dendroecologia e dell'attività fenologica delle foreste laziali per arrivare alla delimitazione di quattro Regioni di Provenienza, attraverso le analisi PCA e di cluster, basate solo sulle risposte bioclimatiche. Per la caratterizzazione dendroecologica dei soprassuoli forestali si è fatto riferimento ad una network che ha il faggio come specie pilota, mentre i modelli fenologici sono stati quantificati utilizzando il segnale espresso dall'attività fotosintetica attraverso l'NDVI (Normalized Difference Vegetation Index). Attraverso uno studio da remoto con sistemi GIS si è ottenuto una corrispondenza tra risposte dendroecologiche e fenologiche tale per cui è stato possibile delimitare delle Regioni di Provenienza basate sulla risposta delle piante al clima. Un secondo approfondimento ha interessato la possibilità di includere in un innovativo strumento operativo per il rimboschimento ed il restauro ambientale, i principi teoretici alla base delle Regioni di Provenienza. Tale tecnica di rimboschimento è stata identificata nel metodo Miyawaki, la quale, mai testata in Europa, è stata oggetto di indagine per verificarne la reale efficacia nel contesto Mediterraneo. L'esperimento è stato condotto in Sardegna ed i risultati incoraggiano l'uso di tale metodo nel nostro contesto ambientale, in particolare perché risponde appieno alle raccomandazioni circa il reperimento del materiale di base della Direttiva Europea, inoltre, è stato verificato come il suo utilizzo possa essere efficace anche in zone dove le tradizionali tecniche di rimboschimento hanno fallito in precedenza. I principali vantaggi interessano il mantenimento di un alto tasso di biodiversità rispetto ai tradizionali metodi e la capacità delle cenosi vegetali che vengono a costituirsi di evolversi senza l'intervento assistito dell'uomo. Questo si traduce in un'interessante riduzione del costo di gestione dei siti rimboschiti, oltre ad una possibilità operativa aggiuntiva per tutti gli esperti di settore che operano nell'ambiente Mediterraneo. ; The definition of biodiversity can have many interpretations, but generally refers to the amount of species occurring in an ecosystem: more species, greater stability. At species' level, biodiversity is mainly related to the genetic differences between individuals; a rich intra-specific gene pool means a wide range of responses to environmental strains. On the other hand, populations with low genetic diversity tend to respond evenly to stress conditions, thus having more difficulties to face currently growing disturbances driven by anthropic pressure and climate change, especially on local and regional scales. Individuals, populations and ecosystems are tightly linked and interact to maintain landscape stability, large socio-economic systems and man's health. As consequence, biodiversity maintenance should be carried out with active conservation measures implemented with the most recent progress in techniques and policies. For forest species, this implies awareness of the availability of new and efficient tools to comply with traditional strategies, such as tree populations management at their natural sites within the environment to which they are adapted (in situ) and artificial, but dynamically evolving populations, elsewhere (ex situ). Under these circumstances an operative tool could certainly be the definition and delimitation of Regions of Provenance, promoted by the European Directive 105/99. The main methods involved the use of ecological parameters (e.g. pedological, phytoclimatic), presumed to be homogeneous within each area, thus identifying ecoprovenances for a species as a consequence of evolutionary differentiation according to the effects of natural selection. They provide a framework for specifying sources of forest reproductive material, i.e. cones, fruits and seeds, all parts of plants obtained by vegetative propagation, including embryos and plants produced from any of these. The plant material from which the forest reproductive material is derived includes seed stands, seed orchards, parent material held by tree breeders in archives, individual and mixtures of clones. Nowadays, many European countries are promoting methods to detect Regions of Provenance, mainly based on chemiophysical parameters, because of the data availability across years of land monitoring. As result, each country has been divided in several ecologically homogeneous sub-zones, with fixed boundaries. This could be represent a preliminary approach to full-fill the Directive's requirements, but a deeper study is encouraged to focus on each forest species for which Regions of Provenance are required. Some countries, as France, Spain or Germany are working since 15 years to provide these results, while Italy is still many steps backward. In particular, the Italian position is partially due to its jurisdiction that devolve power in terms of environmental policy from the central Government to the Regional departments. As consequence, the definition of Regions of Provenance in our country is still incomplete and in many cases at preliminary stages. In the present work, the main goal was to assess a method based on ecological parameters, like in other European scenarios, to define and delineate Regions of Provenance for Latium in order to establish seed stands for selected forest species. A first step regarded data collection and analysis to create the set of most representative chemiophysical variables to point out ecoprovenances; than, distribution ranges of 28 forest species listed as natural and/or autochthonous for Latium have been obtained from remote analysis of