L'affermazione delle cosiddette "democrazie costituzionali" dotate di costituzioni rigide, ha portato a compimento un complesso processo storico ed ha condotto alla realizzazione quasi completa del "costituzionalismo", dove la legge, per la prima volta, viene sottoposta ad un giudizio di tipo assiologico. In tale contesto è di notevole importanza il complicato e delicato lavoro del giudice costituzionale, il quale deve interpretare la Costituzione, nel cui tessuto sono introdotti direttamente una serie di principi contenenti valori etico-politici , la cui applicazione non assume più la forma classica sillogistica della sussunzione, bensì della ponderazione. Le più note teorie giuscostituzionaliste e dell'argomentazione giuridica hanno dedotto che i principi sono delle norme di ottimizzazione che descrivono un valore da realizzare il più possibile, con riguardo a quanto risulta effettivamente realizzabile, sia sotto il profilo fattuale che giuridico, talché il loro adempimento non dipende soltanto dalle possibilità reali, ma anche da quelle giuridiche, oltre che da regole e da principi controversi. Nell'interpretazione costituzionale, seguendo il metodo argomentativo, la gerarchia assiologica, la scala di priorità tra i principi costituzionali diversi si rende necessaria, perché essa si riferisce a particolari tipi di norme date da una stessa fonte del diritto, ossia la Costituzione: nel balancing test tra diritti concorrenti la Corte Suprema americana parla di preferred position per taluni diritti riconducibili ad un valore costituzionale primario, come la libertà di espressione e di associazione, la libertà religiosa, i diritti della personalità e di partecipazione politica. Ma anche la nostra Corte Costituzionale è continuamente costretta a scegliere nel caso da decidere, con ragionevolezza e proporzionalità, non solo nell'ipotesi di giudizi di eguaglianza, alla luce dell'art. 3 della costituzione, ma anche quando, nel reperire la norma parametro, deve scegliere tra principi, diritti e valori contrastanti, come ad esempio tra diritto di libertà individuale e diritto alla salute o tra diritto di proprietà e di impresa e riconoscimento del valore "primario" del paesaggio. La difficile ricerca di una gerarchia tra i valori costituzionalmente tutelati esige un'opera continua e incessante di ridefinizione e di ri-armonizzazione dei principi costituzionali sulla base degli elementi specifici forniti dai casi da decidere. Gli enunciati costituzionali debbono perciò tener fermo un nucleo identificativo del valore originariamente tutelato, domandando, nel contempo, attraverso una ragionevole varietà di interpretazioni e di applicazioni, di essere continuamente rimodellati ed adeguati alla storia e alla politica, nonché al mutare delle assunzioni di senso e dei significati sociali. I principi che si trovano alla base delle costituzioni, e attorno ai quali i documenti costituzionali si sono formati, con l'aprirsi di nuovi orizzonti e di nuovi problemi, debbono continuamente essere aggiornati, rielaborati e ricomposti in un insieme dotato di senso. Essi hanno bisogno di rinnovata giustificazione da un interprete dotato di un peculiare ed elevato habitus giuridico, idoneo a rendere un giudizio complesso e articolato come quello di costituzionalità. . Dal punto di vista della metodologia ermeneutica, l'habitus del giudice costituzionale corrisponde alla precomprensione critica, attraverso la quale si può individuare se il giudizio costituzionale sia stato effettuato da un giudice privo di habitus e invalidare tale giudizio, anche a prescindere dalla corretta motivazione del giudice stesso. Se poi si tiene presente che la Costituzione è essa stessa il risultato dell'interpretazione dei principi costituzionali, risulta di tutta evidenza l'importanza di un "circolo ermeneutico" tra i principi conformatori della società e valutazioni della società stessa. Nel giudizio costituzionale la circolarità ermeneutica è molto accentuata, infatti, tra il giudice interprete, la collettività e la Costituzione, oggetto interpretato, si instaura un intimo rapporto circolare diacronico, dal momento che la Costituzione contiene dei principi e dei valori appartenenti alla società della quale lo stesso giudice costituzionale fa parte. Nell'attività giudiziale della Corte costituzionale italiana è possibile riscontrare l'accezione scettica dell'interpretazione giuridica, tipica dei sistemi di common law: laddove, sul piano della creatività, le sentenze interpretative di rigetto, sentenze additive e sentenze manipolative sono tutte varianti suggerite o imposte dalla necessità nei singoli casi di un unico modello di pronuncia del giudice delle leggi, che in presenza di determinate condizioni, consente di superare i confini prestabiliti dai canoni legali dell'interpretazione giudiziaria per addentrarsi verso una funzione che non è solo etero-integrativa del diritto ordinamentale e costituzionale, ma anche suppletiva del potere legislativo. L'utilizzo dell'ermeneutica giuridica, come metodo d'interpretazione, trova particolare rilievo dinanzi alle Corti de-statalizzate operanti in ambiti giuridici ad ordinamento pluristatale come la Corte di Giustizia dell'Unione Europea e dinanzi alle Corti Costituzionali di diversi Stati, riconoscendo l'attività creativa ed etero-integrativa da parte del giudice costituzionale di civil law. Tramite la precomprensione critica e la circolarità tradica e diadica, l'ermeneutica giuridica si pone sempre più come metodo interpretativo indispensabile per l'interpretazione dei principi fondamentali, preesistenti al testo Costituzionale, e per la costruzione e l'impiego dei cosiddetti "parametri non scritti", utilizzati, a volte, dai giudici costituzionali italiani, al di là dei limiti tracciati dal metodo giuridico argomentativo: dove il punto di partenza del ragionamento deduttivo-assiologico dovrà sempre esser il testo scritto, dal quale l'interprete potrà denotare il valore del principio. Pur riconoscendosi nell'alveo delle teorie scettiche dell'interpretazione giudiziale, la metodologia ermeneutica offre una valutazione della decisione di costituzionalità capace di non lasciare alla discrezionalità del giudice uno spazio illimitato, dal momento che precomprensione critica e circolarità ermeneutica, dalle quali discende la canonistica ermeneutica, garantisce un metodo per la controllabilità del giudizio, senza che possa sfociare in decisioni arbitrarie o di opportunità politica. Dopo la riforma del titolo V, con il novellato art.117, primo comma, della Costituzione, la dottrina giuscostituzionalista ha parlato di una possibile estensione della legalità costituzionale, qualora i principi discendenti dal diritto comunitario-europeo ed internazionale andrebbero ad integrare i parametri ermeneutici utilizzati nel giudizio di costituzionalità: nel caso in cui il giudice a quo, in via incidentale, e lo Stato e le Regioni, in via diretta, sollevassero la questione di costituzionalità, per violazione del suddetto articolo della Costituzione. L'estensione della legalità costituzionale, tuttavia ha, anche, il suo risvolto "inverso", nel caso in cui fossero i principi esterni a ledere i principi fondamentali dell'ordinamento Costituzionale Repubblicano. Nel contemporaneo costituzionalismo europeo, che accomuna più vicende ordinamentali diverse, risulta essere di peculiare interesse l'esperienza giuridica della Svezia, una delle più solide ed efficienti democrazie mondiali, caratterizzata da un' antica tradizione costituzionale e da una lunga vaganza del controllo di costituzionalità delle leggi. Quest'ultime, fino a poco tempo fa, venivano interpretate dalle Corti nell'assoluto rispetto e subordinazione alla volontà storica del legislatore. Ultimamente, con l'entrata della Svezia nell'Unione Europea, a seguito delle recenti riforme costituzionali ed attraverso l'introduzione di un controllo di costituzionalità diffuso, le corti svedesi stanno gradualmente cambiando i loro tradizionali criteri interpretativi, per una più ampia ed efficace tutela dei diritti umani, nell'ambito giuridico costituzionale ed europeo. ; The claim of so-called "constitutional democracy" with rigid constitutions has completed a complex historical process and has led to the almost complete implementation of "constitutionalism", where for the first time the law is submitted to a value judgment. In this context, it is of great importance to the complicated and delicate work of the Constitutional Judge, who must interpret the Constitution, whose tissue directly holds a set of principles containing ethical and political values, and whose application does have the classic syllogistic form of subsumption, but that of weighting. Most of the Laws are rules, i.e. require something to run to the occurrence of specific conditions, and, therefore, one can refer to them as "conditional rules". In addition, rules can take a categorical form, such as total ban on access. If the rule is valid and applicable, it is absolutely crucial to impose the exact performance means that the rule prescribes. If this happens, one can determine whether the provisions were complied with or not. For the theories of constitutionalism and of the legal argumentation, principles, however, are rules that require that some value shall be fully accomplished with regard to what is actually feasible, both at the legal and factual levels. Consequently, principles are "rules of optimization", thus characterized by the fact that these can be viewed in differing degrees, and because the measurement of their performance depends not only on real possibilities, but also on legal ones, as well as issues on rules and principles. Following the method of the legal argumentation, in the constitution interpretation, hierarchy, the priorities among the various constitutional principles, is necessary so that it refers to specific types of norms laid down by the same source of law, the Constitution: in the balancing test between competing interests, the U.S. Supreme Court talks about preferred position for certain rights related to a primary constitutional value, such as freedom of expression and association, religious freedom, personal rights, and political participation. But even Italian Constitutional Court is constantly forced to choose according to what is being decided on, not only in the event of equality judgments according to Article 3 of the Constitution, but also when, in raising the standard parameter, it must choose - for example - between the right to individual freedom and right to health, or between property and company rights and recognition of the value of "primary" value of the context. The difficult search for a hierarchy of constitutionally protected values requires constant work and constant redefining and re-harmonizing of constitutional principles on the basis of the details provided by the cases to be decided upon. The statements should therefore take constitutional firm identification of an originally protected core value, requiring at the same time, through a variety of reasonable interpretations and applications, to be continually reshaped and adapted to history and politics, and to the effect of changing assumptions and of social meanings. The principles that lie at the heart of constitutions and upon which constitutional documents were formed, with the opening of new horizons and new challenges, must be continually updated, revised and put back together reasonably. They require renewed justification by judge with particular juridical habitus and critical pre-understending: he/she must have acquired, throughout his/her legal career, technical skills needed to make appropriate assessments in constitutional judgment. From the prospective of hermeneutic methodology, the habitus of the Constitutional Judge corresponds to critical pre-understanding through which one can identify whether the constitutional judgment was conducted by a judge lacking a habitus and invalidate that judgment, even regardless of proper motivation presented by the Judge. If one bears in mind that the Constitution itself is the result of the interpretation of constitutional principles, the importance of a "hermeneutic circle" between the principles in accordance with assessments of society and society itself is quite evident. In Constitutional judgement, hermeneutic circularity is highly stressed, in fact, between the court interpreter and the Constitution, the subject interpreted; it establishes a circular diachronic relationship, since the Constitution contains the principles and values belonging to the society which the constitutional Judge is part of. In the activity of the Italian Constitutional Court, it is possible to find the skeptical conception of legal interpretation, typical of common law systems: where, in terms of creativity, the Constitutional Court, through the "manipulative decisions", exceeding the legal boundaries of legal interpretation, integrates the constitutional law and carries a substitute function of the State legislature. The use of the "juridical hermeneutic" as a method of interpretation is particularly relevant before de-nationalized courts operating in legal fields having multi-state regulations, as the Court of Justice of the European Union and before the Constitutional Courts of several countries, recognizing the creative activity by the constitutional judges of civil law. Through the pre-comprehension and the circularity triadic and dyadic , the juridical hermeneutic, has became an indispensable element for interpretation of fundamental principles and for the construction and use of so-called "unwritten parameters" used, sometimes, by Italian constitutional Judges, leaping the methods based on logical argumentation techniques, for which the judge-interpreter must begin his/her legal reasoning always from the written text, to denote the value of the principle. Although the methodology hermeneutic belongs to the skeptical theory of the judicial interpretation, it provides an assessment of constitutional decision without leaving unlimited space to the will of the Judge, since hermeneutics secures a method for the controllability of the interpretive process, to prevent to the judgment of constitutionality is arbitrary or political. After the constitutional reform of 2001, the doctrine has spoken of a possible extension of constitutional legality, because the new Article 117, first paragraph, of the Constitution allows the principles descendants from European Union law and international conventions of integrate parameters of the constitutional control on the State laws. The extension of constitutional legality could have its inverse implication in the case some international law violates the fundamental principles of Italian Republican Constitution. In the contemporary European constitutionalism, that unites various juridical cultures, it appears to be of particular interest the juridical experience of Sweden: one of the most solid and efficient democracies in the world, characterized by an old constitutional tradition and a long absence of a control of constitutionality over state laws. Until recently, all the laws were interpreted by the swedish courts in full compliance and subordination to the will of the historical legislator. Lately, with the entry of Sweden in the European Union, following the recent constitutional reforms and through the introduction of a more stronger "widespread" control of constitutionality, the Swedish courts are gradually changing their traditional interpretation criteria for a more comprehensive and effective protection of human rights. ; Dottorato di ricerca in Persona, impresa e lavoro: dal diritto interno a quello internazionale (XXVIII ciclo)
