Il portentoso successo ottenuto dai Beatles negli U.S.A. aprì il mercato americano a molte band della scena musicale britannica. Qualsiasi cosa avesse un sapore "british" divenne immediatamente interessante agli occhi del pubblico americano. Questo fenomeno noto come "British Invasion" costituisce il contesto entro il quale si muove la ricerca in oggetto: descrivere in che modo e per quali ragioni il blues venne riscoperto e reinterpretato da musicisti bianchi, quali conseguenze ciò abbia avuto nel ridefinire i canoni del genere, e quale sia stato il contributo specifico del blues revival inglese. Nel primo capitolo viene descritta la diffusione del jazz in Gran Bretagna a partire dalla fine degli anni '10 del XX secolo. Il Jazz in Inghilterra, nonostante sia stato osteggiato dalle componenti più conservatrici della società britannica, poco supportato dai media istituzionali come la BBC, ed intralciato dagli effetti della crisi economica degli anni '30, ha potuto radicarsi e diffondersi in Gran Bretagna grazie alle capacità organizzative messe in campo dai seguaci del jazz che furono in grado di crearsi un proprio spazio e un proprio mercato di riferimento attraverso la fondazione di associazioni come i Rhythm Club, riviste, negozi specializzati, piccole etichette indipendenti e perfino band musicali. Tra gli anni '30 e '40 il dibattito tra i modernisti sostenitori del be-pop e i tradizionalisti sostenitori dell'hot jazz degli anni '20 favorì la nascita di un interesse specifico per il blues. Per meglio definire a quale stile di jazz assegnare la palma dell'autenticità molti appassionati di jazz si volsero ad approfondire la conoscenza e lo studio della musica afroamericana nel suo complesso e in particolare del blues visto come un precursore del jazz. Il blues revival, quindi, fu un movimento che prese le mosse dall'ambito del jazz inglese per poi svilupparsi autonomamente. Nella seconda parte del capitolo (3 e 4 paragrafo) si è cercato di mettere in evidenza le continuità e le discontinuità esistenti tra il mondo del jazz e del blues in Inghilterra. I seguaci del blues, infatti, si trovarono a dover affrontare problematiche molto simili a quelle dei loro predecessori del jazz come ad esempio la scarsità di materiale discografico e dettero risposte organizzative similari. In particolare il mondo del blues revival ereditò da quello del jazz un approccio alla musica serio e compito alimentato da un forte elemento ideologico incentrato sul concetto di autenticità musicale. Il secondo capitolo descrive l'influenza che ebbe la diffusione delle popular music americana sui teenager inglesi degli anni '50 e come ciò abbia portato molti giovani britannici a conoscere il blues e a praticarlo assieme ad un vasto ventaglio di stili e generi della musica popolare americana ponendo così le basi per quella originale rielaborazione della musica americana che costituì uno dei punti di forza della British Invasion. Ampio spazio è dedicato a collocare la diffusione di generi musicali come il rock 'n' roll e lo skiffle nella cornice dei profondi cambiamenti economici, sociali, e di costume che caratterizzarono l'Inghilterra del dopoguerra e come questi impattarono sulle culture giovanili. Il terzo capitolo si occupa di delineare la crescita del movimento di blues revival inglese nei primi anni '60 seguendo la fondazione e i primi passi di alcune band storiche del blues-rock britannico. L'accento è posto sul rapporto pedagogico che si era venuto a creare tra gli artisti americani che andavano ad esibirsi in Inghilterra e i giovani musicisti britannici che li accompagnavano durante i tour. Una sezione importante del capitolo si sforza di mettere in evidenza i rapporti tra il mondo del folk revival britannico e la prima fase prettamente acustica del blues revival inglese e come la svolta elettrica del blues britannico, ispirata dai rappresentati del Chicago Blues come Muddy Waters, e portata avanti da pionieri come Alexis Korner, Cyril Davies, Chris Barber abbia favorito un distacco precoce del il blues britannico da una visione purista del blues di derivazione folk che vedeva prevalentemente, se non unicamente, nel blues acustico l'unico vero ed autentico blues. Il quarto capitolo sposta la sua attenzione sugli Stati Uniti d'America e cerca di evidenziare alcune essenziali differenze e punti d'incontro tra il blues revival americano e quello britannico a partire dal ruolo del rock 'n' roll che in America fu più un ostacolo che un elemento di promozione del blues presso i giovani bianchi. Il blues revival in America rimase più a lungo legato al mondo del folk revival che aveva sviluppato una concezione estremamente purista del blues legandolo ad un canone acustico e rurale. Il legame più stretto del blues revival americano con l'ambiente del folk dipese da vari fattori ambientali e politici. La scoperta del blues da parte dei bianchi in America avvenne, molto più che in Inghilterra, attraverso l'opera di folcloristi e intellettuali delle controculture che vedevano nella musica elettrica un espediente usato dall'industria musicale per creare musica artificiale ed inautentica. Inoltre, la musica folk, che godette di un rinnovata popolarità tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60, divenne la colonna sonora di tutti quei movimenti di protesta neri e bianchi che, soprattutto nei primi anni '60, erano favorevoli ad una soluzione integrazionista del problema razziale americano e vedevano quindi positivamente la promozione della cultura afroamericana. Il Newport Folk Festival fu l'evento che alimentò maggiormente questa visione folclorica del blues che tuttavia nascondeva un approccio colonialista alla cultura afroamericana da parte dei bianchi che pur la promuovevano. Proprio al Newport Folk Festival, in occasione dell'esibizione di Bob Dylan del 1965, emerse in piena luce lo scontro tra la visione purista del blues propria del canone folk e la visione modernista incarnata dalla Paul Butterfield Blues band, nella quale suonavano dei ragazzi bianchi di Chicago che avevano oltrepassato i confini razziali della società americana ed erano andati nei quartieri afroamericani per imparare il blues dai maestri del genere. L'incidente di Newport rese famosa la Paul Butterfield blues band e dette un forte impulso allo stile elettrico del blues bianco, ma fu principalmente in Inghilterra che il blues elettrico venne consacrato come uno stile di blues autentico e fondativo dei generi moderni come il Rhythm & Blues,il Rock 'N' Roll e la nascente musica rock. La maggiore libertà espressiva che visse la stagione matura del blues revival in Inghilterra dovuta ad una minore interdipendenza con il mondo del folk e una diversa percezione del problema razziale da parte dei giovani inglesi portò il blues bianco praticato dai britannici verso uno sviluppo virtuosistico e sperimentale che ben presto portò le principali band del blues-rock britannico ad abbandonare il genere entro la fine degli anni '60. Tuttavia prima che ciò avvenisse il blues-rock interpretato dai guitar hero britannici scalò le classifiche americane sulla scia della strada aperta dai gruppi della British Invasion e si legò alla musica psichedelica e alla cultura hippie. Il blues elettrico e virtuosistico praticato nella musica rock contribuì enormemente a far scoprire ai giovani bianchi americani e britannici il blues e suoi principali artisti. Tuttavia, come si resero conto gli stessi musicisti afroamericani che cominciarono ad esibirsi di fronte ad un pubblico bianco, il blues stesso subì una trasformazione in conseguenza della sua crescente popolarità presso il pubblico bianco. Il blues reinterpretato dai giovani bianchi tendeva a favorire il virtuosismo strumentale rispetto a quello vocale, ponendo al centro della scena la chitarra elettrica. Inoltre il blues venne reinterpretato secondo certi propri della cultura bianca occidentale. I musicisti ed il pubblico amavano il blues come una musica emozionale funzionale a soddisfare le proprie esigenze individualistico-esistenziali tendendo a mettere da parte elementi importanti della storia del genere come le interpreti femminili; i critici e gli studiosi cercavano di definire un canone in base al quale stabilire quale fosse l'autentico blues scevro da influenze commerciali ma così facendo lo estraniavano dalla sua storia e dai legami con la comunità afroamericane all'interno delle quali si era sempre trasformato ed evoluto in risposta ad esigenze e stimoli che furono anche di natura commerciale. L'industria discografica, infine, cercava di sfruttare l'interesse dei giovani rocker per il blues producendo album ed eventi live dove i giovani musicisti rocker suonavano e si esibivano coi i "padri nobili" del blues. D'altra parte il blues ha potuto acquisire una grande popolarità al di fuori della comunità afroamericana e del continente americano divenendo un genere musicale apprezzato e praticato in tutto il mondo ancora ai nostri giorni grazie al rock che lo ha celebrato come un suo nobile antesignano. The prodigious success of the Beatles in the U.S.A. paved the way for the American market for many bands and single artists from the British pop and rock music scene. Anything with a "British" flavor and accent immediately became interesting to the American public. Literature, theater, fashion, design, cinema, tourism, music: there was no sector of popular culture that was not affected to some extent by the British craze. This phenomenon known as the "British Invasion" constitutes the basic context within which the research in question moves: describe through what processes and for what reasons the blues was rediscovered and reinterpreted by scholars, folklorists and white musicians, what consequences this had in redefining the canons of the genre and what was the specific contribution of the English blues revival. The first chapter describes the spread of jazz in Great Britain starting from the late 10s of the twentieth century. Jazz in England, despite being opposed by the more conservative components of British society, poorly supported by institutional media such as the BBC, and hampered by the effects of the economic crisis of the 1930s, was able to take root and spread in Great Britain thanks to its organizational skills fielded by the followers of jazz who were able to create their own space and their own reference market through the foundation of associations such as the Rhythm Clubs, magazines, specialized shops, small independent labels and even music bands. Between the 1930s and 1940s the debate between the modernist supporters of be-pop and the traditionalist supporters of hot jazz of the 1920s favored the emergence of a specific interest in the blues. To better define which style of jazz to award the palm of authenticity, many jazz enthusiasts turned to deepen their knowledge and study of African American music as a whole and in particular of blues seen as a precursor of jazz. The blues revival, therefore, was a movement that took off from the field of English jazz and then developed independently. In the second part of the chapter (3 and 4 paragraphs) we tried to highlight the continuities and discontinuities existing between the world of jazz and blues in England. The followers of the blues, in fact, found themselves having to face problems very similar to those of their jazz predecessors such as the scarcity of record material and gave similar organizational responses. In particular, the world of blues revival inherited from that of jazz a serious and demanding approach to music fueled by a strong ideological element centered on the concept of musical authenticity. The second chapter describes the influence that the spread of American popular music had on the British teenagers of the 1950s and how this led many young British people to learn about the blues and to practice it along with a wide range of styles and genres of American popular music laying thus the foundation for that original reworking of American music which constituted one of the strengths of the British Invasion. Ample space is dedicated to placing the diffusion of musical genres such as rock 'n' roll and skiffle in the context of the profound economic, social, and customs changes that characterized post-war England and how these impacted youth cultures. The third chapter deals with outlining the growth of the English blues revival movement in the early 1960s following the foundation and first steps of some historic British blues-rock bands. The emphasis is on the pedagogical relationship that had arisen between the American artists who went to perform in England and the young British musicians who accompanied them on tour. An important