cartographic dataset or from previous studies. During this process, 10 species were fully mapped, and for the remaining 18 species quantitative ranges were performed at 1:10000 scale level, with information on presence/absence. Because of the need to identify seed stands of these species that could also benefit from legislative pre-existing conditions, only forest surface within protected areas was taken into account. Totally, a cartographic dossier of 432 maps was produced with information about the number of sites and hectares for study species in each protected areas of Latium. At the same time, a case study was afforded to complete the process from the definition of Regions of Provenance up to seed stands identification. Domestic pine (Pinus pinea L.) stands across Latium coasts were monitored. Forest stands were mapped, dendrometric and structural characteristics were recorded during field surveys and detailed information about each stand were summarized in a specific map set. Overlapping distribution range of domestic pine to the Regions of Provenance previously performed, two zones were identified as containing all the stands and another one was added because of the occurrence of one population on the buffer zone. Finally, two pine forests were chosen as candidate to become seed stands, in order to get one stand for each Region (Castelporziano for Region 12 "Litorale", and Foresta del Circeo for Region 9 "Lauretum caldo"). Forest management proposals were also carried out for these forests, to accomplish guide lines for the Envirnomental Directorate of Latium in order to perform the best practices to protect and maintain seed stands and provide certified base material for reforestation programs. Moreover, mutual points of interest risen up during this work gave the chance to delve into the present methodologies and theoretical ideas in order to approach innovative and practical tools, that could be considered as advanced experiments. In particular, a first investigation point out the use of combined dendroecological and phenological analysis to define Regions of Provenance by biological parameters. Previous dendroclimatic research demonstrated the relationship between plant growth and climatic parameters; in Latium, similar bioclimatic responses from different forest stands growing at similar elevations were statistically grouped into three homogeneous altitudinal belts using principal component analysis and hierarchical cluster analysis. Phenological patterns of forest species were quantified using the photosynthetic activity signals expressed in the normalized difference vegetation index (NDVI). Through a beech tree-ring network, NDVI was compared with dendroecological results using Geographical Information System analysis, obtaining high correspondence in overlapping, and underlying the relevance of altitude as a main factor defining homogeneous spatial vegetation dynamics, thus delimiting ecological Regions of Provenance based on tree responses to climate. At the same time, a tentative study was assessed to find a reforestation approach that include in its theoretical principles the concept of Region of Provenance as an ecologically homogeneous well-delimited zone. The effectiveness of the Miyawaki method, never tested in Mediterranean environments was experimented in Sardinia, and point out the possibility to adopt sustainable techniques in principle with the declarations of the European Directive 105/99, in sites where traditional reforestation approach failed. The Miyawaki method has been applied in the Far East, Malaysia, and South America; results have been very impressive, allowing quick environmental restorations of strongly degraded areas. However, these applications have always been made on sites characterized by high precipitation, but never in context with summer aridity and risk of desertification. Results obtained 2 and 11 years after planting are positive: having compared the traditional reforestation techniques, plant biodiversity using the Miyawaki method appears very high, and the new coenosis (plant community) was able to evolve without further operative support after planting. Therefore, the implementation of supplementary technique along with cost reduction might provide a new and innovative tool to foresters and ecological engineering experts for Mediterranean environmental reforestation program.
Il lavoro intende approfondire la disciplina dell'adozione internazionale vigente nel nostro ordinamento, focalizzando l'attenzione sui profili problematici derivanti dalla c.d. kafalah e la sua compatibilità con l'ordine pubblico interno e il diritto italiano più in generale. Solo negli ultimi anni tale istituto – anche per ragioni di ordine culturale e di flussi migratori – ha visto crescere l'attenzione degli studiosi nei suoi confronti, sulla spinta di taluni (invero, sporadici) arresti giurisprudenziali. Di sicuro interesse è il profondo dibattito sulla qualificazione dell'istituto islamico della kafalah non solo nell'ambito della disciplina delle adozioni internazionali ma anche in materia di immigrazione, in particolare del ricongiungimento familiare. Invero, molto si discute –e molto si discuterà– circa il diritto di cittadinanza (pieno, nullo o affievolito) che la kafalah può ottenere nel nostro ordinamento giuridico. --- Il cuore del problema è, infatti, costituito dalla possibilità o meno di sussumere la kafalah sotto gli istituti tipici di "protezione del minore" o, comunque, sotto uno dei fatti che, ai sensi della vigente normativa, rilevano ai fini della protezione del "nucleo familiare". Si è evidenziato che difficilmente