La tesi affronta il tema della Quarta Rivoluzione Industriale da una duplice prospettiva: essendo il frutto dell'esperienza di ricerca applicata condotta nell'ambito del dottorato "Eureka", tende a realizzare una sintesi della ricerca puramente empirica e del dato reale, tratto dall'esperienza del lavoro svolto in una piccola impresa delle campagne marchigiane e dall'apprezzamento di ogni relativa difficoltà della stessa nella persecuzione della propria rivoluzione tecnologica. La struttura della ricerca si articola a cominciare dalla ricognizione del fenomeno europeo della Quarta Rivoluzione Industriale e si sviluppa attraverso l'analisi della produzione normativa e delle misure adottate dal governo italiano per la diffusione dell'Industria 4.0, ai fini dell'introduzione delle stesse nella gestione dello sviluppo tecnologico aziendale. Il secondo capitolo osserva l'effetto che la tecnologia esercita sulle attività quotidiane, trattandosi di una trasformazione che sottopone al proprio impatto le forme originarie della vita: il rapporto tra uomo e donna, il procreare, la paternità e la figliolanza, l'esperienza della malattia e della cura, il nesso del proprio corpo con il proprio spirito. La ricerca giunge, quindi, a sostenere la necessarietà dell'etica e della filosofia quali fattori ad alto potenziale trasformativo, imprescindibili nei percorsi educativi e nelle relazioni industriali, valorizzando il contributo che la tecnologia apporta, nel contesto sociale e produttivo, attraverso l'intelaiatura di connessioni, quando ispirata da valori etici e concepita per la tutela e la promozione dei diritti fondamentali dell'uomo. Si intende proporre un concetto di Rivoluzione Tecnologica che possa svilupparsi in funzione ed a salvaguardia delle più antiche necessità umane, evidenziando tre ambiti di leva: ricollegare le persone alla natura, ristrutturare le istituzioni e ripensare a come la conoscenza viene creata e utilizzata nel perseguimento della sostenibilità. Affrontare l'insostenibilità richiede che le società gestiscano in maniera sistemica le dimensioni biofisiche, sociali, economiche, legali ed etiche interagenti e la filosofia è chiamata a trovare un modo per pensare il proprio tempo sapendo, da un lato, contaminarsi umilmente con nuovi saperi, dall'altro, mantenere la propria vocazione di sapere che investe con sguardo critico l'esistente. Invero, il lavoro si sta ridefinendo in una nuova cornice, quella della responsabilità, della professionalità, dell'apprendimento costante, passando attraverso la valorizzazione dei tratti più virtuosi delle caratteristiche umane: la creatività, l'autonomia, l'empatia, la capacità di negoziazione e di interrelazione con gli altri. Il lavoro supera la dicotomia storica tra attività manuale e intellettuale e si spinge in direzione della valorizzazione della libertà intesa come riconquista dello spazio propriamente dedicato alle attività umane, alla riconnessione con l'interiorità e con la Natura. Posto che le istituzioni sono simultaneamente sia strutture oggettive esterne, sia sorgenti soggettive delle azioni umane, queste offrono un legame tra l'ideale e il reale, tra il modello e la realtà. Attori e strutture istituzionali, benché distinti, sono connessi in un circolo di interazione e interdipendenza reciproca. Una sintesi possibile risiede quindi nella necessità, da parte delle istituzioni, di insistere sulla convergenza di saperi umanistici e conoscenze scientifiche, nell'educare ingegneri filosofi e tecnici sensibili alle domande di senso e non solo all' efficienza e alla produttività. Lavorando sulla formazione di persone consapevoli della "utilità dell'inutile", insistendo sull'etica votata ad ispirare le azioni individuali, è possibile promuovere un dialogo onesto fra scienziati, imprenditori, politici e filosofi, rispettando la diversità di opinione ed integrando vicendevolmente le rispettive vedute. Il richiamo alla filosofia, all'etica, al "prendersi cura", è un rimando ad un concetto antico ed ancestrale, che chiede di vivere con equilibrio la nostra natura più profonda di esseri umani immersi in un ambiente digitale. ; The thesis deals with the topic of the Fourth Industrial Revolution from a double perspective: being the result of the applied research experience in the context of the "Eureka" doctorate, it tends to achieve a synthesis between purely empirical research and real data, taken from the experience of the work carried out in a small firm in the Marche countryside and from the appreciation of every difficulty in the persecution of its technological revolution. The research structure is articulated starting from an examination of the European phenomenon of the Fourth Industrial Revolution and develops through the analysis of the legislative production and the measures adopted by the Italian government for the diffusion of Industry 4.0, with the purpose of introducing them into the corporate technological development. The second chapter observes the effect that technology has on daily activities, since it is a transformation that affects the original forms of life under its impact: the relationship between man and woman, procreation, fatherhood and sonship, the experience of disease and treatment, the connection of one's body with one's spirit. The research therefore comes to underline the need of ethics and philosophy as factors with a high transformative potential, essentials in educational paths and industrial relations, by enhancing the contribution that technology brings, in the social and productive context, through the framework of connections, when inspired by ethical values and conceived for the protection and promotion of fundamental human rights. The research intends to propose a concept of Technological Revolution that might rise in the serve and for the safety of the most ancient human needs, highlighting three areas of leverage: reconnecting people to nature, restructuring institutions and rethinking how knowledge is created and used in the pursuit of sustainability. Tackling unsustainability requires societies to systemically manage the interacting biophysical, social, economic, legal and ethical dimensions and philosophy is called upon to find a way to think critically about the contemporaneity, on the one hand, humbly contaminating itself with new knowledge and, on the other hand, to maintain its vocation of knowledge that invests the existing with critical eye. Indeed, work is being redefined in a new framework, that of responsibility, professionalism, constant learning, through the enhancement of the most virtuous traits of human characteristics: creativity, autonomy, empathy, the ability to negotiation and interrelation with others. The work overcomes the historical dichotomy between manual and intellectual activity and goes in the direction of the enhancement of freedom as the reconquest of the space properly dedicated to human activities, to reconnecting with interiority and with Nature. Given that institutions are simultaneously both external objective structures and subjective sources of human actions, these offer a link between the ideal and the real, between the model and reality. Actors and institutional structures, although distinct, are connected in a circle of mutual interaction and interdependence. A possible synthesis therefore lies in the institutions insisting on the convergence of humanistic and scientific knowledge, educating philosophers and technical engineers that are sensitive to questions of meaning and not only to efficiency and productivity. By working on training people aware of the "usefulness of the useless", insisting on ethics aimed at inspiring individual actions, it is possible to promote an honest dialogue between scientists, entrepreneurs, politicians and philosophers, respecting the diversity of opinion and mutually integrating their respective views. The reference to philosophy, ethics, "taking care", is a reference to an ancient and ancestral concept, which asks us to live in balance our deepest nature as human beings immersed in a digital environment.