section of the chapter endeavors to highlight the relationship between the world of British folk revival and the purely acoustic first phase of the English blues revival and as the electric breakthrough of British blues, inspired by Chicago Blues performers such as Muddy Waters, and carried out by pioneers such as Alexis Korner, Cyril Davies, Chris Barber, favored an early detachment of the British blues from a purist vision of folk-derived blues that saw mainly, if not solely, the only true and authentic blues in acoustic blues. The fourth Chapter shifts its attention to the United States of America and tries to highlight some essential differences and meeting points between the American and British blues revival starting from the role of rock 'n' roll which in America was more of an obstacle that an element of promoting the blues among young whites. The blues revival in America remained linked for a long time to the world of folk revival which had developed an extremely purist conception of the blues by linking it to an acoustic and rural canon. The closest link between the American blues revival and the folk environment depended on various environmental and political factors. The discovery of blues by whites in America took place, much more than in England, through the work of folklorists and intellectuals of the countercultures who saw electric music as a gimmick used by the music industry to create artificial and inauthentic music. Furthermore, folk music, which enjoyed renewed popularity in the late 1950s and early 1960s, became the soundtrack of all those black and white protest movements that, especially in the early 1960s, were in favor of an integrationist solution to the American racial problem and therefore saw positively the promotion of African American culture. The Newport Folk Festival was the event that most fueled this folkloric vision of the blues which, however, hid a colonialist approach to African American culture on the part of whites who nevertheless promoted it. The Newport Folk Festival was the event that most fueled this folkloric vision of the blues which, however, hid a colonialist approach to African American culture on the part of whites who even promoted it. Precisely at the Newport Folk Festival, on the occasion of Bob Dylan's performance in 1965, the clash between the purist vision of blues typical of folk canon and the modernist vision embodied by the Paul Butterfield Blues band, in which white boys played of Chicago who had crossed the racial boundaries of American society and had gone to African American neighborhoods to learn the blues from the masters of the genre. The Newport incident made the Paul Butterfield blues band famous and gave a strong impetus to the electric style of the white blues, but it was mainly in England that the electric blues was consecrated as an authentic and foundational blues style of modern genres such as Rhythm & Blues, Rock 'N' Roll and the rising rock music. The greater freedom of expression that experienced the mature season of the blues revival in England due to less interdependence with the world of folk and a different perception of the racial problem by young Englishmen led the white blues practiced by the British towards a virtuosic and experimental development that it soon led to major British blues-rock bands abandoning the genre by the end of the 1960s. However, before this happened the blues-rock performed by British guitar heroes climbed the American charts in the wake of the road opened by the British Invasion groups and became linked to psychedelic music and hippie culture. The electric and virtuosic blues practiced in rock music contributed enormously to the discovery of blues and its main artists among young white Americans and British. However, as the same African American musicians who began performing in front of white audiences realized, the blues itself underwent a transformation as a result of its growing popularity with white audiences. The blues reinterpreted by young whites tended to favor instrumental virtuosity over vocal virtuosity, placing the electric guitar at the center of the stage. In addition, the blues was reinterpreted according to certain specifics of western white culture. The musicians and the public loved the blues as an emotional music functional to satisfy their individualistic-existential needs, tending to put aside important elements of the history of the genre such as female performers; critics and scholars tried to define a canon on the basis of which to establish which was the authentic blues free from commercial influences but in doing so they estranged it from its history and from the ties with the Afro-American community within which it had always transformed and evolved in response to needs and incentive that were also of a commercial nature. Finally, the record industry sought to exploit the interest of young rockers for the blues by producing albums and live events where young rocker musicians played and performed with the "noble fathers" of the blues.On the other hand, the blues was able to acquire great popularity outside the African American community and the American continent, becoming a genre of music that is appreciated and practiced all over the world even today thanks to the rock that celebrated it as its noble forerunner.
Con este primer libro iniciamos la colección "20 años del Instituto de Estudios Caribeños y de la Sede Caribe de la Universidad Nacional de Colombia" que comprenderá varios tomos publicados a lo largo de los años 2016 y 2017. Esta colección quiere celebrar con entusiasmo y alegría nuestra presencia en las islas y para ello nada mejor que presentar una muestra de la producción académica que la Universidad Nacional ha garantizado para contribuir a la construcción de comunidad académica caribeña. Como muchas personas recordarán, comenzamos a funcionar inicialmente con el Instituto de Estudios Caribeños (IEC) que fue creado formalmente mediante el Acuerdo 013 del Consejo Superior Universitario (CSU) del 15 de marzo de 1995. A partir de ese momento el rector de la época, Guillermo Páramo, comenzó las negociaciones para garantizar las condiciones que aseguraran una presencia adecuada de la Universidad en el archipiélago de San Andrés, Providencia y Santa Catalina. Esto se logró cuando se creó la Sede San Andrés mediante el Acuerdo 006 del 30 de enero de 1997 del CSU, como parte del desarrollo del componente de descentralización de la Universidad Nacional. En el nuevo proceso se designó como director al profesor Santiago Moreno, se inició la construcción del edificio del IEC y se vincularon los primeros docentes por concurso internacional de méritos. Durante muchos años la Sede San Andrés funcionó a través del Instituto como su única Unidad Académica Básica que tenía como propósito estratégico la proyección de la Universidad y del país hacia el Caribe entendido en tres escalas: Gran Caribe1, Caribe continental y Caribe insular colombiano. Las funciones del IEC definidas en su primer momento fueron: 1. Promover, orientar, coordinar y dirigir estudios en las diversas áreas relacionadas con la región Caribe. 2. Colaborar con las diferentes unidades académicas en la incorporación de los estudios caribeños en sus diversas áreas científica, social, cultural, política y económica.3. Prestar servicios investigativos docentes y de extensión a las unidades académicas que lo requieran. 4. Promover proyectos académicos de carácter interdisciplinario, interinstitucional y/o multinacional de la región Caribe. 5. Desarrollar los estudios que se consideren necesarios para la defensa del patrimonio y la identidad culturales de la región. (Acuerdo 13 del CSU de 1995). Las mencionadas funciones debían traducirse en una incorporación de la "dimensión caribe en el proceso de consolidar la nación colombiana a partir de sus regiones y espacios periféricos y sobre la base de una nueva institucionalidad y concepción del Estado" (Acuerdo 13 del CSU de 1995). Las áreas de actuación definidas a partir de esa misión asignada fueron: 1. Salud y medio ambiente 2. Economía y geopolítica del Caribe 3. Cultura y educación 4. Estudios afrocaribeños 5. Gestión pública 6. Ciencia y tecnología apropiada 7. Ciencias del mar 8. Producción de alimentos 9. Asentamientos humanos Con esta orientación se estableció un programa de investigaciones acorde a la capacidad del reducido cuerpo docente frente al cual cada profesor y profesora desplegó sus capacidades de acuerdo a su experiencia. Así se abrieron básicamente dos áreas, la de investigación en Ciencias Biológicas y Ambientales y la de investigación en Ciencias Sociales y Humanas. En razón de la formación académica de la mayoría de los docentes, en principio la parte ambiental y biológica adelantó la mayor parte de las investigaciones. En el año 1999 se creó la Maestría en Estudios del Caribe, que también fue adscrita al IEC, e inició su primera cohorte en el año 2000. En el año 2003 con el fortalecimiento del área de ciencias sociales a cargo de dos profesoras y un profesor se empezaron a desarrollar investigaciones en Estudios del Caribe propiamente dichas. Como resultado, además de las investigaciones a cargo del profesorado se han alcanzado a producir más de 35 tesis de la maestría entre el año 2000 y el 2015.Como una forma de reafirmar el carácter regional de la Sede, integrar las dimensiones continental e insular del Caribe colombiano y ampliar la proyección de Colombia hacia el Gran Caribe, en el Acuerdo No. 026 del 2005 del Consejo Superior Universitario se hace el cambio oficial de nombre pasando de Sede San Andrés a Sede Caribe, si bien al mismo tiempo se remplazaron los Consejos de las Sedes de frontera, por los Comités Académicos Administrativos de las mismas, que de ahí en adelante pasaron a llamarse Sedes de Presencia Nacional. Esto en el fondo significaba someterlas al tutelaje permanente del nivel central a través de la Vicerrectoría General de la Universidad, que pasó a presidir este organismo en cabeza del funcionario/a de turno en ese cargo. A partir de esta reforma la Sede se convirtió en la figura institucional principal y el Instituto de Estudios Caribeños se orientó a desarrollar el currículo de la Maestría de Estudios del Caribe, a editar la Revista Cuadernos del Caribe y a sostener formalmente los dos grupos de investigación que desde 1998 se formaron: Estudios Ambientales del Caribe y Estado y Sociedad del Caribe, a los cuales se agregaría en el año 2005 el grupo Nación, Región y Relaciones Internacionales en el Caribe y América Latina. La producción de estos grupos está expresada en cerca de 40 textos que se han editado en la Sede Caribe, la edición y publicación de 20 números de la Revista Cuadernos del Caribe y un alto número de artículos en revistas nacionales e internacionales. A partir de 2008 se adscribió a la Sede Caribe el Centro (ahora Instituto) de Estudios en Ciencias del Mar, CECIMAR, que funciona en Santa Marta y en el Acuerdo 180 del 24 de febrero de 2015 que definió la nueva estructura interna académico-administrativa de la Sede, se reconoció como otra unidad académica básica el Jardín Botánico que se creó y viene funcionando desde 1998. Actualmente el IEC adelanta un proceso de re-institucionalización que en alguna medida depende de la nueva reglamentación. El proyecto actual del Instituto busca darle un estatus propio dedicado fundamentalmente al desarrollo de las ciencias sociales y ambientales, dentro del marco de los Estudios del Caribe desplegados a través de investigaciones, proyección social y docencia. A partir de considerar estas nuevas condiciones, hemos definido que debemos trabajar para que "hacia el año 2032 el Instituto de Estudios Caribeños (IEC) se haya consolidado como una Unidad Académica Básica con proyección e incidencia local, regional, nacional e internacional, líder en Estudios del Caribe". Para alcanzar esta meta nos proponemos "promover el trabajo en redes y la transdisciplinariedad en el desarrollo de programas de investigación, formación y extensión propia de las líneas de trabajo como una manera de difundir conocimientos que contribuyan a la comprensión y transformación de la realidad caribeña" (extracto de la visión del Instituto, 2013). 