Dottorato di ricerca in Diritto dei contratti pubblici e privati ; La persistente inefficienza nell'utilizzo delle risorse umane nel settore del lavoro pubblico impone l'attenzione sul come la pubblica amministrazione stia tentando di rispondere alle nuove complesse problematiche poste a livello nazionale, internazionale e globale. In un mercato del lavoro in rapido sviluppo il settore del lavoro pubblico mostra una scarsa dinamicità ed una certa resistenza ad accettare soluzioni innovative. Si parla da molto tempo della necessità di innovare il rapporto di lavoro nel settore pubblico "privatizzato" e la pubblica amministrazione in generale, ma solo da ultimo il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ha conosciuto uno stimolo all'uso dei fattori premiali e flessibili grazie all'introduzione della valutazione della performance. Innovare attraverso lo strumento della flessibilità contrattuale nel settore del lavoro pubblico significa raggiungere l'obiettivo dell'efficienza. Per questo bisogna indagare se il problema della mancata efficienza sia di carattere giuridico "contrattuale" o le ragioni vadano indagate anche rispetto ad una complessità progettuale che tenga conto della cultura e dei processi sociali. L'indagine, in questa sede, è finalizzata allo studio dell'adattabilità delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile, utilizzabili per l'organizzazione e la gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. L'uso di tali tipologie è divenuto, combinato con la necessità di produttività ed efficienza, fondamentale per la politica di sviluppo delle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto indispensabile per l'attuazione delle politiche di contenimento della spesa, (così dette di spending review), per il personale che, in modo particolare a partire dalla fine degli anni novanta, ha raggiunto un livello rilevante. Ciò ha generato una serie di provvedimenti limitativi tendenti a bloccare le nuove assunzioni nel tentativo di raggiungere nello stesso momento un contenimento dei costi ed una riduzione del personale ritenuto, non sempre a ragione, eccedente il fabbisogno, il tutto, ovviamente nel tentativo di incrementare l'efficienza dei servizi erogati. Per tipologie contrattuali flessibili di lavoro si intendono tutte quelle che differiscono dal contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, disciplinato dall'art. 2094 cod. civ. e definito contratto di lavoro standard. Partendo dalle linee guida tracciate dalla legge n. 15 del 4 marzo 2009, di riforma del pubblico impiego, sono state analizzate le misure che disciplinano le modalità attraverso le quali le pubbliche amministrazioni possono avvalersi delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile. Per meglio inquadrare l'attuale riforma del lavoro nel settore pubblico privatizzato (in questo studio indicata come Terza Riforma) è necessaria la ricostruzione storica della disciplina normativa del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, prendendo le mosse in un'ottica efficientistica e passando attraverso l'evoluzione dei modelli contrattuali che l'hanno caratterizzata, partendo dal modello unilaterale e autoritativo fino ad arrivare al modello contrattuale pattizio e paritario. Attraverso questa ricostruzione è possibile individuare i principi fondamentali, quali l'efficienza dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, l'intangibilità dell'organizzazione e del potere datoriale e la relativa responsabilità dirigenziale, la specialità dell'accesso agli uffici pubblici (anche in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza contenuto nell'art. 3 e dell'imposizione della stessa Costituzione all'art. 97, co. 3, del concorso pubblico, salvo i casi di deroga stabiliti dalla legge, quale forma di reclutamento a garanzia dell'imparzialità della pubblica amministrazione), che sono il presupposto essenziale posto alla base del possibile utilizzo per le pubbliche amministrazioni sia dei contratti di lavoro standard sia dei contratti di lavoro flessibile. L'uso dei contratti di lavoro flessibile rappresenta uno strumento idoneo, quando inserito tra i vari strumenti ed obiettivi primari delle pubbliche amministrazioni, a garantire la migliore organizzazione degli uffici se finalizzato a perseguire il buon andamento della pubblica amministrazione, così come previsto dall'art. 97 della Costituzione. Grazie ad un opportuno utilizzo delle risorse umane diviene possibile raggiungere anche l'ulteriore obiettivo, primario per le pubbliche amministrazioni, del controllo delle risorse finanziarie. Una conoscenza approfondita della gestione delle risorse umane (dipendenti con contratto di lavoro standard e non) ed una attenta analisi del contesto di riferimento possono favorire una efficiente razionalizzazione delle risorse, non solo in merito all'organizzazione degli uffici e del lavoro, ma anche sul piano politico, economico e sociale, piani con cui fino ad oggi si è dovuto scontrare il datore di lavoro pubblico nell'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile inserite nella gestione del personale e delle risorse delle pubbliche amministrazioni. Non a caso l'art. 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001, Testo Unico del Pubblico Impiego, ed in particolare il comma 3, così come da ultimo modificato dall'art. 17, comma 26, del decreto legge n. 78 del 2009, ha evidenziato che un sistema che preveda l'uso delle predette tipologie contrattuali come strumento di gestione per le pubbliche amministrazioni deve essere finalizzato a combattere gli abusi derivanti dal suo uso distorto. L'abuso e l'uso distorto delle tipologie contrattuali flessibili ha dato vita ad un intenso precariato, sanato ciclicamente dalle norme dette di "stabilizzazione" (norme che sono state oggetto di valutazione di legittimità costituzionale). Attraverso una attenta analisi dell'attuale contenuto dell'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 è possibile individuare, tenendo a mente la disciplina che regola il rapporto di lavoro nel settore privato, da una parte gli aspetti critici dell'impianto regolativo che consentono di verificare la distanza tracciata tra le discipline che permettono l'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile da applicarsi al datore di lavoro privato con quelle riservate al datore di lavoro pubblico, e dall'altra individuare quanto sia ancora presente nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni del modello unilaterale ed autoritativo che caratterizzava il rapporto di pubblico impiego prima della privatizzazione del rapporto di lavoro. Partendo dalla prima versione contenuta nel decreto legislativo n. 29 del 1993, dei primi due commi del citato art. 36, è possibile individuare il campo di applicazione dei rapporti giuridici derivanti dalla stipulazione dei contratti di lavoro flessibile ivi elencati. Sono così messe in risalto le diversità esistenti tra la disciplina prevista per i rapporti di lavoro alle dipendenze del privato datore di lavoro e la disciplina prevista per il pubblico impiego privatizzato. Grazie alla comparazione tra il contenuto delle norme che disciplinano ciascuna tipologia contrattuale flessibile inclusa nel contenuto dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001 ed il suo valore precettivo è stato possibile verificare la specialità che caratterizza il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l'uso delle tipologie contrattuali flessibili. Il rinvio inserito nel secondo comma dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 al contenuto dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che hanno il compito di disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, del lavoro accessorio e dei lavoratori socialmente utili, mette in luce la possibilità per l'autonomia collettiva di regolare ed integrare i singoli schemi contrattuali, realizzando, se così fosse, lo schema del modello contrattuale pattizio, ed evidenziando, in realtà, il limite costituito dall'essere circoscritta alla sola individuazione dei contingenti di personale da utilizzare. Una piccola parte dell'indagine è dedicata al lavoro a tempo parziale ed agli incarichi dirigenziali del personale inquadrato con contratto standard che, seppur inseriti nel contesto del rapporto a tempo indeterminato, sono anch'essi espressione di flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni considerati nell'ottica efficientistica dell'organizzazione amministrativa. Gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa e gli incarichi dirigenziali a tempo determinato conferiti a dipendenti sia interni sia esterni all'amministrazione che pubblica il bando presentano degli aspetti critici che hanno avuto spazio per un breve sviluppo. L'analisi del comma 5, dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, ha permesso di sviluppare il tema della violazione delle disposizioni imperative; ipotesi che nel passato ha trovato scarsa applicazione ma oggi, grazie alla recente versione introdotta dalla legge n. 102 del 2009, ribadisce, con più forza, la misura disciplinare che prevede il recupero nei confronti dei responsabili dirigenti inosservanti delle somme erogate dall'Amministrazione per l'impiego di lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile illegittimi. Interessante, considerata l'abrogazione della conciliazione obbligatoria in materia lavoro, anche per gli esigui risultati ottenuti, risulta la possibile applicazione al settore pubblico privatizzato delle forme irrituali di deflazione del contenzioso quali l'arbitrato e la conciliazione alla luce delle recenti innovazioni introdotte con la legge n. 183 del 2010, cd. Collegato Lavoro e dalla disciplina emanata, da ultimo, in materia di mediazione con il D.Lgs. n. 28 del 2010 e il D.M. n. 180 del 2010, così come modificato ed integrato dal D.M. n. 145 del 2011. Ulteriori considerazioni giungono dalla previsione obbligatoria, per tutte le amministrazioni, di redigere ogni anno un rapporto informativo da trasmettere ai nuclei di valutazione nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate relativamente alla quantità numerica ed alla spesa relativa per tipologia. Tale rapporto informativo è uno strumento avente duplice finalità: la prima è quella di permettere di individuare il dirigente responsabile dell'irregolare utilizzo delle tipologie contrattuali non standard, attraverso la verifica degli atti gestionali posti in essere; la seconda si avvale della possibilità, offerta da una rapida conoscenza del fenomeno, di adottare misure mirate a migliorare sia l'aspetto normativo, sia quello organizzativo che di controllo della gestione delle risorse umane e finanziarie. Aspetti che rilevano la necessità di insediare in maniera efficace la cultura della buona amministrazione della cosa pubblica. Questa linea di condotta rappresenta la migliore politica per realizzare i principi di trasparenza ed imparzialità propri delle pubbliche amministrazioni. Principi idonei ad evitare che l'uso dei contratti di lavoro non standard degenerino in forme di precariato o realizzino una alternativa modalità di accesso ai ruoli professionali delle pubbliche amministrazioni, elusiva, grazie al collaudato ricorso a norme che introducono le procedure di stabilizzazione, dei previsti concorsi pubblici di accesso all'impiego pubblico per contratti di lavoro a tempo indeterminato. Alla luce dei recentissimi interventi normativi e giurisprudenziali, merita una trattazione il "caso" rappresentato dai rapporti di lavoro flessibili utilizzati dal Ministero della Pubblica istruzione, sia per il personale docente sia per il personale amministrativo definito ATA. Prendendo spunto dai testi normativi (legge n. 124 del 1999 e D.P.R. n. 430 del 2000), la ricerca ha evidenziato alcuni aspetti critici rispetto all'applicabilità della direttiva comunitaria in tema di contratti a termine. Nelle conclusioni vengono messi in luce i caratteri del modello contrattuale neo-autoritatio, attualmente utilizzato, nella Terza Riforma, dalle pubbliche amministrazioni. Ulteriori considerazioni finali sono orientate ad indagare gli effetti che la imminente riforma del mercato del lavoro, attualmente in discussione in Parlamento, avrà anche nel settore pubblico "privatizzato" ed in particolar modo quali novità introdurrà rispetto all'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile; e quali di queste saranno sviluppate nel tentativo di fornire una soluzione circa l'opportunità che la pubblica amministrazione utilizzi - ancora una volta - uno schema negoziale previsto nel settore privato ma "riadattato" alle esigenze di specialità, insite nel rapporto di lavoro del settore pubblico, comunque insuperabili. ; The persistent inefficiency in human resources management in the public sector draws our attention on how the public administration is currently trying to face the new, complex issues raised on a national, international and global level. In a fast-developing labour market, the public sector is showing a scarce dynamism and a certain resistance to accepting innovative solutions. The discussion about the need to innovate the "privatised" working relationship and the public administration in general has been going on for quite some time; still, only recently performance evaluation has been introduced for "privatised" jobs within public administrations. Contractual flexibility in the public sector is an innovation that typically equals to more efficiency. That is why it seems necessary to us to investigate the reasons behind the lack of efficiency: is it only due to contractual issues or are there more complex causes, linked to cultural and social processes? Our study aims to investigate the adaptability of flexible employment contracts – that could be used to handle the organisation and management of personnel in public administrations – within the neo-authoritative contract model's framework. The use of these types of contracts, together with the need for improved productivity and efficiency, has become fundamental to the development policy of public administrations. It is also essential for the implementation of cost containment policies - the so-called spending review – for the personnel who, starting from the late 1990s, reached high levels in the organization. Control measures have been previously taken: aiming at improving the efficiency of the services provided, by containing costs and reducing personnel – wrongly deemed redundant –, new employments were blocked. By flexible employment contracts we mean all those types of contracts which are different from a full-time, permanent contract of employment, disciplined by the Article 2094 of the Italian civil code and defined as standard employment contract. Starting from the guidelines outlined in law n.15 of 4th March 2009 – which reformed public employment – we analyse the measures which discipline the way public administrations can avail themselves of flexible work contracts. To better understand the third reform of labour in the privatised public sector, it is necessary to examine the historical reconstruction of the normative discipline that regulates the working relationship within