Il fenomeno del terrorismo internazionale è fra quelli che hanno da tempo interessato la comunità internazionale ma che, a seguito degli attentati perpetrati negli Stati Uniti nel settembre 2001, ha suscitato un interesse di rilievo tanto per la gravità di tali attentati, quanto per la necessità avvertita nella comunità internazionale di adottare misure atte a reprimerli. Sin dalle prime occasioni in cui la questione del terrorismo internazionale è stata affrontata nell'ambito delle Nazioni Unite, per limitarsi al secondo dopoguerra, è apparso chiaro quali fossero le profonde divergenze in merito alla sua definizione, ancora oggi attuali. Il dibattito si concentrò all'inizio essenzialmente su quali atti dovessero essere considerati terroristici, e più precisamente se tale nozione comprendesse solo il terrorismo di privati "sponsorizzato" da Stati o anche il terrorismo di Stato. Sin da allora si delineò una spaccatura nella comunità internazionale fra gli Stati occidentali, i quali circoscrivevano il dibattito al terrorismo di privati sponsorizzato da Stati, e gli Stati afro-asiatici ed arabi, che estendevano il dibattito anche e soprattutto al terrorismo di Stato, ovvero agli atti di aggressione compiuti da organi dello Stato in particolare contro i popoli i quali, legittimamente sulla base del diritto internazionale, lottavano per la propria autodeterminazione. Un ulteriore motivo di scontro emerse circa la volontà, manifestata dal gruppo degli Stati afro-asiatici e arabi, di non confondere gli atti terroristici con le azioni dei suddetti popoli. Tali divergenze hanno peraltro determinato l'impossibilità di trovare un accordo generale e/o universale per la predisposizione di strumenti giuridici che, condannando il terrorismo internazionale, prevedessero misure per la sua prevenzione e repressione. Una conferma di ciò è il quadro giuridico alquanto frammentato che risulta dalle varie convenzioni internazionali stipulate in questa materia. Da un lato, sono state stipulate convenzioni che hanno sì un carattere universale ma che si limitano a disciplinare singoli reati tradizionalmente associati al terrorismo internazionale, con ciò eludendo il problema di una sua definizione generale, e dall'altro, convenzioni a carattere regionale che, pur prevedendo una definizione del fenomeno in termini generali, sono limitate quanto alla loro efficacia soggettiva, nel senso cioè che vincolano solo un numero ristretto di Stati. I più recenti tentativi di adottare una convenzione generale a carattere universale, per il cui scopo l'Assemblea Generale ha istituito un Comitato ad hoc nel 1996, mostrano le difficoltà di raggiungere risultati univoci relativamente alla definizione di terrorismo internazionale proprio a causa del mancato accordo sulla distinzione tra atti di terrorismo e atti di resistenza contro potenze occupanti. Per quanto riguarda il terrorismo di Stato, nella prassi internazionale risulta che in tutti i casi in cui uno Stato ha compiuto un illecito internazionale considerato e condannato da altri Stati come atto terroristico, è stata in realtà denunciata la violazione di altre precise norme di diritto internazionale quali il divieto dell'uso della forza o il rispetto dei diritti umani. Tale considerazione sembra confermata non solo dagli Stati che hanno da sempre condannato il terrorismo di Stato chiedendo che fosse compreso nella definizione di terrorismo internazionale, ma anche dagli Stati che, come quelli occidentali, al contrario, vi si sono sempre opposti e che tuttavia non hanno negato, in principio, l'esistenza del terrorismo di Stato, sostenendo piuttosto che la sua disciplina fosse compresa in altre norme del diritto internazionale. Riguardo al rapporto fra terrorismo e autodeterminazione dei popoli, il diritto convenzionale comprende convenzioni a carattere regionale, le quali, quanto meno quelle stipulate fra gli Stati afro-asiatici e gli Stati arabi, pur condannando il terrorismo internazionale, lo distinguono dalle lotte di liberazione nazionale, e convenzioni a carattere universale disciplinanti singoli atti considerati manifestazione del terrorismo internazionale, e alle quali sono state apposte dichiarazioni o riserve da parte degli Stati afro-asiatici e arabi nel senso che tali convenzioni non si applicano ai freedom fighters. Si consideri inoltre che, a livello internazionale, non esistono documenti ufficiali che espressamente condannino gli atti compiuti nell'ambito di simili lotte in quanto terroristici, né la prassi degli Stati depone chiaramente, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori, nel senso che gli attacchi compiuti contro civili nell'ambito di tali lotte siano considerati ipso facto atti terroristici. È significativo il noto parere della Corte Internazionale di Giustizia del 9 luglio 2004 sulla Liceità della costruzione del muro da parte di Israele nei territori occupati palestinesi, nel quale, per indicare gli attacchi palestinesi da cui Israele riteneva di avere il diritto di difendersi, e da esso considerati terroristici, si parla, non a caso e in tutta la sentenza, di "atti di violenza contro la popolazione civile" (par. 141), piuttosto che di atti di terrorismo. In breve, la qualificazione come terroristici degli atti compiuti nell'ambito di lotte per l'autodeterminazione non ha un riscontro oggettivo nel diritto internazionale. Una simile conclusione è rafforzata dalla circostanza che, soprattutto in seguito agli attentati che hanno colpito gli Stati Uniti nel settembre 2001, la gran parte degli Stati sembra avere trovato una base di consenso su una definizione di terrorismo internazionale. Interessanti sono i dibattiti tenutisi a partire dall'11 settembre 2001 nell'ambito dell'Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, laddove può notarsi come le opinioni degli Stati i quali si sono da sempre opposti ad includere nella definizione di terrorismo internazionale gli attacchi compiuti dai freedom fighters, e pur continuando a farlo, sono tuttavia concordi con gli Stati occidentali sulle caratteristiche del terrorismo internazionale, quantomeno su alcuni punti. L'opinione diffusa è che il terrorismo internazionale vada oggi inteso nel senso di atti violenti compiuti da reti transnazionali o globali, cioè distaccate da qualsiasi Stato e non localizzabili spazialmente. In termini più specifici, si fa sempre più strada nella prassi recente l'idea che il terrorismo internazionale abbia delle caratteristiche ben precise, le quali possono sintetizzarsi essenzialmente in tre elementi. In primo luogo, si tratta della perpetrazione di atti di indiscriminata violenza diretti sia contro obiettivi civili, sia contro obiettivi militari/governativi. Il secondo elemento attiene agli autori dei suddetti atti. Si tratta essenzialmente di privati o gruppi di privati che agiscono in quanto tali e che quindi non rispondono ad uno Stato, nel senso che non agiscono per conto, latu sensu, di esso, né necessariamente con la sua protezione, ma che piuttosto ne utilizzano il territorio o altri strumenti per esigenze logistiche e di spostamento. Il terzo elemento riguarda lo scopo perseguito che è quello di sovvertire/destabilizzare l'ordine mondiale, piuttosto che singoli Stati, cosi come inteso dalla generalità degli Stati. Tali caratteristiche del terrorismo internazionale emergono molto chiaramente dal rapporto, del 16 giugno 2004, predisposto dalla National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, istituita negli Stati Uniti in seguito agli attentati dell'11 settembre 2001, per chiarire tutte le responsabilità ad essi relative, e dall'altrettanto importante rapporto d'informazione sulla cooperazione internazionale contro il terrorismo presentato il 6 luglio 2004 nell'ambito della Commissione affari esteri in Francia, oltre che dalla legislazione antiterrorismo degli stessi Stati arabi e afro-asiatici.