12 Yusmidia Solano Suárez, Editora Consecuente con este enfoque, la misión entonces establece lograr que funcione como "un centro de pensamiento que sea referente a escala internacional en investigaciones, proyección social y posgrados en el campo de los Estudios del Caribe, para lo cual trabaja en problemáticas estratégicas de esta macroregión" (extracto de la misión del Instituto, 2013), para de esta manera contribuir a que la Sede Caribe y en su conjunto la Universidad Nacional de Colombia haga parte de proyectos socio-ambientales que procuran sociedades más justas y equitativas en el Caribe. En la práctica, actualmente hacen parte del Instituto de Estudios Caribeños, además de los tres grupos de investigación antes mencionados, la Revista Cuadernos del Caribe, el Observatorio de Procesos Sociales que funciona con tres salas situacionales de observación (mujeres y géneros, procesos juveniles y procesos étnicos) y el Observatorio del Mercado del Trabajo ORMET-Archipiélago, que funciona a partir de un Acuerdo de Voluntades suscrito con el SENA, el INFOTEP, la gobernación del departamento, el ministerio del trabajo, la cámara de comercio, el Departamento para la Prosperidad Social –DPS– y el Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo-PNUD. La Sede Caribe, por su parte, ha realizado importantes aportes a la sociedad isleña en los campos de la investigación, la extensión y la docencia, a través de todas las labores que realizan el Jardín Botánico, el programa especial de admisión y movilidad, PEAMA, y las inmersiones en inglés que se han desarrollado a lo largo de varios años, por mencionar solo las más visibles y sin entrar en detalle de estas y muchas más como las adelantadas por el CECIMAR, localizado en Santa Marta, pero cuyo radio de acción también se extiende al resto del Caribe. Como recuento se puede concluir entonces que la presencia del Instituto y de la Sede Caribe de la Universidad Nacional durante 20 años ha garantizado la formación de la masa crítica necesaria para la existencia de comunidad académica en las islas y en el Caribe colombiano en general. La instalación de estas instituciones en la isla de San Andrés, aunque en principio obedeció a la visión centralista en boga en esa época, de garantizar soberanía allende los mares, en la práctica permitió que un grupo no muy numeroso de profesoras y profesores nos dedicáramos a escudriñar y resaltar los aportes que desde siempre las gentes de estos territorios hemos hecho a la construcción de nuestras propias territorialidades y culturas y de paso a la construcción de Nación. No hemos sido funcionales a las pretensiones de seguir ejerciendo la colonialidad en las islas sino que hemos contribuido a la formación de investigadoras e investigadores críticos que tienen la capacidad de hacer profundas reflexiones sobre su entorno inmediato, pero también situándolos en perspectiva respecto al resto del Caribe y del mundo. Comomuestra de ello nos enorgullecemos de presentar como autores de los artículos de este libro a varias/os egresadas/os de la Maestría en Estudios del Caribe, a académicas/os que han desarrollada estadías académicas en la Sede o han participado en los eventos que hemos organizado a lo largo de estos 20 años de continuo trasegar en las islas. Este primer libro es una especie de balance sobre lo que ocurre con varios aspectos nodales de los estudios del Caribe como son las movilizaciones sociales, las políticas de gobernanza, el devenir de la música como un reflejo de ciertos reacomodos sociales, las perspectivas de la literatura y el accionar del movimiento de mujeres y los feminismos así como la reflexión sobre las autonomías territoriales. De ahí su título Cambios sociales y culturales en el Caribe colombiano: perspectivas críticas de las resistencias que pretende abrir debates, posicionar temas y, en algunos casos, sentar precedentes para construir genealogías de los estados del arte de la producción académica de la región. Al mismo tiempo quisimos que abarcara las tres escalas en las que acostumbramos trabajar y que ya mencionamos antes (Gran Caribe, Caribe insular y Caribe continental colombiano). En orden de aparición en el texto, tenemos en primer lugar el artículo que consideramos referido al Gran Caribe, porque trata de dos países de esta macro-región, escrito por el intelectual caribeño Agustín Laó-Montes, Cimarrón, nación y diáspora. Contrapunteo de estados raciales y movimientos afrodescendientes en Colombia y Cuba, el cual documenta con argumentos de fondo la relación existente entre esclavitud, cimarronaje y abolición. El autor muestra cómo la institución de la esclavitud es un hito central en la constitución y desarrollo de la modernidad capitalista y cómo los legados de la esclavitud transatlántica viven no solo en la memoria colectiva sino también en los componentes culturales y en las condiciones desiguales del tejido social a través del sistema Atlántico y más allá. Caracteriza la esclavitud como un régimen brutal de explotación del trabajo y deshumanización que además instaló mentalidades racistas y prácticas discriminatorias junto con formas de servidumbre que persisten hasta hoy día. Describe el abolicionismo como un movimiento antisistémico complejo compuesto por múltiples aristas desde las resistencias de las esclavizadas, el cimarronaje, y las acciones colectivas de negros libres y mulatos, hasta corrientes anti-esclavistas en la intelligentsia liberal europea. Sustenta cómo el abolicionismo fue pilar para la gestación de formas democráticas, las luchas de clase, la emergencia de los movimientos por la emancipación femenina, el combate del colonialismo y el racismo en el siglo XIX, todo lo cual nos sirve de contextualización histórica y conceptual de los demás artículos que conforman este libro. 14 Yusmidia Solano Suárez, Editora En un aparte del texto Laó-Montes hace una distinción muy útil entre el cimarronaje como hecho histórico entendido como fuga individual de los esclavizados/as y el cimarronaje como práctica decolonial de carácter tanto político como epistémico, de la cual señala, existe una larga tradición crítica afrocaribeña desde Aimé Césaire y Edouard Glissant, hasta Ángel Quintero Rivera, José Luciano Franco y Ana Cairo. Después de la fundamentación conceptual el artículo ofrece, como el propio autor lo señala, "una lectura contrapuntal de políticas raciales en Colombia y Cuba, a través de un diálogo pasado y presente entre el siglo XIX y el momento actual, enfocado en lo político". Sobre el Caribe insular colombiano presentamos cuatro artículos. El primero de ellos, Dinámicas de las movilizaciones y movimientos en San Andrés isla: entre la acción pasiva y la regulación nacional (1910-2010), de Francisco Avella, Fady Ortiz, Sally Ann García-Taylor y Osmani Castellanos, trata del proceso de movilización en el archipiélago, uno de los lugares más alejados del territorio continental de Colombia, pero también uno de los más activos en la reivindicación de sus derechos desde el siglo XIX. Estudia su trayectoria y la reacción del Estado frente a estos procesos durante el siglo XX por medio de una periodización en función de los movimientos sociales y termina analizando la desmovilización generalizada en pleno siglo XXI, frente al control territorial que las "bandas criminales emergentes" ejercieron por medio de intimidaciones, panfletos y asesinatos ante la mirada impávida de sus dirigentes y la mirada atónita de sus ciudadanos. Las autoras y autores describen con detalle la transición de una paz largamente disfrutada en una pequeña isla de solo 27 km2, mientras el resto de la Colombia continental se debatía en la guerra, y muestran cómo las islas eran la contraparte de la "paradoja colombiana, que supone la permanencia en el tiempo de una importante macro estabilidad económica y política, combinada con elementos de violencia persistente. Violencia en el nivel de la guerra, la delincuencia y la protesta social". Solo que esto fue así hasta el año 2009, cuando siguió el mismo destino de la Colombia continental, pues estas "bandas" empezaron a manejar las rutas de exportación de drogas. Así, la paradoja empieza a cumplirse, ya que la estabilidad política continúa en medio de la violencia que atemperó, con una de las movilizaciones más importantes del país, la del Movimiento Raizal "en su lucha por la autonomía y la autodeterminación", sin que el Estado tuviera que intervenir para contrarrestar la protesta, "que atentaba contra la soberanía nacional". El artículo, Mares, fronteras y violencia: multiculturalismo y seguridad fronteriza en el Archipiélago de San Andrés y Providencia, de Inge Helena Valencia, analiza desde otra perspectiva, pero con temáticas comunes con el primero, los efectos de las Cambios sociales y culturales en el Caribe colombiano: perspectivas críticas de las resistencias 15 políticas impuestas desde el centro andino, sede del gobierno nacional, y la violencia reciente; además explora las tensiones existentes entre las políticas multiculturalistas, y las políticas antinarcóticos implementadas en el archipiélago habitado en su gran mayoría por población afrodescendiente. Razona la autora que mientras el multiculturalismo puede ser entendido como una modalidad de gobierno en razón de la diferencia étnica-cultural, las políticas antinarcóticos securitizan las sociedades donde se implementan y muestra cómo estas situaciones reflejan la necesidad de analizar las contradicciones que emergen entre diferentes formas de gobernanza aplicadas en Colombia: aquellas propias de la multiculturalidad que potencializan formas de autonomía y aquellas propias de la seguridad que contribuyen a securitizar y estigmatizar estas poblaciones. Por su parte, el texto Entre lo viejo y lo nuevo: tradición, reivindicación y turismo en la música contemporánea sanandresana, de Dario Ranocchiari, es una versión editada para este libro de uno de los capítulos de la tesis doctoral del autor. El tema de la tesis es el papel de los diferentes ámbitos músicas practicados en la isla en los procesos activos de negociación de la etnicidad (Ranocchiari, 2013) y aborda la música coral religiosa, la música urbana y la música "típica". En este artículo se presenta este último ámbito musical sanandresano siguiendo el rastro de tres agrupaciones musicales: el histórico conjunto Bahía Sonora; el Creole Group, el más importante grupo activo durante el período del trabajo de campo; y la agrupación juvenil Red Crab. Como cuarto artículo referido al archipiélago presentamos Perspectivas críticas sobre la literatura en San Andrés Isla / Colombia, de Mónica María del Valle Idárraga. Es una contribución a la cartografía de la producción escrita, con intención literaria, en San Andrés Isla, sobre ella o desde ella. Desde supuestos de la crítica caribeñista, la autora defiende la idea de que tales escritos han de ser leídos desde perspectivas más cercanas a la problemática de la isla, y no desde preceptos generales y tradicionales de la crítica literaria, que no solo los ignoraría sino que podría desactivar sus reclamos en la tensión con Colombia. Se hace un recorrido por escritores, escritoras y textos de crítica hasta el momento. Sobre el Caribe continental hemos seleccionado dos artículos. El primero de ellos Reflexionando desde adentro: periodización de la acción, organización y protagonismos del movimiento de mujeres y los feminismos en el Caribe colombiano (siglos XX y XXI), es de mi autoría y en él hago una periodización del quehacer del movimiento de mujeres y de los feminismos en el Caribe colombiano en su búsqueda de reconocimiento y del ejercicio de los derechos de las mujeres en su diversidad y en resistencia a las políticas neoliberales y a las consecuencias del conflicto armado colombiano. 