Condorcet e Constant sono due fra gli intellettuali più noti del periodo rivoluzionario francese. Entrambi possono essere considerati teorici della libertà, il "popolo" é al centro della loro riflessione, con lo scopo di dargli voce, liberandolo da superstizioni e pregiudizi; solo attraverso la ragione e liberandosi dai preconcetti l'uomo può diventare cittadino e possedere quella che noi oggi definiremmo coscienza politica. Partendo dal popolo reale e teorizzando la perfettibilità entrambi, con le dovute somiglianze e divergenze, hanno scritto dei miglioramenti dell'uomo ed hanno indicato la via per perseguirli. L'elaborato si compone di cinque capitoli riguardanti Condorcet e cinque riguardanti Constant, così in una sorta di parallelismo ho scelto di trattare cinque tematiche percorse dal filo conduttore della libertà e del potere del popolo. La prima é il progresso che per Condorcet riguarda il rapporto tra ragione e superstizione e per Constant il contrasto tra forze politiche: l'uguaglianza e l'inclinazione alla servitù, il problema successivo é quello dell'alterazione della verità trattato da Condorcet soffermandosi sull'inganno e da Constant soffermandosi sull'illusione; la terza tematica é l'opinione pubblica, il penultimo argomento é la teoria politica con particolare attenzione al dispotismo; infine ho deciso di concludere la parte su Condorcet concentrandomi sui suoi scritti sull'istruzione pubblica e Constant con gli scritti sulla libertà.
Il protagonista di questo lavoro è essenzialmente il liberalismo. Esso è entrato nella cultura popolare economica e finanziaria soprattutto a partire dagli anni ottanta con l'esplosione del capitalismo finanziario globale "de-regolamentizzato" ma deve principalmente la sua più completa riformulazione, in chiave moderna, alla Scuola Austriaca e ai suoi esponenti durante la metà del XX secolo. Gli strumenti concettuali, economici e politici da costoro proposti affondano le radici in altrettanti sistemi di analisi dei fenomeni sociali, come l'individualismo metodologico e la teoria degli ordini spontanei, che affronteremo nel corso del nostro lavoro, giustificandone la possibilità sulla base della teoria della conoscenza e della critica allo scientismo e al costruttivismo metodologico avanzate da Hayek. Nella prima parte del nostro lavoro, illustrando tali strumenti concettuali, avanzeremo una serie di riflessioni sulla natura delle strutture decisionali policentriche che rivelano tra loro delle notevoli affinità nella filosofia di Hayek quanto in quella di Foucault: troveremo nei due autori l'assunzione che tanto nelle relazioni di potere quanto negli ordini spontanei autoregolatesi (come nella catallassi o ordine di mercato) non vi siano mai strutture fisse e rigide, già note in partenza, ma sempre rapporti strategici fluidi e costantemente intercambiabili nelle loro parti. Nella seconda parte affronteremo da vicino alcune delle critiche che Foucault muove nelle sue lezioni sul liberalismo, imputando principalmente a questo di essere una forma di governabilità degli individui tramite mezzi economici, sorta dall'impossibilità di stabilirne una governamentalità politica. Vedremo come ciò non sia applicabile al liberalismo nel senso in cui o intendono gli Austriaci e, nello stesso tempo, come lo stesso Foucault negli ultimi anni della sua esistenza abbia riscoperto un discorso ampio e aperto sulle pratiche di libertà e su una certa autonomia auto-costitutiva del soggetto molto vicina alla prospettiva dell'individuo liberale o dell'autonomia come parte integrante di una teoria dei sistemi sociali.
Questa tesi è una revisione del sistema antropologico del "Leviatano" di Hobbes, nonché del suo realismo politico. L'intento è quello di dimostrare come il filosofo inglese abbia, nell'opera del 1651, pensato una natura umana plasmabile e dinamica. In particolare, attraverso l'analisi della descrizione hobbesiana delle prime comunità cristiane, si argomenta come il filosofo abbia contemplato una forma di soggettività radicalmente diversa rispetto a quella caratterizzata dall'ambizione e dal desiderio di prevalere sugli altri. La soggettività protocristiana, in altri termini, mette in discussione alcune delle categorie con cui Hobbes pensa l'essenza dell'uomo, mostrandone la contingenza.
Il proposito del seguente lavoro consiste nel presentare in maniera quanto più unitaria la riflessione aristotelica circa il tema della felicità. Il nostro interesse verte propriamente sulle intersezioni problematiche tra individuo e città e sulle strategie atte a trovare un registro comune per garantire la realizzazione del sommo bene. La prima parte dell'elaborato ricostruisce la storia della nozione a partire dalla letteratura arcaica fino a formulazioni propriamente filosofiche. Presentiamo inoltre le caratteristiche del metodo dialettico, considerato fondamentale per comprendere lo statuto delle conclusioni aristoteliche circa il tema della felicità contenute nell'"Etica Nicomachea". Tenendo presente il ruolo della politica, concepita come scienza architettonica atta a realizzare la felicità, il secondo capitolo è dedicato all'analisi della "Politica". In particolare ci soffermiamo su alcuni punti salienti: la definizione di uomo come "animale politico" e la tesi della naturalità della "polis". Si è cercato quindi di mostrare l'importanza della natura, la quale fornisce un modello normativo di come agire. Il terzo capitolo mostra, infine, il tentativo aristotelico di proporre un "bios" desiderabile per tutti, ossia capace di realizzare la felicità dell'individuo come singolo e della città.