2007/2008 ; L'inizio di secolo 21 a rivelato al mondo intero l'inizio di una guerra di piccoli dimensioni. La geopolitica e un gigante formato da una serie di 2 giocatori di scacchi , di cui questi giocatori cercano di ottenere vantaggi di posizione. In questo gioco e cruciale di conoscere le regole attuali che governano questi movimenti. I cavalieri non può muoversi in diagonale. Dal 1945 fino al 1989, il gioco principale sulla scacchiere e stato tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, è stato chiamato "La Guerre Fredda". Oggi, il gioco e tra l'Unione Europea e Russia , e metaforicamente è stato chiamato "La Guerre Fredda del Gas". La sicurezza energetica europea confronta una serie di sfide per quanto riguarda la dipendenza dell'Unione Europea delle risorse energetiche russe e della necessità di diversificazione dei mezzi di trasporto su le risorse energetiche, si fa riferimento principalmente a gas naturale. Lo scopo di questa tesi di dottorato e quello di indagare la situazione attuale, a partire da l'idea che ci sono gravi preoccupazioni in Europa per quanto riguarda il fatto che la Russia potrebbe utilizzare le sue esportazioni di energia come arma politica per poter finalizzare la sua supremazia politica . Questa tesi si concentra sull'identificazione di una soluzione per quanto riguarda le maggiori preoccupazioni dei europei - la sicurezza dell'approvvigionamento energetico, iniziando a sviluppare nuovi vie di acceso alle risorse energetiche. Per una migliore comprensione, ho pensato la mia tesi come una scacchiera, avendo come scommessa - il sviluppo di nuovi gasdotti, con due giocatori principali (l'Unione Europea e la Russia), un giocatore chiave - La Regione del Mar Nero - e, naturalmente, con una soluzione. Le principale domande di questa ricerca sono: Nell'Unione Europea allargata può essere vero che la Russia potrebbe tentare di utilizzare le sue esportazioni di energia come un'arma politica per raggiungere la supremazia? Per vincere sarà utilizzato il prezzo dell'energia per ottenere questo vantaggio? Per poter rispondere a queste due domande se deve prima capire le relazioni tra l'Unione Europea e la Russia, e qual è il ruolo che il Mar Nero svolge in questo problema. Questo tipo di ricerca proporre un quadro teorico d'analisi, avendo come metodo di analisi, un metodo quantitativo ( di contenuto ) e un metodo qualitativo ( le discussioni informali con gli esperti di questo settore ). Per poter essere più precisa, per quanto riguarda l'ipotesi della tesi, ho avuto alcune discussioni informale con gli esperti del settore energetico e dei affari europee, in Europa, della zona del Mar Nero e della zona Caspio, paesi che sono direttamente coinvolti nel problema energetico, per discutere e analizzare l'impatto che ha la politica estera energetica russa, che se trova in pieno sviluppo sul Europa e sulla sicurezza europee, a partire dalla crisi del gas provocata dalla Russia, che ha avuto un impatto reale, influenzando considerevole l'economie europee a partire dal 2006 fino ad oggi. Il mio punto di vista è che la Russia cercherà attraverso vari mezzi di consolidare la dominazione come Leader Mondiale, usando i mezzi che gli ha - il prezzo d'energia, e il mio parere e che l'unico modo per risolvere questo problema e di cominciare a diversificare l'accesso alle risorse energetiche, sviluppando una strategia in piano energetico che collegano l'Europa dal bacino del Mar Caspio attraverso la regione del Mar Nero. Se questa strategia avrà successo, l'Europa sarà in grado di ridurre l'influenza della Russia e di creare un clima sicuro dal punto di vista energetico. Per quanto riguarda il metodo di analisi quantitativo, la teoria è basata sulla lettura di alcuni libri di riferimento dal settore energetico e quello di relazioni internazionali, con la partecipazione a conferenze e seminari sia in Romania e all'estero, compreso uno stage di formazione alla Direzione di Energia e Trasporti della Commissione Europea , il monitoraggio delle notizie e degli articoli di stampa di questo settore ( Mediafax ,Journal of European Public Policy , Euractiv , Eurobserver , Eupolitix , CNN , BBC , Euronews ). A partire da una ricca esperienza in questo settore energetico e da una cooperazione transfrontaliera, la mia tesi desidera sottolineare l'importanza di una sicurezza energetica europea in quello che riguarda l'approvvigionamento dell'Europa con l'energie. Nei seguenti capitoli di questa tesi ho studiato alcuni aspetti guardando la dipendenza energetica europea nei confronti della Russia e il ruolo dalla regione del Mar Nero, come un ponte di accesso alle fonti alternative di energia, diverse da quelle russe. Il primo capitolo inizia con due opinioni sulla sicurezza energetica e economica europea,che rivela la vulnerabilità dell'Europa, pero anche il suo potenziale che si divide tra l'Europa e gli stati dell'Eurasia Centrale. La tesi discuterà del ruolo di Gasprom sia nella politica interna e nella estera russa, che rivela una cattiva immagine della diplomazia energetica russe. Seguendo questa rotta, il obiettivo si muove da sud a est. Un capitolo parla del ruolo determinato che lo ha la regione del Mar Nero come un ponte di accesso nella sicurezza energetica europea , seguita da capitoli destinati a rivelare il ruolo specifico della Turchia in questo problema. Nel piano secondario, due progetti specifici di infrastrutture sono studiati - Nabucco e Il Gasdotto South Stream, finendo con una soluzione su un gasdotto Trans-Caspian. La tesi si conclude con l'indicazione di una strategia sulla diversificazione delle vie d'accesso energetiche. In questo momento, possiamo dire che lo scopo di questa ricerca è stato quello di definire una possibile soluzione per poter uscire da sotto la dominazione russa, quella di sviluppare una strategia comune al livello europeo sulla diversificazione del accesso alle risorse energetiche dalla regione Caspio al Mar Nero in Europa. In questo senso, la strategia energetica europea si prevede di continuare a raggiungere di tali obiettivi promuovendo nuove rotte di trasporto sicuro e al sviluppo economico territoriale, trasformando l'Europa più sicura nel accesso alle risorse energetiche. L'Unione Europea detiene in questo momento tutti gli strumenti di una politica estera per promuovere la stabilità politica e la riforma economica, per il sviluppo e il rafforzamento della democrazia e delle legislazioni nazionali, e aumentare i diritti e le libertà umane nei paesi della regione del Mar Caspio. Il più importante, le relazioni europeo - Mar Caspio , dovrebbero essere estese per quanto riguarda le dimensioni bilaterale e regionale dal punto di visto economico e commerciale e al livello diplomatico. L'ultimi eventi che sono stati sulla scacchiera energetica fornisce una vera e propria importanza alla regione del Mar Caspio per esercitare una notevole importanza come uno centrale