16 Yusmidia Solano Suárez, Editora En este recuento histórico menciono de paso las elaboraciones documentales y políticas que han aportado las feministas de distintos grupos e instituciones, dirigidas casi siempre a ofrecer soportes teóricos para respaldar las acciones del movimiento. El artículo La autonomía del Caribe colombiano: pasado, presente y perspectivas, de Aroldo Guardiola Ibarra, es una reflexión sobre la búsqueda de la autonomía de la región Caribe en las cuatro décadas anteriores y sus perspectivas de concreción en el presente, a partir de tomar en consideración la diversidad regional y étnica que caracteriza a la nación colombiana y el reconocimiento que de esta realidad sociocultural hace la actual Constitución Política. Así mismo, se asume la existencia inobjetable de la Costa Caribe como una región cultural, con subregiones en su interior. Se presenta además un análisis referido a tres periodos constitucionales anteriores que, en gran medida, están relacionados con el tema planteado: el periodo de la Confederación Granadina; el periodo de los Estados Unidos de Colombia y el periodo de La Regeneración. En su artículo, Guardiola analiza el proceso de regionalización emprendido por diversos actores en las décadas de los años ochenta y noventa de la pasada centuria junto con la dimensión y los alcances de la autonomía regional en el actual ordenamiento constitucional y legal (Ley orgánica de ordenamiento territorial). Se precisa que no se trata hoy de levantar la bandera de la autonomía para propiciar el ensimismamiento y la endogamia cultural, como tampoco se trata de allanar el camino al separatismo de las diversas regiones del país. Lo que se argumenta con énfasis es que el reconocimiento de la diversidad étnica y regional, como realidad multicultural, es fundamental para diseñar políticas, programas y estrategias interculturales para la unidad y la cohesión de la Nación. Estos son pues los artículos que hacen parte de este primer tomo de nuestra colección por los 20 años del IEC y la Sede Caribe. Con el contenido de cada uno y del conjunto del libro esperamos haber introducido el debate sobre algunos de los cambios sociales y culturales acaecidos en el Caribe colombiano durante el siglo XX y lo que va del XXI, sobre los sentidos que han tenido, hacia dónde nos conducen, qué lecciones podemos extraer, en cuáles podemos y debemos seguir incidiendo y cuáles transformaciones nos hace falta documentar y promover. Por la documentación rigurosa de casos que presentamos en las siguientes páginas, podemos confirmar que siempre han existido y se han expresado diversas formas de resistencia por parte de las poblaciones sometidas, explotadas y racializadas por las dinámicas del colonialismo y la colonialidad. Estas resistencias se manifiestan ya sea mediante la creación musical, como argumenta Dario Ranochiari en su artículo, la producción literaria, como sustenta Mónica del Valle en el suyo, mediante el accionar Cambios sociales y culturales en el Caribe colombiano: perspectivas críticas de las resistencias 17 colectivo o la conformación de movimientos por las autonomías territoriales que describen Francisco Avella et al. para el caso del archipiélago y Aroldo Guardiola para el Caribe continental. Las estrategias de resistencia utilizadas por las mujeres son muchas y muy variadas: manejaron la contracultura, la migración, el desafío legal, el sistema de justicia a su favor, se apoyaron en redes de solidaridad familiar y en las relaciones de patronazgo y parentesco durante el período colonial y las luchas de independencia. Más recientemente despliegan la autogestión, buscan formarse, realizan alianzas, crean cooperativas, gestionan movilizaciones e integración comunitaria, fundan barrios, negocian con las autoridades, gestionan escuelas comunitarias y conforman organizaciones y redes de mujeres por su emancipación que parten de reconocer los saberes diversos y la necesidad de articular una praxis colectiva como se describe en mi artículo. La resistencia también se expresa con la existencia del cimarronaje como práctica decolonial en el Caribe, como propone Laó-Montes en el suyo. Todas estas movilizaciones colectivas han logrado conquistar importantes reconocimientos de derechos para los afrodescendientes, indígenas, mujeres, personas LGTBI, trabajadores y trabajadoras del campo y las ciudades. Incluso se ha logrado alguna representación en organismos del Estado, aunque la redistribución de los recursos básicamente ha avanzado poco y la colonialidad del poder, del saber y del ser está vigente en nuestra región. Sigue siendo así porque, entre otras cosas, a muchas de las manifestaciones de resistencia que se reseñan en los artículos se ha respondido por partes de las élites económicas y políticas, desde el proceso de independencia hasta nuestros días, con políticas estatales y privadas de contención, algunas veces con reformas institucionales, muchas veces con represión, prohibiciones y desestabilización y casi siempre utilizando la violencia como se muestra en los artículo de Laó-Montes, Avella et al., Solano y Guardiola. En los últimos tiempos la gran excusa para la militarización de la vida civil es la aplicación de las políticas antinarcóticos que impulsan, financian y aplican los gobiernos de los Estados Unidos con la anuencia de los nuestros, que como lo documenta Inge Valencia en su artículo, "securitizan y estigmatizan a las poblaciones donde se aplican". Con tales evidencias tenemos que reconocer que es mucho el camino que nos falta recorrer para lograr transformaciones sustanciales en nuestras sociedades, pero por lo expresado en los siguientes escritos, los legados culturales y políticos para hacerlo están a la mano. Ahora: la consolidación y cualificación de los movimientos sociales para enfrentar la magnitud de estas tareas son nuestro desafío.
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza
Tese de Doutoramento em Educação ; 1. PEQUENA ABERTURA Na presente tese tento fazer um corte epistémico/metodológico relativamente ao ensino da investigação, utilizando como eixo fundador uma atitude femomenológica. Trata-se de tentar pôr em situação e com intencionalidade os estudantes de licenciatura e pósgraduação na realização dos seus projectos de investigação. Para esse fim, a tese não se apresenta simplisticamente como uma proposta inédita a aplicar, mas antes, como diz Levinas «provou-se andando», isto é, toma como ponto de partida um texto em que se apresenta um modelo e perspectiva da investigação denominado "A complememtariedad Etnográfica" (o qual vem sendo aplicado desde o ano 1998 em diferentes projectos finais de licenciatura e mestrado e em teses de doutoramento) com a intenção de fazer uma análise do referido texto, vendo as suas fendas ou fissuras e, através da sua desconstrução, poder elaborar uma perspectiva didáctica para formar em investigação a partir da subjectividade. Em tal sentido, a tese apoia-se nas teorizações quer filosóficas da subjectividade, em autores como Levinas, quer epistémico/metodológicas, em autores como Zemelman, Gonzáles Rey e Maffesoli entre outros. Vislumbra-se nos resultados como uma proposta de investigação deve apoiar-se em processos criativos de configuração que permitam aos investigadores articular entre si as diversidades e verificar como estas emergem num tempo e num lugar, cruzados por uma subjectividade pessoal da qual é impossível prescindir. Deste modo, coloca-se o sujeito-investigador no meio do tema ou problema investigado afim de que venha a mover-se co-dependentemente com ele; graças a essa dependência, torna-se finalmente livre, pois assume-o como pertencendo-lhe… como morada sensível para decidir (Levinas, 1997). 2. FUNDAMENTOS TEÓRICOS DO ESTUDO Estamos assistindo ao aparecimento de novos paradigmas epistemológicos para nos entendermos num mundo que nos aparece pequeno e supérfluo, difícil de compreender nos seus múltiplos relatos, nos seus imaginários de sentido, na própria vida que corre no meio da tecnologia, da exclusão, da pobreza, da opulência, da desigualdade e da academia. Qual é o papel que deve desempenhar a Universidade em tudo isto? Que compete à Educação Superior para além de administrar o conhecimento e parcelar os saberes em disciplinas que nos fazem ver as partes sem chegar a compreender o todo? A Universidade encontra-se actualmente no meio de tensões na medida em que deve cumprir com as demandas económicas do Estado e as exigências de equidade que lhe exige a sociedade. Isto deve fazer da Universidade como instituição académica (e dos seus membros como seres reflexivos) um lugar altamente crítico com os conhecimentos que se geram no seu interior, como o expressara Fuller (1997, 2003): actualmente a educação superior opera sobre a sociedade como «uma luva de veludo que esconde o punho de ferro da empresa académica», querendo assumir com isso que a Universidade se converteu numa instituição que oferece títulos e ministra um conhecimento hierarquizado e não faz a sua democratização. Na fase derradeira da sua vida, em 1996, Gadamer mostrava como o sentido parcelar do conhecimento cada vez se torna mais comum nas universidades: "Agora posso vê-lo muito claramente nas universidades. Aí temos turmas gigantescas às quais assistem centenas de estudantes. Nem o professor pode reconhecer o aluno dotado nem se podem reconhecer entre si os que o entendem. É uma canseira desesperante. Espero que algum dia a coisa mude. Vejo-o nos exemplos americanos e ingleses. (Ediçãode 2003: 26)". Encontramo-nos num mundo que está constantemente a transitar da era da informação à era do conhecimento, o que obriga as instituições a perguntarem-se sobre os ajustes que deverão sofrer os seus currículos. Já não podemos assegurar que aquilo para que se estuda seja precisamente aquilo em que se vai trabalhar. "Estamos diante de um desconcertante paradoxo: as empresas reclamam profissionais com projecto e iniciativa quando o que a sociedade produz no seu conjunto são indivíduos inseguros, cheios de incertezas e com fortes tendências para a depressão, o stress afectivo e mental. Até o próprioâmbito de trabalho está a deixar de ser um âmbito chave de comunicação,do reconhecimento social de si mesmo, e portanto de afirmação pessoal" (Barbero, 2004: 37). Os novos profissionais ingressam com a ilusão (o entusiasmo) de buscar um posto no mercado no meio da precariedade e da incerteza, muitas vezes voltam-se sobre si mesmos para encontrar na sua interioridade aquilo em que se sentem satisfeitos. Contudo, a triste realidade mostra-lhes que se situam laboralmente não naquilo que querem mas nas possibilidades que o mercado oferece. Frente a esta dualidade (vida institucional / singularidade do ser), torna-se imperativo fazer uma mudança curricular nos diferentes planos de estudo da Universidade. Para além de ter como eixo de acção uma formação baseada somente no conhecimento, o que temos, entre nós e connosco, é o ser em toda a sua expressão; um ser que encontra nas suas diferentes manifestações de vida a vitalidade e essência do que é e não só do que faz ou representa. Qual é a essência do ser senão a própria vida? Que são para mim as coisas senão aquilo a que realmente outorgo significado? Que é o que realmente nos desintoxica de um "dever ser" imposto de fora senão o "querer ser", o ir sendo com sentido? Somos arrojados para metáforas possíveis, para sonhos realizáveis, para projectos e sentidos de vida. Somos chamados a trabalhar em lugares e territórios com um significado para sujeitos que compartilham o seu saber e não vêm à Universidade apenas para receber conhecimento, sujeitos intencionais (isto é, abertos ao mundo) que, não só experimentam uma «razão objectiva», mas também processos constitutivos desta como a ética, a singularidade e a subjectividade. A Universidade não deve continuar a formar, ou melhor, a preparar estudantes só para um mercado competitivo. Como educadores-educandos, estamos convocados a dar-nos sentidos de expansão com o propósito de nos projectarmos com força em um mundo «global» que, por influência do capitalismo, se nos torna cada vez mais hermético. Portanto, as nossas práticas universitárias devem romper os círculos repetidos da academia no dar e receber informação; torna-se necessário entrar na pluridimensionalidade do ser a partir das suas distintas manifestações: física, mental, emocional, transcendente, cultural e inconsciente. Como educadores, temos de procurar que os estudantes elaborem os seus juízos sobre os conhecimentos adquiridos, que criem a sua própria concepção do mundo e que construam os seus imaginários no tipo de sociedade e cultura em que querem viver (Lipman, 1996). O que acabámos de afirmar exige de nós um compromisso social, um projectarmo-nos num mundo que pede coerência entre o que se investiga na Universidade e o que ela representa como opção de mudança e transformação nos seus contextos locais. "A irrupção dos pobres nos nossos povoados e cidades durante os últimos anos exige a conversão do ensino numa praxis de solidariedade onde o individual e o pessoal se situem sempre em relação com o colectivo e o comunitário" (MacLaren, 1997: 21); esta conversão é possível se pensarmos crítica e criativamente a partir das nossas aulas universitárias, investigando a partir da subjectividade dos e com os estudantes, a respeito de um mundo que nos pertence como morada e não como objecto dissecado de laboratório. Para Levinas, o subjectivo "não conserva o sentido de arbitrário, de passivo e de não universal. Inaugura a origem, o começo e – num sentido muito diferente do de causa ou de premissa – o principio" (1967: 166). Procurar conhecer por outras vias pode ao menos desestabilizar-nos da nossa acostumada maneira de aprender. 