Dottorato di ricerca in Memoria e materia dell'opera d'arte attraverso i processi di produzione , storicizzazione, conservazione, musealizzazione ; Il progetto I codici e la cultura scientifica alla corte dei Papi tra fine XIII e primi decenni del XV secolo, con particolare attenzione ai manoscritti miniati della Biblioteca Papale di Avignone si articola in tre snodi principali, corrispondenti alle partizioni essenziali in cui è stato suddiviso il lavoro. Innanzitutto si è tratteggiata una panoramica della storia, delle caratteristiche e degli sviluppi degli inventari delle librariae pontificie tra 1295 e 1594, fonti e testimonianze essenziali da cui partire, per indagare la vastità degli interessi culturali, in particolare scientifici, della corte papale. Tale esame, oltre a permettere di delineare l'effettiva presenza e consistenza di codici scientifici alla corte dei pontefici tra XIII e XV secolo e di rintracciare e riconoscere un nucleo significativo di manoscritti, oggi conservati in diversi fondi di biblioteche europee (Biblioteca Apostolica Vaticana, Biblioteca Alessandrina, Bibliothèque Nationale de France, British Library, Biblioteca capitular di Toledo), a seguito della parziale dispersione e frammentazione della biblioteca papale, ha permesso di sottolineare, seguendo la prospettiva di lunga durata, le palesi divergenze esistenti in tale campo del sapere con il canone quattrocentesco redatto da Tommaso Parentucelli per la costituzione di una teorica biblioteca umanistica. Per sostanziare tale confronto si è fatto riferimento alla presenza degli item di natura scientifica elencati nei diversi inventari, inseriti in appendice. Quindi si è proposta una disamina della fortuna del pensiero scientifico all'interno della corte pontificia tra seconda metà del XIII e XIV secolo, prendendo in esame lo Studium di Viterbo, maggiore centro culturale del tempo in tale campo, e il pontificato di Bonifacio VIII (1297-1304), per giungere ai due casi peculiari, durante il papato avignonese, di Giovanni XXII (1316-1334) e Clemente VI (1342-1352), scelti non solo per la personale tensione verso le scienze esatte, ma anche per i riflessi risultanti nella loro azione politica: significativa in tal senso la bolla Super illius specula, promulgata nel 1326 da Giovanni XXII, e altrettanto rilevante l'intenso dibattito inerente la Visione beatifica sviluppatosi sotto il medesimo pontefice oppure alla questione sulla determinazione della data della Pasqua. Infine si è affrontato il nucleo dei codici scientifici miniati della biblioteca papale di Avignone. Da tale lavoro, basato principalmente sull'istituzione, ove possibile, di confronti con la coeva produzione liturgico-giuridica propria della curia pontificia, sulla quale fino a oggi si sono concentrati gli studi inerenti la miniatura avignonese, è emerso che tale gruppo di manoscritti è costituito in prevalenza da codici di studio, appartenuti probabilmente a membri della curia, entrati solo successivamente a far parte della collezione libraria papale, in virtù dello ius spolii, come recentemente dimostrato per il Borgh. 353 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana). Solo alcuni manoscritti potrebbero ritenersi il frutto di una specifica commissione pontificia, come evidente dalle dediche presenti sia nel ms 81 della Biblioteca Alessandrina di Roma, contenente il Commento alla Physioniomia di Guglielmo di Myrica, sia nel ms lat. 7293 della Bibliothèque Nationale de France, copia acefala del De instrumento rivelatore di Levì Ben Gerson. Il carattere privato di tali manoscritti appare ancor più evidente qualora si passi all'analisi degli apparati decorativi, dove si constata in alcuni casi la totale o parziale assenza di pagine d'incipit riccamente miniate, di iniziali rubricate o filigranate quand'anche previste dall'ordinator. Accanto a considerazioni prettamente stilistiche si sono anche condotte riflessioni inerenti l'iconografia delle iniziali istoriate dal momento che spesso risultano essere caratterizzate da raffigurazioni del tutto estranee alla materia trattata all'interno delle opere di cui qualificano l'incipit. La presenza di soggetti quali ad esempio la Vergine in maestà, del Cristo in trono o della Sacra famiglia consueti in testi di contenuto religioso, si è legata alla volontà di rendere più appetibile a un pubblico non laico la materia profana trattata. Accanto a tale tesi, probabilmente risultato dell'esclusiva volontà del committente, non si può non proporre anche una lectio facilior di tale discrepanza tra testo ed immagine, che potrebbe forse trovare la sua ragion d'essere forse nel fatto che gli artisti, abituati a realizzare per la curia testi di carattere sacro, abbiano usato i medesimi modelli a loro disposizione anche nella decorazione di codici di natura del tutto profana, ricorrendo ad un repertorio di soggetti standardizzato, senza preoccuparsi di aggiornarlo a esigenze diverse e in particolare a quelle legate ai contenuti di opere quali la Physica o la Methapysica. Tale parte del lavoro è stata arricchita e supportata da schede catalografiche, composte da un'attenta analisi e descrizione codicologica, alla quale fa seguito una sezione storico-critica incentrata sulle vicende sia compositive sia collezionistiche di detti codici e sul loro attuale stato conservativo. ; The project Codes and Scientific Culture at the Court of the Popes in Late Thirteenth Century and in the Early Decades of the Fifteenth Century, with Particular Attention to the Illuminated Manuscripts of the Papal Library of Avignon is divided into three main parts, corresponding to the essential partitions in which is partitioned the researching work. The first one is dedicated to an overview of the history, the characteristics and the developments of papal libraries inventories between 1295 and 1594. Its matter of fact that these ones are essential sources and testimonies for investigate the cultural interests, particularly the scientific one in the papal court. This examination, as well as allowing you to outline the actual presence and consistency of scientific codes in the court of the popes between the thirteenth and fifteenth century, tracking and recognizing a significant core of manuscripts, now preserved in various collections of European libraries (Biblioteca Apostolica Vaticana, Bibliotheca Alexandrina, Bibliothèque Nationale de France, British Library, Toledo Capitular Library), following the partial dispersion and fragmentation of the papal library, allowed to point out, following the long-term perspective, the obvious differences that exist in this field of knowledge with the canon century written by Thomas Parentucelli for the establishment of a theoretical humanistic library. This point has been substantiated by comparison of the items listed in the various scientific inventories, included in the book's appendix. The second part of the volume concerned an examination of the fortune of scientific thought in the papal court in the second half of the thirteenth and fourteenth centuries, examining the Studium of Viterbo: the greater the cultural center of the time in this field; the pontificate of Boniface VIII (1297 -1304); and finally outlining two peculiar cases, during the Avignon papacy of John XXII (1316-1334) and Clement VI (1342-1352), chosen not only for the personal tension towards the exact sciences, but also for the reflections resulting in their political action: significant in this sense, the Super illius note, promulgated in 1326 by Pope John XXII, the intense debate regarding the Beatific Vision developed under the same pope or the question of determining the date of Easter. In the last section, we addressed the core of the scientific codes illuminated the papal library in Avignon. This work has based mainly on the establishment, where possible, comparisons with contemporary liturgical and legal production linked to the papal curia, on which up now it has focused studies. It was found that this group of manuscripts is mainly consisting of study codes, probably belonged to members of the Curia, which came only later to be part of the papal library collection, by virtue of jus spolii, as recently demonstrated, for example in the case of Borgh. 353 (Vatican City, Biblioteca Apostolica Vaticana). Only few manuscripts may be considered the result of a specific pontifical commission, as evident from the dedications both the ms 81 of the Alessandrina Library of Rome, containing a commentary on the Physioniomia of William of Myrica, or the ms lat. 7293 of the Bibliothèque Nationale de France, a Levi ben Gerson headless copy of the De instrumento rivelatore. The private nature of the manuscripts is even more evident when you analyze the decorative device. It is found in some cases the total or partial absence of pages of richly illuminated incipit, in other ones the absence of rubricated or pen worked initials even provided by ordinator. In addition to stylistic considerations it has also conducted reflections about historiated initials. They often turn out to be characterized by depictions completely unrelated to the topic within the works which qualify the opening words. The presence of subjects such as the Virgin in majesty, the enthroned Christ or the Holy Family usually present in texts of religious content, it is linked to the desire to make it more agreeable to a secular audience the profane matter treated in the books, so probably the exclusive will result of the client. However we can also propose a lectio facilior of this discrepancy between text and image. It could possible find its reason in the fact that artists, accustomed to achieve sacred texts for curia, they used the same models in the decoration of codes of secular nature, using a standardized repertoire of subjects, not bothering to upgrade it to the different needs of 3 operas like Physica and Metaphysica. This last section has been enriched and supported by catalog entries, consisting of careful analysis and description codex, which is followed by a historical-critical section focused on the compositional