the public administrations: starting from the assumption of performance improvement, through the evolution of contract types which characterised it, from the unilateral and authoritative model to the pactional and equal one. Thanks to this reconstruction it is possible to identify the fundamental principles which are the basis of a possible use, by public administrations, of both standard employment contracts and flexible ones. This principles are "the efficiency of public administrations' organizations", "the intangibility of the organization, of the employer's power and its relative managerial responsibility", "the access to public offices" (relating to the application of the constitutional principle of equality, included in art.3, and to the imposition with the art.97 co.3 of the Constitution of public competitive examinations as the hiring method, except for dispensations stated by the law, in order to guarantee the public administration's impartiality). When included among the several instruments and primary objectives of public administrations, the use of flexible employment contracts represents a suitable tool to guarantee an improved organization of the offices, especially if it is aimed at pursuing the overall public administration's good performance (according to art.97 of the Constitution). Thanks to an appropriate management of human resources, it also becomes possible to reach a further target of primary importance for public administrations: the control of financial resources. An in-depth knowledge of human resources management (be them either employed through a standard contract or a flexible one), combined with a detailed analysis of the relevant context could support an efficient rationalisation of resources, not only on an organizational level but also on a political, economical and social one. The latter ones being so far the most complicated to deal with when managers tried to use flexible types of contracts within public administrations. It is not a coincidence that art. 36 of legislative decree n.165 of 2001 (Testo Unico per il Pubblico Impiego) and especially paragraph 3, eventually modified by art. 17 paragraph 6 of legislative decree n.78 of 2009, highlights that a system which foresees the use of the above-mentioned types of contracts as a management instrument for public administrations must be aiming at fighting the abuse deriving from its own distorted use. The abuse and distorted use of flexible employment contracts generated a large number of temporary employees, who are being cyclically helped by the so-called "stabilization norms" (norms which themselves have been under scrutiny for their legal validity). Through a detailed analysis of article 36 of legislative decree n.165 of 2001, and bearing in mind the norms that regulate the working relationship within the private sector, it is possible to pinpoint all the critical aspects of the legislative apparatus, thus verifying the separation between disciplines which allow the application of flexible employment contracts by private employers and public ones. This analysis also shows that the "unilateral and authoritative model", which regulated the working relationship within public administration before its privatisation, is still very much applied in that context. Starting from the first revision of the first two paragraphs of the already mentioned article 36, included in legislative decree n.29 of 1993, we can determine the field of application of legal relationships deriving from the stipulation of flexible employment contracts here listed. All the discrepancies between the discipline that regulates the working relationship with a private employer and the one with a privatised public administration are easily highlighted. By comparing the contents of the norms which regulate every single type of flexible contract, included in article 36 of legislative decree n. 165/2001, and its perceptive value, it is possible to verify the specification that characterizes the working relationship within public administrations and how flexible contracts are there applied. The cross-reference - included in the second paragraph of article 36 of legislative decree n. 165/2001 - to the content of the National collective labour agreements, which regulate temporary contracts, "paid apprenticeships" (contratti di formazione e lavoro), other vocational training and supply contracts (altri rapporti formativi e somministrazione del lavoro), ancillary casual labour (lavoro accessorio) and socially useful workers (lavoratori socialmente utili), highlights the possibility for the "collective autonomy" to regulate and integrate single contractual schemes thus realizing the scheme of the pactional contract model and at the same time emphasizing its limit in indicating only the categories of employees to whom that can be applied. A small part of this analysis is dedicated to part-time jobs and managerial assignments for personnel employed through standard contracts which, although falling under the category of permanent jobs, are nevertheless an expression of a certain labour flexibility within public administration on the basis of improved performance and administrative organization. The analysis of article 36, paragraph 5 of the legislative degree n. 165/2001 develops the topic of violation of imperative provisions: rarely applied in the past, a new revision has been re introduced with law n. 102/2009 and now strongly reasserts the application of disciplinary measures against non compliant managers in order to recover funds used to hire employees through illegal types of flexible contracts. Further considerations come from the mandatory requirement, for all public administrations, to present every year to their relevant evaluation board and to the Presidenza del Consiglio dei Ministri an informative report on all the types of flexible employment contracts applied in relation to the number of personnel and the relevant expenditure per type. This informative report has a double purpose: on one side it allows the board to easily locate the manager responsible for misusing non-standard contract types, by checking the managerial decisions taken; on the other side - and on a more general level - it offers the opportunity to adopt measures aimed at improving the legislative and organizational management of human resources and finances. As if to say, it is essential to effectively promote a culture that encourages a good management of the res publica. This trend represents, in our opinion, the best strategy to fulfill the principles of transparency and impartiality peculiar to public administrations. These principles will help avoiding that the implementation of non-standard employment contracts either degenerates into new forms of temporary employment or creates a new, elusive method to access professional jobs within public administrations thanks to the proven resort to the so-called "stabilization norms" and public competitive examinations for permanent positions. In light of the recent regulatory and jurisprudential interventions, we will separately analyze the case of flexible employment contracts applied by the Ministry of Education both for teachers and administrative personnel (called ATA). Starting from law n.124/1999 and D.P.R. n.430/2000, this section highlights the relationship between school employees and the applicability of the EU directive concerning temporary contracts. In the conclusions, we will describe the main characteristics of the neo-authoritative contract model, now used in public administrations. Further final reflections consider the effects that the imminent reform of the labour market, currently being discussed in Parliament, will produce also in the privatised public sector and especially what innovations will introduce in the flexible contractual typologies, in the attempt to provide a solution about whether or not the public administration should or could once again use a contractual scheme different from the one implemented in the private sector.
Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere. Il presente lavoro, tenterà di fornire una visione d'insieme quanto più completa possibile sulle cd. dichiarazioni anticipate di trattamento. La trattazione muoverà – ovviamente - dai dati normativi nazionali, primari e secondari, proseguendo poi verso l'analisi strutturale dell'istituto scansionando gli elementi costitutivi, quali il consenso, la forma, il diritto all'informazione ed i conseguenti risvolti applicativi, in particolar modo la figura dell'amministratore di sostegno, arrivando poi ai profili di responsabilità sia civile che penale; ma non tralasciando i profili comparatistici. Si presterà particolare attenzione, verso l'iter giurisprudenziale che ha contraddistinto la nascita nonché la giovane evoluzione dell'istituto, che ha prodotto la stesura dei due disegni di legge, che saranno oggetto di una valutazione giuridica, ma anche critica. Ed allora, la tematica del "fine vita" impone – necessariamente - una trattazione multilivello. L'analisi deve muovere dall'ordinamento positivo nazionale, dove l'evoluzione della materia è avvenuta attraverso l'introduzione, rectius creazione, dell'istituto del testamento biologico, ovvero più precisamente, delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Questi ultimi interventi, rispondono anche e soprattutto all'esigenza di allineamento proveniente dall'Europa, impulsati dalla emanazioni delle fondamentali Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, Convenzione di Oviedo, Carta Europea dei diritti dell'uomo; tali fonti, seppur in modo differente sottolineano la centralità del Soggetto-Uomo e la conseguenziale importanza del processo autodeterminativo dello stesso. La normativa positiva nazionale, si sedimenta nella Costituzione agli artt. 2,3,31 e 32; e degradando nel quadro delle fonti, si pone a livello della legge ordinaria con il codice civile che all'art. 5 disciplina gli atti dispositivi del corpo. Dal punto di vista penalistico si incentrerà l'attenzione sulle fattispecie del suicidio assistito e l'omicidio del consenziente. Non possono trascurarsi per la trattazione i pareri del comitato di bioetico,i quali sono stati fondanti nella discussione dottrinaria e giurisprudenziale, né tanto meno il codice di deontologia medica; da ultimo in ambito di responsabilità medica la legge 189/2012. L'incipit dell'approfondimento è la normativa nazionale in riferimento ai diritti della personalità, i quali sono fortemente caratterizzati dalla non patrimonialità, dalla immanenza, nonché immaterialità al punto che non è più concepibile una visione dell'essere umano a prescindere da questi diritti. Non tutti i diritti della personalità, trovano una loro disciplina codicistica, ma una maggioranza di questi sono emersi e si sono imposti grazie all'opera di dottrina e giurisprudenza. La dottrina, però, è attualmente divisa tra chi considera il diritto della personalità come un monolitico diritto considerando l'uomo in ogni sua espressione; e tra chi sostiene che sussistano tanti diritti della personalità quanti la legge ne prevede. Diatriba dottrinaria che ha trovato il suo naturale epilogo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale, la quale espressamente all'art. 2 prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo in funzione dello sviluppo della sua personalità chiarendo, che non debba intendersi ogni singolo diritto, bensi'qualsivoglia interesse proteso alla realizzazione della personalità del soggetto. La protezione di questi diritti, come supra individuato, si lega alla Carta Costituzionale negli artt. 2,3 31 e 32. I requisiti fondamentali di tali diritti sono l'assolutezza tutelata erga omnes, l'indisponibilità derivante dall'impossibilità del trasferimento dell'oggetto-persona, nonché l'imprescrittibilità. Tra questi diritti, assume una particolare rilevanza, il diritto all'integrità fisica, che tradizionalmente è associato al diritto alla salute di cui l'art.5 costituisce punto di riferimento nella normativa codicistica; ma successivamente alla Costituzione è stato necessario un nuovo inquadramento dell'articolo, in orbita alla nuova concezione di personalità e di salute cosi come costituzionalmente interpretati. Attualmente in Italia la tematica del "fine vita" ha trovato in due disegni di legge; il primo di questi "S10" approvato al Senato nel marzo 2009 ed inviato alla camera per ulteriore approvazione, nonostante innumerevoli modifiche, nel luglio 2011. Nonostante la presenza di questi due disegni di legge la via per giungere ad un testo normativo risulta essere ancora lunga ed impervia. Approntato l'inquadramento normativo generale, l'elaborato approfondirà questo nuovo istituto del testamento biologico; e già dalla nomenclatura però risulta giuridicamente inesatta, poichè il testamento così come disciplinato dall'art. 587 c.c. è un atto mortis causa destinato a produrre effetti per il tempo successivo alla morte, invece le disposizioni di fine vita producono il loro effetto prima della morte del soggetto. Pertanto, il termine risulta essere fortemente evocativo perché sottolinea un dato di fondamentale importanza cioè, l'ultrattività del volere che è un dato che unisce il testamento biologico al testamento come atto mortis causa. Ultra-attività del volere che deve avere effetto quando il soggetto non è più capace e non è più in grado di correggere, interpretare, rinnovare questa volontà; implicando in tal modo la sacralità di questo volere, l'esigenza di aumentare la soglia delle cautele procedimentali, perchè solo un volere consapevole e ponderato da parte del soggetto in ordine alle sue scelte esistenziale, è un volere autenticamente libero. Una delle prime definizioni di dichiarazioni anticipate di volontà si rinviene in un atto del comitato di bioetica del 2003, nel quale vengono definite come un documento con il quale il soggetto, dotato di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per attuare una attenta disamina dell'istituto è necessario dividere le direttive a seconda che siano impartite nel corso del rapporto terapeutico oppure vengano date indipendentemente come espressione di una libera scelta. Nella prima eventualità rientrerebbe nel rapporto tra medico e paziente. Dottrina prevalente ritiene di dover inquadrare questo tipo di direttiva all'interno della più ampia categoria dell'atto giuridico, concetto nel quale può ricomprendersi qualsiasi comportamento umano che assuma rilevanza per il diritto in quanto ad esso l'ordine giuridico ricollega una modificazione ad uno stato di cose preesistente. Ulteriore ripartizione fatta all'interno di questa categoria è stara tra negozio giuridico inteso come atto di natura negoziale e atto giuridico in senso stretto, scevro della natura negoziale. L'istituto del negozio giuridico, non ha mai trovato una collocazione sistematica nel codice civile; il legislatore ha sempre inteso il termine atto come categoria per ricomprendervi anche il negozio. Alla luce di ciò secondo alcuni la nozione di atto giuridico è da ricostruirsi in negativo cioè si è in presenza di un atto giuridico quando non ravvisabile nell'atto i caratteri degli atti negoziali. Altra tesi invece basa la catalogazione in base alla finalità perseguita dall'atto asserendo che, quando l'atto è espressione del potere di autoregolamentazione dei privati per creare un assetto vincolante dei loro interessi esso avrà natura negoziale; diversamente invece l'atto è semplicemente il presupposto per degli effetti giuridici già predisposti . L'atto giuridico in senso stretto trova la sua naturale espressione in fattispecie ad effetti tipici. Alla luce di quanto detto può quindi affermarsi che l'elemento distintivo tra atto e negozio è da valutarsi a seguito di una valutazione stutturale-funzionale. Il negozio ha la struttura di volontà precettiva ed è preordinato funzionalente a disporre di una determinata situazione giuridica, nell'atto invece la volontà e la consapevolezza rilevano come requisiti del comportamento poichè gli effetti prescindono dal contenuto volitivo dell'atto e sono determinati dalla legge, è il carattere dispositivo, quindi, l'elemento di discrimen tra le due figure. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che in caso di direttive intervenute nel corso del rapporto medico-paziente, si sia in presenza di un atto giuridico in senso stretto, come tali si ritengono gli atti umani volontari i cui effetti sono stabiliti dalla legge. Di converso, sono da ritenersi di natura negoziale le direttive anticipate assunte dal soggetto come libera scelta avulsa da qualsiasi iter medico già in corso, l'ipotesi quindi di un soggetto perfettamente sano, fisicamente e psichicamente, perfettamente capace di intendere e di volere che decide, quale debbano essere o meno i trattamenti a cui sottoporsi nel caso e nel momento in cui non fosse più capace di esprimere la propria volontà. In questa visione viene proiettata la concezione del diritto all'identità da intendersi quale integrazione della personalità, come riscoperta del legame del corpo nella sua eccezione fisica e psichica. Il diritto all'identità porta con sé il principio di integrità, come potestà decisionale unica ed esclusiva del soggetto sulla propria sfera esistenziale. La dichiarazione è un atto che necessità dell'alterità, difatti viene definito come quell'atto che ha come scopo il far conoscere qualcosa a terzi, presupposto per la sua sussistenza è uno o più destinatari, che possono essere anche determinati. La dottrina nell'analizzare l'istituto della dichiarazione, in sé, ha più volte ribadito le tesi per la quale in realtà essa sia composta da due elementi, quello espressivo in cui si formula, e quello emissivo in cui si forma giungendo a maturazione. L'emissione quindi costituisce l'indice di maturità della dichiarazione e segna il momento dal quale questa esiste. Possono quindi distinguersi in dichiarazioni indirizzate per le quali la conoscenza da parte del terzo è condizione necessaria perché l'atto possa sussistere, oppure in dichiarazioni recettizie per le quali la direzione verso un terzo è strumentale alla produzione degli effetti in capo ad esso. L'elemento centrale è ovviamente il consenso, che presuppone un processo informativo, quale modalità di comunicazione bidirezionale che accompagna e sostiene il percorso di cura. È il processo comunicativo attraverso il quale il medico (e l'operatore sanitario, limitatamente agli atti di sua specifica competenza) fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta pienamente autonoma e consapevole. Tale processo riguarda anche il minorenne, in forma adeguata all'età, l'interdetto giudiziale e l'incapace naturale, in forma proporzionata al loro livello di capacità, in modo che essi possano formarsi un'opinione sull'atto sanitario. Il consenso informato può definirsi come "esercizio del diritto del paziente all'autodeterminazione rispetto alle scelte diagnostico/terapeutiche proposte." La scelta viene attuata, al termine del processo informativo; tale procedimento che porta la persona assistita ad accettare l'atto sanitario, si articola essenzialmente in tre momenti, tra loro concatenati mediante ricorso ad una successione logica e cronologica. • Il primo momento consiste nella comunicazione al paziente di informazioni di rilevanza diagnostica e terapeutica. • Successivamente, deve sussistere la certezza che il paziente abbia capito il significato della suddetta comunicazione. • Infine, la decisione definitiva dell'interessato. Non si è in grado di acconsentire specificatamente, se non si dispone della informazione adeguata, senza la quale qualsiasi modulo di consenso sottoscritto risulta essere viziato e, conseguentemente, non valido sotto il profilo giuridico. Il consenso valido deve essere: informato, consapevole, personale, manifesto, specifico, preventivo, attuale e revocabile. Per soddisfare il requisito dell'informazione è necessario rispettare le caratteristiche della corretta informazione, la quale deve essere personalizzata, comprensibile, veritiera, obiettiva, esaustiva e non imposta. La personalizzazione, presuppone l'adeguatezza della stessa alla condizione fisica e psicologica, all'età ed alla capacità oltre che al substrato culturale e linguistico del paziente, nonché deve essere proporzionata alla tipologia della prestazione proposta. Per quanto possibile, va evitato il rischio di un involontario e non esplicito condizionamento, legato all'asimmetria informativa tra le figure del medico e del paziente, eventualmente accentuato dalla gravità della malattia e dalla complessità della terapia conseguente. L'informazione deve essere comprensibile, e cioè espressa con linguaggio semplice e chiaro, usando notizie e dati specialistici, evitando sigle o termini scientifici, attraverso anche l'utilizzo di schede illustrate o materiale video che consentano al paziente di comprendere compiutamente ciò che verrà effettuato, soprattutto in previsione di interventi particolarmente invasivi o demolitivi. Nel caso di paziente straniero, è necessario l'interprete nonché il materiale informativo tradotto, affinché venga correttamente e completamente compreso ciò che viene detto. L'informativa deve essere altresì veritiera, ovvero non deve creare false illusioni, ma prudente e accompagnata da ragionevole speranza nelle informazioni che hanno rilevanza tale da comportare gravi preoccupazioni o previsioni infauste. Il requisito dell'obiettività deve riscontrarsi su fonti validate o che godano di una legittimazione clinico - scientifica; oltre che indicativa delle effettive potenzialità di cura fornite dalla struttura che ospita il paziente e delle prestazioni tecnico-strutturali che l'ente è in grado di offrire permanentemente o in quel dato momento; fornendo notizie inerenti l'atto sanitario proposto nell'ambito del percorso di cura intrapreso e al soddisfacimento di ogni quesito specifico posto dal paziente. In particolar modo sulla natura e lo scopo principale; sulle probabilità di successo; sulle modalità di effettuazione; e sul sanitario che eseguirà la prestazione. Esaustivamente precise devono essere le conseguenze previste e la loro modalità di risoluzione; i rischi ragionevolmente prevedibili, le complicanze e la loro probabilità di verificarsi e di essere risolti da ulteriori trattamenti; eventuali possibilità di trattamenti alternativi, loro vantaggi e rischi; conseguenze del rifiuto alle prestazioni sanitarie. Ció detto, al paziente é riconosciuta la facoltà di non essere informato, delegando a terzi la ricezione delle informazioni, dal momento che il diritto all'informazione non necessariamente deve accompagnarsi all'obbligo di riceverla. Traccia però deve essere lasciata in forma scritta. In tal caso egli esprimerà comunque il consenso, subordinatamente all'informazione data a persona da lui delegata. Il consenso deve essere espresso da un soggetto che, ricevute correttamente e completamente le informazioni con le modalità descritte in precedenza, sia capace di intendere e di volere; e tale capacità di intendere non è valutabile separatamente dalla capacità di volere. Del diritto ad esprimere il consenso ne é titolare solo il paziente; l'informazione a terzi (compresi anche i familiari), è ammessa solitamente previo consenso esplicitamente espresso dal paziente. Il consenso espresso dai familiari è giuridicamente irrilevante. Per i minorenni, gli interdetti e per le persone sottoposte ad una amministrazione di sostegno riferita ad atti sanitari si rimanda successivamente proposte manifestatamente e, in particolar modo per le attività che esulano dalla routine. La manifestazione di volontà deve essere esplicita ed espressa inequivocabilmente, e preferibilmente in forma scritta. L'assenso deve essere riferito allo specifico atto sanitario proposto e prestato per un determinato trattamento, e non può peraltro legittimare il medico all'esecuzione di una scelta terapeutica diversa dal percorso di cura intrapreso, per natura od effetti, fatto salvo il sopraggiungere di una situazione di necessità ed urgenza che determini un pericolo grave per la salute o la vita del paziente. Il consenso deve essere prestato prima dell'atto proposto. L'intervallo di tempo tra la manifestazione del consenso e l'attuazione dell'atto sanitario non deve essere tale da far sorgere dubbi sulla persistenza della volontà del paziente; nel caso lo sia, è opportuno ottenere conferma del consenso già prestato, in prossimità della realizzazione dell'atto. Il requisito della attualità del consenso, racchiude i maggiori dubbi sull'ammissibilità delle d.a.t. ( dichiarazioni anticipate di trattamento). Il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, eventualmente anche nell'immediatezza della procedura sanitaria che si sta ponendo in essere; la natura contrattuale del consenso determina che per essere giuridicamente valido esso debba inoltre rispondere ai requisiti "libero" e "relativo al bene disponibile" . Evidenziati i requisiiti del consenso, è necessario soffermarsi su quali soggetti possano essere esecutori di tale dichiarazioni;è emersa quindi, la figura del fiduciario; in un primo momento in sede dottrinale si era fatto riferimento all'istituto del mandato per trovare un istituto cui ricondurre il rapporto tra paziente e fiduciario: il mandante attraverso le istruzioni poteva rendere al fiduciario le proprio volontà in ordine ai trattamento di fine vita ed il mandatario può rendere queste dichiarazioni di volontà secondo uno schema tipico con effetti nella sfera giuridica del mandante, ma in realtà questa ricostruzione trova il suo limite nella sopravvenuta estinzione del mandato per incapacitò del osggetto che da l'incarico fiduciario,da qui allora l'attenzione di dottrina e giurisprudenza si è focalizzata sulla figura dell'amministratore di sostegnodisciplinato nel codice civile dagli artt. 404 e ss. Lo strumento dell'art. 408 c.c.(scelta dell'amministratore di sostegno), avrebbe, al di là della sedes materiae, secondo alcuni, introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del testamento biologico; ed, allora, non resterebbe che concludere in conformità al dettato legislativo, che lo stesso debba rivestire la forma solenne dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Da qui il ruolo del notaio quale soggetto deputato ad apporre sulla scheda biologica il sigillo di "fedeltà". importante è Delibera del 23 giugno 2006 con la quale Il Consiglio Nazionale del Notariato, ritiene utile "in attesa di un'auspicabile iniziativa legislativa in materia ed al fine di garantire il medico nell'esercizio delle proprie responsabilità" – assicurare "la certezza della provenienza della dichiarazione dal suo autore, mediante intervento notarile e la reperibilità della medesima in un registro telematico nazionale". Considerato, quindi, che l'intervento notarile – proprio perché volto ad assicurare il valore aggiunto della certezza fornito dalla pubblica funzione di certificazione - comporta il rispetto delle modalità operative fissate dalla legge (repertorio, trattamento fiscale, ecc.), ma "che nel contempo è necessario individuare forme che non comportino costi significativi ed aggravi di formalità burocratiche per il cittadino e la collettività". Nel provvedimento di cui si tratta, emerge la volontà del notariato di contribuire a risolvere un'esigenza di grande rilevanza umana e sociale e la disponibilità a provvedere alla istituzione e conservazione del Registro Generale dei testamenti di vita, con costi a proprio carico, mediante le proprie strutture informatiche e telematiche. Un dato di rilievo è che, secondo il Consiglio, "alla luce della attuale normativa, il notaio, richiesto di autenticare la sottoscrizione di una dichiarazione relativa ad un testamento di vita", può "farlo, non ravvisandosi alcuna contrarietà a norme di legge". Propone, quindi, in assenza di un divieto imperativo in materia, di utilizzare un testo di dichiarazione sottoscritta dal solo disponente, contenente la delega ad un fiduciario, incaricato di manifestare ai medici curanti l'esistenza del testamento di vita. Questi argomenti appena trattati, il consenso, la sua forma e il legittimato a porre in essere le volontà espresse sono tutti argomenti che sono stati oggetti di analisi giurisprudenziale in particolar modo nei casi Welby ed Englaro, che congiuntamente al caso Schiavo saranno approfonditi nell'elaborato finale. Bisogna comunque dire che il caso Welby è fondamentale per analizzare la responsabilità che coinvolge la tematica delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Difatti, per la prima volta si è incentrato il problema sulla eutanasia, ed il dottore che aveva "accompagnato alla morte" il soggetto, malato ormai da tempo e senza possibilità di guarigione o miglioramento alcuno, ma solo di peggioramento, accettandone la volontà di sospensione dei trattamenti salva vita, rispettando quindi il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, facente parte dei diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 Cost, fu rinviato a giudizio con l'accusa ex 579 c.p. E' da sottolineare che il "dissenso "di Welby possedeva tutti i requisiti necessari desumibili dalla Costituzione e dai principi generali dell'ordinamento, affinché la manifestazione di volontà del avesse rilievo giuridico onde escludersi l'applicazione dell'art. 579 in forza della scriminante dell'art. 51 c.p. Il possibile rifiuto del malato deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», potendo riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e sempre all'interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario. Solo sul professionista e non su altri incombe, quindi, il dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione della relazione instauratasi tra i due per l'espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato. Con la conseguenza che, se il professionista dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell'art. 32, comma 2 Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nel quale solo nascono e si esercitano diritti e doveri specifici. Alla luce di queste premesse, può essere condivisa la soluzione proscioglitiva in ordine al reato di omicidio del consenziente. Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, ove venga esercitato nell'ambito sopra descritto ed alle condizioni precedentemente illustrate, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio. Con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall'art. 51 c.p. . La fonte del dovere per il medico, quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale, che è di rango superiore rispetto alla legge penale, e l'operatività della scriminante nell'ipotesi sopra delineata è giustificata dalla necessità di superare la contraddizione dell'ordinamento giuridico il quale, da una parte, non può attribuire un diritto e, dall'altra, incriminarne il suo esercizio. Da ultimo, sull'argomento si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la sentenza 20984/2012 la quale sembrerebbe affermare che l'intervento del medico è scriminato non solo nei casi di TSO (casi pacificamente scriminati) ma in tutti i casi in cui si incorra in uno stato di necessità ex art. 54 c.p. Il consenso informato ha come correlato la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, nell'eventualità, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (n.b.: questa definizione di consenso informato è espressione di libertà positiva); e ciò in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Secondo la definizione della Corte Costituzionale (Corte Cost. 438/2008) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell'obbligo del consenso informato discende: a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto; b) dal verificarsi - in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Ciò perché, sotto questo profilo, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica. Importante svolta in campo di responsabilità medica è stata data la legge 8 novembre 2012, n. 189 che ha convertito il Decreto Legge Balduzzi, n. 158/2012. La cosiddetta "colpa lieve" dell'esercente una professione sanitaria ne risulta, in certo qual senso, depenalizzata. Infatti, il dato testuale dell'art. 3, 1° co., il sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Sulla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, e della sua natura si tratterà esaustivamente nel corso dell'elaborato. In Italia, nonostante il problema sia sorto da tempo, e sia stato, come visto, oggetto di copiosa attività giurisprudenziale di merito e di legittimità, nonché dottrinaria, non si ha al momento, ancora un testo normativo che disciplini la materia in oggetto. L'iter normativo sul testamento biologico, in Italia ha inizio con il d.d.l. presentato al Senato (s.10) il 29 aprile del 2008 e dallo stesso approvato il 26 marzo 2009. Il disegno così come approvato è stato inviato alla Camera, che lo ha modificato il 12 luglio 2011, e da allora siamo stagnati sull'argomento, anche per la presenza di un governo cd. tecnico. Una timida ripresa, è stata impulsata dalla commissione permanente di igiene e sanità nell'ottobre del 2012. Pertanto, il giurista si deve attenere alle fonti a disposizione, e perciò, operando un raffronto di questi due testi, emerge l'allontanarsi del sistema positivo italiano - nonostante stia allineandosi all'Europa sotto molteplici aspetti - sul tema di «fine vita» non dimostrandosi ancora competitivo per la normativa europea. Si rimanda, indi alla trattazione finale per il lavoro comparatistico delle leggi in itinere.
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell'Ottocento – l'autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l'ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, "una crisi mai superata" che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un'attitudine docile e disponibile all'obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l'arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l'esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l'uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un'esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell'oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se "la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia", allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello "spirito rivoluzionario", come dimostra nell'estate del 1797 l'esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d'un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà "nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione". Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L'ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che "l'orgoglio nazionale e l'opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia". Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l'esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all'asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un'esperienza di lavoro all'altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all'avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l'originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha "quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza". Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l'esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un "violento accesso di febbre contagiosa", destinato a scomparire "in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla". Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – "non riescono a far luce nei recessi oscuri dell'animo umano". Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l'ipoteca del ricorso alla forza contro l'insurrezione: c'è chi come l'ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c'è chi come Billy viene impiccato, c'è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell'autore di Common Sense e Rights of Man nell'aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all'altra dell'oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell'ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall'esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell'ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l'intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell'illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all'altra dell'Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l'influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l'influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L'obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l'hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l'americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l'unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell'ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell'esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l'interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un 'eccezionalismo' americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l'America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l'intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all'altra dell'oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell'oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell'arricchimento e dell'impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell'oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l'incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l'origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l'indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d'indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l'affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d'ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L'affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all'affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell'insieme di pratiche e discorsi che mirano all'incisiva trasformazione dell'esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l'intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell'Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l'hanno consegnato tout court all'elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d'indagine dal quale esce ridimensionata l'interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l'eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell'Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l'istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all'altra dell'Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell'interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l'assenza dell'antico ordine 'cetuale' europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall'esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l'attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell'indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l'indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l'immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l'uno contro l'altro per esercitare un'influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l'indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell'indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d'opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l'accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell'America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell'ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell'unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un'attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all'affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all'altra dell'Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell'umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell'esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all'accumulazione non è quindi l'unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell'affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall'Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l'America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall'immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E' allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell'oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l'agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d'Anglas e John Quincy Adams – spostano l'attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall'affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all'affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell'oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l'agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d'attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell'approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un'ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell'oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall'orizzonte immediato della rivoluzione, nell'arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell'oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l'organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata "the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit". Non può però essere chiamata "the Age of Reason", perché è l'epoca di Paine: "whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine" -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine".
Profondamente convinta che un'analisi in chiave cognitiva del rapporto tra le donne e la partecipazione politica richieda, per la sua complessità un approccio che non sia solo monodimensionale (quindi non solo giuridico o storico o statistico o sociale) ma che abbia più ampie modalità interpretative, proprie della Scienza Politica, ho scelto - d'intesa con il mio tutor, prof. Grilli - l'aspetto della qualità della democrazia, partendo dall'ipotesi che esista una correlazione tra di essa e la maggiore o minore rappresentanza politica femminile. Nella mia ricerca intendo utilizzare i dati e le informazioni relativi alla presenza delle donne nelle istituzioni e nei partiti come indicatore della qualità democratica, sia nello scenario italiano sia anche in quello di una realtà nazionale diversa, quale è la Spagna, paese che presenta svariati aspetti similari dal punto di vista storico/politico e sociale con l'Italia. Durante gli anni appena trascorsi, mi sono recata personalmente, in Spagna, più precisamente a Madrid presso la Biblioteca e l'Archivio del Congreso de los Diputados e presso la sede dell'Instituto de la Mujer, ed a Siviglia, presso la sede locale dell'Instituto de la Mujer. Ho così potuto raccogliere dati direttamente in loco da fonti dirette, e avere accesso a letteratura scientifica che qui in Italia è di difficile reperimento. Di contro per la raccolta dei dati relativi all'Italia i miei principali punti di riferimento sono state la Biblioteca del Senato e quella della Camera dei Deputati. Ho inoltre istituito contatti – e ricevuto suggerimenti e indicazioni – da studiosi italiani e spagnoli (soprattutto Anna Bosco, Andrea Graziosi, Simonetta Soldani, Tania Vergè e Celia Valiente). La tesi, così come rielaborata sotto la supervisione del mio tutor, si compone di una parte a carattere teorico e di una parte dal profilo empirico. Ho ritenuto fondamentale, prima di iniziare i lavori, esplicitare, in una premessa metodologica l'ipotesi di base, i casi di studio individuati, la metodologia di ricerca usata, la struttura della ricerca e gli obiettivi prefissati. La questione delle dimensioni qualitative della democrazia cerca ancora una uniformità metodologica, considerato che gli interessi conoscitivi degli scienziati politici che l'hanno trattata sono stati molteplici, come anche molteplici le strategie di ricerca adottate e le indagini empiriche utilizzate. Agli studi a carattere comparativo fortemente denotativo come quelli di Lijphart, di Morlino, di Altman e Pérez-Liñán (con un'alta casistica corredata da un raffronto sistematico in termini quantitativi) se ne affiancano altri precipuamente connotativi, focalizzati su un minor numero di casi ma con maggior dovizia di approfondimenti analitici ed un bilanciato utilizzo di tecniche quantitative e qualitative (come la ricerca di Diamond e Morlino). Prendendo spunto dalla letteratura riguardante la valutazione delle democrazie, secondo cui le democrazie possano essere classificate, in relazione alla qualità, anche in termini empirico-valutativi, l'ipotesi di base è dunque che in quei paesi in cui c'è una pari rappresentanza politica maschile e femminile ovvero una comunque elevata presenza femminile nella politica, si registra un livello più alto di qualità della democrazia. La domanda che mi sono posta in partenza è se incrementando la rappresentanza politica femminile, come fattore di sviluppo delle potenzialità democratiche, sia possibile migliorare la qualità democratica, attraverso le potenzialità dei cittadini e delle istituzioni. Ed è questo ciò che intendo verificare nel mio studio. Ho scelto l'Italia e la Spagna quali oggetti di studio, in quanto presentano realtà geograficamente, socio-culturalmente, etnicamente e religiosamente abbastanza vicine: sebbene i due paesi abbiano collaudato il loro processo di democratizzazione in differenti momenti storici ed in differenti contesti istituzionali, la Spagna costituisce un modello con cui confrontarsi, specie per quanto riguarda l'impatto delle questioni di genere nella legislazione, nei regolamenti parlamentari e negli statuti dei partiti. La mia ricerca è iniziata sia dall'analisi della letteratura relativa alla qualità democratica sia dallo studio del materiale storico per