3. PROPÓSITOS E JUSTIFICAÇÃO DA ÁREA PROBLÉMICA O objecto do presente estudo enquadra-se no âmbito do Ensino da Investigação como uma possibilidade de ajuda a quem inicia o seu processo como investigador, oferecendo algumas pistas e itinerários para que possa transitar pelos caminhos escabrosos da investigação em ciências humanas e sociais. Com base na minha experiência como professor de investigação, fui observando que existem, até ao momento, poucos paradigmas metodológicos que ofereçam ao estudante, a partir da sua subjectividade, uma aproximação à investigação. Em muitos tratados expõem-se algumas sugestões, mas quase todas partem da interpretação de um conhecimento avançado na matéria por parte do sujeito aprendiz, sem considerarem, na maioria das situações, a orientação e o acompanhamento do estudante, desde o mais próximo e vivido no seu ambiente envolvente até ao mais complexo na investigação científica. Na raiz da proposta feita há oito anos em "La complementariedad etnográfica" (Murcia e Jaramillo, 2003) estabeleceram-se significativos avanços, na medida em que a perspectiva e desenho metodológico que tal proposta configura, sendo reconhecida como uma possibilidade para investigar em Ciências Humanas Sociais, permitiu o desenvolvimento de projectos de licenciatura (especificamente na área da saúde e da educação) e pós-graduação (mestrado e doutoramento). Não obstante, fui-me apercebendo de que o seu estatuto epistémico e metodológico se tinha sedimentado numa norma ou maneira de fazer investigação ao jeito da ciência normal proposta por Kuhn (Jaramillo e Aguirre, 2004). Nesta perspectiva, a presente tese aventura-se a elaborar uma proposta metodológica que chama a criação, entendida esta como o modo de operar ou fazer frente a algo (estratégia) e não como passos contidos num método específico; os elementos da proposta "são, na realidade, elementos de um sistema, mais que uma via que leve à sua descoberta" (Levinas, 1967: 164); por sua vez, o estudo converte-se numa maneira de partilhar com o leitor a experiência pessoal na realização de projectos de investigação com estudantes de licenciatura em distintas universidades colombianas. De igual modo, pretende-se coligir o contributo de reflexões fenomenológicas que sirvam de suporte para estabelecer uma fundamentação na formação em investigação através de processos de configuração-criadora, promovidos a partir da subjectividade do investigador e não alheios a ela. O contributo da presente investigação, inicialmente, é no campo das Ciências Humanas e Sociais; seguidamente, no campo da Educação, a qual nos acompanha desde o berço até à tumba. Com base no anteriormente referido, a pergunta eixo sobre a qual gira a presente tese é: "Existe uma possibilidade de investigar desde, para e com o sujeito investigador através de um processo de configuraçãocriadora?" 4. O CAMINHO PERCORRIDO: Des-construindo desde a des-sedimentação. A rota ou caminho do presente estudo situa-se nos elementos epistémicos e não só metodológicos da desconstrução, enquanto possibilidades de mobilizar o instituído pelo modelo d'A Complementariedad Etnografica. É assim que Derrida coloca a desconstrução no dizer, no acontecimento, na acção que o sujeito coloca à obra, ao constructo teorético que se erige como sedimentado sobre o seu conhecer. A desconstrução chega sem pedir autorização, aparece e incomoda o sujeito que começa a encarnar o sedimentado desta. "A desconstrução tem lugar; é um acontecimento que não espera a deliberação, a consciência ou a organização do sujeito, nem sequer da modernidade. Isso se desconstrói. O isso não é, aqui, uma coisa impessoal que se contraporia a alguma subjectividade egológica. Está em desconstrução (desconstruir-se… perder a suaconstrução). E no «se» do desconstruir-se, que não é a reflexividade de um eu ou de uma consciência, reside todo o enigma" (Derrida, 1997: 26). Em tal sentido, não se alude ao conceito de desconstrução como derrubamento, destruição, deslocação, demolição que deixa no seu caminho desolação e morte de uma obra construída para certas finalidades. Ao contrário, a positividade da desconstrução convida-nos a des-cobrir, des-mantelar, des-autorizar, as verdades absolutas de uma obra que no seu percurso se tornou esclerótica. "A Complementaridade Etnográfica" foi perdendo o seu carácter de nómada, de transeunte que ajuda a pôr o investigador em situação de incomodidade e in-contenção face ao seu projecto; pelo contrário, a proposta alude a certa suficiência, bem-estar, segurança de uns passos que pouco a pouco vão des-cobrindo uma estrutura que se esconde na realidade. O passo a passo indica por onde vai o caminho prefigurado de um asfalto claramente sinalizado que impede o engano e a criação de possibilidades em momentos chamados pré-configuração, configuração e reconfiguração da realidade. O que começou a emergir com a complementaridade foi uma incomodidade perturbadora que constrangia não só os autores do projecto, mas também alguns dos seus mais acérrimos adeptos, os quais, no seu afã de manter o estatuto da perspectiva, se expressavam com certa insegurança que lhes fazia inventar uma heurística falaz de componentes que não encaixavam com a realidade da sua investigação. Assim, pois, a desconstrução resultou pertinente enquanto "desautoriza, desconstrói, teórica e praticamente, os axiomas hermenêuticos usuais da identidade totalizável da obra e da simplicidade ou individualidade da assinatura. Em consequência, as mudanças, as variações, os deslocamentos deinteresse temático, as transferências, as traduções, incluso abusivas, e por exemplo o uso abusivo de desconstrução como título, como epígrafe capital de um corpo designificações disseminadas que não se podem sintetizar ou dominar sob um nome, todas essas transformações que «sofrem» os conceitos e as práticas da mais ou menos mal chamada desconstrução, não deveria avaliar-se como acidentes alheios a um presente núcleo essencial… é um pensamento que se pensa nos seus momentos mais ou menos reflexivos sobre o seu sentido geral, ou sobre o sentido do seu caminhar". (Peñalver, 1989: 15). A desconstrução permite descobrir como a obra sofre de desgaste, o seu uso já começa a não dar conta do dizer dos seus postulados, mas antes começa a ser precária nos seus eixos fundamentais, começa a dizer muito metodicamente e a calar pouco ontologicamente; o seu núcleo torna-se como um furúnculo (tumor), como quisto que obstrui os passos fluídos da metáfora, da indicibilidade; a obra passa a ser uma trágica experiência para o autor e uma moda ou método para o leitor e seus seguidores. A desconstrução aparece, não é decisão ou desejo de incomodar, é uma necessidade, uma obrigação do investigador que na sua inconformidade sente que tem que dizer algo a esse respeito. "A desconstrução irrompe num pensamento da escrita, como uma escrita da escrita, que de imediato obriga a outra leitura: não já atraída à compreensão hermenêutica do sentido que quer dizer um discurso, mas antes que atenta à cara oculta deste" (Derrida, 1997: 20). O que se quer expor são, pois, momentos reflexivos sobre o sentido que teve a complementaridade na sua marcha, e como, a partir deste processo, pode emergir uma proposta flexível e rigorosa (mas não rígida). 4.1. Que é a complementaridade etnográfica? Chamamos complementaridade à possibilidade que o investigador tem de reunir de forma inclusiva várias perspectivas e métodos de investigação com o propósito de compreender melhor um fenómeno social. Deste modo, considera o referido fenómeno e o mais próximo possível da realidade vivida pelos sujeitos nele imersos e, portanto, pressupõe que tal compreensão não se alcançaria na sua totalidade se a investigação se restringisse a pequenas observações por parte do investigador. Portanto, deve acudir-se a um princípio complementar que se sustente em várias perspectivas sobre a realidade, assim como a articulação entre teoria substantiva (trabalho de campo) e teoria formal (bibliografia) tal e como o expressam os autores: "Na verdade, cremos que é difícil encontrar o sentido de um grupo social só a partir da contemplação exterior a esse fenómeno; adoptando, por exemplo, uma posição de observador não participante com um amplo marco teórico referencial, ou somente a partir da intervenção activa dentro do fenómeno, sem ter um conhecimento alternativo teórico do mesmo. Pois, no primeiro caso, a descrição não transcenderia a realidade de sentido causal e, no segundo, ficar-se-ia só com a lista de eventos (acções e interacções) sem transcendência no plano real de significado (Jaramillo e Murcia, 2003: 92). Assim, a complementaridade fundamenta-se a partir de duas perspectivas, uma epistemológica, que diz respeito à articulação das diferentes visões sobre o fenómeno e sua relação com o objecto; e outra metodológica, referente à possibilidade de oferecer um caminhar que desvele uma estrutura sociocultural. Como se fundamentam estas perspectivas? Do ponto de vista epistemológico, os autores defendem a complementaridade argumentando que se torna necessário reconhecer cada um dos contributos das diferentes tendências qualitativas (Etnometodología, Fenomenologia, Etnografia Reflexiva e Teoria Fundada, entre outras) com o fim de conseguir uma maior e melhor aproximação à realidade estudada: "Por isso recorremos ao principio de complementaridade como uma possibilidade de articulação com respeito às opções que nos oferece cada tendência" (Jaramillo e Murcia, 2003: 86). É assim que se propõem, à maneira de síntese, diversas perspectivas epistémicas na relação com o fenómeno, tais como: - Realizar os estudos sociais no seu meio natural, tal e como o enuncia o Naturalismo. - A possibilidade de compreender a essência dos fenómenos a partir do reconhecimento das acções e experiências dos sujeitos e a sua consolidação em estruturas socioculturais, propostas impulsionadas pela Fenomenologia, pela Etnometodologia e pelo Estruturalismo. - A importância de compreender as redes de sentido e significado socioculturais a partir dos processos comunicativos num contexto determinado, próprias da hermenêutica. - O apoio num paradigma teórico científico que reconheça a transcendência da comunicação, a tradição e a história, tal como propõe a teoria crítica. - A importância de poder construir teoria a partir da comparação constante, proposta pela teoria fundada. - A necessidade de reconhecer os rasgos culturais e poder reflectir sobre eles a partir da proposta da etnografia reflexiva. - A possibilidade de apoiar as análises de tipo individual e colectivo em histórias orais e de vida. - A possibilidade de utilizar alguns planos prévios de tipo flexível que se possam ir reconfigurando no próprio processo de investigação. - A opção de utilizar algumas técnicas estatísticas, sempre que constituam um meio nessa busca teórica para ajudar a compreender melhor a realidade. - A possibilidade de estender as propostas compreensivas à reflexão e mudança de estruturas socioculturais mediante a crítica emancipadora da comunidade, própria da Investigação Acção Participativa. A proposta epistemológica, em última instância, propõe uma etnografia que procura superar o dilema de neutralidade das perspectivas convencionais; tanto as influenciadas pelo positivismo, como as amparadas no naturalismo. "Um plano que parta da complementaridade etnográfica busca desentranhar as estruturas culturais e a essência dessas estruturas para poder compreendê-las." (Jaramillo e Murcia, 2003: 96). Metodologicamente, a complementaridade pressupõe que a compreensão deve atingir-se a partir de contextos internos e externos, como uma espécie de jogo entre aproximar-se e tomar distância diante dos conceitos alternativos conseguidos nas indagações teóricas (teoria formal) e o acesso aos sujeitos sociais que fazem parte da investigação. Portanto, "para ter esse duplo olhar do contexto interno e externo, o investigador necessita moverse flexivelmente entre a teoria formal e substantiva" (Jaramillo e Murcia, 2003: 97). Não obstante, os autores aclaram que a teoria formal é importante na medida em que ajuda a compreender a realidade cultural a estudar e não segue a análise e compreensão da referida realidade; isto é, a compreensão complementa o fenómeno redimensionando-o à luz de outros estudos similares, sem que estes neguem ou anulem os dados da teoria substantiva que pouco a pouco vai emergindo, tal como os autores o expressam: "O anteriormente referido relaciona-se com a etnografia como complemento, já que encontra a sua explicação na dimensão cultural das manifestações, de onde o facto não se categorizar a partir do teórico mas sim das estruturas possíveis que o texto sociocultural apresenta e em que o teórico não determina a forma de perceber ofenómeno, mas ajudar a percebê-lo melhor". (Jaramillo e Murcia, 2003: 98). A intenção de cruzar as teorias substantiva e formal é descobrir uma estrutura de validação que dê conta da realidade vivida pelos sujeitos; esta estrutura vai emergindo paulatinamente na medida em que os investigadores acedam ao fenómeno a