Facendo ricorso a un ampio corpus di fonti giudiziarie, prefettizie e militari conservate dagli archivi di Foggia e Lucera, dall'Archivio centrale dello Stato e da quello dello Stato maggiore dell'Esercito, il presente lavoro ricostruisce le vicende del «Grande brigantaggio» postunitario in Capitanata. La tesi discute le interpretazioni avanzate dagli osservatori ottocenteschi e in larga parte confluite nelle opere degli iniziatori della storiografia novecentesca sul brigantaggio, Antonio Lucarelli e soprattutto Franco Molfese, autore della prima e ancora oggi fondamentale trattazione d'insieme del fenomeno. Molfese, servendosi delle categorie analitiche marxiste e gramsciane, sistematizzò la lettura meridionalistica del brigantaggio come espressione del malcontento delle classi contadine del Mezzogiorno, desiderose di ottenere la ripartizione delle terre demaniali, promessa dai governanti sin dalla soppressione della feudalità nel 1806 e mai concretamente attuata. Per Molfese, i motivi politici ravvisabili soprattutto nella prima fase del brigantaggio sarebbero dovuti a una mera opera di strumentalizzazione messa in atto dai maggiorenti della reazione borbonico-clericale nei confronti della protesta sociale contadina, sulla quale, però, il linguaggio della controrivoluzione si sarebbe mostrato incapace di fare presa. Il brigantaggio si sarebbe dunque rivelato nella sua genuina natura di forma primitiva di lotta di classe, destinata a fallire a causa della mancanza di quadri dirigenti rivoluzionari in grado di conferire unità di azione alla violenza distruttrice delle bande armate. Raccogliendo sollecitazioni provenienti dalla storiografia più recente, queste pagine cercano, invece, di dimostrare l'incompatibilità tra le motivazioni, le forme e i linguaggi delle insurrezioni reazionarie e quelli delle proteste demaniali. Il primo capitolo, analizzando il comportamento delle folle in un campione di moti reazionari verificatisi in Capitanata tra l'estate del 1860 e quella del 1861 e confrontando questi tumulti con quelli aventi per oggetto l'accesso alle risorse terriere, mette in risalto la specificità simbolica e rituale delle reazioni, leggibili come riti di passaggio attraverso i quali le folle operano la restaurazione dell'ordine politico tradizionale sovvertito dalle trasformazioni in senso liberale che hanno riguardato le istituzioni meridionali, prima con la concessione della costituzione da parte di Francesco II, poi con l'annessione al nuovo Regno d'Italia. Gli insorti che prendono parte alle reazioni appaiono mossi non dall'intento di conseguire la proprietà delle terre demaniali, ma da un legittimismo popolare nell'ambito del quale elementi politici e sociali si mescolano e il sovrano borbonico, sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche, appare il garante dei giusti equilibri economici minacciati dall'ordinamento liberale, associato agli interessi dei ceti borghesi. La constatazione delle analogie formali tra le diverse insurrezioni reazionarie non esime, peraltro, dal tentativo di valutare in che modo le logiche degli schieramenti e le violenze che marcano questi moti fossero condizionate dagli annosi contrasti che laceravano le élite municipali in competizione per la gestione del potere locale. Il secondo capitolo riguarda la composizione e le operazioni delle bande armate che si formarono in seguito alle reazioni del 1860-1861, alimentandosi di coloro che, dopo aver partecipato a tali tumulti, si diedero alla macchia per sfuggire alle ricerche, di ex soldati dell'esercito borbonico che si rifiutavano di servire sotto le armi del nuovo Stato, di renitenti alla leva e disertori, ma anche di gente comune e banditi di lungo corso, alcuni dei quali furono tra i principali capi del brigantaggio foggiano. Il capitolo distingue tre aree di brigantaggio, ricostruendo le azioni delle bande che operano in ciascuna di esse: il Gargano, la Valle del Fortore e il Basso Tavoliere. L'esame condotto in questa sezione mostra come alla pluralità di attori coinvolti nel brigantaggio corrispondesse, secondo dinamiche tipiche