può pervenirsi ad una soluzione accettabile del problema se ci si àncora a criteri meramente formali. --- Dopo una breve analisi dell'evoluzione storica della disciplina dell'adozione, si è analizzata la disciplina della stessa nell'età moderna focalizzando l'attenzione sull'adozione internazionale. Giungiamo in tal modo alla normativa attuale: la legge 4.5.1983, n. 184, "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori" che ha disciplinato le adozioni nazionali ed internazionali per quasi vent'anni sino all'intervento della l. 31.12.1998, n. 476, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni internazionali", che ha particolarmente inciso rispetto alla disciplina delle adozioni internazionali, e successivamente dalla l. 20.3.2001, n. 149, che è intervenuta quasi esclusivamente sul regime delle adozioni nazionali modificando, tra l'altro, il titolo della l. 184 del 1983, divenuto "diritto del minore ad una famiglia". Pertanto le fonti principali della disciplina delle adozioni internazionali nel nostro ordinamento sono la Convenzione de L'Aja del 29.5.1993 ed il titolo III della L. 184/1983, così come modificato dalla l. 476/1998 (che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione). Doveroso un accenno alle altre convenzioni internazionali tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20.11.1989. Essa, peraltro, è utile al corretto inquadramento dell'istituto della kafalah, ove al suo art. 20 sembra trovare una sorta di "legittimazione" internazionale: "Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambito familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti speciali dello Stato. Gli Stati Parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale. Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo di sistemazione in una famiglia, della kafalah di diritto islamico, dell'adozione o, in caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l'infanzia. Nell'effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità dell'educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica". La Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, richiama espressamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del minore del 20 novembre 1989. Essa enuncia gli essenziali obiettivi di garantire nell'adozione internazionale la realizzazione del miglior interesse del bambino ed il rispetto dei suoi diritti fondamentali, di creare un sistema di cooperazione tra gli Stati aderenti finalizzato a tale realizzazione, di garantire il riconoscimento in tutti gli Stati aderenti delle adozioni realizzate in conformità dei principi espressi dalla Convenzione Per dare effettiva attuazione ai principi da essa formulati, la Convenzione ha imposto l'obbligo per ogni Stato ratificante della creazione di un'apposita Autorità centrale e di un sistema di enti pubblici e/o privati controllato da tale Autorità, ai quali delegare il compito di coordinare, sorvegliare e realizzare il procedimento adottivo ponendo il divieto dello svolgimento dell'attività di ricerca del minore sia alle coppie, sia ad intermediari privati. In Italia l'Autorità centrale per l'adozione internazionale è rappresentata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali. --- Il 3° cap. affronta la tematica centrale, il cuore, della tesi: il divieto islamico di adozione e la kafalah. L'istituto in questione è inquadrato alla luce delle osservazioni effettuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il punto di partenza è il divieto di adozione vigente nei paesi di religione mussulmana, il quale trova il suo fondamento direttamente nel Corano: "Dio non ha posto nelle viscere dell'uomo due cuori, né ha fatto (…) dei vostri figli adottivi dei veri figli" (Sura XXXIII). Tale divieto sembra avere il fine di preservare la concezione islamica secondo cui la famiglia ha origine divina. Poiché i vincoli di filiazione sono espressione della volontà divina, l'uomo non può artificialmente determinarne la cessazione e costituirne di nuovi al di fuori della generazione biologica; essendo l'adozione un istituto giuridico volto a costituire un rapporto di filiazione indipendente dalla procreazione biologica, esso deve essere vietato". Fortunatamente il divieto di cui sopra non giunge al punto di impedire ogni forma di assistenza in favore di minori che versino in stato di abbandono o comunque di necessità: in queste eventualità viene in soccorso, per l'appunto, l'istituto della kafalah. Con essa un soggetto (kafil) promette davanti a un giudice o a un notaio di curare e mantenere – così come provvederebbe un buon padre di famiglia – un minore (makful) sino al raggiungimento della maggiore età (ma la kafalah è revocabile). Il kafil assume dunque l'obbligo di provvedere alla cura del minore, senza che a tale obbligo consegua alcun vincolo di filiazione o interruzione dei rapporti correnti tra il minore e la famiglia di origine. L'istituto può essere "giudiziale" ovvero meramente "negoziale" e il kafil acquisisce la potestà genitoriale sul makful. Il minore oggetto di kafalah non essendo considerato figlio del kafil non ne assume il nome, ma, nel testamento del kafil può essere equiparato ad uno dei suoi eredi. I profili problematici attengono i concreti effetti della kafalah nel nostro ordinamento anche (ma non solo) ai fini del ricongiungimento a maggiorenni qui residenti di minori ad essi legati da vincoli che conseguono alla kafalah. La kafalah infatti "pur mostrando alcune affinità sia con l'adozione sia con l'affidamento sia con la tutela, non può ovviamente essere identificata con nessuno di essi, a causa dell'esclusione (ad essa connaturata) del