compreender a partir de três momentos, a saber: 1. O momento de pré-configuração da realidade que mostra uma aparência da estrutura da referida realidade e está referido ao momento em que se adquire uma primeira aproximação à possível estrutura sociocultural (pré-estrutura); 2. O momento de configuração da realidade que se inicia com o pôr em cena de uma orientação flexível que permite orientar a busca dessa estrutura. O trabalho de campo, ao desenvolver este momento, deve realizar-se em profundidade (intensiva e extensiva), para obter uma estrutura mas fiável; 3. O momento de re-configuração da realidade encontrada, em que se realiza uma análise dos achados socioculturais a partir de uma tripla perspectiva: a perspectiva do investigador, a perspectiva da teoria formal e a perspectiva da teoria substantiva. (Jaramillo e Murcia, 101) Essa perspectiva e desenho metodológico permitiu que aqueles que se formam em investigação possam guiar-se pelos três momentos da proposta e assim compreender uma realidade que lhes está vedada, pelo que necessitam descobri-la a partir de um processo de configuração permanente em busca de uma estrutura sociocultural. O que a proposta tem de original é que sempre a realidade é vista simultaneamente a partir do substantivo e do formal: inicia-se com a emergência do problema, prossegue até à criação e construção de sentido de uma estrutura que dá conta do fenómeno a compreender. Por conseguinte, são excluídos tanto os a priori teóricos como as observações empíricas da realidade; cada uma por separado dá conta de uma aproximação da realidade, mas não complementar. O investigador inicia então o seu problema com um prejuízo o preconceito denominado extra-teórico; à medida que vai entrando no campo ou fenómeno de estudo, e apoiado pela teoria, vai elaborando uma pré-estrutura a partir de processos indutivos e dedutivos; esta primeira parte lhe serve para precisar o problema, os objectivos e a metodologia; é o momento em que mergulha a fundo na realização do seu trabalho em profundidade, com o fim de poder elaborar uma estrutura sociocultural da realidade compreendida, tal e como se pode observar no quadro seguinte: Fonte: Murcia e Jaramillo, 2003: 103. Ora, pese ao que de didáctico tem a proposta, verifica-se que os estudantes de licenciatura se acolhem a ela para os passos metodológicos expostos anteriormente, em que se evidencia criatividade na emergência do problema e na criação da estrutura, mas os momentos tornam-se rígidos ao ter que passar necessariamente por eles. É aqui que se tornou presente a desconstrução como possibilidade de tirar a complementaridade de sua sedimentação. 4.2. Como se tornou presente a desconstrução? Em primeiro lugar, fazendo uma análise das diferentes investigações e tutorias de grupo pelas quais o princípio de complementaridade abriu caminho, mas em que, por sua vez, a sua utilização foi insuficiente a partir de projectos e exposições que resistem a formar parte de um único modelo; neste sentido, a mesma perspectiva ou desenho metodológico foi-se des-sedimentando na sua utilização. Para tal fim, analisaram-se as primeiras investigações de licenciatura assim como de pós-graduação; na sua análise pôde observar-se como os projectos realizados na licenciatura utilizaram a complementaridade mais como desenho metodológico que como enfoque, isto é, não articularam diversos olhares epistémicos da realidade a compreender; guiaram-se antes pelos três momentos que o modelo comporta. Nestas investigações recolheram-se diversas estruturas da realidade, as quais se encontram publicadas num segundo texto denominado Seis Experiencias en Investigación Cualitativa (Jaramillo e Murcia, 2001). As investigações de doutoramento, pela sua exigência metodológica, fizeram uso da articulação de enfoques e métodos (Ver Murcia, 2006 e Hurtado, 2006). Isto permitiu compreender como a formação em investigação a partir da complementaridade etnográfica em cursos universitários estava a utilizar-se unicamente como caminho rígido a seguir e não como fonte de criação. Em segundo lugar, fez-se uma análise des-sedimentadora à proposta a partir dos seus nós problemáticos, tanto a nível epistemológico como de desenho metodológico. Ao nível epistemológico, pôde notar-se que se propõem diversos olhares ou perspectivas sobre o fenómeno, mas não um eixo que articule. Apresenta-se então um texto que se desvanece na apresentação de uma variedade de enfoques, muito importantes por certo, mas que fazem o leitor do texto perder o fio condutor da complementaridade. Por outro lado, o problema da relação sujeito-objecto e de intersubjectividade não fica resolvido, já que só se apresenta a possibilidade de conhecer por meio da interacção a partir da teoria de A. Schaff, segundo a qual ambos os sujeitos contribuem para o conhecimento; contudo, esta possibilidade enfraquece-se entre a maioria dos enfoques propostos e não se desenvolve em toda a sua profundidade. A subjectividade e a intersubjectividade, neste sentido, tocam-se de soslaio na proposta da Complementaridade. Por último, e em terceiro lugar, expõem-se experiências tanto pessoais como dos estudantes. Analisa-se aí o significado do processo de formação em investigação, produto das assessorias levadas a cabo em vários grupos de investigação nos últimos seis anos; aqui ressalta o papel da subjectividade nos processos de formação. Refere-se então como na investigação, antes de tudo, o investigador é sujeito e ser senti-pensante daquilo que quer compreender, do mesmo modo que as relações que estabelece tanto com os companheiros do projecto como com os sujeitos sociais geram uma nova concepção do olhar, um afecto relacional chamado enamoramento intelectual. Nestas três possibilidades, a desconstrução fez-se presente para dar lugar a mais uma criação, ao nascimento de uma proposta que tenha em conta os lugares e tempos dos sujeitos investigadores a partir de uma realidade que não se deve descobrir, mas sim compreender construtivamente com os sujeitos sociais. Deixa-se ver, então, a necessidade de formar em investigação a partir da sensibilidade em que o sujeito investigador vai às próprias coisas situando-se na sua sensibilidade, já não cruzando somente métodos indutivos e dedutivos, mas apresentando-se a si mesmo como sujeito processual de acção que se move ambiguamente na passividade, para ver-se no meio do mundo, e na actividade, para actuar graças a ela: "Ambiguidade da passividade e da actividade na descrição da sensibilidade, fixa em realidade este novo tipo de consciência que se chamará corpo próprio, corpo-sujeito, sujeito como corpo e não como simples paralelo como objecto representado" (Levinas, 1967: 71). Compreendendo então que o eixo articulador da complementaridade se encontra na sensibilidade do próprio sujeito que vive encarnadamente em um mundo que não é objecto de estudo mas sim de abertura, tenta expor-se uma proposta de formação em investigação construída a partir da subjectividade dos estudantes-investigadores como possibilidade de formação de uma vida que busca o sentido co-existindo e alargando os horizontes possíveis. 5. ESBOÇOS DE UMA PROPOSTA FECUNDADA: o provado andando 5.1 Introdução Como fazer da investigação um processo que ultrapasse a razão? Talvez se nos constituírmos com aquilo que nos ultrapassa, poderemos senti-la como oportunidade para alargar horizontes de vida e não continuar presos na sua instrumentalização. Primeiro, fazermos da investigação um jogar, para que se torne lúdica e ganhe significado; segundo, enamorarmo-nos da área ou tema que nos apaixona para sentirmos gozo na sua exploração; e, terceiro, manter a suspeita de que nos faltou algo mais por descobrir, por encontrar, outra muralha a franquear – um desejo não acabado. Ao exprimir-se como jogar, a investigação torna-se-nos acção natural, na medida em que "o vaivém do movimento lúdico aparece como por si mesmo… como se caminhasse [sozinha]. A facilidade do jogo que, desde logo, não necessita ser sempre verdadeira falta de esforço, mas significa, fenomenologicamente, só a falta de um sentir-se esforçado. Experimenta-se este subjectivamente como descarga" (Gadamer, 1993: 148). Assumir a investigação como jogo é deixarmo-nos abandonar ao lúdico que ela comporta, ao dever da iniciativa do «ter que» pelo «querer ser». Não podemos continuar entendendo a investigação apenas como produção de conhecimento, ou geração de novo conhecimento; mas sim como uma com-natural conjectura que nos acompanha, pelo que se nos torna impossível renunciar a ela; a mesma busca pelo desconhecido já nos produz prazer e descarga subjectiva. Entregarmo-nos por completo às sombras da curiosidade incessante, para saber que haverá para além de… é deixar que a investigação jogue e seja pêndulo de realização no próprio movimento e não o alcançado em cada um dos seus extremos (nem chegada, nem partida); a investigação é acção de fantasia e realidade muito similar ao que nos produz o infinito do jogar. Quanto ao amor, diremos que a investigação é natural na nossa condição humana, enquanto queremos investigar aquilo que realmente nos apaixona, nos enamora, nos envolve. Ela não pode continuar alheada da nossa natureza, isso seria ir contra-natura. Assim se explica por que razão para alguns dos nossos estudantes de secundário e mesmo da Universidade é tão aborrecido investigar. Muitas vezes, quando o docente propõe a ideia de investigação e os estudantes se unem a ela, a visão do que se quer investigar limita-se enquanto não se encarna o projecto, isto é, não alcança passar pela pele dos estudantes. A não ser que o docente saiba transmitir essa inquietude de si que comporta o projecto e essa magia produtora e des-paralizadora que o mobiliza mais além que a razão, será muito difícil aos estudantes sentir um problema de investigação como seu. Tudo é mais fácil e melhor quando a ideia do que se quer investigar parte dos próprios jovens investigadores; todavia, isso não quer dizer que docentes e estudantes se prendam do mesmo fio para avançar pelos caminhos escabrosos que leva em si o projecto. Mas quando um só, e não todos, lança a visão, difícil é o avanço e tensas as relações. O amor, aparte de emocionar-nos, implica compromisso, luta e entrega. Não nos enamorarmos do que se quer investigar é fazer da investigação algo tedioso, fastidioso, cheio de fórmulas que há que cumprir; a última pretensão é o grau académico. Deste modo, existem profissionais que viveram a carga mortífera de ter que investigar. Por último (a respeito do desejo), parece-me que não se investiga algo que não se deseja, pois a surpresa, a intriga e a conjectura são permanentemente adormecidos pela teoria em excesso; isso se vê reflectido na citação de inúmeros autores, ficando mais escondida a identidade de quem escreve e investiga; a força do escrito recai nos raciocínios e argumentos de outros e não nos pensamentos próprios. A investigação é esse desejo de possuir compreensivamente aquilo que não entendemos e nos move à reflexão, é a insaciabilidade por com-preender, por buscar o inquietante, o infinito da nossa finitude. Por natureza sempre vamos mais além do que necessitamos. Se nas aulas de investigação nos oferecem os conceitos e a totalidade do processo acerca de como investigar, pouca graça encontraremos nos resultados, pois já de antemão se sabiam através de hipóteses. Na investigação, necessitamos ir atrás da pegada de…, buscar pistas, criar métodos, inventar labirintos sem saídas, confundirmo-nos com o inesperado. Conhece uma cidade quem se perde nela. Investiga aquele que não sabe que caminho tomar; o desejo nos empurra a descobrir e criar caminhos outros (não outros caminhos somados aos já existentes) que nunca esperámos encontrar, menos ainda criar; abrir ousadamente veredas que outros não se tenham aventurado a inventar. Tornar visíveis os caminhos e descobrir territórios é possível se emergem no meio das turmas e dos seminários problemas reais de investigação e não só exercícios para aprender a investigar¹ Zemelman (2005) fala-nos de ir até problemas epistémicos e não teóricos; isto é, nomear as coisas de outra maneira, inclusive, nomear o in-nomeado para além do que os conceitos e ideias formais dizem acerca do que é real. O desejo torna-nos criadores de realidades e alarga-nos ao mundo. A investigação torna-se natural em nós na medida que a assumirmos como parte da nossa condição humana: simplesmente é o que é e não outra coisa, como o amor, o jogo e o desejo. Façamos de nossas aulas pequenos-grandes projectos de investigação, não importa se não é aula de «Metodologia da Investigação»; ao contrário, investigamos precisamente porque a natureza é portadora de criação que joga no meio do amor e do desejo (Jaramillo, 2006). Isto permite que tanto estudantes de investigação como investigadores dêem conta de uma realidade de que eles mesmos fazem parte, assim"teremos que assumir as consequências que isso tem sobre a linguagem e o que entendemos por [ciência] e por história" (Zemelman, 2005: 94). Não podemos encerrar e ordenar num currículo o que por natureza é livre e insuspeitado; algo excitante em que já não importa o tempo de aula, nem o sítio de encontro, nem a nota, ou se ganhei ou perdi o semestre, simplesmente investigo, jogo, desejo e me enamoro. 