delle guerre civili, una pluralità di motivazioni individuali. Nella medesima banda potevano militare convinti partigiani della monarchia borbonica, che conferivano alle proprie violenze un significato esclusivamente politico, ma anche personaggi che nella guerriglia reazionaria potevano scorgere l'occasione di compiere vendette private e arricchirsi facilmente. La debolezza del regime unitario e le concrete possibilità che, come in passato, il sovrano napoletano ritornasse sul trono dispiegavano di fronte a non pochi meridionali orizzonti d'attesa che facevano balenare l'opportunità di sostenere la causa reazionaria per ottenere onori, ricchezze e riconoscimenti in virtù della gratitudine di Francesco II verso coloro che lo avessero appoggiato nella sua lotta per riconquistare il trono delle Due Sicilie. Vecchi banditi come Angelo Maria Del Sambro e Carmine Crocco potevano, allora, mettersi alla testa della reazione nella speranza di riabilitarsi dopo la restaurazione. L'esistenza di un fondo di legittimismo popolare diffuso in alcuni settori della popolazione rurale, oltre a indurre la corte napoletana in esilio a Roma e i circoli borbonici localmente diffusi a progettare piani controrivoluzionari, rendeva possibile ai membri non politicizzati delle bande servirsi del linguaggio reazionario per guadagnare consensi. La collaborazione dei rurali non era acquisita solo in questo modo, ma attraverso una gamma di azioni che comprendevano la distribuzione di generi alimentari ai propri sostenitori e, a scopo deterrente, l'uso della violenza punitiva contro i presunti traditori e gli individui che avevano scelto di aiutare le autorità nella caccia ai briganti. Nel terzo capitolo lo sguardo si sposta sul ruolo dei prefetti e dei comandi dell'esercito nell'elaborazione della strategia repressiva che, unendo misure amministrative e poliziesche al rafforzamento della presenza militare nel Mezzogiorno, portò alla sconfitta del grande brigantaggio. Particolare attenzione è dedicata alle figure dei prefetti, al loro ruolo di mediatori verso il centro delle richieste – provenienti dai ceti dirigenti locali – di maggior energia nella lotta contro le bande, al non sempre sereno svolgimento dei rapporti tra l'autorità civile e l'autorità militare. Questo esame indica che le esigenze della guerra alle bande armate influirono molto sullo State-building nell'Italia meridionale, favorendo la sedimentazione di pratiche operative che avrebbero per lungo tempo caratterizzato il volto assunto dall'istituto prefettizio e la funzione delle forze armate. La stabilizzazione delle istituzioni unitarie e il miglior controllo da esse conseguito sul territorio, la stanchezza per i danni economici provocati dal prolungato stato d'insicurezza delle campagne, il timore della repressione e le varie forme di gratificazione create dal governo per chi avesse combattuto i briganti finirono per indurre le popolazioni rurali a collaborare con il nuovo Stato. Già attorno alla metà del 1862, prima della proclamazione dello stato d'assedio nel Mezzogiorno e del varo della legislazione eccezionale, le bande armate si trovarono in una condizione di crescente isolamento, rivelata anche dall'aumento della violenza deterrente e punitiva da loro diretta contro esponenti delle fasce più umili della popolazione. Come si evince dai dati quantitativi sulla repressione presentati nella parte finale del capitolo, la gran parte dei briganti della Capitanata venne eliminata prima dell'estate del 1862. Ciò contribuisce a spiegare la relativa mitezza e la breve durata dell'applicazione della legge Pica nella provincia di Foggia. Adottata il 15 agosto 1863, in Capitanata, a differenza di quanto accadde in altre province, la legislazione eccezionale non venne prorogata dopo la sua originaria scadenza del febbraio 1864. A quella data, il brigantaggio appariva ormai gravemente in declino sul Gargano, lungo il corso del Fortore e nelle piane del Tavoliere. Di lì a poco, le ultime grandi bande a cavallo avrebbero lasciato il posto a modesti manipoli di uomini dediti a piccoli atti di criminalità comune.