contestualizzare i casi di studio nella dimensione sincronica. La fase successiva ha riguardato il reperimento e l'analisi dei dati in merito alla rappresentanza politica femminile nelle istituzioni italiane e spagnole e nei partiti, non senza aver dato un'occhiata fuggevole al quadro costituzionale e normativo, aspetti che costituiscono la base per un'analisi del rapporto tra le donne e l'attività politica e per poter istituire un confronto in chiave cognitiva sulle caratteristiche di una situazione che, per la sua complessità, non si presta ad essere trattato con un approccio monodimensionale (ad esempio solo giuridico o storico o solo statistico o sociale) ma richiede più ampie modalità interpretative. Il taglio utilizzato è quello comparativo, più specificatamente ho utilizzato la comparazione binaria su due "most similar systems" (Przeworski e Teune, 1970): tale strategia di ricerca (comparazione qualitativa) ha posto l'attenzione sulle somiglianze e differenze dei casi di studio, il che mi ha permesso di osservare un'ampia serie di fattori, mediante l'adozione della parametrizzazione di alcune caratteristiche di tipo politologico - storico – geografico - culturale. La mia ricerca è dunque fondata su una comparazione di tipo qualitativo della rappresentanza politica femminile, basandosi sul raffronto dei casi e delle relative caratteristiche simili o differenti, secondo la loro presenza o assenza, e sviluppandosi in una comparazione di tipo sincronico. I dati sono stati raccolti da fonti secondarie affidabili ed ufficiali (quali, tra l'altro, le banche dati Inter Parliamentary Union, ONU, UE, ISTAT e quelle dei Parlamenti italiano e spagnolo, nonché del Dipartimento per le Pari Opportunità e dell'Instituto de la Mujer). La tesi si compone di due parti: la prima teorica, in cui vengono fornite definizioni, tassonomie e concettualizzazioni della qualità democratica, e descritti gli indicatori utilizzati dai principali scienziati politici che, nel corso del tempo, si sono occupati di questo argomento. Nella seconda parte dello studio, che ho dedicato alla sperimentazione empirica di due differenti contesti nazionali, le ipotesi formulate in precedenza, vengono sottoposte a controllo sistematico mediante l'esame dei dati raccolti. Due i focus nella prima parte della ricerca: uno è rivolto allo studio di un preciso indicatore di qualità democratica, utilizzato dallo studioso olandese Lijphart, la rappresentanza politica femminile. L'altro focus è dedicato alla natura delle gender equality policies e alla contestualizzazione dei gender studies all'interno della scienza politica e, più in particolare, all'interno degli studi sulla qualità democratica. Lo scopo dello studio è verificare la presenza o meno di qualità democratica ed il suo eventuale livello, all'interno dei due paesi democratici scelti come casi di studio, in base al loro effettivo modellarsi ed al concreto funzionamento utilizzando come indicatore di qualità democratica – cioè come «espressione del legame di rappresentazione semantica fra il concetto più generale ed un concetto più specifico di cui possiamo dare la definizione operativa» (cfr. Morlino 2005) - la rappresentanza politica femminile, stabilendo un nesso causale fra una o più variabili. Tenendo presenti come variabili indipendenti (o cause) quelle normative, culturali ed istituzionali (e le relazioni tra di esse) di ciascun ordinamento preso in considerazione, ho analizzato empiricamente le conseguenze e gli effetti da queste prodotti sulla rappresentanza politica femminile, prestando particolare attenzione al denotarsi o meno di una democrazia di qualità (considerata in questo studio come variabile dipendente, o effetto). Il numero delle variabili indipendenti scelte è ridotto a tre (politiche, normative, storico-culturali) per non incidere sulla purezza della relazione causa - effetto ipotizzata. Con l'intento di sperimentare la validità dell'indicatore preso in esame, ho analizzato diversi altri aspetti ad esso collegati, quali le gender equality policies, i gender studies nonché le istituzioni gender friendly. Gli obiettivi rivestono, innanzitutto, un carattere conoscitivo, nonché applicativo per la migliore valorizzazione dei risultati attesi. Con questa mia ricerca ho voluto affrontare un tema in continuo divenire nella produzione scientifica italiana, il quale per tale ragione costituisce un'importante occasione di riflessione e di approfondimento sulla rappresentanza politica e, in particolare, sulla disciplina della partecipazione della donna alla vita democratica dei Paesi che costituiscono i due casi di studio individuati. Questo studio vuole dunque essere un'occasione di dettagliata osservazione circa gli studi sulla qualità democratica e la democrazia stessa attraverso l'osservazione, in un'ottica di genere, delle sue sedi istituzionali e dei suoi attori politici (le assemblee parlamentari ed i partiti): l'attenzione per la rappresentanza femminile all'interno delle assemblee parlamentari e dei partiti politici costituisce un punto di vista utile per contribuire agli studi sulla valutazione della qualità della democrazia. La Prima parte si apre (Capitolo I – Introduzione e § 1) dando spazio, innanzitutto, alle analisi e alle teorie (ripercorrendo il punto di vista storico/filosofico/politico di numerosi autori) relative al concetto e alle tipologie di democrazia, termine maggiormente usato in campo politologico, sin dai tempi di Aristotele. Esso ha percorso un lungo iter connotato da svariate ed affatto univoche considerazioni e sicuramente ciò è collegato alla diversità dei momenti temporali o dell'ottica ideologica o culturale attraverso le quali lo si è declinato. A tutt'oggi, non esiste "la" definizione di democrazia ma, come sottolinea Dahl (2002), «Dopo più di due millenni da quando il termine è stato coniato nell'antica Grecia, non siamo ancora venuti a capo di una definizione generalmente accettata». Tuttavia «definire la democrazia è importante perché stabilisce cosa ci aspettiamo da essa» (Sartori, 1993), ed è dunque imprescindibile partire da una sua definizione operativa che non coincida né con un'ideologia, né con una dottrina politica, né con una particolare forma di governo. Il successivo § 2 del capitolo si sostanzia nell'analisi di definizioni, tassonomie e concettualizzazioni della qualità democratica e nella descrizione dei principali indicatori utilizzati dagli scienziati politici che, nel corso del tempo, si sono occupati di questo argomento; partendo dalla procedura, maggiormente puntuale e sicuramente più utilizzata, elaborata da Morlino (2005 e 2013) risulta chiaro che la nozione di qualità democratica ha un'essenza multidimensionale e pluralistica; numerosi scienziati politici e 4 studiosi concordano sul fatto che uno studio empirico, che valuti se una democrazia sia qualitativa o meno, debba considerare almeno otto dimensioni di variazione o indicatori di qualità della democrazia (analiticamente esaminati nel paragrafo), relativi alla valutazione di contenuti, procedure e risultati. Il § 3, conclusivo, spiega quanti e quali siano i modi in cui la qualità democratica è stata studiata: affrontare lo studio della qualità democratica stessa, con le sue dimensioni a volte in contrasto l'una con l'altra, può voler dire analizzare prevalentemente una qualità piuttosto che un'altra e spiegare un certo risultato in un paese in quanto a qualità. Anche se appare evidente che la vivace attività di ricerca sulla qualità democratica non gode di una univoca metodologia, è innegabile, tuttavia, che gli scienziati politici stiano studiando soluzioni per valutarla al meglio; attraverso un breve focus sull'insieme di valori che riguardano il funzionamento di una democrazia ideale e l'insieme delle caratteristiche che identificano empiricamente tali valori, ho voluto ipotizzare una classificazione degli studi sulla qualità democratica - alcuni dei quali sono presi come spunto e trovano applicazione nel dibattito politico - categorizzandoli in base a parole chiave quali i diritti, le libertà e l'uguaglianza, la valutazione della stabilità delle istituzioni. Il Capitolo II è dedicato alla presenza delle donne nelle istituzioni come indicatore della qualità democratica; ho dedicato parte dell'Introduzione a delineare un breve quadro della condizione femminile nei più recenti e deleteri regimi dittatoriali del recente passato europeo, cioè la Germania nazista e il comunismo sovietico (Bock, 2007; Navailh, 2007), al fine di chiarire come un grado, più o meno alto, di gender equality sia "univoco" indicatore della democrazia di un paese e della sua qualità (ricordo che in tali regimi l'uguaglianza tra i sessi, per alcuni versi, era apparentemente più garantita che in molte odierne democrazie). Ciò premesso, è tuttavia da sottolineare come sia orientamento ormai riconosciuto dalla comunità scientifica, politica e sociale che una partecipazione femminile maggiore dell'attuale, in ambito politico, e una rappresentanza paritaria, costituiscano indicatori concorrenti in una analisi sulla qualità democratica. Se dunque il concetto di pari opportunità è ormai riconosciuto come principio fondamentale della democrazia (Brezzi, 2014) in quanto afferente sia alla sfera dei diritti sia a quella delle libertà, è consequenziale che l'utilizzo di indicatori gender sensitive sia un importante strumento per contribuire alla valutazione di una democrazia piena e completa di tutti i cittadini (uomini e donne) nel processo di decision making e negli altri aspetti della vita democratica di un paese. È in questa ottica che ho rivolto particolare attenzione alle teorie dello studioso olandese Lijphart ed alla sua fondamentale analisi delle diverse "forme di democrazia" e della loro performance (1984, I ediz., 1999, II ediz. e 2012 ultima edizione). Nelle sue ricerche ha costruito (1999; 2012) ha costruito un preciso indicatore di qualità democratica (la rappresentanza politica femminile nelle istituzioni democratiche) che risulta essere uno degli indicatori maggiormente interessanti in questo ambito. Il § 1, analizzando il contributo del grande studioso da cui conseguono alcune interessanti considerazioni, indaga su quali risultati deve produrre il sistema della rappresentanza per porre in essere una democrazia di qualità. Egli include tra i numerosi indicatori di risultato usati per misurare la qualità della democrazia consensuale (variabile indipendente misurata nella dimensione esecutivo e partiti) la rappresentanza politica delle donne (nel legislativo e nell'esecutivo) e la disparità tra donne e uomini (indice disuguaglianza di genere). L'autore ritiene la rappresentanza politica femminile una «misura importante» per una attenta valutazione sia della qualità sia della rappresentanza democratica in assoluto; anche perché può aiutare a valutare in modo indiretto – utilizzandola quale proxy – la rappresentanza in generale delle minoranze (ad esempio etniche e religiose), misura difficilmente individuabile a causa della loro irregolare distribuzione sul territorio; pertanto si può far riferimento ad una «minoranza politica» e non demografica, quella di genere, che è riscontrabile e comparabile in modo sistematico. La rappresentanza politica femminile è utilizzato come indicatore anche in numerosi indici, sia semplici che compositi, e nell'ambito di molteplici dimensioni che li compongono. È di questo che si occupa il § 2, in cui riporto i principali indici internazionali che utilizzano indicatori relativi alla rappresentanza politica di genere, argomento di base di questo studio, prima di passare a una sintetica trattazione di questi indici. Nel Capitolo III, con il quale si chiude la parte teorica della tesi, ho trattato l'argomento dei Gender Studies, partendo (Introduzione) da alcuni brevi cenni definitori e concettualizzazioni, per evitare ambiguità lessicali che possano nuocere alla linearità della successiva trattazione, di temi quali l'empowerment e il mainstreaming di genere, le differenze tra sesso e genere, tra gender studies e women's studies nonché tra ricerca gender oriented e gender sensitive; si tratta di argomenti da qualche tempo inseriti nel dibattito scientifico, anche sotto l'aspetto dell'elaborazione di adeguati strumenti d'indagine per evidenziare l'esistenza di ruoli e relazioni correlati al genere. La contestualizzazione dei gender studies nella Scienza Politica costituisce l'argomento del § 1: la loro prolungata invisibilità ha fatto sì che la notevole mole di ricerca, condotta in quest'ottica, producesse ramificazioni e sbocchi multidisciplinari, anche dal taglio metodologico innovativo. D'altra parte la prospettiva del genere ha, in qualche modo, contribuito a rimodulare l'approccio metodologico e ad arricchire la pluralità dei soggetti trattati dalle più disparate discipline scientifiche, imprimendo impulso a nuovi campi di ricerca (Piccone Stella, 2010). È dunque possibile affermare che essi sono volti allo studio dell'identità di genere, attraverso un approccio multidisciplinare, interdisciplinare e plurimetodologico. Quanto detto porta direttamente a dover rispondere ad alcuni interrogativi, pivotali per gli argomenti trattati in questa ricerca, su come si collocano tali studi all'interno di un ambito disciplinare quale è quello della Scienza Politica. Non è possibile disconoscere il contributo dato dalle teorie femministe alla trasformazione del dibattito contemporaneo e di molte teorie politiche nonché alla progressiva evoluzione di alcune norme (Lois, Alonso, 2014): in questo senso Rosalind Sharon Krause (2011) afferma che gli studi di teoria politica degli anni '70, anche quelli che non si incentrano sulle donne o sul genere, si sono arricchiti progressivamente di una consapevolezza critica circa la qualità che l'ottica di genere porta nelle relazioni di potere. L'introduzione degli studi di genere nella Scienza Politica è avvenuta grazie all'«interazione delle teorie più importanti su sesso biologico, genere socialmente costruito e vita politica» (Tolleson-Rinehart, Carroll, 2006), cosicché i temi sui quali si è principalmente focalizzata l'attività di ricerca sono quelli riferiti alle politiche pubbliche e all'interazione tra strutture istituzionali, che sono maggiormente coinvolti nella realizzazione della parità di genere e della tutela dei diritti delle donne nelle democrazie contemporanee. Il tema del § 2 sono proprio le gender equality policies, viste come strumento di qualità democratica nonché le loro strategie (statuizioni normative, azioni positive e strategie di gender mainstreaming), e le gender friendly institutions (women's policy agencies, Parlamenti gender sensitive). Infatti, nell'ottica della concretizzazione della prospettiva di genere nella Scienza Politica, ho ritenuto di accennare alcuni elementi relativi alla completa attuazione dei processi di gender equality policies, nonché analizzare anche "come" le donne vengono (o sono state) "integrate" nelle istituzioni democratiche. Una delle linee di ricerca politologica più promettenti rispetto allo studio delle istituzioni è quella che riguarda l'incorporazione della prospettiva di genere nelle attività istituzionali di un paese. Questa linea