5.2 Desfiando sobre solo resvaladiço: por um processo rigoroso mas não rígido Dividi a presente proposta metodológica em três partes: a primeira orientada para um processo de formação-enacção com o propósito de conseguir espaços e encontros para a sensibilização de um conhecimento que chamei Saboreado; a segunda, como a atitude fenomenológica de habitar e constituir a pergunta de investigação denominado Habitando na pergunta; e a terceira, como a capacidade que tem o investigador de criar o seu própria itinerário de investigação: Jogando a inventar modelos. Cada uma delas tem seus temas e construções propositivas que a sustentam. A proposta em si quer recolher as riquezas do Principio de Complementaridade, assim como as suas fraquezas, fazendo da presente investigação uma obra com-figura-dora; isto é, criadora. 5.2.1 Formação-Enacção Para a UNESCO (1989), a formação entende-se em dois sentidos: por um lado, como uma aquisição de habilidades, conhecimentos, actividades e condutas intimamente associadas ao campo profissional e, por outro, "como um processo que busca a consecução de um desenvolvimento pessoal, social e profissional ao longo da vida do indivíduos com a finalidade de melhorar a sua qualidade de vida e a da sua colectividade". Esta noção implica a consideração do sistema educativo como um todo, um continuo em que se outorga à educação superior uma revolução; para a UNESCO, a chave para o século XXI é a formação ao longo da vida. A formação em investigação, a partir das perspectivas anteriores, apresenta-se-nos como um repto à sociedade actual, já que o sujeito não só conhece a sua disciplina, mas também se conhece a si mesmo, aos outros e, o mais importante, se posiciona na ordem histórica e cultural em que lhe tocou viver. Lamentavelmente, a nossa tradição ocidental propiciou a compreensão do conhecimento como representação, isto é, como Espelho da Natureza, verificação fiel do mundo; ao contrário, Rorty argumenta que o "conhecimento não consiste na apreensão da verdadeira realidade dada pelo cartesianismo, mas na forma de adquirir hábitos para fazer frente à dita realidade" (1991:15). Os critérios de objectividade, se é que existem, estariam aceites por consenso dentro de uma comunidade académica como «acordos não forçados», passariam a ser chamados processos de objectivação (León 1997). A formação, por conseguinte, é entendida como aquela categoria que nos permite mudar (Feitosa, 2006), fazer constantemente frente à realidade através de processos de cognição enactiva e não representativa como geralmente nos foi ensinado na educação superior. Como entendo a cognição enactiva? Para Varela (1998: 89) "a maior capacidade da cognição consiste em grande medida em colocar questões relevantes que vão surgindo em cada momento da nossa vida. Estas não são predefinidas mas enactuadas: fazem-se emergir a partir de um pano de fundo, sendo relevante aquilo que o nosso sentido comum julga como tal, sempre dentro de um contexto". A enacção, fundamentada em fenomenólogos como Merleau-Ponty², considera que na cognição intervêm o sentido comum³ e o contexto como possibilidade para configurar o nosso mundo. Estes dois não são artefactos residuais que se possam eliminar de nossa humana maneira de viver. Isso quer dizer que o conhecimento se relaciona com o facto de estar num mundo que resulta inseparável do nosso corpo, da nossa linguagem e da nossa história social; estamos sempre arrojados encarnadamente nele à maneira do eu posso (Levinas, 1967). Na enacção, mundo dado e mundo percebido definem-se mutuamente, são correlativos, o mundo é mais que solipsismo e objetividade; as atitudes cognitivas estão inextricavelmente enlaçadas com uma história vivida e ininterrupta, tal como um caminho que não existe mas que se faz ao andar. Aqui a acção efectiva-se: enactua; isto é, emerge. Formação enactiva é devir humano, já que o sujeito é constituído e constituinte, actor social do seu processo. A presente proposta tem em conta a formação em investigação de um estudante que interactua com um mundo que o surpreende; isto é, agarra-o na sua historicidade. Desde esse momento já não será o mesmo, enquanto se abriu primeiramente ao mundo, existe co-implicadamente com ele. A outra abertura é ao Outro; o mundo não é só dele, também participam os companheiros de aula e os sujeitos sociais do estudo. Deste modo, não pode haver solipsismo: "Pois o mundo que vejo não é só meu, no sentido particular: eu vejo uma árvore, as perspectivas que tenho dela dependem da posição do meu corpo; todavia, ainda ficam lacunas que albergam a própria coisa. Quando digo vejo uma árvore, o que vejo é a cara subjectiva da percepção. Se outro olhar se pousa sobre a árvore, a minha percepção pousa-se sobre a árvore e o corpo do outro que o olha, entabulando-se uma relação que não corresponde a nenhuma das duas relações que oferece uma análise solipsista" (Aguirre, 2006: 56). A segunda abertura permite uma formação intersubjectiva. Nunca veremos a realidade na sua totalidade, mas só os múltiplos olhares sobre a realidade alimentada pela história dos Outros. Assim, o mundo não é só meu; nele participam os outros, ao mesmo tempo que eu me faço partícipe dos outros; o que se chama eu está oferecido ao olhar estranho – assim, em meu olhar "entram quantos queiram participar dele" (Ponty, 1970: 83). Esta primeira parte do capítulo V envolve três possibilidades nos processos pedagógicos e didácticos dos estudantes: o primeiro encontra-se relacionado com poder realizar uma sensibilização para além dos conhecimentos teórico-formais e encontrar saberes dados no mundo da vida (Lebenswelt); para isso, deve fazer-se uma distinção entre o saber, o conhecer e a sua constituição epistémica, parte que denominei co-saber; posteriormente, devem explicitar-se processos de formação por um conhecimento que parta do gosto por conhecer e não só pela necessidade tal como no-la ensinaram nos textos de «metodologia da investigação»; aqui jogam parte importante as afirmações sobre o desejo como infinitude esboçada por Levinas (1977) que permitem um transbordar da subjectividade; por último, parece-me importante que os estudantes-investigadores conheçam nos seus processos de formação-enactivos as implicações que tem a intersubjectividade a partir de um corpo vivido ou corpo sujeito posto em relação com os Outros. 5.2.2 Habitando a pergunta Para Merleau-Ponty, o verdadeiro filósofo não pretende interrogar com o afã de ir preenchendo inquietudes; o seu afã é o de perguntar pela origem das perguntas e das respostas, sendo a interrogação o que dá vida a todas as perguntas de conhecimento (Ponty, s.f.: 30). Esta segunda parte da proposta, põe em cena as possibilidades que tem o investigador de aproximar-se do objecto de estudo constituído por diferentes caminhos: como é que o estudante investigador se vai descobrindo e configurando no projecto de investigação? Como é entendida a subjectividade neste processo? Habitar a pergunta, ver-se no meio dela, por sua vez, vê-la por muitas arestas e perspectivas que saem de tempos e lugares absolutos de uma cientificidade positiva; poderíamos dizer que a pergunta emerge ao constituir ela própria o seu tempo e o seu lugar. Deste modo, a pergunta faz-se presente enquanto é parte dos investigadores e não só uma indagação que lhes é alheia. A pergunta chega, é percebida constitutivamente, deixa de ser somente objectiva e teórica; poderíamos dizer, fenomenologicamente, que se constitui em Morada, em indagação original na qual o investigador pode reconhecê-la e fazê-la sua, é co-dependente dela (e ela dele) e, graças a isso, é livre para decidir como desejaria construir o itinerário metodológico para resolvê-la. Olhar a pergunta «perceptivamente» é habitá-la e captá-la a partir de todos os olhares, segundo a perspectiva donde se olhe (Merleau-Ponty, 1957); é como olhar uma casa de certo ângulo, o qual consistiria em ter à nossa disposição os horizontes das coisas mas não poder captá-la na sua totalidade, pois a casa mostraria a sua outra cara em outra direcção; teria portanto uma perspectiva. Com isto quero explicar que o espaço da pergunta corresponde à existência de muitos horizontes; isto é, que na sua constituição a vejo de um lado, mas ela encontra-se relacionada com um contexto donde é mirada de outras maneiras. Não existe pois uma totalidade da pergunta, mas a pergunta em perspectiva da maneira como ela se apresenta diante dos estudantes-investigadores. Por outro lado, podemos olhar e sentir a pergunta temporalmente; isto é, num tempo que não é absoluto; tal como na casa, vemos a partir de um presente as janelas e as fendas que nos falam da casa construída pelos avós e da qual guardamos recordações dos passeios e jardins por onde andávamos; a casa guarda um tempo passado/presente para quem a percebe (Aguirre, 2006), mas o passado pode ter sido alterado pela recordação ou o presente pode significar para outros algo distinto do que para nós foi a casa do avô; desta forma, não existe um tempo absoluto mas um tempo de horizontes, podendo verse a casa a partir de muitas heterocronías. O mesmo sucede com a pergunta, a qual é vista a partir de uma temporalidade, de uma história pessoal do investigador e das relações dadas com os sujeitos sociais. Desta maneira, a pergunta é percebida subjectivamente e inter-corporeamente a partir de um tempo e um lugar. Aqui a pergunta torna-se-nos Morada, isto é, um lugar constituído para habitar no meio dela. A segunda parte da proposta apresentada no Capítulo V envolve três componentes, a saber: - o investigador posto no limite – na emergência da pergunta jogam um papel importante os seus afectos, a sua biografia e a aderência através de saberes ao tema de investigação; - o segundo componente denomina-se e isso com que se come?, no qual se pretendem dar ferramentas (entendidas estas como possibilidades) para que os estudantes, através da sua subjectividade, possam buscar não somente dados objectivos nos livros, mas também dados subjectivos e inter-subjectivos; - o terceiro componente consiste em como, depois de ter indagado de várias maneiras e buscado por múltiplos caminhos, o estudante-investigador dá forma à sua pergunta; isto é, avalia as situações, entra em contacto com os sujeitos sociais implicados, confere constantemente as teorias, até chegar ao limite de decidir criativamente o que deseja investigar, secção denominada estar decidido a decidir. A partir destes três elementos, o estudante-investigador poderá sentir a pergunta como Morada, como sua… como algo que lhe pertence; já não é exterior a ela, mas será parte implicada com ela. 5.2.3. Jogando a inventar modelos Que é um modelo e qual é a sua função no interior da ciência? Segundo Sierra, "os modelos são construções teóricas hipotéticas, susceptíveis de matematização, com as quais se pretende representar um sector da realidade afim de a estudar e de verificar a teoria" (1986: 34). Vistos assim, os modelos são as lentes que guiam o investigador na compreensão ou explicação da realidade mas, por seu lado, são palas que impedem de ver outros sectores que se encontram fora do modelo, restringindo desta maneira a capacidade de ver mais além do que podemos ver. Assim como o olhar não é só fisiológico mas podemos ver para além das nossas limitações físicas, também na investigação a nossa capacidade de ver a realidade sai dos enquadramentos que nos oferecem os modelos de investigação. Portanto, os modelos criam-se para além das obturações teóricas, e devem ser abertos e expansivos até ao ponto de transbordar as nossas explicações. Para explicar isto melhor, permitir-me-ei citar um exemplo que dá Foerster acerca de como a nossa invenção da realidade sai de esquemas tipificados dados pelos modelos: "Castaneda foi ao povoado de Sonora, no México, a conhecer um bruxo chamado Don Juan, a quem pediu que o ensinasse a ver. Assim, Don Juan interna-se com Castaneda no meio da selva mexicana. Caminham uma ou duas horas, e de imediato Don Juan exclama: "Olha, olha o que há aí! Viste?". Castaneda responde-lhe: "Não. não vi". Continuam caminhando, e uns dez minutos mais tarde Don Juan volta a deter-se e exclama: "Olha, olha