Il dibattito pubblico riguardante molte decisioni cruciali dell'agenda politica contemporanea, dal problema dell'allocazione delle risorse sanitarie, alle previsioni di mercato e alle valutazioni di impatto ambientale o di sicurezza, è permeato dall'appello sempre più sistematico al parere dei tecnici e degli "scienziati". Mentre un peso e un'autorità crescenti sono attribuiti alla scientific advisory, non mancano episodi e vere e proprie esplosioni di scetticismo e polemica, che investono sia questioni interne alla consulenza scientifica' cioè di affidabilità, accuratezza e in generale di correttezza metodologica, sia esterne, che mettono cioè in discussione il ruolo stesso della scientific advisory nelle questioni di scelta sociale. Per citare solo alcuni tra i casi pi√π noti e recenti, basti il riferimento al "processo degli scienziati" per le presunte previsioni inadeguate sul terremoto dell'Aquila, al "caso Stamina" o alla querelle sulla correlazione tra autismo e vaccino MMR , ma anche al dibattito più di vecchia data circa l'utilizzo di evidenze genetiche nei processi criminali. Il nodo problematico sollevato da questi episodi esemplari è da rintracciarsi, a mio avviso, nella legittima distinzione dei ruoli tra lo scienziato e il "policy maker" e, più in generale, sul peso da attribuire all'evidenza e al parere scientifico nell'ambito della scelta pubblica, che coinvolge inevitabilmente considerazioni morali e "di valore". Può il parere "esperto" esaurire tutti i requisiti necessari a determinare univocamente la scelta sociale? Oppure altri "valori" esterni devono necessariamente contribuire al processo decisionale? E se sì, in che modo? Da dove provengono tali valori? Come può l'intromissione dei valori nel piano della ricerca scientifica non minarne la legittimità e adeguatezza metodologica? Queste sono alcune delle domande che intendo analizzare nel presente lavoro di tesi. In particolare, mi concentrerò sull'ambito più ristretto della valutazione e gestione del rischio, in cui le "informazioni scientifiche", in termini di distribuzioni di probabilità, giocano un ruolo cruciale. Rispetto a questa specifica tematica, mi chiederò quindi se le contemporanee e diffusissime tecniche del risk assessment, risk management e cost-benefit analysis incorporino tutte le istanze legittimamente presenti in una decisione in condizioni di rischio e se siano adeguate a tale scopo; quali altre componenti "morali'', escluse dal modello standard, siano eventualmente da soppesare e in che modo. Come primo approccio alla questione, illustrerò un esempio storico particolarmente illuminante, la querelle sul vaccino contro il vaiolo tra Daniel Bernoulli e Jean-Baptiste Le Ronde D'Alembert, che ebbe luogo nella seconda met√† del XVIII secolo. Questo caso rappresenta a mio parere uno dei primi tentativi di analisi del rischio, attraverso il calcolo della probabilità, applicato a una decisione di forte portata '"morale" e rilevanza pubblica. Esponendo nei suoi dettagli tecnici il modello matematico costruito da Bernoulli per dimostrare l'opportunità sociale dell'inoculazione stato inscindibilmente legato agli esiti dell'applicazione di questa disciplina a questioni di scelta pubblica. Questo punto si rivelerà di importanza cruciale più avanti, nella discussione sull'intrinseca presenza di valori in ogni parere scientifico che si limiti anche solo a fornire una distribuzione di probabilità. Le posizioni antitetiche di Bernoulli e D'Alembert, inoltre, costituiscono una prima esplicita polarizzazione, riscontrabile anche nel dibattito attuale, sull'adeguatezza del "calcolo matematico" nel fornire una guida legittima alle decisioni pratiche. Se Bernoulli conclude infatti la sua analisi formulando la famosa massima, che impone di tenere in considerazione e farsi guidare da tutte le informazioni "scientifiche" disponibili, anche quando siano lacunose, imprecise e manchevoli, D'Alembert non abbandona invece una visione critica e scettica sulla possibilità dell'analisi tecnica di catturare l'esperienza morale e profondamente individuale del "correre un rischio". Sebbene queste posizioni siano state riformulate in seguito al "raffinamento'' teorico del "calcolo matematico'', le istanze promosse dai due philosophes contengono già in nuce molti elementi del dibattito novecentesco e contemporaneo. Nel capitolo successivo, analizzerò, a partire da una breve parentesi storica, l'apparente "trionfo" della massima di Bernoulli, mostrando come in molti ambiti, a partire quello dell'allocazione delle risorse sanitarie, procedure meramente tecniche come il risk managing vengano spesso impiegate in modo esclusivo e conclusivo. La gestione del rischio, in questo senso, sembrerebbe poter essere legittimamente esaurita dal puro calcolo di quale alternativa abbia una maggiore utilità attesa, o dalla cost-benefit analysis, senza chiamare in causa ulteriori "valutazioni morali". Discipline come il risk management, infatti, mirano a fornire una risposta puramente procedurale a tutti i problemi di gestione e allocazione del rischio. Nella conclusione del Capitolo 2, illustrerò due esempi contemporanei e controversi di applicazione delle tecniche di risk assessment, riguardanti rispettivamente il problema dell'allocazione delle risorse sanitarie e la selezione di siti idonei per lo stoccaggio di scorie radioattive. Parallelamente all'esposizione di questi casi, comincerò ad illustrare alcuni dei principali problemi legati tanto alla cost-benefit analysis in quanto tale, come la questione teorica dell'incommensurabilità degli esiti, quanto all'applicazione della cost-benefit analysis a questioni di scelta pubblica. In particolare, rispetto a quest'ultimo