sorgere di qualsiasi rapporto di filiazione nonché del carattere (altrettanto immanente) di continuità – ma non di definitività – nella protezione del minore (ossia del raggiungimento della maggiore età)" (Clerici, La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con l'ordine pubblico internazionale, in Fam. e dir., 2009, 208) --- Per avere una cognizione piena del problema si è evidenziata la disciplina che la kafalah ha nel diritto marocchino e algerino. L'istituto de quo pone, con riferimento agli effetti che esso può determinare nel nostro ordinamento, soprattutto (per non dire esclusivamente) due problemi: -il primo, costituito dagli effetti riconducibili alla kafalah ai fini dell'adozione internazionale; -il secondo, rappresentato dall'idoneità della kafalah a consentire il ricongiungimento familiare ai sensi dell'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. E non poco ha pesato, in particolare sulla giurisprudenza, la preoccupazione che l'istituto in esame potesse costituire – sia con riferimento all'adozione internazionale sia con riferimento al ricongiungimento familiare – il "cavallo di Troia" capace di eludere la volontà di legge. Preoccupazione sicuramente giustificata, ma forse eccessiva, alla luce delle considerazioni svolte, soprattutto in dottrina, che appaiono idonee a dar vita ad un'elaborazione giurisprudenziale che sia, al tempo, cauta ed equa. --- La normativa vigente non sembra offrire soluzioni ad alcuni problemi di fondo, tra cui quello costituito dalla possibilità di adottare minori provenienti da paesi islamici, stanti le profonde differenze che a livello giuridico (oltre che, ovviamente, a livello religioso) contraddistinguono gli istituti volti alla tutela dei minori. Il quesito di fondo è il seguente: può la kafalah essere inquadrata, ai fini dell'adozione, in alcuno degli istituti previsti dal vigente ordinamento? La nostra normativa sembra risentire del fatto che la Convenzione de L'Aja del 1993 non fa alcun riferimento all'istituto della kafalah, sì che è comune l'opinione che detta Convenzione non si applichi all'istituto in esame. Infatti, l'art. 2, § 2 stabilisce che essa si applica ai soli rapporti di adozione da cui derivi un rapporto permanente tra padre e figlio, sì che, mentre vanno ricompresi tutti i rapporti così qualificabili (a prescindere dal fatto che essi interrompano del tutto o solo parzialmente il legame di filiazione naturale), non altrettanto può dirsi dei rapporti di diversa natura. Il Rapporto esplicativo della Convenzione dell'Aja del 19.10.1996 (firmata, ma non ratificata dall'Italia), al punto 237, che "il ragazzo che ne beneficia (della kafalah, ndr.) non diviene membro della famiglia del kafil ed è questo il motivo per cui la kafalah non è protetta dalla Convenzione sull'adozione del 29 maggio 1993". Si è evidenziato, peraltro, il ritardo nella ratifica da parte del Parlamento italiano. Il ritardo "politico" non è certo privo di effetti quanto all'eliminazione degli inconvenienti che conseguono all'impossibilità di declinare, secondo moduli sovrapponibili, adozione e kafalah. --- Il sistema cui si è pervenuti successivamente alle modifiche della legge n. 184 del 1983, prefigura – quanto alla possibilità di ottenere il riconoscimento di adozioni avvenute all'estero – tre possibili "scenari": a) nel primo l'adozione riguarda minori che provengono da Paesi che hanno aderito alla Convenzione de L'Aja (in questo caso l'adozione "è riconosciuta"); b) nel secondo il minore proviene da Paesi che non hanno aderito alla detta Convenzione (in questo caso l'adozione "può essere riconosciuta"); c) nel terzo, infine, il minore proviene da Paese nel quale i genitori adottivi hanno avuto residenza per almeno due anni (anche in questo caso, come nel primo, l'adozione "è riconosciuta"). Dunque il Paese di provenienza è fonte, per il giudice italiano, di maggiore o minore discrezionalità. Fondamentale ulteriore parametro può essere ricavato da quanto disposto dagli artt. 35 e 36 (comma 2 e comma 4) della citata legge 184 nel testo modificato. Per quanto concerne i paesi aderenti alla Convenzione de L'Aja, il riconoscimento deve avere ad oggetto o "adozioni" o "provvedimenti" finalizzati a consentire l'adozione nel Paese di destinazione. Nel caso in cui i provvedimenti "possono essere riconosciuti", essi debbono consistere unicamente in adozioni o affidamenti "preadottivi". Nel caso in cui si tratti di Paesi dove i genitori adottivi abbiano avuto residenza per almeno due anni, i provvedimento da riconoscere deve consistere in una "adozione". --- Ci si è chiesto, a questo punto, quale può essere la collocazione della kafalah in tale quadro normativo. Le soluzioni che paiono più convincenti sono le seguenti. -Non sembra, innanzitutto, che la kafalah possa essere "tradotta" in termini tali da consentire di apprezzarla, ai sensi e agli effetti del nostro ordinamento, come adozione o come affidamento preadottivo, non avendone i tratti essenziali e lo scopo loro propri. -Neppure potrebbe essere "convertita" da adozione semplice (della quale ha le caratteristiche) in adozione legittimante, per il semplice fatto che detta "conversione" è possibile solo quando l'adozione sia conforme alla Convenzione, la quale, all'art. 2, § 2, "contempla solo le adozioni che determinano un legame di filiazione". -Quanto all'ipotesi in cui i kafil siano cittadini italiani residenti all'estero da almeno due anni, neppure in questo caso potrebbero prodursi gli effetti di cui all'art. 36, 4 comma, legge 184/1993, atteso che detto articolo parla solo ed esclusivamente di "adozione". La kafalah, pur essendo del tutto incompatibile