Dottorato di ricerca in Storia e cultura del viaggio e dell'odeporica nell'età moderna ; La famiglia Volkonskij appartiene a un ramo tra i più antichi della nobiltà russa. I suoi membri si distinsero per spirito di abnegazione e coraggio sia che fossero al servizio della zar, come Nikita Grigor'evič o Petr Michajlovič, sia che ne contestassero apertamente le politiche come il giovane Sergej Grigor'evič, che prese parte alla rivolta decabrista del 1825. Anche le rappresentanti femminili annoverano personaggi di spicco, su tutte Marija Nikolaevna Raevskaja, moglie di Sergej, che decise coraggiosamente di seguire il marito nel lungo e difficile esilio siberiano al quale era stato condannato. Un altro membro che fece onore al prestigio di questa famiglia, divenendo celebre tanto in Russia quanto in Europa fu Zinaida Aleksandrovna Belosel'skaja-Belozerskaja, moglie di Nikita. Il suo nome rimbalza praticamente in ogni memoria dei personaggi a lei contemporanei sparsi per tutto il continente europeo. Zinaida era la figlia del raffinato principe Belosel'skij-Belozerskij, ambasciatore di Caterina II prima a Dresda e poi a Torino, che aveva affascinato i suoi contemporanei distinguendosi per i suoi principi, le idee illuministe e l'enorme cultura nel segno della quale aveva cresciuto la sua incantevole figlia. Zinaida era la degna erede di suo padre: dopo aver trascorso l'infanzia tra Dresda e Torino, si era trasferita molto giovane a San Pietroburgo e qui era presto entrata a palazzo in qualità di dama di compagnia dell'imperatrice vedova attirando le attenzioni dello zar Alessandro I. Dopo aver fatto parte del seguito imperiale durante la marcia trionfale in seguito alla vittoria nella guerra patriottica del 1812, la Volkonskaja partecipò al Congresso di Vienna, a quello di Verona, affascinò la corte austriaca, quella francese, inglese e papale, stringendo rapporti profondi e stimolanti con gli uomini più influenti del suo tempo, fossero essi politici, intellettuali o artisti. In Russia il suo nome divenne celebre grazie al suo salotto sulla via Tverskaja, nel palazzo che attualmente ospita i magazzini Eliseev. A Roma era universalmente nota non solo per risiedere in una delle ville più belle della città, divenuta oggi residenza dell'Ambasciatore inglese in Italia, ma soprattutto per il suo generoso mecenatismo volto a sostenere la colonia degli artisti russi e, negli ultimi anni della sua vita, come fervente cattolica convertita. Gli ospiti dei suoi salotti erano luminari dell'università di Mosca, come Ševyrev, Del'vig, Odoevskij e Pogodin, poeti del calibro di Puškin, Mickiewicz e Belli, artisti affermati e alti prelati quali Thorvaldsen, Walter Scott, i cardinali Consalvi e Mezzofanti così come Kipreenskij, Bruni, Ščedrin e Gal'berg, giovani promesse dell'arte russa. In una parola: chiunque fosse amante del bello, della cultura o frequentasse il bel mondo a Mosca come a Parigi, a Odessa come a Roma fu almeno una volta suo ospite. Da parte sua Zinaida Volkonskaja fu cantante, mecenate, compositrice, membro delle principali società intellettuali di Russia e Italia, ispiratrice di alcuni tra i più bei versi dei poeti più acclamati e intima amica dello zar. Intratteneva fitte corrispondenze con intellettuali e funzionari e si distingueva per intelligenza, arguzia e innato savoir faire. La sua biografia, per quanto attraversi fasi assai differenti fra loro, è costantemente popolata da figure di primo piano e la vede presente nei luoghi dove si fa la Storia. In primo luogo Zinaida fu un'instancabile viaggiatrice. Iniziò a viaggiare fin da piccola per seguire il padre da Dresda a Torino, poi il ritorno in Russia, la marcia europea al seguito di Alessandro, l'entrata a Parigi delle truppe russo-prussiane, i festeggiamenti in Inghilterra, i congressi di Vienna e Verona. E ancora i soggiorni in Italia nel 1815 e nel 1820, quello a Parigi, Odessa, Mosca e di nuovo l'Italia e Roma. Anche quando si stabilì col suo salotto nella vecchia capitale russa, si rimise in cammino per il (quasi) definitivo trasferimento in Italia dopo soli quattro anni. Dei primi quarant'anni della sua vita, ne trascorse circa quindici in viaggio. La principessa è stata celebrata dai suoi contemporanei e in molti si sono prodigati nella descrizione della sua lunga e intensa vita: esistono infatti almeno cinque biografie, ciascuna delle quali si distingue dalle altre per l'approfondimento di un tratto peculiare o lo studio di un particolare periodo. La biografia pubblicata da N.A. Belozerskaja su «Istoričeskij vestnik» e il libro Pilgrim princess di Maria Feirweather offrono i resoconti più completi della vita della Volkonskaja, sebbene in entrambe le opere si riscontrino inesattezze o informazioni mancanti e spesso imprecise circa avvenimenti e periodi della biografia della principessa. Dalla bibliografia presa in considerazione emerge la mancanza di un approfondimento circa i salotti di Odessa e Parigi, ma la lacuna più evidente riguarda i lunghi anni trascorsi da Zinaida in viaggio. Solo Ettore Lo Gatto e Giulia Baselica trattano l'argomento, sebbene restringendo il campo al solo viaggio del 1829 alla volta dell'Italia, unico tra tutti sul quale si hanno notizie più dettagliate, non tanto per i frammenti delle memorie pubblicate da Zinaida (presentate qui in traduzione integrale, corredate da due lettere inedite provenienti dall'archivio statale russo di letteratura e storia dell'arte di Mosca – RGALI), quanto per il dettagliato resoconto che il prof. Ševyrev, compagno di viaggio della principessa, trascrisse sui suoi diari pubblicati in patria su numerose riviste e successivamente in un libro sulle Impressioni italiane. Sugli altri viaggi non ci sono testimonianze dirette e possono essere ricostruiti solo grazie a fonti indirette. La ricerca è stata resa particolarmente complessa dalla scarsa accessibilità dei documenti: se si escludono i manoscritti conservati nell'archivio statale e i materiali della biblioteca nazionale di Mosca – successivamente pubblicati sui «Severnye cvety» del 1830 e 1831, la maggior parte delle fonti si trova nell'archivio della Houghton Library dell'Università di Harvard, mentre pochi altri documenti sono sparsi nelle biblioteche di Francia, Germania, Polonia e Inghilterra. L'archivio privato della principessa, dopo la sua morte, in pochi anni è andato disperso tra i discendenti, riaffiorando non di rado nelle collezioni private e nelle aste degli antiquari romani. Il barone Lemmermann, dopo averne raccolto una parte consistente, lo donò nel 1967 ad Harvard, dove dovette attendere molti anni prima di essere catalogato. Unica testimonianza dei contenuti di tale archivio, sebbene parziale, è costituita dal libro di Bayara Aroutunova Lives in Letters, che raccoglie alcune tra le missive più significative ricevute dai numerosi corrispondenti della principessa. Il presente lavoro raccoglie e organizza per la prima volta tutti i materiali disponibili circa i viaggi della principessa Volkonskaja, con lo scopo di metterne in luce la centralità in un'esistenza votata alla realizzazione del progetto che Pietro il Grande aveva solo vagheggiato qualche decennio prima: quel ponte tra Russia ed Europa che Zinaida attuerà tanto nel privato dei suoi salotti, quanto nelle diverse ambascerie. Inoltre questa tesi presenta una nuova biografia dettagliata dalla quale sono state eliminate le frequenti imprecisioni, rivaluta l'attività letteraria della Volkonskaja e mette in luce la rilevanza delle opere pie che contraddistinsero gli ultimi anni della sua vita. Infine l'Appendice Documentaria presenta, accanto ai già citati resoconti di viaggio, la traduzione di alcune delle opere più significative della principessa e frammenti della sua corrispondenza privata inediti in italiano. Malgrado tutti gli sforzi compiuti la ricerca non si definisce né può essere completa: i documenti conservati in archivi inaccessibili, quali gli archivi segreti vaticani o gli archivi imperiali russi, potrebbero costituire materiale prezioso per far luce su alcuni punti della biografia della principessa rimasti oscuri o fornire nuovi dettagli sulla sua figura: interi periodi sono stati ricostruiti finora solo grazie alle testimonianze indirette di chi conobbe la Corinna del Nord. Tali lacune sono da attribuirsi inoltre all'azione censoria che Aleksandr Nikitič operò sull'archivio privato di sua madre dopo la morte di Zinaida per salvaguardarne l'onore distruggendo informazioni e materiali potenzialmente compromettenti, ragione che spinse anche Propaganda Fide a secretare le lettere dell'archivio del cardinal Consalvi, tra le quali alcune della Volkonskaja, e probabilmente anche i custodi delle memorie della famiglia imperiale russa. Il più accessibile resta l'archivio statunitense, di cui è disponibile una dettagliata catalogazione alla luce della quale è possibile ipotizzare la possibilità di rinvenire informazioni se non del tutto nuove, quantomeno più dettagliate su questa donna straordinaria che tanto diede alla cultura del primo Ottocento europeo. ; Volkonsky family have been one of the older and nobler branches of Russian aristocracy. Its members stood out for abnegation and bravery, whether in favour, such as Nikita or Petr, or against the Emperor, such as the decembrist Sergey Grigorevich. The female branch includes high ranking personalities as well: amongst all Maria Nikolaevskaya Raevskaya, Sergey's wife, who decided voluntarily to follow her husband to the Siberian exile, to which he had been condemned. Another woman, who honoured the name and the prestige of this family was Zinaida Aleksandrovna Beloselskaya-Belozerskaya, Nikita's wife. Her name can be found in quite every memory of her contemporaries all over Europe. She was the daughter of the sofisticated prince Alexander Beloselsky-Belozersky, Catherine the Great's ambassador first in Dresden, than in Turin, who fascinated his contemporaries with his principles, Illuministic ideas and huge culture. Princess Zinaida was educated following her father's steps. She was his worthy heiress: grown up in Dresden, than in Turin, she left for Petersburg in her early adolescence, becoming after few months lady-in-wating of the Empress Dowager and drawing the attentions of young Emperor Alexander I. After Napoleon's defeat in the great patriotic war of 1812, Zinaida followed the imperial entourage across Europe, took part in the Congresses of Vienna and Verona, fascinating Austrian, English, French and Vatican courts, establishing heartfelt and stimulating friendships with the most influential figures of her times, might they be politicians, intellectuals or artists. In Russia her name became famous thanks to her salon in Tverskaya street, in the building now housing Eliseev's stores. In Rome she was well-known not only for her beautiful villa, in which nowadays England's ambassador resides, but particularly thanks to her patronage in support of the roman Russian artistic colony and, in the last days of her life, for her passionate support to catholicism. The guests of her salons were eminences from Moscow university, such as Shevyrev, Delvig, Odoevsky and Pogodin, distinguished poets like of Pushkin, Mickiewicz and Belli, prominent artists and prelates like Thorvaldsen, Walter Scott and cardinals Consalvi and Mezzofanti, as well as Kipreensky, Bruni Shchedrin and Galberg, who showed promise as painters and artists. Everyone who loved culture, beauty and elegance was at least once in her place. Zinaida herself was a singer, a philantropist, a composer, a member of the most important intellectual societies both in Russia and in Italy, inspired many acclaimed poets and was an intimate friend of Emperor Alexander I. She also had correspondences with intellectuals and officials and distinguished herself for cleverness, intellect and innate savoir faire. Her biography, though it includes very different periods, is constantly featured by prominent figures and during her entire life she was in every place, where History was made. First of all she was an unceasing traveller. She began travelling since she was a child in order to follow her father from Dresden to Turin, then their journey back to Russia, the European march following the tsar, the Russian-Prussian army entry to Paris, the celebrations in England, the Congresses of Vienna and Verona. The sojourn in Italy in 1815 and 1820, in Paris, in Odessa, in Moscow and once again in Rome. Even when she decided to open her salon in Moscow, her stay lasted not more than four years, before she moved (quite) definitely to Rome. As she was forty she had already spent fifteen years travelling. Princess was celebrated by her contemporaries and many of them wrote about her: there are at least five biographies and each of them particularly focuses on a single stage or a peculiarity of her life and personality. Biographies published by A.N. Belozerskaya and M. Fairweather seem to be the most complete works on Volkonskaya's life, even if in both of them there can be found mistakes and lack of information. Considering the analyzed bibliography, there are so far poorly examinated seasons of her life, such as the salons in Paris or in Odessa, but the most evident lack concerns her travels. In Italy only Ettore Lo Gatto and Giulia Baselica wrote about this topic, but only analyzed the 1829-year travel, the only one about wich we have detailed information. Zinaida, actually, wrote some travel memories (here presented in their first Italian complete translation, with two non-published letters from the Moscow State archive for literature and arts), but mainly we have details about this journey thanks to the diaries of Shevyrev, who took part in this travel. Researches about Volkonskaya were also difficult on account of hard access to documents: the main part of sources from Zinaida's private archive can be found at Harvard's Houghton Library, while some manuscripts and few other materials are conserved in Moscow (RGALI and Russian State Library) or in French, German, Polish or English libraries. Princess Volkonskaya's private archive, firstly scattered in numerous private collections, was out together by baron Lemmermann, who in 1967 donated it to Harvard University, where it was classified only many years later. The only direct, but partial, evidence of the content of this archive is Aroutunova's Lives in letters, a book collecting some of the most significant letters received by Zinaida from her correspondents. The present work is aimed to gather and organize all available information and materials about Volkonskaya's travels, in order to underline their importance in a life dedicated to the realization of Peter the Great's long for dream about a bridge connecting Russia and Europe. Finally the Appendix presents the Italian translation of some of the most significant literary works of princess Zinaida and few fragments of her private correspondence. In spite of all the efforts made this work is not, and it can't be complete: documents stored in unaccessible archives, such as the Vatican or the Imperial ones, might reveal helpful knowledge about some obscure years in the life of princess Volkonskaya. These lacks are due, furthermore, to the censorship by Alexander Nikitich of the private collection of his mother, in order to preserve her memory from likely compromising materials. Maybe the same reasons forced Propaganda Fide and the imperial Russian officers to take the same action. Harvard University is the main accessibile archive: thanks to its detailed cataloguing we can hold that there is a possibility to reveal accurate information about this extraordinary woman, to whom XIX century european culture owes so much.