tema, rifletterò sulle implicazioni dell'utilizzo delle procedure di risk managing per il mito della scienza come priva di valori (il "value free ideal''). Le posizioni che presento come dominanti nel Capitolo 2, tuttavia, non sono state immuni da critiche, che hanno evidenziato come considerazioni valoriali vengano implicitamente riproposte nel calcolo dell'utilità attesa, mettendo in luce quindi l'inadeguatezza delle pretese di "oggettività" di queste tecniche di gestione del rischio. In particolare, svilupperò questo problema teorico nel terzo capitolo illustrando il cosiddetto "Paradosso di Rudner", secondo cui lo scienziato in quanto tale non può esimersi dal formulare giudizi morali nel fornire un parere o una consulenza scientifica. In questo senso, obietta Rudner, il "peso" della componente valoriale verrebbe semplicemente inglobato nella consulenza scientifica, tutt'altro dunque che neutrale, con uno "sconfinamento" o invasione di campo, altamente problematico. In questa sede, proporrò anche una discussione più esaustiva sul problema del rischio induttivo e le sue implicazioni per il value free ideal, a partire dalle trattazioni classiche di Churchman, Frank e Rudner stesso fino alla sintesi di Douglas e alla proposta di Betz, passando per autori come McMullin e Laudan. In particolare, chiuderò questa riflessione con il problema provvisorio di discriminare tra componenti valoriali che possono legittimamente interessare il lavoro scientifico e i valori che invece devono essere necessariamente esclusi da un modello adeguato di indagine scientifica, divisione spesso riproposta come la dicotomia tra valori epistemici e non epistemici. L'argomento del rischio induttivo, d'altra parte, costituisce a mio avviso la sfida più ardua per i sostenitori del value-free ideal, e diverse versioni e i rispettivi possibili contro argomenti, rispetto al tema specifico della scientific advisory, verranno vagliati nel corso di questo lavoro. Nel capitolo seguente, in risposta a questa legittima preoccupazione e alle problematiche sollevate da Churchman e Rudner, prenderò in considerazione un tentativo di soluzione formulato da Jeffrey, che propone un modello per una coerente "divisione del lavoro" tra scienziato e "policy maker". Tale proposta, come nota efficacemente Douglas, mira a riproporre il value free ideal, cioè il mito di una scienza isolata dal resto della comunità e indipendente da considerazioni etiche, cercando però di fare i conti con l'argomento del rischio induttivo. Questa via d'uscita, a mio parere, non risulta certamente conclusiva per quanto riguarda la riaffermazione del value-free ideal, sebbene sia stata riproposta anche recentemente da Betz come risposta adeguata al problema di Rudner. Nonostante questo fallimento, l'argomento di Jeffrey costituisce a mio avviso un buon punto di partenza da cui analizzare il rapporto tra scientific advisory e scelta pubblica, proponendone per la prima volta un modello teorico positivo. In questo senso, la proposta di Jeffrey si fa carico e riconosce la cosiddetta massima di Bernoulli, per cui le informazioni scientifiche non possono essere ignorate nel processo di deliberazione. Tale principio esprime infatti, a mio parere, un intuitivo appello al "buonsenso" e non può essere travolto dallo scetticismo sull'inadeguatezza e sull'intrinseca "connivenza" tra giudizi di valore e parere tecnico, come una completa resa alle considerazioni di Rudner sembrerebbe paventare. D'altro canto, la consapevolezza che le considerazioni valoriali non possono essere eliminate dalle decisioni di carattere pubblico impone inevitabilmente una maggiore attenzione nel valutare, comunicare e soppesare la consulenza scientifica. Il modello di Jeffrey, pur ingenuo e problematico, rappresenta sicuramente un primo tentativo di soddisfare entrambe le motivazioni e componenti che concorrono a formulare il problema della scientific advisory. Solo una volta scardinato completamente il mito di una comunità scientifica isolata dal suo ruolo sociale, infatti, il tema del rapporto con la cittadinanza e gli organi decisionali può essere analizzato con l'attenzione e la precisione che la sua rilevanza pubblica ed etica impone. Nell'ultima parte di questo lavoro illustrerò l'evoluzione e le implementazioni della posizione espressa da Jeffrey attraverso l'esempio del Principio di Precauzione, che costituisce a mio avviso un tentativo di bilanciare le procedure standard di gestione del rischio con considerazioni esterne, mediante un opportuno criterio di decisione alternativo alla massimizzazione dell'utilità attesa. In particolare, cercherò di caratterizzare, nell'esposizione di questo Principio, come un'analisi "tecnica" del rischio possa consentire anche a considerazioni di tipo morale di svolgere un ruolo effettivo nel processo decisionale. In questo senso, nonostante i molti problemi teorici e una formulazione ancora inadeguata, tale Principio rimane un candidato promettente come modello di gestione del rischio collettivo. In particolare, dopo aver illustrato la fortuna e il dibattito intorno al Principio di Precauzione, ne propongo una sua caratterizzazione nei termini del criterio di decisione del Maximin, seguendo le riflessioni di Hansson, Gardiner e Ackermann. Esploro in seguito anche una formulazione procedurale o epistemica del Principio di Precauzione, mostrando come una sua interpretazione nella forma di meta-principio possa tenere conto dell'argomento del rischio induttivo elaborato da Rudner, prendendolo come punto di partenza per un modello propositivo e positivo di scienza coinvolta con il piano dei valori. In quest'ultimo capitolo, più che formulare una proposta conclusiva ed esaustiva, suggerisco