di ricerca parte dalla premessa che le istituzioni non risultano neutrali rispetto al genere, finché riproducono le norme e i valori preminenti relativi alla disuguaglianza tra uomini e donne. La Scienza Politica ha, pertanto, iniziato a occuparsi di analizzare e rendere visibili i processi che intendono evitare il perpetuarsi nelle istituzioni di relazioni asimmetriche di potere tra i sessi (Lois, Alonso, 2014). La trasformazione delle istituzioni da strutture statiche a dinamiche è favorita dalla scelta di una prospettiva di genere: si tratta di un cambiamento che deve avvenire dall'interno (Vingelli, 2005), ma che può essere favorito da una pressione esterna, e porta all'instaurarsi di nuove procedure che diventano routinarie, così come le vede Jepperson (1991). La Seconda parte dello studio è dedicata alla sperimentazione empirica delle ipotesi formulate in precedenza, sottoposte a controllo sistematico mediante l'esame dei dati raccolti riguardanti i due casi di studio individuati. Nell'Introduzione a questa parte del lavoro, che ho dedicato alla nascita e al percorso del concetto di cittadinanza in un'ottica di genere, ho voluto ripercorrere – in una sintetica esposizione a carattere cronologico – le principali tappe che hanno segnato il lungo cammino delle donne verso l'acquisizione, per lo meno dal punto di vista formale, di quell'insieme di diritti civili e politici che qualificano chi ne è titolare come "cittadino" (Godineau, 2000; Fraisse, Perrot, 2000; Sineau, 2007). Storicamente l'argomento della cittadinanza è stato analizzato da un punto di vista univoco senza utilizzare la categoria del genere e quindi non differenziando i diversi percorsi temporali, politici e giuridici compiuti dall'esperienza maschile e da quella femminile. Nella precedente parte teorica, più volte ho rilevato che insito nel concetto stesso di democrazia è il principio di uguaglianza, al cui aspetto formale deve corrispondere quello sostanziale (Caravita, 1990; Ainis, 1999; Sartori, 2003; Pasotti, 2005; Gianformaggio, 2005; Celotto, 2009). Perciò il fine ultimo si concretizza nel raggiungimento di una uguaglianza sociale e, inevitabilmente, soprattutto politica, in quanto la mancanza di un equilibrio sociale comporta senza dubbio ripercussioni su quello politico. Infatti, senza l'uguaglianza dei diritti politici non sarebbe possibile giungere alla libertà della collettività che è un'unità politica omogenea; la sfera politica e quella sociale sono, dunque, strettamente interrelate: ad uno scarso potere sociale corrisponde uno scarso potere politico e viceversa. Tutto questo richiede la partecipazione di ogni cittadino alle attività politiche fondamentali. 7 Il Capitolo IV è dedicato all'Italia. Nel § 1, ricollegandomi a quanto già trattato nella prima parte dell'Introduzione del Cap. II, traccio un excursus del lungo cammino storico – culturale che ha portato nel nostro paese all'affermazione della parità tra i sessi, con particolare riguardo all'azione politica, perché se è vero che la nostra Costituzione repubblicana ha dato alle donne i pieni diritti di cittadinanza, è altrettanto vero che una radicata "legge privata" è stata troppo spesso più resistente delle pressioni democratiche. Il ritardo con cui è stato applicato il principio di uguaglianza nel nostro Paese, ha avuto una duplice valenza sia nella delicatezza del problema sia nella difficoltà di applicazione. Si tratta quindi di una trattazione che, utilizzando al categoria del genere, affronta la condizione femminile – dal punto di vista storico, giuridico, ma soprattutto politico – a partire dall'instaurarsi della Repubblica (Marcucci, Vangelisti, 2013) senza però trascurare il substrato precedente tramite una breve analisi delle condizione femminile nell'Italia post – unitaria e durante il fascismo (Duby, Perrot, 2007; De Grazia, 2007). Il Capitolo V è dedicato al caso spagnolo. Anche qui affronto nel § 1 un breve excursus storico-politico della condizione femminile dal periodo pre –democratico della Spagna (Bussy Genevois, 2007) alla fase di democratizzazione, per contestualizzare la rappresentanza e la partecipazione femminili nella politica attuale: la Costituzione spagnola del 1978 ha significato una autentica ridefinizione dello status giuridico/politico femminile (e non solo), sia nello spazio pubblico che in quello privato (García Mercadal, 2005; Aguado, 2005), nell'ambito di quello che molti analisti e scienziati politici, specialmente tra i più recenti, (Paleo e Diz, 2014; Alonso e Muro, 2011; Gunther e Montero, 2009; Bosco, 2005) hanno definito "modello spagnolo" di transizione democratica, emulato anche in altre realtà che successivamente si sono accostate alla democrazia, in America Latina come in Europea orientale. Sia per il caso italiano (cap. IV), sia per quello spagnolo (cap. V) ho elaborato in grafici e tabelle i dati raccolti, inseriti poi nei rispettivi § 2 e § 3, i quali riguardano le politiche di genere, che ciascuno dei due paesi utilizza per mantenere stabile o incrementare la rappresentanza politica femminile, e la qualità della democrazia (i meccanismi di riequilibrio: quote costituzionali, legislative e di partito; le istituzioni gender friendly) nonché la rappresentanza politica femminile (con i dati sugli organi elettivi e di governo e quelli sui principali partiti). Infine nelle Conclusioni traccio un bilancio in chiave comparativa di quanto emerge dalle ricerche effettuate, mostrando l'importanza del collegamento con le teorie enunciate dai politologi illustrate nella parte teorica. Sulla scorta del confronto tra i due casi di studio e di quanto affermato dalla politologia e dagli studi di genere contemporanei presentati, si può affermare a conclusione di questo lavoro che a pieno titolo entrambe i paesi corrispondono sicuramente a democrazie di «buona» qualità. Prendendo come indicatore la sola rappresentanza politica femminile, probabilmente la Spagna risulta avere un livello più avanzato, non tanto per il dato numerico maggiore, ma perché osservando e sommando il dato costituzionale e legislativo, i regolamenti, l'attenzione partitica nella selezione delle cariche, la cultura politica, l'influenza femminile nel processo di policy making, essa sembra avere interiorizzato maggiormente la cultura della parità. 8 Tuttavia sia per l'Italia che per la Spagna, a livello di importanza e qualità di incarichi, il cammino per raggiungere una piena situazione di parità, che elevi ulteriormente il livello di qualità democratica, sembra essere ancora lungo per entrambe i paesi.
Nel romanzo francese degli anni Trenta, il naufragio del senso cui sembra andare incontro la realtà orienta la rappresentazione del personaggio romanzesco secondo due bisettrici opposte e complementari. Da una parte, l'opacizzazione dell'istanza paterna, quando non la sua assenza, dà luogo ad una vera e propria condizione di orfanità; dall'altra, l'eclissi delle radici individuali è implementata da una difficoltà di paternità che sfocia su un vertiginoso complesso di sterilità. Evidenziando l'inconsistenza individuale e storica dei personaggi, la ricorrenza obsédante di queste figure descrive la condizione - insieme inquietante ed euforica - di una generazione scopertasi priva di giustificazioni biologiche, sociali o culturali. In questa prospettiva, l'infittirsi di figure legate al tema dello sradicamento sembra essere surdeterminata da una definitiva esplosione dei paradigmi tradizionali, acuito dai traumi tutti novecentesche della prima guerra mondiale e della rapida osmosi dei codici sociali. Da qui, una letteratura che ben al di là delle convinzioni politiche del singolo autore esprime una visione del mondo oramai piccolo-borghese: una condizione priva dei punti di riferimento tradizionali, come il patrimonio o la proprietà, ma che non riesce ad edificare nuovi valori cui ancorare il proprio status vacillante. Proprio la coscienza di una marginalità individuale e storica costituisce la premessa più evidente di un paradigma della mediocrità, per utilizzare l'espressione con cui Jacques Dubois identifica la generazione letteraria degli anni Trenta. Beninteso, lungi dal definire una problematica sociale o materiale, negli autori più rappresentativi di questa generazione la mediocrità rinvia ad una più complessa esperienza esistenziale che sfocia sull'assoluta vacuità di una traiettoria priva di giustificazioni. L'ambivalenza di ogni costante letteraria permette tuttavia di rovesciare il polo negativo in polo positivo: se la crisi delle tradizionali forme di consistenza polverizza la consistenza dell'individuo, essa si afferma al tempo stesso come un mezzo privilegiato per assegnare un significato nuovo alla parabola individuale. Con gli anni Trenta, questa inversione reattiva si connette all'allestimento di un paradigma romanzesco alternativo: uscendo dalle secche della littérature d'analyse, l'inquietudine si orienta adesso verso problematiche di più ampio respiro, volte a stabilire i fondamenti di una letteratura nuova. La nuova prassi letteraria, rifiutando i connotati estetici e psicologici della generazione precedente, implica la presenza di un'interrogazione sul senso stesso della scrittura, volta a giustificare eticamente e politicamente la propria attività. Va da sé che un tale progetto conoscitivo comporti una nuova idea di soggetto romanzesco, adesso concepito come un'istanza autonoma rispetto ai vincoli tradizionali, e perciò capace di propugnare la condizione di orfanità e sterilità come garanzia di reazione. Alla sterilità del tessuto sociale e intellettuale la generazione degli anni Trenta oppone infatti una concezione autonoma del soggetto, chiamato ad individuare nuclei di senso alternativi rispetto a quelli dominanti: in quest'ottica, l'azione del singolo si carica di significati esplicitamente morali ed esistenziali, volti a veicolare una riflessione sul significato stesso dell'essere al mondo. Proprio la valorizzazione del piano riflessivo alimenta una particolare tipologia di personaggio che, prendendo a prestito la fortunata definizione di Brombert, può essere definito eroe intellettuale, orgogliosamente sganciato dalle tradizionali forme di consistenza. Proponendo un'indagine esistenziale estranea d ogni reificazione sociale o culturale, i moduli romanzeschi degli anni Trenta si orientano dunque, ognuno secondo modulazioni tematico-stilistiche peculiari, verso la rappresentazione di esseri umani privi di un senso aprioristicamente dato. Certo, questa indagine può sfociare nella constatazione inquietante di un horror vacui davanti ad un mondo privo di riferimenti stabili; ma la vertigine di uno scollamento tra l'io e il contesto, lungi dal tradursi in una visione deterministica dell'esistenza, evidenzia la libertà del singolo. Se la rappresentazione della mediocrità pervade la letteratura degli anni Trenta, nei rappresentanti più autorevoli di questa generazione tale tematica viene postulata e trascesa allo stesso tempo: la riduzione ai minimi termini del soggetto costituisce la premessa per l'elaborazione di un nucleo di senso alternativo. Da questo punto di vista, la letteratura degli anni Trenta costituisce l'ulteriore tappa di un processo che, a partire dall'Illuminismo, non si basa tanto sull'adesione ad un senso preesistente quanto sull'elaborazione di significati sostitutivi. In tal senso, il discorso letterario di questa stagione marca una rottura e insieme prova ad aprire nuovi percorsi di senso: a partire da uno scenario generazionale, è dunque interessante analizzare come tale impulso si manifesti nell'opera dei singoli autori, originando un articolato impianto di varianti. Un primo polo è costituito dalla tentazione fascista, fondata su un ripiegamento luttuoso e ideologicamente reazionario: in tal senso, la constatazione di una crisi individuale e generazionale individua nei postulati di razza e virilità l'occasione più feconda di risarcimento. Sia per Drieu La Rochelle che per Brasillach, la celebrazione letteraria del fascismo data 1939, rappresentando l'esito più coerente di una riflessione sul rapporto tra io e mondo che impegna i due autori fin dall'inizio delle loro carriere: a tal proposito, è emblematico che fin dalle primissime opere la rappresentazione del soggetto romanzesco ruoti attorno ad una pronunciata condizione di orfanità e sterilità. In entrambi i casi occorre pertanto rifarsi ad un arco narrativo più esteso, così da mettere in risalto l'evoluzione in senso politico-reazionario di queste problematiche. Nella narrativa di Drieu, la riflessione sulla decadenza francese, investendo i paradigmi borghesi, comporta un'opacizzazione dell'istanza paterna che apre, almeno potenzialmente, ad un processo di emancipazione dal modello generazionale. Tuttavia, l'operazione di autodeterminazione non riesce felicemente: in romanzi come Le Feu follet e Rêveuse Bourgeoisie, la critica ad una borghesia inefficace ed inconcludente si accompagna alla rappresentazione di un soggetto fallimentare, la cui mancanza di aderenza alla realtà impedisce di trasformare costruttivamente la diagnosi in reazione incisiva. Questa insufficienza costitutiva trova un canale privilegiato nella dimensione erotico-sessuale: il palliativo dell'erotismo riporta infatti l'individuo alla propria solitudine, rovesciando la frenesia in stasi. Connotata in tal senso, la quête identitaria dei personaggi larochelliani è costitutivamente condannata alla sterilità: proprio il complesso d'impotenza e sterilità cui sono destinati i personaggi, certifica la posizione marginale del soggetto nel tessuto sociale, dando corpo ai fantasmi di una classe improduttiva che, se non ha più niente da ereditare, non può fondare un ordine autonomo. Vera e propria summa di un itinerario narrativo quasi ventennale, Gilles presenta in maniera più complessa e relata tutte le componenti principali attive nell'opera di Drieu. I temi caratteristici tornano tutti e contemporaneamente, fino a formare un fitto reticolato tematico in cui la condizione di orfanità e sterilità è addirittura esasperata per mettere in risalto la nascita del nuovo soggetto fascista. Ancorando in maniera esplicita orizzonte individuale e orizzonte storico-politico, Gilles porta alle estreme conseguenze quel parallelismo tra crisi del soggetto e decadenza della società che è esplicito e insistito in tutta la sua opera: gli elementi tipici del romanzo individuale si sommano all'affresco ideologico della decadenza francese, con lo scopo di introdurre la professione di fede fascista con cui termina la vicenda. Squalificati i legami verticali in favore del concetto di razza, la condizione di orfanità può adesso essere esibita come un azzeramento euforico su cui elaborare significati autonomi. Ma il progetto di autodeterminazione è ostacolato dalla compromissione con una società malata e disordinata. Ancora una volta, è la dimensione erotico-sessuale ad assumere un ruolo primario per comprendere l'infiltrazione della decadenza nel soggetto: la dispersione erotica, lungi dal favorire un incremento identitario, sfocia su un complesso d'impotenza e sterilità che rischia di appiattire il soggetto sulle coordinate di un'esistenza piccolo-borghese. Sarà proprio l'identificazione