geo-strategico, e all'Unione Europea per poter esercitare il ruolo del Leader Mondiale nella regione . Comunque per rendere reale ( per effettuare ) questo compito difficile, l'Europa deve rispettare alcuni consigli per poter formulare una strategia energetica comune nella zona del Mar Caspio , come : di eliminare gradualmente la dominazione Gasprom da Azerbaijan . di offrire supporto economico e politico allo scopo di costruire il progetto Nabucco e di costringere alla costruzione di un gasdotto Trans-Capian , intervenire sul mercato per assicurare la diversità e di impedire il monopolio della fornitura delle risorse energetiche verso l'est d'Europa . di garantire la stabilità e la sicurezza nei paesi di transito e di risolvere il conflitto di Nagorno Karahbak , e imporre dei impegni più grandi sul processo di Minsk di pensare seriamente come negoziare con Turkmenistan, mettendo nella bilancia l'apertura energetica con una generosa offerta, pero senza un coinvolgimento troppo grande sulle riforme politiche e economiche. Questo farà una chiamata alla diplomazia e tatto, e alla superiorità tecnologica e tecnica del ovest di poter pagare. Come una conclusione finale, l'Ovest , incluso l'Unione Europea e gli Stati Uniti, deve ripensare il più rapido possibile le sue politiche energetiche e non-energetiche nei confronti di Russia . Cosi come possiamo osservare in questa tesi , l'Ovest detiene veramente il vantaggio economico e politico di poter costringere la Russia per diventare più trasparente e commerciale nei confronti delle sue politiche energetiche estere . Non può più permettere a Mosca di minacciare la sicurezza energetica d'Europa , avendo la possibilità insieme al entrata dalla Romania e Bulgaria nell'Unione Europea in gennaio 2007 di sviluppare nuove rotte sul accesso alle risorse di gas dalla zona Caspio attraverso il Mar Nero in Europa. ; The beginning of 21st century revealed to the world the beginning of a small war proportion. Geopolitics is a gigantic series of two player chess games, in which the players seek positional advantage. In these games it is crucial to know the current rules that govern the moves. Knights are not allowed to move diagonally. From 1945 to 1989, the principal chess game was the one between the United States and the Soviet Union and it was called the "Cold War". Nowadays, the chess game is between European Union and Russia and it is called metaphorically the "Gas Cold War". European energy security is facing a set of serious challenges connected to Europe's dependence on Russian energy and the need for diversifying energy supply sources. Now days, European Union and Russia arrived at a crossroad regarding their agreements on energy matters. The target of this PhD is to explore the current situation, leaving from the fact that are serious concerns in Europe that Russia may try to use its energy exports as a political lever in order to settle its supremacy on the political board. This thesis focuses on finding a solution towards the European's major concern – energy security of supply, by start building new routes of gas supply. For a better understanding, I structured my paper like a chase board, with a stake – new routes of gas supply, with two major players – European Union and Russia, one key actor – The Black Sea Region and of course with a solution. The main research questions of this thesis are: In the enlarged European Union it could be true that Russia may try to use its energy exports as a political lever in order to settle its supremacy? And, in order to be successful it will use the energy price to obtain the leverage? To answer these questions a first step is to understand the relations between EU and Russia and the role that, the Black sea region plays in this meter. The research proposes a theoretical framework, using a quantitative analyze method (analysis of content) and a qualitative analyze method (informal discussions with experts from this area). In order to be more precisely with my thesis assumption, I carry out some informal discussions with experts from energy and international affairs area, from Europe, Black sea and the Caspian region, countries who were involved in the energy case, to discuss and to analyze the impact of Russia's increasingly assertive foreign energy policy on Europe and European security, started from the gas crises launched by Russia that have a real affect on Europe economy from 2006 till nowadays. My point of view is that Russia will try through different ways to consolidate its dominance as a Global leader, using its most convenient means – the "energy price" and my believes were that the only way to solve the problem is by start building a diversification supply strategy that could link Europe to the Caspian basin through the Black sea region. If this strategy will succeed, Europe will be able to reduce the Russian influence and to create a safer life climate. Regarding the quantitative analyze method, the theoretical framework was foundated by reading some record books in the international relations and energy field, by participating to conference and seminars in Romania and outside the country, including a stage at the European Commission on energy matters, monitoring the news and the press articles in this field (Mediafax, Journal of European Public Policy, Euractiv, Eurobserver, Eupolitix, CNN, BBC, Euronews). Starting from the successful work experience in the energy field and cross-border cooperation, my thesis aims to deepen the understanding of the European Union energy security of supply. In the fallowing chapters of my thesis, I studied several aspects of Europe's energy dependence on Russia, and the role of the Black Sea region as a source of alternative supplies. The first chapter begins with two overviews of Europe's economic and energy security, which show Europe's vulnerability, but also the potential lying in the complementarities between Europe and the states of Central Eurasia. The paper then proceeds to discuss the role of Gazprom in both Russian domestic and foreign policy, respectively, which provide a disturbing picture of the emerging Russian energy diplomacy. Following this, the focus shifts south and east. A chapter puts forward the role of the emerging Black Sea region as a hub in European energy security, followed by chapters devoted to the specific role of Turkey. Subsequently, two specifically important infrastructural projects are studied – the Nabucco and the South stream pipelines, ending with a pipeline solution as a Trans-Caspian pipeline. The paper final concludes with the outlining of a supply diversification strategy. At this point we can say that the aim of this paper-study was to define what might be a solution to get out under the Russian dominance and to offer as a possible solution the developing of a common European energy supply strategy from the Caspian region thorough the Black