con l'adozione legittimante, ha tratti che la rendono assimilante all'adozione di cui all'art. 44 legge n. 184/1983 (tale adozione, qualificata dalla legge come "adozione in casi particolari", è anche detta "semplice", "semipiena", "ordinaria", "non legittimante"). In questo tipo di adozione "l'adottato non assume la posizione di figlio legittimo, non tronca il rapporto con la famiglia di origine, della quale mantiene il cognome anche si vi aggiunge quello del genitore adottivo, non perde il proprio status giuridico e la propria cittadinanza, con la conseguenza che se il minore viene trasferito all'estero, continua a sussistere la protezione offerta dal suo Paese di origine. Inoltre, come nel caso della kafalah, il genitore adottivo assume il dovere di educare, istruire e mantenere il figlio, esercita su di lui la patria potestà ed il minore non acquista diritti successori nella famiglia adottiva. A differenza di quanto avviene con la kafala, il minore oggetto di adozione semplice acquisisce i diritti successori nei confronti dell'adottante ed i rapporti giuridici che lo legano a lui non cessano con la maggiore età" (Orlandi). L'applicabilità alla kafalah della normativa concernente l'adozione in casi particolari sembra convincente, ancorché debba precisarsi che siffatta applicabilità non si ricava per dettato esplicito della legge n.184/1983 la quale, sul punto, nulla dice espressamente e dunque esplicitamente non autorizza né vieta la predetta adozione. Sembra potersi concudere che non esista una soluzione pacifica e lineare quanto agli strumenti idonei a "recepire" la kafalah ai fini dell'adozione internazionale dei minori. Pur tuttavia la necessità di trovare una forma di tutela dei minori – in un'ottica di salvaguardia del superiore interesse degli stessi – sembra spingere, del tutto ragionevolmente, verso la ricerca di un excamotage che si presenti in linea con le esigenze minime di coerenza del nostro sistema. A tali esigenze risponde pienamente l'adozione in casi particolari (pur con taluni inconvenienti) che si lascia dunque preferire rispetto ad altri strumenti ipotizzabili. --- La kafalah non pone problemi solo nel suo rapportarsi all'istituto dell'adozione internazionale: analoghe difficoltà sorgono allorché si tenta di sussumere il rapporto tra kafil e makful sotto la previsione normativa di cui all'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Ci si è chiesto se il rapporto creato dalla kafalah possa essere assimilato a qualcuno dei rapporti indicati dalla norma appena citata, la quale, com'è noto, stabilisce che "ai fini del ricongiungimento (…) i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli". La prevalente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha affermato il principio secondo cui la kafalah può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 286/1998. La lettura prevalentemente offerta dalla Suprema Corte dell'art. 29, d.lgs. n. 286/1998 è ispirata ad un'ottica strettamente ancorata ai valori costituzionali presenti nel nostro ordinamento, utilizzando il canone ermeneutico della «esegesi costituzionalmente adeguata», per effetto del quale, ove i valori costituzionali di riferimento appaiano plurimi e antagonisti (come nel caso in esame: esigenza di protezione dei minori e tutela democratica dei confini dello Stato, con conseguente contenimento della immigrazione), la norma ordinaria può dirsi interpretata in maniera «adeguata» solo se sarà realizzato un «equo bilanciamento» di tali valori. Un bilanciamento effettuato «alla luce della scala di valori presupposta dal Costituente», e già operato in più occasioni dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze n. 198 e 295 del 2003) nel segno di una prevalenza del valore di protezione del minore, ovviamente anche straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio e contenimento della immigrazione. Una prevalenza che non può che apparire coessenziale ad una esegesi costituzionalmente orientata della disciplina del ricongiungimento familiare, tenendo in considerazione che «una pregiudiziale esclusione (come quella che pretende l'Amministrazione) del requisito per il ricongiungimento familiare per i minori affidati in "kafalah", penalizzerebbe (anche con vulnus al principio di uguaglianza) tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l'unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». La disposizione di cui all'art. 29, comma 2, d.lgs. 286/1998, deve, pertanto, essere interpretata estensivamente o comunque integrata in via analogica, sulla base della comparazione fra i presupposti e le caratteristiche del rapporto di kafalah e del rapporto di affidamento.
2008/2009 ; La nuova pressione cui è sottoposta l'Europa dopo la fine del mondo bipolare e a seguito dell'accelerazione dei flussi commerciali e di informazione dell'economia non ha solo ridisegnato il ruolo e le funzioni dello Stato. Essa obbliga anche l'Unione europea a ridefinire la sua identità e, in un certo senso, ad uscire dagli equivoci sulla finalità della costruzione comunitaria. Il modello di integrazione comunitario si trova ad affrontare un significativo banco di prova. Da un lato, infatti, è mutato il quadro di riferimento geopolitico e, con la fine della minaccia sovietica, è venuta meno una delle ragioni del sostegno incondizionato all'Ue da parte del suo più potente partner esterno, gli Stati Uniti, e delle ragioni che legavano indissolubilmente alcuni Stati membri, come la Germania, al progetto europeo. Dall'altro, l'intensità e la velocità degli scambi commerciali e dei flussi di informazione oltre i confini nazionali non sono più tratti distintivi