Come, dunque, studiare Ernesto Basile oggi e quale ambito della sua copiosa produzione analizzare? Alla luce dello stato degli studi odierni si potrebbe ritenere che possa essere stato detto tutto. Tuttavia, ci sono diversi ambiti che si offrono a ulteriori indagini, a nuove letture e ricerche. Tra questi, vi è quello dei viaggi, non irrilevante, per diverse ragioni. Una prima motivazione, che vale per Ernesto Basile così come per altri architetti, è quella più interna ed è strettamente legata alla natura stessa dell'architettura e dei luoghi, alla formazione continua dell'architetto e al ruolo che hanno i viaggi nel processo di costruzione o assimilazione del patrimonio di immagini e dei portati teorici. Solo entrando dentro gli spazi, girandoci attorno, osservando il mutare delle ombre col variare della luce, cogliendo il colore dei materiali e dei contesti, osservando la gente muoversi e "modificare lo spazio", si può fare un'esperienza attiva, formativa, sincera e diretta, riducendo i filtri posti tra il fruitore e l'opera architettonica. In questo senso e per l'arco cronologico di cui questa tesi di dottorato si occupa, è esplicativo e fa da guida lo studio di Fabio Mangone sugli architetti nordici in Italia dal 1850 al 1925. Mangone li definisce «viaggiatori specialistici» e mette in evidenza nuove tendenze rispetto all'immaginario e alla pratica più ampia e antica del classico Grand Tour, già documentato da numerosissimi esempi di letteratura odeporica e studi odeporici. Un'altra, non meno importante e di carattere metodologico, è quella legata ai concetti di transfers culturel, cultural exchanges e histoire croisée, introdotti negli Anni Ottanta da Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, applicabili a diversi ambiti dello studio storico, e in particolar modo agli studi sui viaggi degli architetti. Possiamo riassumere cosa si intende per transfert culturel, cultural exchanges e histoire croisée, attraverso le parole di Michael North che, in un suo saggio sulla storia economica, ne fa un'analisi comparativa: «Cultural exchange and cultural transfers have become an independent field of research in the last 20 years. This began in the 1980s, when Michel Espagne and Michael Werner coined the term "transfers culturels" to refer to the transfer of elements of a "French National Culture" to Germany and its reception there during the eighteen and nineteen centuries. Espagne, Werner and their followers focussed on national cultures in order to avoid some of the shortcomings of comparative history by contextualizing questions of transfer, reception, and acculturation». Sulla scia delle sollecitazioni avviate anche dai contributi di Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, le riflessioni attuali nell'ambito storiografico vertono sempre più sul rapporto fra la realtà delle vicende nazionali o regionali e quelle più ampie e di carattere internazionale o generale, quindi su cosa è al centro e cosa è periferico. Questo tipo di analisi può essere usato come filtro di indagine per rispondere ad alcune questioni fondamentali nel caso Basile, cioè per sapere quanto, in cosa e in che modo il suo modernismo è debitore a realtà "extraterritoriali" e quanto, in cosa e in che modo, al contrario, il "fenomeno Basile" sia invece il frutto di particolari condizioni ambientali locali, portatrici di istanze identitarie fondamentali, attraverso lo studio dei suoi viaggi. Un'ulteriore lente di ingrandimento con cui potere osservare aspetti specifici all'interno del più ampio fenomeno dei viaggi specialistici e dei contatti internazionali è quello dei legami con gli espatriati, in forma privata, come nel caso della corrispondenza ad esempio, o in via ufficiale nella partecipazione a concorsi internazionali con il ruolo di giurato, come accade a Ernesto Basile. Se non è difficile sapere, attraverso le letture consultate da Basile, di quale patrimonio di immagini egli disponesse, al contrario, pur sapendo che ha viaggiato, andando in luoghi che potremmo chiamare "strategici" per le vicende architettoniche europee a lui contemporanee, nelle quali - è opportuno dire - si trovava dentro, non è stato, ad oggi, documentato in modo sistematico quali architetture e spazi egli abbia effettivamente visitato e chi abbia incontrato nelle sue mete. Lo studio dell'archivio di Ernesto Basile (che nonostante alcune lacune - si pensi all'esigua quantità di corrispondenza a noi pervenuta - è uno dei più cospicui fra quelli del Novecento italiano) ha consentito di potere avviare un'indagine sugli spostamenti, le mete di viaggio, le impressioni, le tappe, gli appuntamenti, puntualmente annotati nei taccuini e nelle agende personali. Basile stesso parla di viaggi e ne organizza. Egli ne scrive, ad esempio, quando fornisce un reportage dall'Esposizione di Parigi del 1878, oppure quando, in un modo per certi aspetti ancora più significativo, racconta di "Un viaggiatore italiano del secolo XVI", che parte «dall'estremo della Sicilia al lembo delle Alpi», scritto dal quale lo studio dei suoi viaggi ha inizialmente tratto spunto. Un'attenzione particolare all'interno del tema generale, è stata certamente richiesta dall'occasione del viaggio del 1888 a Rio de Janeiro, che vede Basile incaricato della progettazione per la Nuova Avenida de Libertação, nella capitale brasiliana, a ridosso del cambio di regime, a seguito del quale questo importante lavoro viene interrotto. Per questo motivo gli studi sono stati estesi alla cartografia di Rio de Janeiro e alla storia urbanistica della città. Le carte storiche di Barcellona, Parigi e di altre mete europee, per il solo periodo relativo ai viaggi esteri di Basile, quindi per un periodo compreso fra gli anni 1876 e 1900, rientrano tra gli utili strumenti di questo lavoro. L'indagine è stata svolta su tutto l'arco di attività - dal 1876, anno del primo viaggio di studio documentato, ed effettuato con il padre Giovan Battista Filippo Basile, alla volta di Parigi, passando per diverse città italiane, al 1932 anno della sua morte – e ha avuto come principale sfida metodologica la sua profonda natura multidisciplinare. In prima istanza coinvolgendo la storia dell'architettura, la scienza archivistica e l'odeporica, quindi molte altre discipline. Si è analizzata la produzione scritta di Ernesto Basile relativamente ai viaggi, evidenziandone le continuità e le discontinuità in relazione alla più vasta produzione architettonica. In merito a quest'ambito, esce fuori un quadro che getta una luce soprattutto sugli esordi e il clima particolarmente favorevole per una classe di giovani artisti e professionisti, che si raduna nel triennio 1878-1880 intorno alla redazione del periodico scientifico, letterario e artistico palermitano «Pensiero ed Arte», e che si fa strada, a volte guidata per mano dai predecessori, altre in opposizione alle voci più ufficiali e tradizionali delle accademie. La funzione di guida, in questo caso, è certamente quella del padre, Giovan Battista Filippo Basile, ma questa guida viene affiancata da altre figure di rilievo, quali ad esempio quella di Gaetano Giorgio Gemmellaro, di cui si documenta puntualmente una delle attività laboratoriali svolte per la Regia Scuola di Applicazione per gl'Ingegneri di Palermo. I primi viaggi sono viaggi di esplorazione e studio lungo il territorio italiano, con qualche puntata a Parigi, dove il giovane Ernesto conosce Garnier. Anche l'esperienza del militare viene usata dall'appena laureato Ernesto Basile come pretesto per un lungo e approfondito sopralluogo nell'Italia centrale, tra la Campania e l'Abruzzo, alla ricerca di segni di "antico", e ogni genere di traccia storica sul paesaggio costruito. Gli appunti sono numerosissimi e vengono accompagnati da disegni tanto piccoli quanto accurati, delle miniature, poste a margine delle lettere che egli spedisce alla famiglia. Appena qualche anno dopo, questo bagaglio di immagini, unito al desiderio di un approfondimento, lo spingerà a indirizzare le escursioni tecniche della Regia Scuola Romana, avendone la facoltà in qualità di docente incaricato, dando un grande contributo in Italia al filone degli studi sul vernacolare, l'architettura "spontanea" e sui centri minori. E' così che dalla pratica delle escursioni tecniche si passa ai veri e propri viaggi d'istruzione, documentati dagli annuari di quegli anni. La figura di Ernesto Basile come viaggiatore procede quindi di pari passo con quella del professionista, dell'architetto che va dove gli incarichi lo chiamano e dove egli ritiene davvero opportuno andare. I tempi e gli spostamenti sono generalmente lunghi e prendono una media di venti giorni per ogni viaggio estero. Sono anni che lo vedono andare in posti particolarmente caldi per l'architettura contemporanea, con un tempismo da vero professionista, quale è. Con dei colpi fortunati, anche, come capita per la sosta a Barcellona nel 1888 sulla via del Brasile. E con dei colpi mirati; è questo il caso emblematico dell'ancora misterioso viaggio a Vienna nel 1898, l'anno della Secessione Viennese. La conoscenza di quello che accadeva era veicolata dagli articoli sulle riviste, come si sa, ma certamente anche dai rapporti con altri artisti e professionisti che hanno tra i propri fulcri culturali Roma, città a cui Ernesto Basile resterà legato per tutta la vita, se consideriamo anche l'enorme e lunghissimo incarico di Montecitorio. E' lungo le vie della ricerca dell'antico e del contemporaneo che Ernesto Basile dipana tutta la sua vicenda progettuale e indirizza gli studi, le escursioni, le letture. Il contatto con l'antico, da buona tradizione post-illuminista e positivista, è sempre diretto, egli non si accontenta di superficiali acquisizioni frutto dello sguardo altrui. E' ovviamente un grande lettore, ma la scuola palermitana di cui è pienamente figlio lo aveva iniziato alla cultura del disegno come scienza, come mezzo di indagine, come strumento per la resa dell'idea, sulla via della realizzazione. E un altro incarico emblematico lo metterà sulla strada dell'antico, portandolo dapprima in Egitto, quindi in Grecia, nel 1895. I viaggi analizzati sono ampi, eterogenei e documentati, anche se non sempre in modo omogeneo : a volte lo sono con le parole sotto forma di diario, in altre attraverso liste di posti visitati, in altre ancora con le immagini dei suoi schizzi di viaggio. Il ragionamento e l'indagine sono articolati in quattro momenti, che seguono un ordine cronologico e tematico, andando dai viaggi del periodo della formazione (1876-1880) a quelli della piena maturità (1898-1900). Il percorso si muove lungo un binario principale, quello della ricerca sui viaggi esteri, con una strada parallela che si dipana nel territorio italiano nell'arco di tempo analizzato. La città di Parigi ha un ruolo cardine perché apre e chiude la lunga ma discontinua stagione dei viaggi esteri: dal primo viaggio a Parigi, effettuato nel 1876 con il padre, all'ultimo viaggio a Parigi, in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, passano ventiquattro anni. Dopo quella data non si riscontrano altri viaggi fuori dall'Italia. Fulcro di tutti questi spostamenti è sempre e comunque Roma, anche dopo il 1892 e il ritorno a Palermo come residenza principale. La lettura delle agende ha evidenziato che dal 1893 al 1932 Basile passa almeno un mese a Roma ogni anno e generalmente almeno un altro mese in viaggio per altre località italiane, tra queste la seconda città più visitata è certamente Napoli. Del periodo della formazione vengono studiati due viaggi e un'escursione scientifica. I due viaggi sono in qualche modo l'uno la continuazione dell'altro e sono affini per lo studio dell'architettura storica italiana. Se nel primo caso, quando l'allievo Ernesto Basile va a Parigi e in alcune città italiane, Giovan Battista Filippo Basile, suo padre e maestro, è fisicamente presente, facendogli da guida e introducendolo anche in ambienti accademici (a Roma) e professionali (a Parigi), nel secondo viaggio, quello del militare, egli è comunque presente in modo costante nei pensieri e nell'attività di ricerca del giovane Ernesto che gli indirizza un centinaio di lettere in cui descrive minuziosamente ogni architettura vista, individuata, "classificata" e ritratta. Questo viaggio del militare, che pure è un viaggio accidentale e in qualche modo obbligatorio, è tuttavia il primo lungo, consapevole tour italiano che Ernesto Basile compie volutamente, ampliando il bagaglio di conoscenze acquisito nel 1876 accanto a Giovan Battista Filippo Basile. Tra queste due significative esperienze viene documentata e descritta un'escursione scientifica di un solo giorno che apre un breve spaccato sulla rigorosa preparazione tecnica in seno alle attività formative previste nel corso di studi per gli allievi ingegneri e architetti della Regia Scuola di Applicazione di Palermo. La ricerca prosegue seguendo il binario dei viaggi internazionali con un saggio su quello che accade otto anni dopo. Anche in questo caso i viaggi predominanti sono due: il primo è quello in Svizzera, previsto nell'attività didattica della Regia Scuola d'Applicazione di Roma, dove Basile è docente a contratto, il secondo è quello in Brasile, dove si reca all'improvviso per progettare su incarico diretto uno dei nuovi principali assi stradali della città di Rio de Janeiro. Questi due viaggi sono accomunati dalla motivazione del viaggio (in entrambi i casi due incarichi professionali, come docente e come progettista) e dal tipo dai soggetti rappresentati negli schizzi di viaggio: architetture storiche dei secoli precedenti, eccezione fatta per la torre dell'ascensore a Bahia. Lungo il tragitto vi è la visita alla città di Barcellona durante l'Esposizione Universale del 1888, una fortunata sosta fra le altre previste lungo la rotta fra Genova e il Brasile. Nell'ultimo periodo analizzato (1895-1900) si svolgono quindi gli altri viaggi esteri di Basile, anche questi legati a due incarichi, questa volta di natura istituzionale. Nel 1895 Basile avrà l'occasione di visitare l'Egitto, chiamato a fare parte della giuria internazionale per il concorso al Museo di antichità egizie del Cairo e la Grecia, sulla strada del ritorno. Dal 1898 al 1900, veloci e purtroppo poco documentati, si svolgono i viaggi nell'Europa centrale, con Parigi come polo di attrazione per l'Esposizione Universale del 1900, dove è membro della Commissione reale. Questa esperienza chiude definitivamente il ciclo dei viaggi esteri ma non quello dei viaggi italiani che continuano, costantemente lungo tutto l'arco di attività, fino ad un ultimo viaggio a Roma a maggio del 1932, anno della morte.