alcuni spunti ed esempi di applicazione del Principio di Precauzione, come il caso della tossicologia illustrato da Steel, per mostrare come un lavoro di ricerca a partire da questo criterio possa effettivamente fornire una guida pratica per il rapporto tra pannelli scientifici e organi decisionali. La "via di Bernoulli'', una volta imboccata, resta a mio parere impossibile da abbandonare, senza palesi e inaccettabili violazioni di un principio basilare di razionalità a cui non siamo disposti a rinunciare da un punto di vista normativo. D'altra parte, il primato indiscusso e di default attribuito al parere scientifico nelle decisioni di scelta pubblica deve essere adeguatamente bilanciato da un'opportuna riabilitazione della componente valoriale, ormai resa evidente dal crollo del value-free ideal. Il fallimento del mito di una scienza priva di valori, ormai evidente nella gestione di problemi complessi, di cui il cambiamento climatico e solo l'esempio più lampante, non può però risolversi con una conclusione pessimistica sul ruolo e sui compiti dell'indagine scientifica. Al contrario, se giudizi morali e soggettivi non possono, per ragioni intrinseche alla pratica della scientific advisory, essere eliminati dal processo decisionale, una sistematica e trasparente esposizione dei valori che si vogliono tenere in considerazione diventa tanto cruciale quanto le questioni di correttezza metodologica interne alla comunità scientifica. Solo riconoscendo che entrambe le componenti sono essenziali e inscindibili nella prassi della scientific advisory può portare a formulare criteri di decisione e divisione del lavoro coerenti e legittimamente difendibili.
Vogliamo mostrare i rapporti che sussitono tra Weil e autori a lui passati che ha voluto ricomprendere, autori antichi e moderni. Ripercorreremo il pensiero di Aristotele, quello di Kant e quello di Hegel, principalmente, ponendo a confronto la Critica della capacità di Giudizo e la Fenomenologia dello Spirito. Ermeneutica, morale e poitica risultano essere punti fondamentali da cui occorre ripartire, per prospettare una nuova indagine sul senso che il nostro mondo può assumere per noi e sul senso e il compito della stessa filosofia.
la tesi si propone di ricostruire le scelte, i calcoli politici che hanno portato al referendum abrogativo del 1974. L'analisi si propone inoltre di ricostruire il ruolo della donna nella società e gli stereotipi di mascolinità, femminilità
Da circa settanta anni il Jammu e Kashmir è motivo di scontri fra India e Pakistan, i due paesi si contendono il controllo dello stato per ragioni di tipo religioso e politico. La stipula dell'atto di annessione del Jammu e Kashmir all'Unione Indiana è stato l'evento scatenante della prima guerra indopakistana che si è risolta grazie all'intervento delle Nazioni Unite. L'ONU ha raccomandato ai due paesi di indire un referendum per stabilire la volontà popolare kashmira riguardo al tema dell'annessione, tuttavia il plebiscito non è mai stato organizzato, le richieste di autodeterminazione kashmira non sono state ascoltate e l'annessione dello stato all'India non è stata revocata. Dal 1947 dunque il Jammu e Kashmir si trova sotto amministrazione indiana per volere del maharajah Hari Singh che firmò l'Instrument of Accession e parte della sua autonomia politica e legislativa è stata rimessa al governo indiano, che nel corso degli anni ha esteso progressivamente il proprio controllo sul paese. Questo ha inasprito i rapporti fra India e Pakistan, causando lo scoppio di altri tre conflitti, ed ha alimentato il malcontento della comunità musulmana in Jammu e Kashmir che è sfociato nel 1989 in un'insurrezione armata. Attualmente l'autonomia kashmira è stata ulteriormente limitata, continuano le proteste e le rivolte popolari contro il dominio indiano in favore del referendum e del diritto di autodeterminazione kashmiro e continuano gli scontri fra India e Pakistan.
La tesi tratta il tema della felicità e della virtù, analizzando i punti di vista di tre grandi filosofi dell'antichità: Socrate, Platone e Aristotele. Nel mio lavoro, inoltre, ho sottolineato differenze e affinità fra le teorie concepite da questi tre grandi pensatori. Il capitolo dedicato a Socrate si apre spiegando l'importanza che l'indagine filosofica riveste nella vita di ogni singolo individuo e continua spiegando che la cura della propria anima è fondamentale, perché essa è il nostro vero "io". Per Socrate, per raggiungere la felicità, è di vitale importanza conoscere cosa sia la virtù al fine di poter agire in maniera moralmente giusta e ineccepibile. Anche per Platone conoscere la propria anima è fondamentale. Infatti, il capitolo su Platone, inizia proprio analizzando le riflessioni del filosofo sull'anima umana e descrivendo il sistema tripartito da egli elaborato. L'analisi della visione platonica prosegue incentrandosi sul concetto di virtù come dominio della parte razionale dell'anima sulle altre due (irascibile e concupiscibile) e armonia tra di esse. Per il filosofo, al fine di agire in modo moralmente giusto e raggiungere la felicità, è fondamentale sapere cosa sia il "bene". L'ultima parte del capitolo dedicato a Platone, infatti, tratta proprio della concezione di felicità (sia a livello pratico che teoretico) teorizzata dal filosofo. L'ultimo capitolo del mio lavoro è incentrato sulle riflessioni di Aristotele: la visione che il filosofo possedeva riguardo alla natura umana, all' anima e alle sue virtù (etiche e dianoetiche). L'esposizione della visione aristotelica prosegue analizzando le teorie del filosofo inerenti al "bene" e alla felicità pratica (che si realizza in ambito politico) e teoretica (o contemplativa).