Sea into the European Union. In this sense, the EU energy supply strategy is expecting to contribute to achieving these objectives by promoting new safe routes of supply and a balanced and sustainable development of the territory, making European Union safer concerning its energy supplies. The EU holds all the foreign policy instruments required to promote political stability and economic reform, develop and straighten democracy and the rule of law, and enhance the respect of human rights and fundamental freedoms in the countries of the Caspian region. Most importantly, the EU-Caspian relations need to be further expanding in the bilateral and regional dimensions of economy and trade, as well as at diplomatic level. The last events that occurred in the energy chess board had give a real chance to the Caspian region to exert its importance as a significant geo-strategic pivot, as well as to the EU to play a global role in the region. However, making this a reality is fraught with difficulty and Europe must respect some recommendations in order to formulate a common energy strategy in the Caspian area, such as: move swiftly to thwart Gazprom's overtures to Azerbaijan. give the political and economic backing to get Nabucco built and push for the creation of the trans-Caspian, intervening in the market to ensure diversity and prevent a monopoly of supply to Eastern Europe. ensure stability of transit countries, push to resolve Nagorno Karahbak, greater commitment to the Minsk process. think seriously about how to deal with Turkmenistan, balancing energy overtures with generous but not overbearing support for political and economic reforms. This will require concerted diplomacy and reassertion of western technological and technical superiority and ability to pay. As a final conclusion, the West, including the EU and the United States, needs to quickly rethink its energy and non-energy policies towards Russia. As we can see in this paper, the West does have the economic and political leverage to force Russia to become more transparent and commercial in its foreign energy policies. It cannot allow Moscow to threaten the energy security of Europe anymore, having the possibility since the accession of Romania and Bulgaria to the EU in January 2007 to develop new routes of gas supply from the Caspian area through the Black sea into Europe ; XX Ciclo
This article concerns an issue that has become increasingly relevant for international coalition forces participating in joint military operations abroad, viz. the duty to collect, document, record and secure evidence of serious violations of international humanitarian law (IHL) and international human rights committed in armed conflicts. The point, simple as it seems, is that respect for justice and international humanitarian law requires that perpetrators of war crimes etc. be brought to justice. Yet prosecution and trial of these crimes cannot succeed without material proof and information that meet the standards for admission into evidence in criminal trials. However, judicial experience from international criminal trials suggests that much of the evidence produced in Court fails to meet this standard – and is therefore dismissed.
The article highlights the need to secure evidence of these crimes and proposes five simple basic recommendations for military personnel who come across evidence of serious violations of international humanitarian law in armed conflicts: (1) be familiar with the elements of genocide, crimes against humanity, war crimes and aggression; (2) know the rules of the game regarding collection of evidence, including the duty to respect local norms and authorities and to follow any international rules or agreements, and the duty to comply with obligations to seek authorization for investigation from domestic authorities; (3) be careful in your registration and handling of evidence material; (4) be careful not to hurt yourself or others when you search for evidence; and (5) stay critical and impartial to all material and information you receive from others.
Cet article aborde un problème que les forces armées des coalitions internationales rencontrent de plus en plus souvent lorsqu'elles participent à des opérations militaires conjointes à l'étranger: l'obligation de rassembler, de documenter, d'enregistrer et de garantir des preuves de violations graves du droit international humanitaire et des droits de l'homme lors de conflits armés. Aussi simple qu'il paraisse, le principe est le suivant: le respect de la justice et du droit international humanitaire implique que les auteurs de crimes de guerre et autres soient traduits en justice. Toutefois, les poursuites judiciaires et le procès qui s'ensuit ne peuvent aboutir sans preuves matérielles et informations qui répondent aux normes d'admission de la preuve dans les procès au pénal. L'expérience judiciaire de ces procès internationaux suggère néanmoins que bon nombre des preuves présentées au tribunal ne répondent pas à ces normes et sont dès lors rejetées.
L'auteur insiste sur le besoin de fournir des preuves de ces crimes et propose cinq recommandations de base pour le personnel militaire qui aurait des preuves de violations graves du droit international humanitaire dans les conflits armés: (1) informez-vous sur les différents éléments qui composent le génocide, les crimes contre l'humanité, les crimes de guerre et les agressions; (2) connaissez les règles relatives au rassemblement de preuves, y compris le devoir de respecter les normes et autorités locales, de suivre les règles et accords internationaux, et de se conformer à l'obligation d'obtenir une autorisation des autorités nationales pour mener une enquête; (3) soyez prudents lorsque vous enregistrez et utilisez des éléments de preuve; (4) veillez à ne pas causer de tort aux autres ni à vous-même lorsque vous cherchez des preuves; et (5) restez critique et impartial lorsque vous recevez des informations d'autres personnes.
Dit artikel bespreekt een kwestie die van toenemend belang is voor internationale coalitietroepen die deelnemen aan gezamenlijke militaire operaties in het buitenland, nl. de plicht om bewijs van ernstige schendingen van het internationaal humanitair recht (IHR) en van de mensenrechten in gewapende conflicten te verzamelen, te staven, vast te leggen en veilig te stellen. Het punt, hoe eenvoudig ook, is dat het respect voor de rechtspleging en het internationaal humanitair recht vereist dat de daders van oorlogsmisdaden enz. voor het gerecht worden gebracht. Toch kunnen deze misdaden niet succesvol vervolgd en berecht worden zonder materieel bewijs en informatie die voldoen aan de normen om als bewijs in strafprocessen te worden toegelaten. De ervaring uit internationale strafprocessen leert echter dat veel van het bewijsmateriaal dat in de rechtbank wordt aangedragen, niet aan deze norm voldoet – en daarom wordt verworpen.