della sola Europa, il che, se da un lato rende l'Unione un utile strumento per i suoi Stati membri, dall'altro rende oggi più difficile per i cittadini distinguere tra integrazione europea e globalizzazione e sviluppare un senso di appartenenza e lealtà nei confronti delle Istituzioni comunitarie. La ragion d'essere dell'Unione europea La fondazione delle Comunità europee ha segnato la pacificazione e la stabilizzazione di una regione contraddistinta dalla presenza di nazionalità e culture diverse in uno spazio tanto densamente popolato quanto scarso di risorse naturali in rapporto al fabbisogno e nel quale, vista anche la conformazione del territorio, l'intensità della circolazione delle merci, delle persone e delle idee era senza dubbio maggiore rispetto alle altre aree del mondo. La guerra fredda e la minaccia portata dal blocco orientale hanno senza dubbio creato dei presupposti favorevoli all'integrazione europea. Sin dal Recovery Act, infatti, gli Stati Uniti incentivarono gli europei a condividere le risorse messe a disposizione, in modo da vincere le storiche reciproche diffidenze ed è noto che uno dei padri fondatori dell'edificio comunitario, Jean Monnet, forte di un consolidato rapporto con Washington, innestò le proprie proposte su un terreno favorevole. Tuttavia, accettando di sottoporre ad istituzioni comuni la gestione di quelle che allora erano le principali fonti di energia e le materie prime dell'industria bellica (trattato della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio), e di eliminare tutti gli aiuti statali alle imprese nazionali che avrebbero potuto avvantaggiarle sul mercato interno (trattato della Comunità Economica Europea) gli Stati europei non siglarono semplicemente un trattato di pace o un'alleanza, ma rinunciarono alla gestione sovrana delle possibili risorse di offesa o aggressività reciproca. La rimozione alla radice delle cause dei conflitti attraverso la condivisione della sovranità nei settori che alimentano il potenziale aggressivo costituisce quindi la "formula" originale della costruzione europea. Deve osservarsi che i paesi fondatori erano spinti a questa scelta anche da interessi ben precisi. La necessità per la Germania di essere riammessa nel consesso delle nazioni democratiche e di poter utilizzare le proprie risorse naturali per la ricostruzione, la volontà della Francia di non sfinirsi per tentare di esercitare un controllo sul proprio vicino, del Benelux di non essere tagliato fuori, a detrimento dei propri porti, dall'integrazione dei due paesi, dell'Italia di agganciarsi al treno a sostegno della propria modernizzazione, costituirono valide motivazioni individuali anche a prescindere dalla condivisione di valori e dalla consapevolezza di un interesse comune. La nascita delle Comunità poggiò, comunque, su un diffuso consenso popolare, che però non sfociò mai in un vero e proprio sentimento identitario. Nella lenta transizione fino all'uscita dalla guerra fredda, il successo, soprattutto economico, delle Comunità europee, ha spinto altri nove stati ad agganciarsi alla costruzione, senza però che tutti ne condividessero profondamente le soluzioni di fondo. I timidi passi verso la costruzione di un'Europa dei cittadini si sono rivelati inadeguati di fronte alla rapida evoluzione dello scenario dopo la caduta del muro di Berlino ed al collasso del blocco orientale. La fine dell'equilibrio bipolare e la ridefinizione degli equilibri interni ed esterni all'Unione La fine dell'equilibrio bipolare e la riconversione delle economie pianificate in economie di mercato hanno prodotto una serie di trasformazioni che incidono sull'Europa. Il venir meno della cortina di ferro ha aperto, al confine orientale della Comunità, uno spazio relativamente vasto e meno densamente popolato, formato da Stati di piccola e media entità, transitoriamente o strutturalmente più deboli rispetto ai paesi dell'Europa occidentale. La Germania, riunificandosi, ha accresciuto il proprio peso demografico ed economico, disponendo di un PIL praticamente doppio rispetto a quello degli altri paesi maggiori dell'Unione. Inoltre, con la fine della guerra fredda e l'affievolimento della minaccia russa, è parzialmente venuta meno la sua necessità di ancorarsi politicamente ai suoi vicini occidentali. Le aree limitrofe dell'ex impero sovietico, a causa del vuoto di centri gravitazionali, si sono frammentate culturalmente e politicamente, iniziando fragili processi di nation-building e di ridefinizione delle loro politiche estere e di sicurezza. La crescente liberalizzazione del commercio e l'incremento produttivo dei paesi asiatici, la Cina in primo luogo, hanno posto l'economia dell'Europa occidentale di fronte alla necessità di una rapida riconversione e di un adeguamento del proprio sistema di welfare alla scarsità di risorse disponibili. Inoltre, anche sul piano del partenariato internazionale, l'Europa non può più considerarsi l'unico benefattore delle economie in via di sviluppo e, quindi, anche l'accesso privilegiato alle loro risorse naturali viene rimesso in discussione. La crescita demografica planetaria, il mancato sviluppo di molte aree del pianeta e la difficile riconversione di altre hanno creato imponenti flussi migratori, che si sono riversati, spesso sotto il controllo della criminalità organizzata, sull'Europa settentrionale, occidentale e meridionale, creando zone di marginalità e tensioni diffuse. Infine, lo sviluppo di centri economici e finanziari svincolati dal rapporto con il territorio retrostante e la differenziazione della velocità dei flussi commerciali e di informazione tra nodi principali e zone meno collegate