Il lavoro prende in considerazione i principali avvenimenti che hanno influenzato l'evoluzione economica finanziaria del nostro Paese nella crisi del cambio 1992,ho voluto concentrare l'attenzione sugli avvenimenti a partire dal 1979 e analizzando l'intervento delle autorità monetarie. Allora non esisteva l'Euro, esisteva il Sistema Monetario Europeo con una sorta di valuta di riferimento, l'ECU, a cui le varie valute nazionali aderenti al sistema dovevano stare agganciate, entro una percentuale di scostamento non superiore al 2,25% per alcune e al 6% per altre, fra cui la lira. La Germania vantava di un'economia più solida di altri, con un sistema produttivo di avanguardia e con una moneta forte che faceva da riferimento per tutte le economie. L'Italia aveva un' economia che si doveva adattare continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica. Nel marzo 1979, l'Italia aveva aderito al Sistema Monetario Europeo, una decisione orientata, insieme con la politica estera, al rafforzamento dei vincoli comunitari nell'intento di dar luogo alla creazione di un'Europa Unita; consapevoli che questa sarebbe stata una scelta più di carattere politico che economica. L'adesione allo Sme avvenne in un clima di divergenza, Paolo Baffi allora governatore della Banca d'Italia, faceva infatti presente che una valuta debole come la lira, avrebbe trovato difficoltà ad abbandonare il regime delle svalutazioni facile. diversi economisti, oltre a Baffi,al di là di dove sedessero, se in Parlamento come Luigi Spaventa o alla direzione della Banca d'Italia o ancora all'interno del governo come Rinaldo Ossola, sostenevano la loro contrarietà all'ingresso nel Sistema Monetario Europeo, esponendo motivazioni tra loro eterogenee. Tutti si attendevano che il vincolo esterno dei cambi stabili costringesse il paese a seguire una politica di rigorosa stabilità monetaria. L'Italia aveva ottenuto il privilegio di una banda di oscillazione del 6%, contro il 2,5% degli altri paesi, ma tutti intendevano che l'adesione all'accordo di cambio avrebbe imposto una politica di rientro all'inflazione. Contro le aspettative generali, l'inflazione proseguì invece più violenta di prima. Il tasso di cambio, assunse con l'avanzare del progetto unitario una significatività crescente, aggiungendo alla sua funzione di strumento di orientamento, quella di fattore di credibilità. Le autorità monetarie italiane non accettarono mai una svalutazione esterna della lira pari a quella interna. Fra il 1980 e il 1987, i riallineamenti di parità nell'ambito dello Sme si susseguirono numerosi e coinvolsero numerose valute. Ogni riallineamento segnò una svalutazione della lira rispetto al marco. Dopo il 1987, i riallineamenti vennero sospesi e il corso della lira subì un solo ritocco al ribasso, in occasione del rientro della banda stretta. La politica di fatto seguita fu dunque quella di una graduale rivalutazione della lira, in termini reali, rispetto al marco. All'inizio degli anni novanta venne firmato il trattato di Maastricht, il contenuto degli accordi si inseriva in un contesto politico- sociale interno altamente critico, nel quale le energie politiche a lungo represse dalla guerra fredda si erano liberate, grazie al crollo del Muro di Berlino, spingendo quindi gli equilibri del sistema politico e economico con una rottura che si verificò del tutto nel 1992. Se il processo d'integrazione europeo era stato spesso rappresentato dalla classe politica come una sorta di panacea alle tare italiane, a Maastricht, si celebrò l'innocenza dell'europeismo italiano che vide stravolgere e crollare la visione retorica con la quale aveva guardato alla costruzione europea a partire degli anni '70. Per la storia dell'integrazione europea, il trattato di Maastricht rappresenta una pietra miliare, anche se con l'entrata in vigore ha creato ancora più instabilità, in quanto caratterizzato da uno scarso realismo degli obiettivi di convergenza delle variabili macroeconomiche, da mancanza flessibilità e insieme da asimmetrie dei comportamenti possibili delle banche centrali. La scena economica internazionale era segnata da: tendenze divergenti dei tassi di interesse, al ribasso negli Stati Uniti per rilanciare l'economia, al rialzo in Germania per gli effetti dell'unificazione tedesca, con conseguenti indebolimenti del dollaro, rafforzamento del marco, tensione nello Sme; le incertezze circa il completamento della unificazione monetaria in Europa, quale è stata sancita nel trattato di Maastricht. Questi sviluppi esterni coglievano l'economia italiana in una fase di attività produttiva debole, inflazione in lenta discesa, squilibri irrisolti nella finanza pubblica. Tra gli accadimenti che sono susseguiti, sono da richiamare i seguenti: l'esito negativo del referendum danese sul trattato di Maastricht del 2 giugno, infatti il referendum di Copenaghen si conclude al fotofinish (50,7%) di no contro il (49,3%) di si; mancata riduzione dei tassi di interesse in Germania; voci di svalutazione della lira; rialzo dei tassi ufficiali in Germania. Nel corso dell'anno 1992 si assiste a una piena recessione, infatti con il debito pubblico al 105,5 del Pil, con un fabbisogno attorno al 10,4 del Pil, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, la crisi era alle porte. Il 6 giugno la Banca d'Italia aumenta il tasso sulle anticipazioni a scadenza fissa di mezzo punto percentuale, irrigidendo così la politica monetaria, Moody's mise sotto controllo l'Italia per la sua incapacità nella riduzione del debito pubblico. Il 29 giugno il cambio contro il marco arrivò a 756,54 a fronte di una sostanziale stabilità nei confronti della sterlina e della peseta, Amato per effettuare un risanamento economico annunciò il 5 luglio la manovra da 30000 miliardi di lire, e con quella successiva di 100000 miliardi dà inizio al risanamento finanziario del Paese. Le vicende relative alle turbolenze che hanno sconvolto le parità valutarie dei paesi aderenti allo Sme hanno avuto inizio con la svalutazione del 7% della lira, la quale appariva quasi un riallineamento da manuale. Il 21 settembre, la Banca d'Italia, annunciò che le autorità monetarie si sarebbero astenute all'effettuare la quotazione ufficiale della lira. Questo fu un colpo durissimo per l'Italia che fino a quella data, aveva fatto del cambio della lira l'architrave della sua politica economica e finanziaria, sostenendo pesanti oneri in termini di riserve valutarie, infatti tra il giugno e il settembre vennero impiegate 53000 miliardi di riserve; colpo durissimo anche per la Comunità, colpita al cuore proprio nello strumento fondamentale, lo SME, investito nel ruolo di preparare e garantire le condizioni di stabilità, generalizzata e consolidata, che avrebbero dovuto, poi consentire quel salto di qualità dell'Europa, con il decollo della Unione Economica e monetaria, la moneta unica e il sistema delle banche centrali europee. Successivamente le tensioni speculative investono la lira , la sterlina e la peseta: momento in cui Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio. Subito dopo la svalutazione del 1992, si aprì un periodo di svalutazione generale della lira rispetto alle altre monete, periodo che si protrasse all'incirca fino al marzo 1993. Tra il 1992 e 1993 vennero firmati due accordi triangolari il protocollo Amato 31 luglio 1992 che abolì il sistema di scala mobile, completato da Ciampi nel luglio 1993, con la quale si fissarono gli obiettivi comuni di politica di reddito. Dopo di allora la lira rimase agganciata al dollaro. Il legame fra lira e dollaro potrebbe essere frutto dell'agire spontaneo dei mercati, ma potrebbe anche essere scaturito dalla decisione delle autorità monetarie italiane di ritornare alla vecchia linea di cambio differenziato, già seguita negli anni prima del 1979, fino all'ingresso dello Sme. Il problema essenziale delle autorità di governo era quello di evitare che la svalutazione esterna della lira si traducesse in inflazione importata, l'aver agganciato la lira al dollaro può essere inteso come una misura ragionevolmente coerente con l'obiettivo della stabilità monetaria. Di certo che la svalutazione della lira non ha contribuito alla soluzione del problema economico italiano, ha rischiato di aggravarlo producendo perdita di credibilità per il Paese. La crisi del sistema monetario europeo ha favorito una ripresa dei dibattiti teorici sui modelli di crisi valutarie, che si distinguono tra prima e seconda generazione, quelli di prima collegano l'emergere della crisi all'incompatibilità tra politiche macroeconomiche e stabilità del cambio; quelli di seconda, il cui sviluppo è stato stimolato dagli stessi fatti del 1992, nella quale l'emergere di una crisi appare come una scelta endogena, effettuata dalle autorità in base alle proprie preferenze e all'interazione con gli agenti economici privati. Analizzando i modelli si può concludere che mentre la rappresentazione di un regime di cambio fisso per mezzo di un livello puntuale del cambio non rappresenta un limite interpretativo rilevante, le ipotesi relative al processo di espansione del credito e all'esistenza di un livello di soglia delle riserve, nei modelli di Krugman, non sembrano dar conto adeguatamente della realtà dei fenomeni economici. I modelli di prima generazione danno una spiegazione "fondamentalista" delle crisi nel senso che fanno risalire la crisi allo sfasamento dei fondamentali macroeconomici dell'economia, in particolare l'esistenza di politiche fiscali espansive e prolungati deficit di bilancio incompatibili con un impegno di cambio fisso. I modelli di seconda generazione sottolineano il comportamento ottimizzante del policy-maker che non subisce più la crisi, ma decide di avviarla perché tale scelta minimizza i costi, nel senso che i costi in termini di reputazione a cui il governo va incontro uscendo dall'impegno sono comunque minori dei costi di rimanere in termini di incremento dei tassi di interesse e riduzione delle riserve valutarie. I modelli di terza generazione pongono enfasi sulla presenza di squilibri di natura finanziaria con la conseguenza che delle crisi valutarie non sono più viste come fenomeni a sé stanti ma come parte di una crisi sistemica in cui le crisi valutarie e bancarie si autoalimentano. Le ipotesi di perfetta previsione, d'altra parte, implicano che la razionalità degli agenti sia tale da non permette il realizzarsi di peso problem, i quali invece vengono osservati nella realtà. (Riassunto tradotto in inglese) Labour takes into account the main events that influenced the financial economic development of our country in the 1992 exchange rate crisis, I wanted to focus on the events since 1979 and analysing the intervention of the monetary authorities. At that time there was no euro, there was the European Monetary System with a kind of reference currency, the ECU, to which the various national currencies participating in the system had to be hooked, within a variance rate of no more than 2.25% for some and 6% for others, including the lira. Germany boasted of an economy stronger than others, with a state-of-the-art production system and a strong currency that was the benchmark for all economies. Italy had an economy that had to adapt continuously to the consequences of a reckless, short-sighted and short-term management of the country, the result of an incompetence of the political class. In March 1979, Italy had joined the European Monetary System, a decision aimed, together with foreign policy, at strengthening EU ties in order to create a united Europe; aware that this would be a more political than an economic choice. The accession to the Sme took place in a climate of divergence, Paolo Baffi then governor of the Bank of Italy, in fact, pointed out that a weak currency such as the lira, would find it difficult to abandon the regime of devaluations easy. several economists, in addition to Baffi, beyond where they sat, whether in Parliament as Luigi Spaventa or at the management of the Bank of Italy or even within the government as Rinaldo Ossola, argued their opposition to entry into the European Monetary System, exposing heterogeneous motivations among themselves. Everyone expected that the external constraint of stable exchange rates would force the country to follow a policy of strict monetary stability. Italy had obtained the privilege of a 6% swing band, compared with 2.5% in the other countries, but all wanted that accession to the exchange agreement would impose a policy of returning to inflation. Against general expectations, however, inflation continued more violent than before. The exchange rate, as the unitary project progressed, became increasingly significant, adding to its role as a guideline, that of a credibility factor. The Italian monetary authorities never accepted an external devaluation of the lira equal to the internal one. Between 1980 and 1987, the realignments of parity within the Sme followed numerous and involved numerous currencies. Each realignment marked a devaluation of the lira against the mark. After 1987, the realignments were suspended and the course of the lira underwent only one downward