con un tessuto sociale sterile e femminizzato a innescare una reazione, culminante con l'adesione al fascismo. L'inconsistenza individuale e storica che orfanità e sterilità trasmettono trova una sublimazione nel fascismo, percepito come unico medium per favorire la rigenerazione di un mondo privo di statura eroica: in una civiltà materialista e massificante, il fascismo non si afferma, più banalmente, solo come una forza di distruzione ma propone una condizione umana più alta ed orgogliosa, fondata su una restaurazione totale dell'uomo e, con esso, di un intero popolo. In questa chiave, il fascismo permette di ritrovare quei valori di forza e virilità frustrati dal contatto con una società civile agonizzante e passiva: la morale dell'azione, restituendo all'individuo la sua dimensione guerriera, consente infatti una dilatazione dell'io che riattiva quella fecondità negata dal piano fisico-biologico. Date le valenze spirituali di cui è caricato, il fascismo celebrato da Drieu assume una valenza meno politico-sociale che mistico-religiosa, capace di restaurare l'animo individuale e la coscienza collettiva. In questo senso, solo il ricorso ad un'istanza politica fortemente liricizzata consente di superare le insufficienze di un'attività intellettuale lontana dal mondo. Nella trasfigurazione estetica del gesto fascista sembra così potersi realizzare il sogno romantico tanto a lungo coltivato da Drieu: armonizzare azione e sogno, attività contemplativa e intervento concreto nella storia. Nell'itinerario narrativo di Brasillach il problema delle radici individuali è posto fin da Le Voleur d'étincelles: per sconfiggere lo sradicamento patito nella dimensione urbana, Lazare Mir deve emanciparsi da una dimensione individualistica e tornare alle regioni incantate dell'infanzia, dove potrà riconnettersi con gli spiriti della famiglia. Attraversando più o meno evidentemente tutta la produzione del decennio, la condizione di orfanità e sterilità raggiungerà il suo culmine ne Les Sept couleurs (1939). Normalmente si tende a mettere in risalto l'elaborazione formale del romanzo, basata sulla compresenza di codici narrativi eterogenei; in realtà, la ricerca di originalità formale è surdeterminata dall'illustrazione di un altro rinnovamento, rappresentata dalla nascita dell'uomo fascista. Attivo fin dal primo romanzo, il meccanismo di opacizzazione delle radici deflagra completamente ne Les Sept couleurs, dove il problema è oramai trattato solo in absentia: le origini che i personaggi precedenti avevano faticosamente cercato di riconquistare sono completamente eliminate. Implementata dalla difficoltà di interpretare costruttivamente un rapporto sentimentale, la condizione di orfanità è infatti sublimata – e nel caso di entrambi i protagonisti maschili - con il ricorso al fascismo. In tal senso, il processo di eradicazione di ogni legame sottintende una critica alla dimensione borghese, principale responsabile della mediocrità sociale e culturale in cui è precipitata la società: l'orfanità e la sterilità cui sono sottoposti i due protagonisti li colloca in una dimensione apertamente anti-borghese, l'unica suscettibile di essere fecondamente rovesciata in fascismo. Alla definitiva mozione di sfiducia verso la generazione dei padri segue l'esaltazione di una giovinezza eroica finalmente chiamata alla responsabilità dell'azione. Il problema della giovinezza, che nella generazione precedente era legato ad istanze erotico-oniriche, si fa dunque collettivo; d'altronde, la contingenza del momento storico impone di rimotivare l'ossessione per la fugacità del tempo in una chiave storico-sociale. Ma il gesto fascista non presuppone un superamento dalla giovinezza in favore della maturità; piuttosto, ne armonizza le istanze più caratteristiche in un ordine superiore che le conferisce una collocazione storica feconda. Enfatizzando il tono vitale e istintivo a discapito del piano razionale-logico, la valutazione estetico-sentimentale del fascismo ha la meglio su ogni disamina teorica: in tal senso, l'analisi del fascismo resa da Brasillach è estranea a qualsiasi approfondimento storico-sociale ma resta ancorata ad una visione lirica che mal si emancipa da un giudizio puramente estetico. Questa pulsione estetizzante comporta un movimento doppio, e solo apparentemente contraddittorio. Da una parte, l'esprit de jeunesse origina un impulso individualista atto a sorpassare il proprio statuto mediocre attraverso dilatazione euforica dell'io; dall'altra, il desiderio di fusione con una collettività più vasta attraverso il recupero dei morti e dello spirito della nazione testimonia la necessità di un ordine superiore che trascenda le esistenze singole e ne assicuri la coesione. Declinando verso gli stilemi dell'epopea, l'esistenza del singolo è garantita proprio dalla partecipazione ad una collettività che, riscattandone l'assenza di legami, lo completa come individuo. Celebrando la possibilità di armonizzare l'io in una pluralità più vasta, Brasillach propone una visione meno pessimistica rispetto a quella del tempo: la rappresentazione di un soggetto senza legami, passivo ai limiti dell'impotenza, trova nel fascismo le ragioni della gioia e della totalità. Al ripiegamento romantico-reazionario, fondato sul culto dei morti e su un'ipervalutazione mitica dell'identità nazionale, si oppone un polo etico, intento a trasfigurare nel valore della libertà e dell'autodeterminazione la condizione di orfanità e sterilità. Nelle opere di Malraux, Nizan e Sartre la crisi del rapporto tra io e mondo è sublimata euforicamente mediante la valorizzazione dell'autonomia individuale: i sottintesi etici che orientano questa tendenza demandano ogni risposta alle potenzialità concrete del singolo, teso a reperire nella dimensione tangibile della propria esperienza i mezzi della propria sostanziazione. In Malraux questa necessità si connette a quella proiezione eroico-avventurosa che è al centro de La Voie royale, dove l'azione si dà come l'unico modo per ribadire il valore autonomo dell'io. Momento di estremo confronto con il proprio essere, l'avventura ha come conditio sine qua non l'estraneità ai codici ritualizzati della società, fondati sulla mitologia borghese della continuità generazionale. Se la crisi dei legami verticali testimonia lo statuto deficitario del soggetto, il malessere resta qui motivo solo implicito, poiché la statura eroica rovescia la condizione di orfanità e sterilità in garanzia di autodeterminazione. Certo, l'eclissi dei valori fondativi espone l'individuo ad una vertigine d'inconsistenza ma, lungi dal risolversi in nichilismo o paralisi, esalta la lotta del singolo contro le forme del destino. Tuttavia, la morte su cui si chiude la parabola di Perken, rivelando l'assurdità dell'esistenza, non farà che consegnare il processo di autocostruzione del sé ad una impasse tanto storica quanto metafisica. Se l'emancipazione dai vincoli tradizionali innesca uno scatto conoscitivo, la dilatazione solitaria dell'io attraverso la proiezione avventurosa resta legata ad una concezione romantico-nichilista che non prevede esiti fecondi. Con La Condition humaine, il gesto eroico evolve da una tensione individualista verso significati etico-politici di valore collettivo. Se il dato di fondo è il racconto delle vicende rivoluzionarie, il testo apre ad una prospettiva più profonda, in cui la dimensione politica è proposta come ancoraggio ai turbamenti di una generazione di déracinés. Ecco perché, nel reticolato tematico del romanzo, la questione del rapporto con il modello paterno continua ad occupare un problema centrale. Tutti i personaggi del romanzo sembrano privi di radici, ma questa problematica concerne da vicino il rapporto tra Gisors e Kyo. Benché i due rappresentino istanze per certi aspetti complementari, ad emergere è un'opposizione inconciliabile: se Gisors incarna una dimensione contemplativa pronta ad alienarsi dalla realtà, Kyo si fonda come individuo grazie all'azione rivoluzionaria. Rifiutando ogni determinismo in funzione di un'esaltazione della scelta, il progetto di autodeterminazione politico-rivoluzionario illustrato da Malraux implica dunque una totale valorizzazione del presente: una volta cadute le tradizionali forme di consistenza, la dedizione ad una causa comune diventa l'unica forma di giustificazione. Proprio l'adesione dell'io ad una comunità più vasta ridisegna l'impianto metaforico cui ubbidisce la rappresentazione della sessualità: la fecondità dell'azione rivoluzionaria può ormai prescindere dalla sete di dominazione erotica cui cedeva la proiezione avventurosa-individualista. Beninteso, non manca la tematizzazione di una sessualità sterile, legata allo scatenamento del desiderio erotico; tuttavia, essa non è legata ai valori rivoluzionari ma a personaggi dediti ad un'impostazione esistenziale dedita all'individualismo. A differenza dei romanzi precedenti, con La Condition Humaine l'energia si espande in un movimento fraterno basato sulla condivisione costruttiva della solidarietà rivoluzionaria: solo in questo caso la sublimazione della propria inconsistenza individuale, cui orfanità e sterilità rimandano, sembra risultare veramente perseguibile. Ad un medesimo indirizzo risponde la parabola romanzesca di Paul Nizan, all'interno della quale la questione dell'orfanità e della sterilità si lega in maniera ancor più esplicita a problematiche politiche e sociali di sinistra. Coerentemente con i postulati che orientano la letteratura degli anni Trenta, i significati etico-politici diventano valori in grado di rimotivare la condizione di un soggetto fluido, privo delle giustificazioni tradizionali: in quest'ottica, la rivoluzione appare non soltanto una possibilità storica e sociale, ma l'unico modo con cui risarcire l'individuo dalla perdita delle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale. Niente di strano che una simile riflessione sul nesso tra uomo e sfera politica si leghi ad una messa in questione dei legami verticali in quanto la tensione generazionale costituisce un elemento decisivo nel percorso di autodeterminazione politica del soggetto. Antoine Bloyé, romanzo d'esordio di Nizan, costituisce appunto una riflessione sui rischi di ogni percorso slegato da un orizzonte collettivo: attraverso l'ascesa professionale di Antoine, il romanzo restituisce la sterilità individuale e storica di un individuo che sceglie di tradire le proprie origini contadine per conformarsi ad un ideale di vita piccolo-borghese. Con Le Cheval de Troie, il ritratto individuale lascia spazio ad un quadro più ampio che trascende la singolarità in un ritratto collettivo dalle tinte epicizzanti. Pur nell'espansione delle implicazioni tematiche, il problema dei vincoli verticali resta un elemento determinante: in filigrana al nucleo narrativo principale emerge un tema portante, che vede i personaggi separarsi dalle tradizionali forme di consistenza per legare il proprio tragitto ad un impegno etico-politico totalizzante. In questa prospettiva, il processo di emancipazione dai vincoli generazionali costituisce un momento essenziale del processo conoscitivo, ma ancora insufficiente. La coscienza di un'ipoteca tragica gravante sul destino individuale deve costituire solo il primo tassello di un progetto edificante in cui la sterile fascinazione per il nichilismo sia superata attraverso l'adesione ad una causa collettiva. Si tratta di un'aspirazione che si realizza concretamente nei momenti di aggregazione plurale: la fusione nella causa comune sublima la solitudine dei singoli, rifecondando una condizione umana sterilizzata dalla sofferenza. Lo stemperamento delle istanze individuali dentro un quadro collettivo suggerisce la volontà di restituire una nuova epica, per eccellenza integrazione armonica del singolo all'interno di un insieme che lo giustifica e lo trascende: in questo desiderio, è evidente l'aspirazione a una fusione collettiva quasi pre-moderna ma mondata delle implicazioni religiose e rifunzionalizzata in un'ottica esistenziale e politica. Ben presto, la contingenza storico-sociale imporrà a Nizan di ripensare criticamente la possibilità di un collegamento fecondo tra l'io e la storia. Con La Conspiration, il tema della dialettica generazionale viene infatti convogliato all'interno di un'interrogazione autocritica sul malessere di una generazione fluida, priva di solidi punti di riferimento. Il nucleo del romanzo porta la perturbazione nella fluidità del modello familiare ad assumere ancora una volta il ruolo di linea guida all'interno dell'economia narrativa. Ma la sostanziazione dell'individuo, prima garantita dall'aggancio a significati politici costruttivi, è qui rovesciata nella condizione stagnante di una gioventù che non riesce ad agganciare il rifiuto dei valori borghesi a significati collettivi realmente concreti e incisivi. Ultima ed estrema tappa di questo polo, La Nausée di Jean-Paul Sartre descrive un'azione ormai ridotta alla sola dimensione intellettuale. La condizione di orfanità e sterilità è tematizzata fin dall'inizio come un tratto costitutivo di Roquentin, estraneo ad ogni collocazione sociale e collettiva. Da qui, uno statuto solitario su cui si innesta una doppia emarginazione: la prima ha una matrice filosofica e deriva dalla constatazione di una crisi nel rapporto con il mondo fisico; la seconda ha implicazioni sociali, e con odio misto a invidia separa Roquentin dalla classe borghese. Secondo un meccanismo di contaminazione tra assi tematici paralleli frequente nel romanzo, la rivendicazione dell'hic et nunc cui le figure di orfanità e sterilità rimandano assume un significato ideologico-sociale che porta a una contestazione dell'ordine borghese dominante. Se i salauds individuano nella dimensione familiare e nelle tradizioni una giustificazione esistenziale, il progetto di Roquentin mira ad assumere l'esistenza pura attraverso una radicale liberazione dai ruoli. Vincolata alla dimensione soggettiva, l'antropologia di Sartre origina infatti da un processo conoscitivo autonomo, che per definizione non può modellarsi su forme di giustificazioni imposte dai codici tradizionali. Demistificato ogni rapporto di necessità tra l'io e il mondo, l'indagine identitaria di Roquentin assume la contingenza a principio costitutivo dell'essere: sfociando sull'engluement nella coscienza pura, l'esistenza cola nel soggetto liberato dalla sua ipoteca alienante, fino ad invaderlo con la sua fluidità informe. L'indagine cognitiva proposta del romanzo arriva a formulare nell'esistenza l'unica qualità del soggetto, in opposizione alle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale La celebrazione dell'esistenza come predicato ultimo del soggetto sottintende una libertà che, nella sua radicalità, non conduce tuttavia una euforica sostanziazione del sé ma all'assenza radicale di riferimenti: il momento della nausea apre alla tabula rasa di tutti i valori tradizionali per approdare alla certezza che l'esistenza non corrisponde ad alcune necessità ma solo alla contingenza. La questione della contingenza pone dunque il problema dell'essere umano nel mondo: l'angoscia esistenziale si lega alla constatazione d'una gratuità dell'essere, e quindi all'interrogazione