del pianeta ha ampliato il divario tra lo stato sovrano come entità territoriale definita e la realtà dei sistemi economici moderni. Il maggiore polimorfismo geografico nell'ordine economico provoca una trasformazione anche dell'ordine politico, erodendo la sovranità dello Stato in corrispondenza dei punti di contatto significativi con il primo. L'autorappresentazione classica dell'Unione europea in termini di "unità nella diversità", frutto, prevalentemente, di un approccio storico-culturale sottace la circostanza che il suddetto dualismo non è stato ricondotto, nella maggioranza dei casi, ad una sinergia virtuosa. Nell'ultimo decennio, soprattutto, la dinamica unità versus diversità ha condotto, di fatto, ad una sostanziale neutralizzazione reciproca tra la spinta all'integrazione e quella al particolarismo, da cui è conseguita la persistente incapacità dell'Europa, e di ciascuno dei suoi protagonisti, ad affrontare le sfide cruciali del mondo globalizzato. Da un lato, quindi, nei rapporti tra i paesi europei, si è assistito ad una sorta di "ritorno al futuro", con il ricrearsi di equilibri ed atteggiamenti simili a quelli che avevano contraddistinto il periodo tra le due guerre mondiali. Dall'altro, la società europea appare fortemente frammentata e culturalmente meno omogenea, con aree di forte insicurezza sia al proprio interno che, soprattutto, ai propri confini. La riscoperta delle identità nazionali, che, come nell'età delle rivoluzioni liberali, poteva rivelarsi positivamente strumentale per alcuni paesi posti di fronte alla necessità di una ricostruzione politica ed economica, è quindi divenuta, in un contesto di generalizzata insicurezza percepita, un fattore comune a tutta l'Europa, fino ad alimentare, in alcuni casi in cui essa ha assunto tratti iconografici, divisioni e conflitti armati. Il fatto che ciò avvenga in corrispondenza dell'erosione del potere effettivo dello Stato-nazione può, forse, essere spiegato alla luce del fatto che, senza un quadro identitario che renda possibile la circolazione delle idee a livello sovranazionale, è aumentato il distacco tra le élites, economiche e politiche, che concorrono alla governance mondiale e i cittadini su cui essa produce i suoi effetti. Il quadro di riferimento nazionale appare quindi l'unico contenitore entro il quale manifestare le proprie istanze in modo percepibile. In una stagione in cui le identità assumono rilievo crescente, e spesso determinante, nelle scelte politiche, l'Europa si trova quindi a dover definire la propria con maggiore chiarezza rispetto al passato. L'Unione europea e le sue identità Il primo segno dell'adattamento dell'Europa comunitaria al nuovo scenario geopolitico ed economico è stata l'Unione economica e monetaria (UEM) che, avvenuta a coronamento di un processo in tre fasi e da una transizione non scevra da tensioni e prese di posizioni contrarie, si è rivelata un indubbio successo. L'Unione europea si trova infatti a disporre di una moneta sufficientemente forte da poter essere utilizzata nelle transazioni internazionali e da offrire alle economie degli stati membri una solida protezione in caso crisi o tensioni, garantendo stabilità al commercio e agli investimenti europei. Il continuo apprezzamento dell'Euro, sebbene possa costituire un freno alle esportazioni, è un segno evidente del successo di questa moneta e rivela potenzialmente il ruolo che, dopo la crisi della finanza statunitense e la sofferenza del dollaro, l'Europa potrebbe essere chiamata a svolgere. Oltre a garantire stabilità ai cambi, ai prezzi e ai tassi di interesse, l'Euro ha poi rappresentato un fattore di stabilizzazione del quadro europeo anche, sul piano politico, costituendo un punto di riferimento anche per le economie di molti paesi europei che non sono entrati a farne parte ed ancorando la Germania al progetto europeo. La Banca Centrale Europea (BCE) cui è affidata la gestione della politica monetaria, ha una forte visibilità anche sul piano internazionale, è rappresentata in tutti gli organismi pertinenti e costituisce parte attiva nel processo di sorveglianza multilaterale dell'economia mondiale. Sul piano monetario, l'Europa dispone quindi di uno strumento forte e di un interprete della sua politica facilmente individuabile. Con lo stesso trattato che ha istituito l'UEM, l'Unione si è data anche una politica estera comune (PESC) ed una politica di sicurezza e difesa (PESD). Essa non è però riuscita, in occasione delle maggiori crisi internazionali, a parlare con una sola voce e neppure ad arrivare ad una linea comune, dimostrando, in alcuni casi, una sostanziale incapacità a reagire con prontezza e, in altri, una divisione evidente. Migliore è stata, invece, la sua azione quando, passati i momenti di maggior virulenza, si è trattato di scongiurare il prolungarsi dei conflitti o la loro propagazione, o di assicurare e di ricostruire il tessuto economico e civile delle aree di crisi. L'Europa si è dunque rivelata più efficace nel contenere le crisi che nell'affrontarle: ciò non gli ha impedito di fare alcuni passi in avanti nell'integrazione e di teorizzare una propria identità di difesa. Una leva che l'UE ha utilizzato con maggiore efficacia è, invece, quella economico-commerciale: l'ampiezza dei fondi erogati per gli aiuti allo sviluppo e per gli aiuti umanitari, unita al peso della politica commerciale comune nei confronti dei paesi terzi ha permesso all'Unione di esercitare, spesso con successo, una politica di persuasione nei confronti dell'esterno, in modo da esportare i propri valori e garantire i propri interessi. La definizione di "potenza civile" che ne è scaturita non