adjustment, on the occasion of the return of the narrow band. The policy followed was therefore that of a gradual revaluation of the lira, in real terms, with respect to the mark. At the beginning of the 1990s the Maastricht Treaty was signed, the content of the agreements was part of a highly critical internal political-social context, in which political energies long repressed by the Cold War had been freed, thanks to the collapse of the Berlin Wall, thus pushing the balance of the political and economic system with a break that occurred entirely in 1992. If the process of European integration had often been portrayed by the political class as a kind of panacea to the Italian tare, in Maastricht, the innocence of Italian Europeanism was celebrated, which saw the rhetorical vision with which it had looked to the construction of Europe since the 1970s, overturned and collapsed. For the history of European integration, the Maastricht Treaty represents a milestone, although with the entry into force it has created even more instability, as it is characterized by a lack of realism in the convergence objectives of macroeconomic variables, lack of flexibility and at the same time as asymmetries of the possible behaviour of central banks. The international economic scene was marked by: divergent trends in interest rates, downwards in the United States to boost the economy, up in Germany due to the effects of unification Germany, resulting in a weakening of the dollar, a strengthening of the mark, tension in the SME; The uncertainty about the completion of monetary unification in Europe, as enshrined in the Maastricht Treaty, is. These external developments caught the Italian economy in a period of weak production activity, slow-falling inflation, unresolved imbalances in public finances. Among the events that have followed, the following are to be recalled: the negative outcome of the Danish referendum on the Maastricht Treaty of 2 June, in fact the Copenhagen referendum ends at photofinish (50.7%) no versus (49.3%) yes; failure to reduce interest rates in Germany; rumours of the valuation of the lira; official interest rates in Germany. During the year 1992 there is a full recession, in fact with public debt at 105.5 of GDP, with a requirement around 10.4 of GDP, with the passive of the current account balance growing, the crisis was upon us. On 6 June, the Bank of Italy increased the rate on fixed-term advances by half a percentage point, thus tightening monetary policy, and Moody's brought Italy under control for its inability to reduce public debt. On 29 June, the exchange rate against the mark reached 756.54 in the face of substantial stability against the pound and the peseta, Amato to carry out an economic recovery announced on 5 July the maneuver of 30000 billion lre, and with the next one of 100000 billion begins the financial consolidation of the country. The events surrounding the turmoil that have disrupted the currency parities of the SME member countries began with the devaluation of 7% of the lira, which appeared to be almost a textbook realignment. On 21 September, the Bank of Italy announced that the monetary authorities would refrain from making the official listing of the lira. This was a very serious blow for Italy, which until that date had made the lira change the backbone of its economic and financial policy, bearing heavy burdens in terms of foreign exchange reserves, in fact between June and September 53 trillion reserves were used; It is also a very serious blow for the Community, which has been struck at the heart by the fundamental instrument, the EMS, which has been invested in the role of preparing and guaranteeing the conditions of stability, generalised and consolidated, which should have allowed Europe to jump in quality, with the take-off of the Economic and Monetary Union, the single currency and the system of European central banks. Subsequently, speculative tensions hit the lira, sterling and peseta, when Italy and Great Britain announced they were leaving the European Exchange Agreements. Immediately after the devaluation of 1992, a period of general devaluation of the lira against the other currencies opened up, which lasted approximately until March 1993. Between 1992 and 1993, two triangular agreements were signed, the Amato protocol on 31 July 1992, which abolished the escalator system, which was completed by Ciampi in July 1993, which set common income policy objectives. After that, the lira remained pegged to the dollar. The link between the lira and the dollar may be the result of the spontaneous action of the markets, but it could also have stemmed from the decision of the Italian monetary authorities to return to the old differentiated exchange line, which was already followed in the years before 1979, until the entry of the Sme. The main problem of the government authorities was to prevent the external devaluation of the lira from translating into imported inflation, the having pegged the lira to the dollar can be understood as a measure reasonably consistent with the objective of monetary stability. Certainly the devaluation of the lira did not contribute to the solution of the Italian economic problem, it risked aggravating it, producing a loss of credibility for the country. The crisis in the European monetary system has encouraged a resumption of theoretical debates on currency crisis patterns, which stand out between the first and second generations, those of first generation link the emergence of the crisis to the incompatibility between macroeconomic policies and exchange rate stability; Second, the development of which was stimulated by the same events of 1992, in which the emergence of a crisis appears to be a choice "It's not just a way of using private economic agents," he said. By analysing the models, it can be concluded that while the representation of a fixed exchange rate regime by means of a timely exchange rate does not represent a relevant interpretive limit, assumptions about the credit expansion process and the existence of a level of reserve threshold, in Krugman's models, do not seem to adequately account for the reality of economic phenomena. First-generation models give a "fundamentalist" explanation of crises in the sense that the crisis is traced back to the shift in macroeconomic fundamentals of the economy, in particular the existence of expansionary fiscal policies and prolonged budget deficits incompatible with a fixed exchange rate commitment. The second-generation models emphasize the optimising behaviour of the policy-maker who is no longer suffering from the crisis, but decides to start it because this choice minimizes costs, in the sense that the reputation costs that the government faces by exiting the commitment are still lower than the costs of staying in terms of raising interest rates and reducing currency reserves. Third-generation models place emphasis on financial imbalances, with the consequence that currency crises are no longer seen as stand-alone phenomena but as part of a systemic crisis in which currency and banking crises feed themselves. The hypotheses of perfect prediction, on the other hand, imply that the rationality of the agents is such that it does not allow the realization of weight problem, which instead are observed in reality.
L'oggetto di questa tesi è la peculiare comparsa del termine imperator in un numero esiguo, ma comunque significativo di documenti provenienti dal regno di Asturia e León e dalla Britannia del X secolo. Se già di per sé questa sorta di "incongruenza storica" cattura l'attenzione, il fatto che i due fenomeni imperiali siano praticamente contemporanei e si sviluppino in due contesti molto distanti nello spazio, senza un apparente collegamento, evidenzia l'opportunità di uno studio comparativo. Ad una più attenta analisi, non si può fare a meno di notare come, in entrambi gli ambiti, il secolo immediatamente precedente sia stato caratterizzato da un momento particolarmente favorevole per la cultura – el renacimiento asturiano e the alfredian renaissance – reso possibile dall'azione attiva di due monarchi, Alfonso III di Asturia e León (866-910) e Alfred di Wessex (871-899). Nelle corti di questi sovrani vennero redatte delle cronache (le Crónicas Asturianas e la Anglo-Saxon Chronicle) nelle quali si proponeva una chiave di lettura della storia tesa a ricercare una nuova identità per i rispettivi popoli e si sottolineava il ruolo centrale delle rispettive dinastie regnanti. L'obiettivo della tesi è pertanto duplice: da una parte si desidera comprendere in quale modo e in quale senso sia stato utilizzato il termine imperator nella documentazione presa in esame, dall'altra si prova a capire quale peso ebbero le nuove identità etniche, religiose e territoriali, elaborate nelle già citate cronache, all'interno di questi fenomeni imperiali. Per una miglior resa dell'argomentazione si è deciso di dividere la tesi in due blocchi, il primo dedicato alle cronache del IX secolo e il secondo ai documenti in cui compare il titolo imperiale, risalenti al secolo successivo. A sua volta ciascun blocco si divide quindi in due capitoli, all'interno dei quali le tematiche vengono declinate nel caso ispanico e in quello anglosassone. La tesi si apre con la presentazione dei criteri impiegati nella selezione del corpus di "documenti imperiali" (Cap. 1) – nome con cui si definiscono i diplomi al cui interno compare il titolo di imperator – che ammontano ad un totale 38, di cui 20 asturiano-leonesi (privati e pubblici) e 18 anglosassoni (esclusivamente pubblici). A seguire viene fornito il contesto storico (Cap. 2) e lo status quaestionis (Cap. 3). Nel primo capitolo del primo blocco (Cap. 4) vengono trattate le tre cronache prodotte nella corte asturiano-leonese alla fine del IX secolo: conosciute anche come Crónicas Asturianas, sono intitolate rispettivamente Crónica Albeldense, Crónica Profetica e Crónica de Alfonso III. Per rendere il quadro qui esposto il più completo possibile si inizia trattando il patrimonio librario a disposizione degli autori delle cronache. A seguire si delineano i profili delle tre opere, soffermandosi in particolar modo sulla loro paternità e datazione. Si forniscono quindi indicazioni sulla tradizione manoscritta di queste cronache per poi tracciare un percorso tra le fonti. In questa parte si chiariscono concetti come quello di identità (etnica, religiosa e geografica), e si assiste alla comparsa di temi storiografici come quelli della Reconquista e del neogoticismo. Questi elementi costituiscono il punto di partenza per un ragionamento teso a far emergere il background ideologico comune a tutte e tre cronache. Nel corrispettivo capitolo inglese (Cap. 5) si delinea un profilo della produzione letteraria, in particolare storiografica, che ha caratterizzato le ultime due decadi del IX secolo anglosassone. Si inizia inquadrando gli uomini che formarono parte della cosiddetta alfredian reinassance per poi analizzare il ruolo avuto, all'interno di questo momento di rinascita culturale, dalle traduzioni in Old English delle grandi opere storiografiche. Infine, si propone una rilettura dell'unica opera storiografica scritta ex novo – l'Anglo-Saxon Chronicle – dalla quale emerge come fil rouge il concetto di overlordship. Questo è il nome che gli studiosi moderni hanno dato all'autorità che alcuni re anglosassoni poterono esercitare al di sopra degli altri regni dell'isola: si trattava di una supremazia principalmente militare che portava un re, per periodi spesso brevi, ad imporre la propria sovranità – e talvolta dei tributi – a popolazioni diverse dalla propria. Questa idea di sovranità sovrapposta era già presente in Beda e viene recuperata dai cronisti anglosassoni che la ricollegano, in maniera evidente, alla dinastia dei re del Wessex, coniando per quei re che la detennero la parola bretwalda. A conclusione del primo blocco è presente un capitolo di confronto (Cap. 6) che permette di tirare le somme della prima metà della tesi. Si ribadiscono alcuni punti in comune tra i due casi di studio qui definiti "macrocongruenze": sia la Britannia che la Spania erano parte dell'impero romano, ma non di quello carolingio e subirono un'invasione durante l'Alto Medioevo (danesi/norvegesi la prima e islamici la seconda); in entrambi i casi la produzione di cultura scritta durante il IX secolo orbitava attorno alla figura del monarca; le cronache del periodo celebrano la dinastia regnante come elemento cardine della storia "nazionale" e così facendo ne legittimano l'autorità; fra le pagine di queste cronache vengono proposte nuove identità per entrambe le popolazioni. Tuttavia, al di là di queste evidenti somiglianze, si è notato come, all'interno della cronachistica, si sia arrivati a due modi particolari di rappresentare sé stessi, il proprio regno, il proprio popolo e il proprio contesto geografico. Sono queste differenze a suscitare un particolare interesse dal momento che, come è stato chiaro sin dalla sua fase embrionale, in nessun modo lo scopo di questa ricerca è l'omologazione: non si sta cercando di uniformare la storia inglese del IX e X secolo con quella spagnola dello stesso periodo, per quanto esse abbiano sicuramente dei punti in comune. Nel capitolo di confronto si riflette quindi sulle particolari soluzioni autorappresentative soluzioni a cui sono giunti i cronisti asturiani e anglosassoni riguardo a tre punti chiave: il recupero del passato, la concezione territoriale dell'ambiente geografico e la questione identitaria. Non si può infatti trascurare il differente peso che ebbero nei relativi ambiti il ricordo del regno visigoto e quello dell'Eptarchia anglosassone e dunque, rispettivamente, le opere di Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile. Sarebbe inoltre sbagliato non sottolineare le differenze