Het artikel benadrukt de noodzaak om het bewijs van deze misdaden veilig te stellen en stelt vijf eenvoudige basisaanbevelingen voor aan militairen die in gewapende conflicten bewijzen van ernstige schendingen van het internationaal humanitair recht aantreffen: (1) wees op de hoogte van de elementen van genocide, misdaden tegen de menselijkheid, oorlogsmisdaden en agressie; (2) ken de regels van het spel met betrekking tot het verzamelen van bewijs, met inbegrip van de plicht om de lokale normen en autoriteiten te respecteren en om alle internationale regels of overeenkomsten te volgen, evenals de plicht om te voldoen aan de verplichting dat aan binnenlandse autoriteiten toestemming moet worden gevraagd om een onderzoek in te stellen; (3) let op bij het registreren en behandelen van bewijsmateriaal; (4) zorg ervoor dat je jezelf of anderen geen schade berokkent wanneer je naar bewijs zoekt; en (5) blijf kritisch en onpartijdig ten opzichte van al het materiaal en de informatie die je van anderen ontvangt.
El artículo aborda un problema que con el tiempo ha adquirido una importancia relevante para las fuerzas en coalición que participan en operaciones conjuntas en el exterior, tal cual es el deber de recoger, documentar, registrar y asegurar las pruebas de crímenes graves contra el Derecho Internacional Humanitario (DIH) y contra los derechos humanos cometidos en los conflictos armados. El asunto, tan simple como parece, es que el respeto por la justicia y el Derecho Internacional Humanitario exige que en definitiva los perpetradores de crímenes de guerra sean llevados ante la justicia. Sin embargo, la acusación y el enjuiciamiento de estos crímenes no pueden prosperar sin una prueba material e información que reúna los requisitos necesarios para ser admitida como prueba de cargo en juicios penales. Al hilo de esto, la experiencia judicial en procedimientos penales internacionales demuestra que muchas de estas pruebas presentadas ante un tribunal no cumplen con estos estándares y, por consiguiente, son rechazadas.
El artículo resalta la necesidad de asegurar la prueba de estos crímenes y propone cinco recomendaciones básicas para el personal militar que deba requisar estas pruebas relativas a crímenes graves contra el Derecho Internacional Humanitario en conflictos armados: (1) Familiarizarse con los elementos constitutivos del crimen de genocidio, crímenes contra la humanidad, crímenes de guerra y crimen de agresión; (2) Conocer las reglas del juego relativas a la recogida de pruebas, incluido el deber de respetar las normas y a las autoridades locales y cualquier otra regla o acuerdo internacional, y el deber de cumplir con la obligación de solicitar autorización a las autoridades locales para llevar a cabo investigaciones; (3) Ser diligente en el registro y manejo de las pruebas materiales; (4) Tener cuidado de no dañarse o dañar a otros en la búsqueda de las pruebas; y (5) tener una actitud crítica e imparcial ante las pruebas e información que se reciba de otros.
Questo articolo tratta di una questione che è diventata sempre più rilevante per le forze di coalizione internazionali che partecipano ad operazioni militari congiunte all'estero, vale a dire il dovere di raccogliere, documentare, registrare e mettere al sicuro le prove di gravi violazioni al diritto internazionale umanitario (IHL) e dei diritti umani commesse nei conflitti armati. Il punto, semplice come appare, è che il rispetto della giustizia e del diritto internazionale umanitario richiedono che gli autori di crimini di guerra etc. siano assicurati alla giustizia. Però l'azione penale e il processo per tali crimini non possono avere successo senza prove materiali e informazioni che soddisfino gli standard per l'ammissione come prova nei processi penali. Tuttavia, l'esperienza giudiziaria dei tribunali penali internazionali suggerisce che molte delle prove prodotte nei tribunali non soddisfano questi standard e perciò vengono respinte.
Questo articolo evidenzia la necessità di garantire prove di questi crimini e propone cinque semplice raccomandazioni di base per il personale militare che si imbatte in prove di serie violazioni al diritto internazionale umanitario nei conflitti armati: (1) Conoscere gli elementi del genocidio, dei crimini contro l'umanità, dei crimini di guerra e dell'aggressione; (2) Conoscere le regole del gioco riguardo la raccolta delle prove, compreso il dovere di rispettare le norme e autorità locali e di seguire qualsiasi regola o accordo internazionale, e il dovere di rispettare gli obblighi di chiedere l'autorizzazione alle indagini alle autorità nazionali; (3) Fare attenzione nella registrazione e gestione del materiale probatorio; (4) Fare attenzione a non fare del male a se stessi od altri nella ricerca delle prove; e (5) Rimanere critici ed imparziali nei confronti di tutto il materiale e delle informazioni ricevute da altri.
Dieser Artikel behandelt eine Angelegenheit, die für die Streitkräfte internationaler Koalitionen, die sich an gemeinsamen Militäreinsätzen im Ausland beteiligen, an Relevanz gewinnt, nämlich die Pflicht, Beweismittel schwerer Verletzungen des internationalen humanitären Rechts und internationaler Menschenrechte in bewaffneten Konflikten zu sammeln, zu dokumentieren, aufzuzeichnen und sicherzustellen. Der Kernpunkt, so einfach dieser scheinen mag, besteht darin, dass Respekt vor der Justiz und dem internationalen humanitären Recht erfordert, dass Täter von Kriegsverbrechen, usw. vor Gericht gebracht werden sollen. Dennoch können die Verfolgung und Ahndung dieser Verbrechen ohne materiellen Beweis und Informationen, die den Standards zur Zulassung als Beweismittel in Strafprozessen gerecht werden, nicht gelingen. Die gerichtliche Erfahrung internationaler Strafprozesse weist allerdings darauf hin, dass manche der dem Gericht unterbreiteten Beweise diesen Standards nicht gerecht werden, und somit abgewiesen werden.