basta, però, a sopperire alle carenze dell'azione esterna dell'Unione e, soprattutto, non basta a guadagnarle il consenso sulle scelte operate da parte dei suoi cittadini che, pertanto, si orientano prevalentemente avendo come punto di riferimento il contesto nazionale. Sul piano interno, l'Unione ha tentato più volte di riformarsi, con esiti di volta in volta diversi. Nell'insieme, possono osservarsi una parziale ridefinizione del sistema decisionale (con un aumento dei settori di intervento dell'Unione, intaccando in molti settori il monopolio degli Stati membri, i quali però, a loro volta, hanno accresciuto la capacità di controllare e orientare le Istituzioni europee) e una momentanea incapacità di superare i limiti della sfera pubblica europea (che, pur allargatasi ad un numero elevatissimo di portatori di interessi settoriali, territoriali e diffusi, resta sostanzialmente circoscritta entro tale ambito) e di una politica di comunicazione che raggiunga la maggioranza dei cittadini. Al riguardo, è intervenuta recentemente la Corte Costituzionale tedesca che, pronunciandosi in merito al trattato di Lisbona, con cui l'UE ha riavviato il proprio processo di riforma, ha messo in rilievo, con una sentenza largamente commentata e discussa, le contraddizioni della costruzione europea, sottolineando l'imprescindibilità delle garanzie democratiche offerte dallo Stato moderno. Ogni riforma dell'Unione, che voglia dotarla di maggiore capacità di agire come attore globale, non potrà quindi prescindere dalla fondazione di un'identità condivisa. L'Unione europea, inoltre, pur avendo visto accrescere la propria sfera di azione con l'attribuzione di sempre nuove competenze e l'incorporazione di nuove aree geografiche, ha subito un rallentamento del proprio processo decisionale ed è stata a lungo esposta agli attacchi, a volte demagogici, di mezzi di informazione nazionali che hanno fatto leva proprio sui rinnovati sentimenti di appartenenza. In conclusione Il recupero di un'identità "forte" da parte dell'UE appare dunque una scelta obbligata qualora essa non voglia abdicare alla propria missione e lasciare che l'Europa scivoli in una posizione di tranquilla marginalità. La frammentarietà dell'azione comunitaria e la sovrapposizione tra intervento comunitario e azioni nazionali costituiscono i limiti più evidenti di questa via "pragmatica" alla costruzione europea. La complessità del processo decisionale comunitario e la sua parziale divergenza dalle regole classiche della democrazia appaiono i primi ostacoli da superare nell'ottica della definizione di un'identità più forte, che accresca il sentimento di lealtà da parte dei cittadini e favorisca l'individiazione di obiettivi e interessi comuni. Le più recenti riforme hanno privilegiato, invece, l'aspetto dei controlli e delle garanzie degli Stati a scapito, troppo spesso, della rappresentatività popolare e dell'efficienza delle Istituzioni. Inoltre, l'Unione dovrebbe evidenziare maggiormente gli aspetti autenticamente originali che stanno alla base dei suoi successi. Questo però, la obbligherebbe a sciogliere nodi irrisolti sin dal momento della sua fondazione. Per quanto le Istituzioni europee siano sorte in un clima di forte sostegno anche nei confronti della prospettiva di integrazione irreversibile e ad ampio raggio, esse sono state la risposta ad un problema concreto e contingente (gli approvvigionamenti di carbone e acciaio di Francia e Germania e il rilancio commercilale e industriale degli altri quattro paesi fondatori) venendo costruite in funzione di tale necessità. L'originalità delle prime Comunità europee risiedeva però nel superamento della concezione assoluta della sovranità nazionale (mai però nella sua cancellazione) e nell'istituzionalizzazione dell'interdipendenza tra gli Stati membri Più che la storia antecedente alla sua fondazione, l'Unione dovrebbe, insomma, recuperare la storia della sua fondazione, intesa però non come cronaca dei fatti che la prepararono, bensì come esplicitazione del principio ispiratore del suo funzionamento. L'Unione dovrebbe poi recuperare il rapporto con lo spazio, inteso sia come presenza delle sue Istituzioni sul territorio, che come delimitazione e caratterizzazione della sua espressione geografica. Le caratteristiche del territorio europeo, e le conseguenze della sua conformazione in termini di continuità e intensità degli scambi (dovuta al numero e alla praticabilità delle vie di comunicazione) pur nella separatezza delle comunità residenti (dovuta all'esistenza di molte barriere naturali) evocano, sul versante politico-identitario, un'idea di pluralità (piuttosto che diversità) nella coabitazione (piuttosto che nell'"unità, concetto che induce un'erronea impressione di livellamento delle differenze). Infine, va ricordato che la forza dei progetti europei di maggior successo è stata tradizionalmente quella di fondarsi su un'adesione di tipo "volontaristico" da parte degli Stati interessati. Anzi, è stata spesso la determinazione di alcuni ad attrarre i meno convinti, magari per timore di essere lasciati indietro. L'attuazione delle "geometrie variabili", sotto forma di "cooperazioni rafforzate" o "stutturate" (queste ultime nel campo della difesa), che altro non sono che la trasposizione, sotto l'aspetto politico, della varietà geografica dell'Europa e della diversa intensità dei rapporti tra le sue regioni, permetterebbe anzi di superare più velocemente il problema dell'incompletezza delle funzioni esercitate dal livello comunitario che è un limite oggettivo all'affermazione dell'Unione come soggetto compiutamente autonomo sulla scena internazionale. ; XXII Ciclo