tra le due nuove proposte identitarie: quella inglese su base spiccatamente etnica (Angelcynn) e quella ispanica su base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Non poteva infine mancare un paragrafo dedicato ai differenti rapporti tra i due ambiti studiati e il mondo carolingio contemporaneo. Nel secondo blocco vengono sviscerati i fenomeni imperiali. Il capitolo dedicato all'ambito ispanico (Cap. 7) si apre con una riflessione sulle varie figure di scriptores del regno di León e sul peso avuto dai formulari visigoti nella documentazione altomedievale. Al principio del corrispettivo capitolo inglese (Cap. 8) vengono invece presentati due casi di utilizzo del termine imperiale precedenti il X secolo: quello di sant'Oswald di Northumbria (634-642) nella Vita Sancti Columbae di Adomnano di Iona e quello di Coenwulf di Mercia (796-821) nel documento S153. Seguono due paragrafi dedicati alla documentazione di Edward the Elder (899-924) e Æthelstan (924-939) che mettono in luce un sostanziale sviluppo della titolatura regia, indice di un progressivo ampliamento dell'autorità di questi monarchi. Il centro di entrambi i capitoli del secondo blocco consiste nella dettagliata analisi dei documenti imperiali e nelle riflessioni che da questa scaturiscono. Nel caso spagnolo è possibile affermare con una certa sicurezza che l'uso del titolo imperator ebbe inizio con il figlio, Ordoño II, che lo attribuì al padre per rafforzare la propria posizione di re di León. Tra la morte di Ordoño II (924) e l'ascesa al trono di Ramiro II (931) il titolo cominciò ad essere adoperato anche nella documentazione privata, senza per questo scomparire da quella regia. Non è purtroppo possibile cercare di ricondurre il fenomeno imperiale ispanico alla figura di uno scriptor in particolare – a differenza del caso inglese –; va però fatto presente che alcuni testi risalenti alla seconda metà del secolo differiscono dai documenti di Ordoño II nell'impiego del termine, poiché questo viene usato in riferimento al re vivente, anziché al padre defunto. Il titolo, almeno all'inizio del X secolo, non sembra riflettere un'autorità superiore (per l'appunto imperiale), ma richiama la sua più antica accezione, quella di "generale vittorioso" e costituisce una prerogativa dei sovrani leonesi. Per quanto riguarda il fenomeno imperiale inglese, invece, è possibile individuare un punto di inizio nei famosi alliterative charters, probabilmente redatti da Koenwald di Worcester (928/9- 957), sulla cui paternità si discute lungamente nella tesi. Sembra chiaro che imperator altro non sia che la traduzione latina di quello che gli storici hanno definito overlord. Tramite l'impiego di tale titolo i sovrani anglosassoni hanno voluto rappresentare la loro crescente egemonia sugli altri regni dell'isola, rivendicando così un'autorità più territoriale che etnica. Occorre però far presente che l'uso della terminologia imperiale forma parte di quel più ampio processo di evoluzione della titolatura regia già iniziato con Edward the Elder. Queste riflessioni vengono poi messe in relazione con quelle del primo blocco e sviluppate nelle conclusioni (Cap. 9). Esse vertono su quattro punti fondamentali: l'uso del documento e della lingua latina nei due ambiti; la Britannia e la Spania come universi a sé; il significato di imperator nei due contesti documentari; la concezione territoriale come presupposto teorico e geografico di questo utilizzo. La lettura delle fonti ci permette di affermare che entrambi i contesti rappresentavano per i rispettivi sovrani degli universi idealmente a sé stanti. I sovrani leonesi e anglosassoni ereditarono dai loro predecessori non solo una "missione" politica – di riconquista per i primi e di controllo per i secondi –, ma anche una specifica concezione – diversa per ciascun caso – dell'ambiente geografico in cui si trovavano a operare. La Britannia del re-imperatore anglosassone è la Britannia di Beda, frammentata e divisa, eppure tutto sommato unita. La Spania dei re leonesi è la Spania di Isidoro, unita, omogenea, ma drammaticamente perduta. Tuttavia, per il caso spagnolo e nel periodo qui preso in esame, al titolo non venne mai accostato un riferimento spaziale che rimandasse ad un dominio su tutta la penisola. In quello inglese, invece, tale accostamento ci fu, ma il riferimento geografico alla Britannia non fu un'esclusiva del titolo imperiale. Possiamo quindi dire che, nel caso inglese, il titolo nacque per il bisogno di tradurre in latino un'autorità indiretta ed egemonica (come quella di un rex regum), e perse poi questo significato – e quindi l'uso –, quando la situazione politica del regno si modificò; nel caso spagnolo invece, avvenne un'elaborazione quasi simmetricamente opposta. Il titolo, inizialmente usato nel suo significato più antico di "generale vittorioso" o "signore potente", venne poi reinterpretato quando nell'XI e XII secolo cambiarono gli equilibri politici della penisola. In questo periodo troviamo infatti sovrani come Alfonso VI e Alfonso VII impiegare titolature quali imperator totius Hispaniae. In entrambi i casi, l'imperator venne inteso come sinonimo di rex regum, ma in due momenti diversi: ovvero quando ve ne fu effettivamente bisogno. La tesi è provvista di mappe e della bibliografia, divisa tra fonti e studi. Inoltre si è considerato utile aggiungere in appendice i testi dei documenti imperiali. ; The subject of this thesis is the peculiar presence of the term imperator in a small, but still significant, number of 10th century documents from the reign of Asturia and León and from Britain. The fact that these two "imperial phenomena" coexisted and developed in two very distant contexts, without an apparent connection, makes a comparative study necessary. Also, in both areas the previous century was characterized by a particularly favorable moment for culture - el renacimiento asturiano and the alfredian renaissance - made possible by the action of two monarchs, Alfonso III of Asturia and León (866-910) and Alfred of Wessex (871-899). In these sovereigns' courts, chronicles were drawn up (the Crónicas Asturianas and the Anglo-Saxon Chronicle), proposing an interpretation of history which tend to seek a new identity for the respective peoples, highlighting the central role of the respective ruling dynasties. The aim of the thesis is therefore twofold: on the one hand, to understand in what way and in what sense the term imperator was used in the documentation examined; on the other hand, to estimate what weight the new ethnic, religious and territorial identities had within these imperial phenomena. For a better performance of the argument, it was decided to divide the thesis into two parts, the first dedicated to the chronicles of the 9th century and the second to the documents of the following century in which the imperial title appears. In turn, each part is divided into two chapters focused on Hispanic and Anglo-Saxon cases. The thesis opens with the presentation of the criteria used in the selection of the corpus (Ch. 1), which amounts to a total of 38 imperial documents, of which 20 Asturian-Leonese (private and public) and 18 Anglo-Saxon (exclusively public). The historical context (Ch. 2) and the status quaestionis (Ch. 3) are provided below. The first chapter of the first part (Ch. 4) deals with the three chronicles produced in the Asturian-Leonese court at the end of the 9th century. Also known as Crónicas Asturianas. they are respectively entitled Crónica Albeldense, Crónica Profetica and Crónica de Alfonso III. This chapter starts treating the Asturian library, available to the authors of the chronicles, and follows with the description of each chronicle, focusing on their paternity and dating. It then provides information about the manuscript tradition of each chronicle and it finally ends with an overall reading of the sources. Here, concepts such as identity (ethnic, religious and geographic) are clarified, and we observe the origin of historiographic themes such as those of the Reconquista and neo-Gothicism. These elements constitute the starting point for a reflection aimed at bringing out the ideological background common to all three chronicles. In the corresponding English chapter (Ch. 5) is outlined a profile of the literary production, in particular historiographic, which characterized the last two decades of the 9th century in England. We start by framing the men who formed part in the so-called alfredian reinassance and then analyze the role played in this moment of cultural rebirth by the translations in Old English of the great historiographic works. Finally, we propose a rereading of the only historiographic work written ex novo, the Anglo-Saxon Chronicle, where the concept of overlordship emerges as a common thread. Overlordship is the name that modern scholars have given to the authority that some Anglo-Saxon kings were able to exercise over other kings in the island. It is a predominantly military supremacy which leads a king, for often short periods, to impose his sovereignty - and sometimes tributes - on populations other than his own. This idea of overlapped sovereignty was already present in Beda and is recovered by the Anglo-Saxon chroniclers who relate it, explicity, to the dynasty of the kings of Wessex, coining for those kings who held it the term bretwalda. At the end of the first part there is a comparison chapter (Ch. 6) that draws the conclusions of the first half of the thesis. Some points in common (here called "macrocongruenze") between the two case studies are reiterated: both Britain and Spania formed part of the Roman Empire, but not of the Carolingian Empire and both suffered an invasion during the Early Middle Ages (Danes / Norwegians and Muslims); in both cases the production of written culture, during the 9th century, orbited around the figure of the monarch; the chronicles celebrate the reigning dynasty as the centre of "national" history to legitimize its authority; among the pages of these chronicles new identities are proposed for both populations. However, beyond these obvious similarities, it has been noted that the chronicles adopted two different ways of self-representing themselves, their kingdom, their people and their geographical context. The comparison chapter therefore reflects on three key points: the recovery of the past, the territorial conception of the geographical environment and the identity issue. In fact, we cannot neglect the different importance that the memory of the Visigoth kingdom and of the Anglo-Saxon Heptarchy (and therefore, respectively, the works of Isidore of Seville and the Venerable Bede) had. It would also be wrong not to underline the differences between the two new identity proposals: the English one had a distinctly ethnic base (Angelcynn), while the Hispanic base was mainly religious base (regnum Xristianorum). The last paragraph if finally dedicated to the different relationships between the two areas studied and the contemporary Carolingian world could not be missing. In the second block imperial phenomena are examined. The chapter dedicated to the Hispanic context (Ch. 7) opens with a reflection on the various figures of scriptores of the kingdom of León and on the weight of Visigoth formulae in the early medieval documentation. At the beginning of the corresponding English chapter (Ch. 8) are presented two cases of a use of the imperial term preceding the 10th century: that of Saint Oswald of Northumbria (634-642) in the Adomnan of Hy's Vita Sancti Columbae of and that of Coenwulf of Mercia in the charter S153. These cases are followed by two paragraphs dedicated to Edward the Elder's and Æthelstan's documentation, which highlight a substantial development of the royal title, pointing out an expansion of the authority of these monarchs. The center of both the chapters of the second block consists in the detailed analysis of the imperial documents and in the reflections that arise from it. In the Spanish case, it is possible to affirm with some certainty that the use of the imperator title began with his son, Ordoño II, who attributed it to his father to strengthen his position as king of León. Between the death of Ordoño II (924) and the ascent to the throne of Ramiro II (931), the title also began to be employed into private documentation, without disappearing in the public one. Unfortunately, it is not possible, as it is in the English case, to trace the Hispanic imperial phenomenon back to a particular scriptor. However, it should be noted that some texts dating from the second half of the century differ from the charters of Ordoño II in the use of the term, adopting it in reference to the living king, rather than the deceased father. The title, at least at the beginning of the tenth century, does not seem to reflect a superior (or imperial) authority, but recalls its most ancient meaning, of "victorious general" and constitutes a prerogative of the Leonese sovereigns. As for the English imperial phenomenon, however, it is possible to identify a starting point in the famous alliterative charters, probably drawn up by Koenwald of Worcester (928/9- 957), whose authorship is largely discussed in the thesis. It seems clear that imperator is nothing but the Latin translation of what historians have called overlord. Through the use of this title, the Anglo-Saxon rulers wanted to represent their growing hegemony over the other kingdoms of the island, thus claiming a more territorial than ethnic authority. However, it should be noted that the use of imperial terminology forms part of the broader process of evolution of the royal title that started with Edward the Elder. These reflections are then related to those of the first part and developed in the conclusions (Ch. 9). They focus on four fundamental points: the use of the documentation and