Il presente lavoro ricostruisce le origini del Sessantotto italiano in relazione a due elementi concettuali portanti della storia italiana del secondo Novecento, quelli di rivoluzione e modernizzazione. Da una parte si è mostrato come la scelta della legalità parlamentare operata dal Partito comunista nel secondo dopoguerra non abbia affatto cancellato l'attesa di una rivoluzione: traendo forza dalla permanenza di una tradizione ideologica ma anche da eventi storici del conflitto sociale, una minoranza composta sia da militanti che da un gruppo del marxismo eterodosso ha infatti coltivato il sogno di una società radicalmente diversa - anche se mai realmente descritta - da quella uscita dal compromesso costituzionale. Dall'altra si è tentato di analizzare come un altro e più largo sistema di attese di carattere civile abbia svolto un ruolo altrettanto decisivo quale origine di questo evento. Se le scelte di politica economica durante la Ricostruzione hanno indubbiamente svolto un ruolo positivo nello sviluppo del paese, il processo di modernizzazione ha incontrato serie difficoltà nonché vere e proprie resistenze nell'ambito del rinnovamento culturale: tanto nei luoghi primari di esercizio del potere quanto nelle istituzioni civili, negli spazi privati o negli ambiti del mondo del lavoro, il ritardo della trasformazione ha mostrato quanto lontana fosse la comprensione del senso più profondo del compromesso costituzionale stesso, quello dell'inclusione di tutti nel processo di modernizzazione. Questi due sistemi di attese hanno così dato origine al Sessantotto italiano che, esploso nelle università e fatto da giovani, ha rappresentato una risposta generazionale a tutta una serie di contraddizioni non risolte. In particolare, l'attenzione è stata rivolta a quei documenti assembleari prodotti tra 1966 e 1968 che mostrano proprio come l'impossibilità di una mediazione riformista tra l'allora nascente movimento studentesco e il corpo accademico abbia trasformato una domanda di riforma universitaria in un discorso rivoluzionario allargatosi poi a tutta la società. L'incontro tra queste due sensibilità ha dato così vita a quella che nel testo ho definito una sola moltitudine, un soggetto diversamente rivoluzionario che, pur non perdendo l'eterogenesi dei fini, ha inteso la rivoluzione sia come trasformazione radicale della società, sia come applicazione dei diritti costituzionali e dunque inclusione nel processo di modernizzazione. Da questo punto di vista, particolarmente significativo è stato seguire questa ipotesi ricostruendo la storia di una delle organizzazioni politiche che, nate proprio sulla scia della contestazione sessantottina, ha cercato più delle altre di raccogliere e di tenere insieme in un unico discorso questa domanda di cambiamento comunque rivoluzionaria: Lotta continua. La ricostruzione qui proposta segue dunque l'intento di storicizzare l'attività di questa organizzazione secondo un nesso analitico di profondità: rispetto alla più rigida tradizione operaista, Lotta continua ha fatto della ricettività il suo punto di forza interpretando ogni luogo di conflitto sociale, ogni pezzo dell'Italia non modernizzata, come elemento potenzialmente rivoluzionario. Ma se la realtà della modernizzazione mancata ha rappresentato la condizione di possibilità per un progetto che ha tentato di tenere insieme quella sola moltitudine, essa ha rappresentato anche il suo limite profondo dando luogo a un equivoco rivoluzionario che tra 1969 e 1976 ha tenuto insieme e poi sciolto questa stessa organizzazione.