Der Autor unterstreicht, dass es notwendig ist, Beweise für diese Verbrechen sicherzustellen, und schlägt fünf einfache Grundempfehlungen für Militärangehörige vor, die auf Beweise schwerer Verletzungen des internationalen humanitären Rechts in bewaffneten Konflikten stoßen: (1) Sorgen Sie dafür, dass Sie die Elemente des Genozids, der Verbrechen gegen die Menschlichkeit, Kriegsverbrechen und Aggressionen kennen; (2) seien Sie mit den Spielregeln hinsichtlich der Sammlung von Beweisen vertraut, und dies einschließlich der Pflicht, örtliche Normen und Autoritäten zu respektieren, irgendwelche internationale Regeln oder Abkommen zu befolgen und die Verpflichtungen zu erfüllen, um die Genehmigung zur Durchführung von Ermittlungen von den Behörden des betreffenden Landes einzuholen; (3) seien Sie vorsichtig bei Ihrer Erfassung von bzw. Ihrem Umgang mit Beweismaterial; (4) sorgen Sie dafür, dass Sie sich selbst oder anderen keinen Schaden zufügen, wenn Sie nach Beweisen suchen; und (5) bleiben Sie kritisch und unvoreingenommen in Bezug auf all das Material und alle Informationen, die Sie von anderen erhalten.
Questa tesi contribuisce al dibattito sulla Europeizzazione delle preferenze di policy dei cittadini. Questa forma di Europeizzazione si sostanzia nel sostegno dei cittadini per una governance Europea in strategici settori di policy. Utilizzando dati di sondaggio provenienti dalla ricerca Intune 2009 e da Eurobarometro, questo lavoro studia la struttura del sostegno per una governance Europea, distinguendo tra una generica preferenza per una maggiore governance e una specifica preferenza che varia tra i diversi settori di policy. Inoltre, questa tesi analizza quali sono i fattori che influenzano lo sviluppo di questi due tipi di sostegno. Nel Capitolo 1 attraverso uno studio della letteratura sulle macro teorie dell'integrazione Europea vengono presentati tre modelli alternativi che definiscono la struttura del sostegno per una governance politica Europea. Questi tre modelli sono in seguito testati e dibattuti nel prosieguo della tesi. Il Capitolo 2 fornisce una definizione del concetto di 'EU support' basata su precedenti studi teorici e empirici. Questa definizione identifica quattro dimensioni che sottostanno al concetto di 'EU support': • 'Output legitimacy': sostegno per gli output prodotti dall'Unione Europea; • 'EU governance legitimacy': sostegno come generica propensione ad affidare le decisioni di policy all'Unione Europea; • 'European identification': sostegno inteso come identificazione nella comunità politica europea; • 'EU democracy': sostegno inteso come percezione di rappresentanza politica a livello europeo. Il Capitolo 3 misura queste quattro dimensioni attraverso un modello a dimensioni latenti sui dati della ricerca Intune 2009, confermando che queste dimensioni sono sufficientemente stabili e invarianti attraverso i diversi paesi dell'Unione Europea. Il Capitolo 4 affronta l'analisi delle determinanti di queste quattro dimensioni del sostegno. I risultati dimostrano che quattro fattori influenzano in modo significativo il sostegno all'UE: 1) 'identificazione nazionale esclusiva' 2) 'attaccamento alla nazione' 3) 'fiducia nelle istituzioni nazionali' 4) 'valori politici'. Questi fattori influenzano il sostegno all'UE in tutti i paesi (quindici) oggetto dell'indagine, ma il loro effetto varia in base a quale dimensione del sostegno si considera: la propensione ad affidare le decisioni di policy all'UE ('EU governance legitimacy') viene influenzata solamente dal fattore 'identificazione nazionale esclusiva'. Inoltre, questo capitolo indaga anche la presenza di una gerarchia tra le quattro dimensioni del sostegno, derivando questa ipotesi dalle teorie neo e post-funzionaliste e da alcuni studi empirici. Tuttavia, i risultati provano che le dimensioni di 'Output legitimacy', 'European identification' e 'EU democracy' non influenzano in modo considerevole e diffuso quella di 'EU governance legitimacy'. Partendo da questo risultato, il Capitolo 5 esplora un percorso diverso, facendo un'analisi policy per policy. Infatti si concentra sull'influenza di questi ed altri fattori sulla propensione ad affidare le decisioni di policy all'Unione Europea in specifici settori politici. Da questa analisi emerge che fattori legati all'utilità soggettiva, all'identità europea e alla rappresentanza politica giocano un ruolo differente nei diversi settori: 'Output legitimacy' e 'European identification' sono le più importanti determinanti della propensione a sostenere una governance europea, ma i loro effetti sono rafforzati (o depotenziati) dalle specifiche caratteristiche delle diverse aree di policy. 'Output legitimacy' ha l'influenza maggiore nelle aree dove la governance europea è più efficiente rispetto ad una nazionale o locale (spiegazione funzionale), mentre 'European identification' ha l'effetto più consistente nelle aree politiche dove l'azione europea può correggere gli effetti della globalizzazione (spiegazione modello sociale). Ulteriori analisi evidenziano come gli intervistati tendano a preferire il livello nazionale a quello europeo per le aree di policy che richiedono ingenti investimenti economici e per quelle in cui l'Unione Europea già possiede estese competenze. Questo ultimo meccanismo evidenzia come un maggiore livello di integrazione europea non porti di per sé ad una ulteriore richiesta di governance europea (come sostenuto dai neo-funzionalisti), ma, anzi, conduca alla richiesta di ridiscutere l'attuale allocazione delle competenze. Utilizzando dati raccolti nel 2009, queste analisi non confermano l'influenza della dimensione di rappresentanza politica ('EU democracy'). Tuttavia, aggregando dati derivanti da Eurobarometro 86.2 e raccolti nel novembre del 2016 emerge come la percezione di rappresentanza politica diventi una importante e significativa determinante del sostegno per una governance europea delle politiche di immigrazione e della politica estera. Inoltre, il sostegno per una governance europea di queste due aree di policy viene anche influenzato direttamente dal numero di richiedenti asilo ospitati da ciascun paese. Infatti, maggiore è il numero di richiedenti asilo, maggiore è la richiesta di un'iniziativa politica europea che affronti questo tema. Considerando insieme questi due risultati (aumento dell'influenza della rappresentanza politica e del numero dei richiedenti asilo) viene confermata l'idea che le recenti crisi Europee (economica e dei migranti) abbiano profondamente modificato il modo attraverso cui i cittadini guardano all'Unione europea, e i motivi per cui sostengano o rifiutino una (maggiore) governance europea. In conclusione, il Capitolo 6 indaga i significati di identità nazionale ed europea per scoprire come questi influenzino il supporto per una governance europea di specifiche aree di policy. Utilizzando dati della ricerca Intune 2009, l'identità nazionale ed europea viene scomposta in quattro componenti costitutive: 'European Civility', 'National Civility', 'Ancestry', e 'Citizenship'. I risultati dimostrano come gli intervistati che ricostruiscono la propria identità nazionale sulla base delle specifiche tradizioni culturali nazionali (componente di 'National Civility') siano portati a rifiutare una governance europea. All'opposto, il sostegno per una governance europea è più probabile per quelli che