the Latin language in the two areas; Britain and Spania as self-contained universes; the meaning of imperator in the two documentary contexts; the territorial conception as a theoretical and geographical assumption of this use. Reading the sources allows us to affirm that both contexts represented universes ideally self-contained for their respective sovereigns. The Leonese and Anglo-Saxon rulers inherited from their predecessors not only a political "mission" - reconquering for the former and control for the latter -, but also a specific conception - different for each case - of the geographical environment in which they found themselves operate. The Britannia of the Anglo-Saxon king-emperor is Bede's Britannia, fragmented and divided, but spiritually united. The Spania of the Leonese kings is Isidoro's Spania, united, homogeneous, but dramatically lost. However, for the Spanish case in the period examined here, the imperial title was never related to a geographical reference; in the English one, the geographical reference to Britannia existed, but was not exclusive to the imperial title. We can therefore say that, in the English case, the title was born out of the need to translate into Latin an indirect and hegemonic authority (like that of a rex regum), and then lost this meaning - and therefore the use - when the political situation of the kingdom changed. In the Spanish case, conversely, an almost symmetrically opposite processing took place. The title, initially used in its oldest meaning as "victorious general" or "powerful lord", was reinterpreted in the 11th and 12th centuries, when the political balance of the peninsula changed. In this period, we find in fact rulers like Alfonso VI and Alfonso VII employing titles such as imperator totius Hispaniae. In both cases, the emperor was intended as a synonym for rex regum, but in two different moments - always when it was more needed. The thesis is equipped with maps and bibliography, divided between sources and studies. Furthermore, it was considered useful to add a final appendix with the texts of the imperial documents. ; El tema de esta tesis es la aparición peculiar del término imperator en un número pequeño, pero significativo, de documentos del siglo X procedentes de los reinos de Asturias y León y de Inglaterra. Si en sí mismo este tipo de "coincidencia histórica" capta la atención, el hecho de que los dos fenómenos imperiales sean prácticamente contemporáneos y se desarrollen en dos contextos muy distantes en el espacio, sin una conexión aparente, pone de manifiesto la necesidad de un estudio comparativo. Tras una ulterior búsqueda, no pasa desapercibido cómo, en ambas áreas, el siglo inmediatamente anterior se caracterizó por ser un momento particularmente favorable para la cultura – el renacimiento asturiano y the alfredian reinassence –, hecho posible por la acción de dos monarcas, Alfonso III de Asturias y León (866-910) y Alfred de Wessex (871-899). En los entornos de estos soberanos, se elaboraron crónicas (las Crónicas Asturianas y la Anglo-Saxon Chronicle) que proponían una lectura de la historia destinada a buscar una nueva identidad para los respectivos pueblos, subrayando el papel central de las respectivas dinastías gobernantes. El objetivo de la tesis es, por lo tanto, doble: por un lado, se quiere entender de qué manera y en qué sentido se utilizó el término imperator en la documentación examinada y, por otro lado, tratamos de comprender qué peso tenían las nuevas identidades étnicas, religiosas y territoriales, dentro de estos fenómenos imperiales. Para una mejor presentación de los argumentos, se decidió dividir la tesis en dos bloques: el primero dedicado a las crónicas del siglo IX y el segundo a los documentos del siglo siguiente en los que aparece el título imperial. A su vez, cada bloque se divide en dos capítulos donde se desarrollan las temáticas en los casos hispanos y anglosajones. La tesis comienza con la presentación de los criterios utilizados para la selección del corpus de "documentos imperiales" (Capítulo 1) – los diplomas donde aparece el título de imperator –, que asciende a un total de treinta y ocho, veinte de los cuales son asturianos-leoneses (privados y públicos) y dieciocho anglosajones (exclusivamente públicos). El contexto histórico (Capítulo 2) y el status quaestionis (Capítulo 3) se proporcionan a continuación. En el primer capítulo del primer bloque (Capítulo 4) se presentan las tres crónicas producidas en la corte asturiano-leonesa a finales del siglo IX. También conocidas como Crónicas Asturianas, estas son la Crónica Albeldense, la Crónica Profética y la Crónica de Alfonso III. Para conseguir una visión lo más completa posible, comenzamos viendo los libros que los autores de las crónicas tenían a su disposición. A continuación, se analizan las tres obras, con una particular atención a su autoría y datación. Finalmente, proporcionamos indicaciones sobre la tradición manuscrita de estas crónicas y trazamos un camino entre las fuentes. En esta parte se van perfilando cuestiones cruciales, como la identidad (étnica, religiosa y geográfica), y temas historiográficos, como la Reconquista y el neogoticismo. Estos elementos constituyen el punto de partida para un razonamiento destinado a resaltar el trasfondo ideológico común a las tres crónicas. En el capítulo sucesivo (Capítulo 5) se traza un perfil de la producción literaria, en particular historiográfica, que caracterizó las últimas dos décadas del siglo IX anglosajón. Se comienza enmarcando a los hombres que formaron parte del llamado alfredian reinassance y analizando sucesivamente el papel desempeñado por las traducciones en Old English de las grandes obras historiográficas en este momento de renacimiento cultural. Finalmente, proponemos una nueva lectura de la única obra historiográfica escrita desde cero, la Anglo-Saxon Chronicle, a partir de la cual el concepto de overlordship emerge como un hilo conductor. Este es el nombre que los eruditos modernos le han dado a la autoridad que algunos reyes anglosajones pudieron ejercer sobre los otros reyes de la isla. Es una supremacía predominantemente militar que lleva a un rey – a menudo por períodos cortos – a imponer su soberanía, y a veces tributos, a poblaciones distintas de la suya. Esta idea de soberanía superpuesta ya estaba presente en Beda y es recuperada por los cronistas anglosajones que la relacionan, evidentemente, con la dinastía de los reyes de Wessex, acuñando para aquellos reyes la palabra bretwalda. Al final del primer bloque hay un capítulo de comparación (Capítulo 6) que permite resumir las conclusiones de la primera mitad de la tesis. Se reiteran algunos puntos en común entre los dos estudios del caso: tanto Britannia como Spania formaron parte del Imperio Romano, pero no del Imperio Carolingio y sufrieron una invasión durante la Alta Edad Media (Daneses / Noruegos e islámicos); en ambos casos, la producción de cultura escrita durante el siglo IX orbitaba alrededor de la figura del monarca. Las crónicas resultantes de este período celebran la dinastía reinante como la piedra angular de la historia "nacional" y al hacerlo legitiman su autoridad; entre las páginas de estas crónicas se proponen nuevas identidades para ambas poblaciones. Sin embargo, más allá de estas similitudes obvias, se ha observado que dentro de las crónicas ha habido dos formas particulares de representación de sí mismos, de su reino, de su gente y de su contexto geográfico. Son estas diferencias las que despiertan un interés particular, ya que, como ha quedado claro desde el principio, no hay absolutamente ningún intento de homologar la historia inglesa de los siglos IX y X con la historia española del mismo período, aunque sin duda tienen puntos en común. Por lo tanto, el capítulo de comparación reflexiona sobre las particulares formas de auto-representación proporcionadas por los cronistas asturianos y anglosajones y se centra en tres puntos clave: la recuperación del pasado, la concepción territorial del entorno geográfico y la cuestión relativa a la identidad. De hecho, no podemos descuidar el peso diferente que tuvo el recuerdo del reino visigodo y el de la Heptarquía anglosajona y, por lo tanto, respectivamente, las obras de Isidoro de Sevilla y de Beda la Venerable. También sería un error no subrayar las diferencias entre las dos nuevas propuestas de identidad: la inglesa, con una base claramente étnica (Angelcynn) y la hispana, con una base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Finalmente, no podía faltar un párrafo dedicado a las diferentes relaciones entre las dos áreas estudiadas y el mundo carolingio contemporáneo. En el segundo bloque se examinan los fenómenos imperiales. El capítulo dedicado al contexto hispano (Capítulo 7) comienza con una reflexión sobre las diversas figuras de los scriptores del reino de León y sobre el peso de las fórmulas visigodas en la documentación altomedieval. Al comienzo del capítulo correspondiente en inglés (Capítulo 8) se presentan dos casos de uso del término imperial anterior al siglo X: el de San Oswald de Northumbria (634-642) en la Vita Sancti Columbae de Adomnano de Iona y el de Coenwulf de Mercia (796-821) en el documento S153. Siguen dos párrafos dedicados a la documentación de Edward the Elder (899-924) y Æthelstan (924-939), donde se destaca un desarrollo sustancial del título real que indica una expansión de la autoridad insular de estos monarcas. El centro de ambos capítulos del segundo bloque consiste en el análisis detallado de los documentos imperiales y en las reflexiones que surgen de esto. En el caso español se puede concluir que, aunque hay rastros de un empleo del título imperial en la documentación de Alfonso III, es posible afirmar con cierta certeza que el uso del título imperator comenzó con su hijo, Ordoño II (914-924), quien lo atribuyó a su padre para fortalecer su posición como rey de León. Entre la muerte de Ordoño II (924) y el ascenso al trono de Ramiro II (931), el título también pasó a la documentación privada, sin desaparecer de la pública. Desafortunadamente, no es posible, como en el caso inglés, tratar de rastrear el fenómeno imperial hispano hasta la figura de un escritor en particular. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que algunos textos que datan de la segunda mitad del siglo difieren de los documentos de Ordoño II en el uso del término, ya que se emplea en referencia al rey vivo y no al padre fallecido. El título, al menos a principios del siglo X, no parece reflejar una autoridad superior (precisamente imperial), pero recuerda su significado más antiguo, el de "general victorioso" y constituye una prerrogativa de los soberanos leoneses. En cuanto al fenómeno imperial inglés, por otro lado, es posible identificar un punto de partida en los famosos alliterative charters, probablemente producidos por Koenwald de Worcester (928/9- 957), cuya autoría se discute extensamente en la tesis. Parece que imperator no es más que la traducción latina de lo que los historiadores han llamado overlord. Mediante el uso de este título, los gobernantes anglosajones querían representar su creciente hegemonía sobre los otros reinos de la isla, reclamando así una autoridad más territorial que étnica. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que el uso de la terminología imperial forma parte de ese proceso más amplio de evolución del título real que ya comenzó con Edward the Elder. En las conclusiones (Capítulo 9) se relacionan estas reflexiones con las del primer bloque desarrollándolas. Se centran en cuatro puntos fundamentales: el papel del documento y del idioma latino en las dos áreas; Britannia y Spania como universos en sí mismos; el significado de imperator en los dos contextos documentales y, por último, la concepción territorial como una premisa teórica y geográfica de este empleo de la terminología imperial. Tras leer las fuentes podemos afirmar que ambos contextos representaban, a los ojos de sus respectivos soberanos, universos dentro del universo. Los gobernantes leoneses y anglosajones heredaron de sus predecesores no solo una "misión" política – de reconquista para los primeros y de control para los segundos – sino también una concepción específica, diferente para cada caso, del entorno geográfico en el que se encontraban. La Britannia del rey-emperador anglosajón es la Britannia de Beda, fragmentada, dividida y, sin embargo, unida. La Spania de los reyes leoneses es la Spania de Isidoro, unida, homogénea, pero dramáticamente perdida. Sin embargo, para el caso español, en el período examinado aquí, nunca se encuentra el título imperial en relación a una referencia territorial que evoque un dominio sobre toda la península. En el inglés, sin embargo, existía este uso, pero la referencia geográfica a Britannia no era exclusiva del título imperial. Por lo tanto, podemos decir que, en el caso inglés, el título nació de la necesidad de traducir al latín una autoridad indirecta y hegemónica (como la de un rex regum), y luego perdió este significado – y su uso – cuando la situación política del reino cambió. En el caso español, sin embargo, tuvo lugar un procesamiento casi simétricamente opuesto. El título, utilizado inicialmente en su significado más antiguo como "general victorioso" o "señor poderoso", fue reinterpretado más tarde cuando el equilibrio político de la península cambió en los siglos XI y XII. En este período encontramos, de hecho, gobernantes como Alfonso VI y Alfonso VII que emplean títulos como imperator totius Hispaniae. En ambos casos, imperator fue concebido como sinónimo de rex regum, pero en dos momentos diferentes; cuando realmente se necesitaba. La tesis está provista de mapas y bibliografía, dividida entre fuentes y estudios. Además, se consideró útil agregar los textos de los documentos imperiales al apéndice.