Questo lavoro è una dimostrazione di come Montesquieu e Rousseau rappresentano due esponenti del movimento illuminista francese e di come hanno entrambi ricercato i fondamenti della politica. Mentre Montesquieu può essere a ragione considerato uno dei precursori della sociologia moderna perché è riuscito a dare a questa scienza un oggetto preciso di studio e a individuare i principi e le leggi proprie della società ricorrendo a materiale empirico come relazioni di viaggio e osservazioni dirette, Rousseau ha ricercato nella società lo scopo e il fine della costituzione riflettendo sulle condizioni che rendono fisiologico il rapporto tra governo e società e finendo per ritenere tale solamente la costituzione che garantisce la completa subordinazione della felicità e dell'interesse individuale all'interesse generale. Nella tesi non mancano riflessioni sui punti comuni e le influenze tra i due autori sui temi chiave del loro pensiero politico. In particolare riguardo: lo stato di natura, la divisione dei governi, la divisione dei poteri, i costumi, il lusso, l'arte, la religione, l'educazione e la libertà. This work is a demostraction about how Montesquieu and Rousseau represent two members of the french Enlightment movement and about of they have both searched the foundations of polithics. While Montesquieu can be with good reason considered a forerunner of the modern sociology because he has succedeed in giving this science a clear object to study and in finding the principles and the laws of the society using empirical sources how reviews about journeys and direct observations, Rousseau has searched in the society the purpose and the aim of the constitution thinking on the conditions which make physiological the relationship between gouvernament and society and concluding that only the constitution which protect the complete subordination of the happiness and of the individual interest to the general interest can be good for the state. In this thesis do not luck riflections on common points and influences between the two authors on crucial themes of their political thought. In particular regarding: the natural state, the division of the gouvernaments, the division of the power, the mores, the luxury, the art, the religion, the education and the liberty.
Il lavoro di ricerca parte da alcune domande e intuizioni specifiche e si propone di integrare la metodologia storico-comparativa con un approccio sociologico e politologico. La questione originaria è nata da una riflessione sul rapporto tra Lega e Movimento cinque stelle, formalizzato nel 2018 con la formulazione, atipica, di un "contratto di governo". Siamo partiti dunque da un tentativo di problematizzazione rispetto alle ambiguità che hanno condotto all'incontro tra due forze antisistemiche, potenzialmente antipolitiche ma nel concreto fortemente politiche e strutturalmente complesse da definire, specie in ottica relazionale. Abbiamo dunque cercato di arrivare a sciogliere alcuni dubbi e a introdurre altri nodi centrali per l'oggi attraverso un'indagine di largo respiro. Nel testo ci si interroga sulla democrazia, sui meccanismi della rappresentanza, sulle sue potenziali ed effettive linee di contraddizione specie riguardo al tema della sovranità e su come queste si sono articolate attraverso un arco storico esteso. Per compiere quest'analisi abbiamo cercato di superare formulazioni improntate su impostazioni di necessità, anomalia, deficit, arretratezza, rifiutandone un'accezione metastorica, connaturata e data per "tale in quanto tale", come tipica della realtà italiana. Seguendo alcuni canali, una sorta di fil rouge, si è dunque provato a ricercare le radici di queste sensazioni e i modi attraverso cui tende ad esprimersi nazionalmente l'ambiguità democratica, volgendo lo sguardo nell'intersezione tra storia democratica, spazi di crisi e incertezza, torsioni della rappresentanza e radicamento della delegittimazione politica in Italia, difficoltà dell'istituzionalizzazione di processi di alternanza di governo, ricorrere e perpetuarsi di un forte discorso antipolitico sia nella sfera sociale che in quella istituzionale.
La presente tesi cerca di dare una definizione del concetto di democrazia, considerato sia come paradigma morale, che come particolare forma di governo. Attraverso un'ampia panoramica storico-filosofica dell'Atene del V secolo a.c., viene analizzata l'esperienza democratica sotto la guida di Pericle, servendosi anche della testimonianza di autori di quel periodo come Erodoto, Tucidide e Senofonte. Attraverso le opinioni di pensatori contemporanei, come Luciano Canfora e, soprattutto, Norberto Bobbio, vengono invece analizzate le democrazie moderne e messe in evidenza le differenze sostanziali, sul piano assiologico e politico, rispetto al governo di Pericle. Dal confronto tra democrazia moderna e antica, scaturiscono discrepanze tali che sembra ormai necessario mettere in discussione la stessa continuità storica del concetto di democrazia. La crisi della rappresentanza politica moderna, come dei rapporti internazionali tra gli stati democratici, viene ricondotto, da Canfora e Bobbio, proprio a una confusione di fondo. Si conclude, quindi, con una summa del pensiero politico di Bobbio, il quale ha proposto una ridefinizione del termine democrazia, tenendo appunto conto della sua polisemia. This work try to define the concept of democracy, both as a moral paradigm and as a specific government system. Through a wide historic and philosophical overview of Athens in the V century B.C., it is defined the democratic experience under Pericle's steering, also through that period authors' works like Herodotus, Thucydides and Xenophon. Through the opinions of contemporary authors, as Luciano Canfora and Norberto Bobbio above all, it is examined modern democracy instead, and spotlighted the significant differences compared to Pericle's one, whether axiological or political. Comparing the modern democracy with that ancient one, it is showed that they are so much different that is probably necessary to talk over the same historic continuity of democracy's concept by now. The modern political crisis, both about delegation and international relations between states, is provoked by that semantic confusion. Finally, through a summa of Norberto Bobbio's political mindset, is offered his new definition of democracy, in regard of its composed meaning.