alí! Viste?". Castaneda olha e responde: "Não, não vi nada". "Ah!", é a lacónica resposta de Don Juan. "Continuam a sua marcha e volta a suceder o mesmo duas ou três vezes, mas Castaneda nunca vê nada; até que, por fim, Don Juan encontra a solução: "Agora entendo qual é o teu problema! – diz-lhe – Tu não podes ver o que não podesexplicar. Trata de te esqueceres das tuas explicações e começarás a ver" (1995: 243). Não é que as explicações não sejam importantes, mas é que ao lado delas encontram-se aspectos qualitativos que participam na criação do conhecimento e por aí dos modelos. O erro em que se pode cair é ver somente causalidades nas realidades sociais buscando nelas apenas as partes de um sistema metodológico afincadas em modelos mecânicos. Se se assume o problema como Morada, este não pode resolver-se senão através de modelos criativos que permitem ao problema habitar no seu espaço/tempo e não fechá-lo por meio de um modelo de relação linear-causal ou circularч pré-desenhado através do método científico. Isto não quer dizer que os modelos quantitativos ou qualitativos existentes não sejam importantes para ajudar a resolver um problema; mas, em meu entender, um modelo não se aplica a um problema determinado como cópia fiel sendo distintas as realidades e as percepções e vivenciando-se as experiências de maneira singular. O importante é como os estudantes-investigadores conhecem as explicações epistemológicas dos modelos e a sua justificação na solução ou resolução de problemas com uma lógica explicativa o compreensiva. Assim, colocam-se em situação e com intencionalidade a respeito de que tipo de modelo é o mais pertinente e que mudanças heurísticas haverão que efectuar no intento de solucionar o seu problema. Ora bem, as mudanças que têm de sofrer os modelos pré-desenhados não são de ordem mecânica; não é mudando as técnicas o instrumentos no interior do modelo, nem somente a forma de aproximação aos sujeitos sociais; a mudança de lógica sistémica, em palavras de Morin (2000), é a auto-eco-organização, isto é, relacional entendida como a capacidade de efectuar uma mudança de segunda ordem que permita uma reorganização do modelo enquanto tal e não só as suas partes. Se se muda uma parte do modelo, agudiza-se como tal o sistema, pois é a sua lógica interna e não as partes que o conformam que pode não se ajustar ao problema. Por conseguinte, o estudante investigador deve adquirir a capacidade de ver co-implicadamente o todo nas partes e as partes no todo de um modelo ou desenho determinado; assim, da desordem lógica provocada no modelo pode estabelecer-se uma nova ordem; isto só é possível colocando em jogo a criatividade. Recorde-se que, em investigação, o problema é o que determina o modelo e não o modelo que determina o problema. À medida que vamos configurando o problema, vamos criando o modelo e, por causa dele, um desenho. O desenho, ao contrário do modelo, é de ordem mais aberta; permite confeccionar-se permanentemente com bases nos diferentes matizes que vai assumindo o problema; o seu colorido permite desenhar múltiplas formas de produzir aproximações, reflexões, erros (vistos estes como possibilidade de crescimento: Feitosa, 2006), retrocessos, avanços… toda uma serie de possibilidades criativas utilizadas pelo investigador quando habita no seu problema. Como diria De la Cuesta "não se investiga por desenho mas desenha-se ao investigar… dado o seu carácter emergente, a verdadeira investigação é com frequência desordenada, confusa e frustrante, e além disso não é linear" (2004: 8). Os modelos assumidos a partir de um co-saber ou saber conceptual permitem-nos orientar-nos no mundo da experiência, prever situações e às vezes determinar incluso as experiências (Glasersfeld, 1998). Esta perspectiva está muito ligada à de Galindo (1998) quando expressa que aquele que indaga necessita dar-se conta do que está fazendo continuamente, chegue ou não a consegui-lo. As possibilidades têm pois que ser abertas, indagam de um modo mais livre, respeitando a intuição. Assim, os estudantes-investigadores devem aprender a jogar com os modelos e os desenhos, seleccionar perspectivas, considerar múltiplas opções e estar dispostos a realizar e decidir criativamente as invenções alcançadas para resolver um problema que sentem seu; isso depende, obviamente, da rede de relações concretas de antagonismo, de complementaridade e de cooperação entre os múltiplos pontos de vista em jogo. Jogo não significa aqui pôr em cena, mas as múltiplas combinações que pode realizar o estudante para ver o problema. "…falar de jogo é indicio de uma maior consciência acerca dos mecanismos que presidem à historia da natureza. Portanto, não se trata só da utilização de uma metáfora cómoda… A natureza e a história jogam sempre jogos interessantes, isto é, jogos que não possuem uma estratégia necessariamente vencedora elaborada no começo. O decurso do jogo sucede sempre na interacção e por meio da interacção entre as regras postas como vínculos e como constitutivas do jogo, a casualidade e a contingência dos sucessos particulares e das eleições particulares, e as estratégias dos jogadores dirigidas a utilizar as regras e a casualidade para construir novos cenários e novas possibilidades" (Ceruti, 1998: 144). O jogo como infinidade permite-nos jogar com os caminhos; isso torna as possibilidades infinitas, o importante será a opção metamorfoseada que o estudante faça com o problema, isso impulsionará a realizar o jogo… o seu jogo. Esta terceira parte da proposta implica então esses processos de criação. Embora a criatividade faça parte de toda a proposta, porém, o que se pretende é dar algumas orientações quanto ao desenho-metodológico na execução do projecto de investigação; o que se pretende não é dar receitas mas aberturas na formação de estudantesinvestigadores. Por isso"O tutor raramente dará receitas a um investigador em formação; a maioria das vezes lhe fará perguntas não com a esperança de obter uma resposta imediata mas de promover a sua reflexão. Enquanto que a orientação académica e metodológica do tutor serve de guia ao estudante, esta nunca será um mandato a cumprir ou um caminho a transitar; permitir-se-á a experimentação e a aprendizagem inclusive dos erros; é na prática da investigação donde realmente se dirimem as questões metodológicas. A direcção do estudo há-de ser encaminhada a fomentar a reflexividade do investigador em formação"(De la Cuesta, 2004: 5). Os pontos que confirmam esta parte, tal como os anteriores, são três: o primeiro faz referência a como, a partir da heurística, "se desenfocam os modelos e enfoques" e se permite ao estudante-investigador construir outros focos; o segundo ponto consta das diferentes oportunidades que tem o investigador para jogar "complementarmente fazendo agrupamentos raros" a partir de processos de triangulação; isto é, poder perceber o problema de várias maneiras; por último, como terceiro ponto, propõe-se a possibilidade e a liberdade do investigador para que possa alargar o seu horizonte de vida a partir da investigação realizada; para tal efeito, oferecem-se igualmente possibilidades para que se veja no todo investigado e não como alheio a ele. Não se trata, como antes dizíamos, de formar consensos com a comunidade ou os sujeitos sociais para extrair deles informação, tão pouco se trata de elaborar arquivos secretos da experiência do investigador no campo longínquo da subjectividade dos sujeitos em questão; trata-se de investigar co-implicadamente com o Outro a ponto de que a sua percepção sobre o co-saber particular que está investigando, altere o seu ponto de vista, o mude para horizontes de onde poderá dizer que já não é o mesmo./ CONCLUSÃO No desenho, os métodos (caminhos) co-nascem, as técnicas são possibilidades e as teorias são as metáforas constituídas tanto objectiva como subjectivamente. O investigador em formação há-de tornar o seu posicionamento consciente frente à natureza da prática da investigação e do que constitui conhecimento. Fazê-lo é o primeiro passo da subjectividade. Quem é o investigador, como usa o seu «si mesmo» durante o estudo e como se transforma são questões nucleares na formação para a investigação; "as finalidades da educação são o resultado menos da reflexão racional que do interesse, do imaginário ou de um acto de fé individual ou colectivo, actos que podemos chamar meta-racionais. O trabalho do educador exige, portanto, por um lado, a reflexão racional sobre os meios e, por outro, a sua crença e a aposta no futuro."(Azevedo & Louro, 2006: 21)/ ¹ Entende-se aqui que o problema se identifica a partir de uma situação que produz o se prevê que possa produzir um conflito e que, como assinalam Jessup M. y Castellanos R., em principio não tem una solução evidente ou um caminho evidente para obtê-la. Portanto, requere-se de um processo de análise e tomada de decisões que permita a eleição mais apropriada de acordo com as características do contexto. Desta maneira, um problema é diferente de um exercício. No se poderiam considerar como problemas mas sim como exercícios aqueles questionamentos que costumam aparecer nos livros de texto e cujas respostas estão previamente definidas (Citado por Corchuelo, 2006). ² Merleau-Ponty (1970: 48), estabelece uma relação indissolúvel entre acção e conhecimento – conhecedor e conhecido através da percepção ou como ele lhe chama "Fé Perceptiva" que é a que nos dá a certeza de que "estamos ocupando o mundo com o nosso corpo, sem ter que eleger nem distinguir sequer entre a segurança de ver e ver o verdadeiro, porque são fundamentalmente as mesmas coisas" por outras palavras, "desequilibra-se a velha suspeita de que tudo me engana e que o conhecimento da realidade é inacessível para os sentidos; o corpo sente o mundo que é e portanto é preponderante o seu papel na busca da verdade." (Aguirre, 2006: 58) ³ Para P. Berger y T Luckmann (1983), os sujeitos partilhamos um sentido comuns a realidade; é a atitude natural, é a atitude da consciência do sentido comum, precisamente porque se refere a um mundo que é comum a muitos homens. O conhecimento do sentido comum é o que partilho com outros nas rotinas normais e auto-evidentes da vida quotidiana. Cf. La Construcción Social de la Realidad. p. 41. ч Uma relação causal denomina-se linear quando uma série de proposições não regressam, fechando um círculo, ao seu ponto de inicio; isto implica que nunca o resultado de algo venha a exercer os seus efeitos sobre a sua própria origem. Portanto, não intervêm processos de retroalimentação e a sequência das causas e efeitos não regressam ao ponto de partida (Ceberio & y Watzlawick, 1998: 40). ¹ Entende-se aqui que o problema se identifica a partir de uma situação que produz o se prevê que possa produzir um conflito e que, como assinalam Jessup M. y Castellanos R., em principio não tem una solução evidente ou um caminho evidente para obtê-la. Portanto, requere-se de um processo de análise e tomada de decisões que permita a eleição mais apropriada de acordo com as características do contexto. Desta maneira, um problema é diferente de um exercício. No se poderiam considerar como problemas mas sim como exercícios aqueles questionamentos que costumam aparecer nos livros de texto e cujas respostas estão previamente definidas (Citado por Corchuelo, 2006). ² Merleau-Ponty (1970: 48), estabelece uma relação indissolúvel entre acção e conhecimento – conhecedor e conhecido através da percepção ou como ele lhe chama "Fé Perceptiva" que é a que nos dá a certeza de que "estamos ocupando o mundo com o nosso corpo, sem ter que eleger nem distinguir sequer entre a segurança de ver e ver o verdadeiro, porque são fundamentalmente as mesmas coisas" por outras palavras, "desequilibra-se a velha suspeita de que tudo me engana e que o conhecimento da realidade é inacessível para os sentidos; o corpo sente o mundo que é e portanto é preponderante o seu papel na busca da verdade." (Aguirre, 2006: 58) ³ Para P. Berger y T Luckmann (1983), os sujeitos partilhamos um sentido comuns a realidade; é a atitude natural, é a atitude da consciência do sentido comum, precisamente porque se refere a um mundo que é comum a muitos homens. O conhecimento do sentido comum é o que partilho com outros nas rotinas normais e auto-evidentes da vida quotidiana. Cf. La Construcción Social de la Realidad. p. 41. ч Uma relação causal denomina-se linear quando uma série de proposições não regressam, fechando um círculo, ao seu ponto de inicio; isto implica que nunca o resultado de algo venha a exercer os seus efeitos sobre a sua própria origem. Portanto, não intervêm processos de retroalimentação e a sequência das causas e efeitos não regressam ao ponto de partida (Ceberio & y Watzlawick, 1998: 40).