qualificano l'identità europea come una forma di europeismo 'banale', dove il significato di europeismo discende dalla condivisione delle esperienze quotidiane ed ordinarie come cittadini dell'Europa (componente di 'European Civility'). Le analisi mostrano l'assenza di influenza sul sostegno da parte sia della componente pre-politica ('Ancestry') dell'identità nazionale ed europea, sia di quella politica ('Citizenship' intesa come esercitare i diritti di cittadinanza). Complessivamente, questi risultati corroborano l'idea che più l'Unione Europea è percepita come presente all'interno dell'ordinaria esperienza di vita dei cittadini, più probabile è il supporto per una maggiore integrazione politica. Tuttavia, a parità di condizioni, i significati di identità nazionale esercitano una decisa influenza sul sostegno. Infatti, maggiore è l'enfasi sulle tradizioni culturali nazionali e sul loro ruolo nella definizione di identità nazionale, minore è il sostegno per una governance europea. Questo è determinato dal fatto che le tradizioni culturali sono incorporate anche nelle leggi e nelle istituzioni politiche nazionali, ed un trasferimento di competenze all'Unione Europea ridurrebbe il ruolo e l'importanza di tali istituzioni, influenzando indirettamente l'identità nazionale. ; This dissertation contributes to the debate on Europeanization of citizen policy preferences. This form of Europeanization is defined as the support for a EU level governance instead of a national or sub-national governance of strategic policy domains. Using survey data from the Intune 2009 project and Eurobarometer surveys, this work studies how citizen support for EU policy governance is structured. It distinguishes a generic preference for more EU policy governance from a specific support for EU governance of distinct policy sectors. Moreover, this thesis analyses what influences the development of these two types of support for EU policy governance. Chapter 1 surveys the literature on macro theories of European integration and provides three alternative models of support for EU policy governance. These models are tested and debated in the proceeding of the dissertation to study the structure of support for EU policy governance. Chapters 2 provides a conceptual definition of EU support grounded in earlier theoretical and empirical works. Four dimensions of EU support are identified: • 'Output legitimacy': support as subjective utility of European integration; • 'EU governance legitimacy': support as a generic preference for EU policy governance; • 'European identification': support as identification (we-feeling) with the European political community; • 'EU democracy': support as political representation at the EU level. Chapter 3 measures these four dimensions of EU support, modelling them as latent dimensions using individual-level survey data. This chapter confirms that these dimensions are rather stable and invariant across EU member countries. Chapter 4 analyses the determinants of these four dimensions. Results demonstrate that 'exclusive national identification', 'national attachment', 'confidence in national institutions', and 'political values' exert a significant influence on the levels of EU support across Europe, but their effects vary across the four dimensions of EU support. Notably, only 'exclusive national identification' influences the generic support for EU policy governance ('EU governance legitimacy'). This chapter also investigates the presence of a hierarchy among the four dimensions of EU support testing whether generic support for EU policy governance depends upon holding one of the other three forms of EU support, following some suggestions included in theories of European integration (mainly neo and post-functionalism) and in empirical studies on EU support. However, results demonstrate that 'Output legitimacy', 'European identification', and 'EU democracy' do not have consistent effects on 'EU governance legitimacy' across European countries. Chapter 5 explores this result performing a policy by policy analysis. It emerges that 'Output legitimacy', 'European identification', and 'EU democracy' play a role in driving support for EU governance of distinct policy domains. 'Output legitimacy' and 'European identification' are the most important determinants, but their effects are strengthened (or weakened) by specific policy domain characteristics. 'Output legitimacy' has the greatest influence on support for EU governance of policies where the EU governance is more effective (functional interdependence explanation); whereas 'European identification' has the highest effect on policies that work as market-correcting policies (social-model explanation) that guarantee a EU level protection from market and globalisation failures. Further analyses show that respondents tend to prefer high-expenditure policy to be governed at the national level, and, ceteris paribus, they are likely to oppose further EU integration in policy domains where EU governance is already high. This last mechanism is telling because it shows that EU governance does not lead to further integration (as argued by neo-functionalists), but on the contrary respondents favour a retrenchment from prior agreements on EU policy competencies. The analyses with 2009 data do not confirm the influence of political representation ('EU democracy'), but pooling data from November 2016 (Eurobarometer 86.2), respondents' perception of political representation within the EU becomes a highly significant determinant of support for EU governance of Immigration and Foreign policies. Moreover, the number of asylum seekers within each country contributes to explain individual-level support. These two findings confirm the idea that the recent European refugees and economic crises have profoundly modified how European citizens look to the EU, and why they support or reject EU policy governance. Finally, Chapter 6 investigates the meanings of national and European identities and their influence on support for EU governance of specific policy domains. Using Intune 2009 data, national and European identities are unpacked in four constitutive components: 'European Civility', 'National Civility', 'Ancestry', and 'Citizenship'. The results show that respondents who conceive their national identity as something rooted in national cultural traditions ('National Civility' component) are likely to reject EU policy governance. On the contrary, those who qualify European identity as a form of banal Europeanism where Europeanness is a matter of common and ordinary experiences as Europeans that forms a European way of life ('European Civility' component) are, ceteris paribus, more likely to support EU governance. Both pre-political ('Ancestry') and political (exercising 'Citizenship' rights) components do not have a consistent impact on this form of EU support. Overall, this corroborates the idea that the more the EU is present in ordinary experiences, the greater is support for EU policy governance. Conversely, a respondents' strong emphasis on national cultural traditions - also embedded in national laws and political institutions - hampers support for EU governance, since a transfer of competencies to the EU affects national laws and institutions, and, indirectly, national identities.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.