senza risposta sulla propria identità. Ma la scoperta della contingenza non deve essere ridotta alle sue coordinate soggettive: nell'immagine di una Bouville sepolta dalla vegetazione, la gratuità del soggetto si lega all'esistenza gratuita della civiltà occidentale, assumendo un carattere storico e collettivo, oltre che ontologico e soggettivo. Beninteso, nella prassi sartriana la condizione di orfanità e sterilità ha un implicito risvolto etico-positivo: solo attraverso la vertiginosa esperienza del nulla, l'essere umano può mettersi in questione. Solo da questo processo di autonegazione può nascere una volontà di autocostruzione che testimonia d'una reale "libertà" del soggetto. L'analitica fenomenologica sfocia implicitamente su un'etica del soggetto che si fa nella misura in cui accetta di negarsi, riconoscendosi in una concezione dell'essere come perpetuo progetto. Ancora lontano dal legarsi a significati pienamente politici, il progetto su cui si chiude La Nausée si limita alla possibilità di un'opera d'arte che, risarcendo la virilità di Roquentin, possa fustigare la collettività borghese detestata e invidiata. Nella quarta parte si è preso in considerazione un terzo polo, particolarmente diffuso in questa stagione: una letteratura dello smarrimento, in cui la condizione di orfanità e sterilità restituisce un movimento cortocircuitale incapace di elaborare costruttivamente la percezione di un malessere tanto individuale quanto storico. Di questa tendenza, il furor liquidatorio di un Céline non rappresenta che la versione meno rassegnata e più anarchica, e perciò meritevole di essere considerata indipendentemente. Se l'opera di Céline si fa interprete di un'inquietudine generazionale, l'assenza di ogni elaborazione sostitutiva consente infatti di rilevarne lo statuto peculiare: alla possibilità di riscattare la condizione di orfanità e sterilità tramite una progressione identitaria, Céline oppone la visione di una condizione umana immodificabile. Si tratta di un dato che emerge con evidenza nel Voyage au bout de la nuit: muovendosi in un contesto socio-culturale in preda al disordine, Bardamu interpreta una condizione priva di ogni punto di riferimento e dunque condannato ad esperire una precarietà costitutiva. In questo senso, l'opacizzazione delle radici familiari riflette un più generale perturbazione delle istanze sociali o religiose tradizionalmente fondative per l'individuo. Se l'assenza di parametri stabili incrina il rapporto di conoscibilità tra l'io e il mondo, la bulimia esperienziale del personaggio risulta anzi accentuata: tuttavia, il movimento nel mondo, lungi dal suggerire un'acquisizione conoscitiva feconda, non fa che restituire l'ossessiva presenza di una morte che condanna il soggetto alla deflagrazione. Posto sotto l'ombra di un immobilismo metafisico, il romanzo esplicita una doppia tendenza all'anonimato cui è destinato l'individuo: il dominio della morte, lungi dal produrre uno scatto reattivo, è solo l'esito più coerente di quell'azzeramento già garantito dalla latenza di ogni giustificazione. Con Mort à crédit (1936), la crisi dell'istituzione familiare e dello status sociale, che nel Voyage è motivo solo implicito del discorso, viene affrontata alle sue radici: dopo aver illustrato una vasta fenomenologia del negativo, l'intento del romanzo è quello di un'immersione nella storia infantile e adolescenziale del personaggio, volto a recuperare le cause di una visione del mondo così radicalmente improntata al negativo. In effetti, l'accento sulla degradazione del microcosmo familiare è inestricabilmente connesso ad una compromissione con la morte e dunque sintomo di una visione radicalmente disperata. In questo senso, il focus sulla dimensione piccolo-borghese della famiglia resta solo un primo, elementare, livello attraverso cui Céline può veicolare rovelli ontologici di portata più ampia, operando, in maniera ancor più marcata, quello slittamento dal piano sociale a quello metafisico-esistenziale che già era stato l'architrave del Voyage. La riduzione ai minimi termini sociali e ontologici, lungi dal comportare una reazione, si risolve in un blocco che ostacola alla base ogni proposito di apprendistato: di fronte all'aggressività dell'esterno, l'unico progetto è un ripiegamento passivo che, abdicando ad ogni autonomia, si limita ad organizzare un labile calcolo difensivo. Si tratta di una chiusura replicata anche dal microcosmo sessuale, il quale, perduta ogni funzione euforica, obbedisce all'immobilismo che regola l'universo céliniano, tradendo in sé la crisi e non la fondazione dell'identità. Il binomio di orfanità e sterilità rimanda così ad una passiva chiusura al mondo, legata all'assenza di una felice progressione identitaria: lo schema del romanzo di formazione, cui lo scheletro del testo sembra alludere, si è oramai ridotto ad un accumulo disordinato e fallimentare di esperienze cui non soggiace più alcun paradigma interpretativo. In questo polo romanzesco rientra però una seconda linea, all'interno della quale le figure di orfanità e sterilità si legano ad un senso di stagnazione esistenziale caratterizzata dalla chiusura di qualsiasi orizzonte - sia esso intimo, sociale o esistenziale. Da qui, uno scenario particolarmente negativo, in cui lo statuto problematico dell'individuo resta alieno non solo da quella tensione reattiva che, pur nella polarità degli esiti, contrassegna il ripiegamento reazionario e la sublimazione etico-costruttiva, ma anche dall'inesausto moto conoscitivo di un Céline. Sulla base di questi tratti è dunque possibile astrarre un modello romanzesco comune, al quale possono essere ascritte le esistenze dimesse e rinunciatarie tratteggiate da Bove e da Montherlant, così come i pallidi calcoli difensivi che contrassegnano i romanzi di Guilloux, Thérive e Simenon. In questo senso, il crollo delle tradizionali forme di consistenza, lungi dal costituire un momento di fondazione dell'io, rimanda ad una paralisi aliena dal minimo progetto di reazione: se la riduzione dell'individuo alle sue forme minimali sfocia sulla constatazione di un divorzio con il mondo, esso non comporta l'elaborazione di significati sostitutivi ma solo un'involuzione solipsistica. Attraverso differenti modulazioni tematiche e stilistiche, questi romanzi illustrano dunque una ricerca di sostanziazione minata alla base da una duplice perturbazione: da una parte, la svalutazione preventiva dell'azione individuale squalifica ogni possibilità di conoscenza; dall'altra, l'opacizzazione di uno spazio fisico fattosi definitivamente illeggibile invalida il concetto stesso di esperienza. Si tratta di un binomio che, riflettendo una morale del fatalismo, preclude ormai ogni conquista identitaria: se molta letteratura degli anni Trenta ha insistito sulla libertà del soggetto, quest'orizzonte romanzesco sembra riaffermare una morale della predestinazione aliena da ogni spessore storico come da ogni contatto con l'hic et nunc.
…"D'altronde, questa materia sommamente fluida ed oscillante, cui si tratterebbe di dar forma identificabile mediante una sagomatura scientifica, si ribella di sua natura ad una cosiffatta condensazione compaginativa che le dia corpo e figura" : così scriveva il Borri del danno a persona nel 1922. Ritengo questa affermazione ancora valida ed attuale. Di conseguenza, se per epistemologia si intende un discorso critico intorno alle scienze, una organizzazione sistematica delle procedure scientifiche, se epistemologia è sinonimo di "filosofia della scienza", se essa rappresenta lo studio dei modi e delle forme secondo cui operano le scienze, se è teoria delle conoscenze, riflessione astratta sui principi e sui modi della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza e del sapere scientifico), allora qualsiasi tentativo di inquadrare il danno alla persona sotto il profilo epistemologico è destinato a priori a fallire, in quanto il danno ha poco di teorico e nulla di scientifico. In danno non è un sapere, non è una riflessione astratta, bensì una pratica di tutti i giorni, che, appunto quotidianamente, si scontra con le esigenze sempre diverse dell'uomo e della società in cui egli vive. Forse, con riferimento alla cosiddetta epistemologia genetica, vale a dire e quella teoria delle conoscenza che tiene conto dello sviluppo di un determinato concetto secondo successive fasi evolutive, avrei potuto procedere ad una analisi "storica" del concetto di danno: cosa in sé certamente utile, in quanto conoscere il passato fa meglio comprendere dove oggi siamo giunti; e cosa che inizialmente avevo anche preso in considerazione, ma che poi ho abbandonato per numerosi motivi: da un lato, sarebbe stato troppo impegnativo svolgere un discorso compiuto sulla storia del danno nei secoli passati, dall'altro, anche limitandomi a questi ultimi 80 anni (dal Cazzaniga in poi), probabilmente, per motivi di scuola o di affetti, non sarei stato obbiettivo; da ultimo perché, nello spirito di serrata dialettica, anche estemporanea, che è la caratteristica di queste giornate medico legali romane, ho pensato che una riflessione storica avrebbe fornito spunti di discussione marginali e poco attuali. Esclusa la possibilità di un inquadramento epistemologico, rimane da chiedersi se del danno a persona sia possibile un inquadramento giuridico; se, vale a dire, sia possibile una sua organizzazione sistematica, nella prospettiva di ricondurre l'argomento ad una vera e propria dottrina giuridica. Non sono certo io la persona più idonea a rispondere ad una tale domanda: mi mancano le conoscenze del giurista e, anche qui, fallirei in partenza; anche se, credo, pure un giurista dovrebbe procedere con estrema prudenza ed attenzione. L'insegnamento del Borri è quanto mai attuale: il danno è proteiforme; muta nel tempo come muta nel tempo l'uomo. E' una convenzione e, come tale, è inutile pretendere di collocarlo in confini stabili e duraturi. Inoltre, e qui mi riferisco in modo particolare, alla attività del medico legale, valutare il danno è cosa molto difficile e, per sua natura, approssimativa, "non esatta"; si può tentare di giungere alla valutazione soggettivamente ritenuta migliore (più esauriente e completa), ma è utopistico pretendere di pervenire ad una valutazione oggettivamente corretta: valutare significa infatti stabilire, a fini economici, lo scarto in peggio subito dal quella singola persona e, soprattutto, in una prospettiva futura, fino alla sua morte (nel danno biologico) o fino alla fine della sua età di lavoro-guadagno (nel danno patrimoniale da lucro cessante). Valutare il danno è formulare un giudizio essenzialmente prognostico, con tutta l'alea propria di qualsiasi giudizio prognostico. Il Cazzaniga , a premessa del suo fondamentale lavoro, disse di aver solo la pretesa di "segnare delle direttive e fissare dei punti fondamentali, dissodare, in una parola, il terreno ". Dopo il Cazzaniga molti Maestri medico legali hanno portato il loro contributo; oggi questo contributo è stato lasciato prevalentemente ai giuristi, ma ancora non si è giunti alla fine del lavoro; molte tessere del mosaico valutativo sono ancora da collocare nella giusta posizione (sempre che questo mosaico così abbozzato resista alle scosse dei mutamenti della società). Infine non vi è neppure uniformità terminologica nella normativa: prendiamo ad esempio la definizione di danno biologico. La sentenza 184/1986 della Corte Costituzionale lo definiva "menomazione dell'integrità psico-fisica dell'offeso", il D.L. 23 febbraio 2000 n. 38 (INAIL) lo definisce "la lesione all'integrità psicofisica della persona", così come la Legge 5 marzo 2001, n. 57 (Regolazione dei mercati, interventi nel settore assicurativo): "la lesione all'integrità psicofisica della persona". Invece il decreto del ministero salute 3 luglio 2003 (tabelle delle microinvalidità), attuativo della L 5 marzo 2001, n. 57, aderendo alla definizione S.I.M.L.A. di Rimini del 2001, cambia la definizione in: "menomazione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato"; definizione questa poi ripresa dal decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) "la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona … che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato". Questo per dire che troppo è pretendere da me un inquadramento giuridico del danno e che, di conseguenza, il mio intervento verterà principalmente sulla valutazione medico legale, anzi solo su alcuni aspetti della valutazione medico legale, quelli dove, a mio parere, vi è minor convergenza ed uniformità di vedute, nella prospettiva che, discutendone, certamente non ci si omologhi, ma si arrivi ad elaborare una serie di concetti utili a ridurre eccessivi sbandamenti valutativi sia in eccesso sia in difetto. Collegata a questa, l'altra prospettiva che guiderà questo mio breve discorso sarà quella di verificare se, al giorno d'oggi, anche con le modifiche introdotte dalle più recenti ed autorevoli pronunce legislative e giurisprudenziali, la prassi valutativa medico legale risulti più o meno confusa e caotica di quanto non fosse in un recente passato. DANNO PATRIMONIALE Prima vorrei parlare di danno patrimoniale, dove nella pratica valutativa quotidiana ho avuto modo di constatare come i problemi controversi siano più limitati rispetto quelli posti dal danno non patrimoniale: due punti vorrei in particolare sottolineare, punti per me chiari, su cui già ho avuto in passato modo di pronunciarmi , ma che tuttavia non sono da tutti i colleghi condivisi: mi riferisco alla "prova medico legale" ed alla "indicazione numerica" del grado di invalidità permanente: 1) La prova medico legale: alcuni colleghi aderiscono a quella corrente di pensiero secondo la quale, allorché si debba dare la prova di un danno patrimoniale da lucro cessante, questa prova la si ottiene solo quando il danneggiato dimostri, attraverso la esibizione della denuncia dei redditi o di documento consimile, di aver avuto una effettiva riduzione del proprio guadagno. Questa prova io ritengo attenga alla attualità del guadagno del leso, non alla di lui capacità di guadagno; per contro al medico legale è chiesto di valutare non se nella attualità il guadagno si è contratto, bensì se il leso sia meno capace di guadagnare da qui in avanti, e per tutti gli anni lavorativi futuri. Fondamentali sono al riguardo le parole sempre del Cazzaniga e la messe enorme di pubblicazioni e sentenze che, all'epoca in cui l'INPS valutava la capacità di guadagnare (e non di lavoro), sancirono come attualità di guadagno e capacità di guadagno siano cose ben distinte, non equivocabili, né sempre sovrapponibili: a volte esse coesistono e coincidono, ma non sempre, essendo scontato che, dopo un evento lesivo, si possa possedere la stessa attualità di guadagno di prima, ma tuttavia non essere più capaci di lavorare e, quindi, guadagnare come prima (lavoro in usura, lavoro per benevolenza del datore di lavoro, fruizione di particolari contratti lavorativi); di converso si potrebbe non essere più in attualità di guadagno, pur possedendo ancora la capacità di guadagnare in un futuro più o meno prossimo. In definitiva, condivido le considerazioni di chi afferma la validità e il significato della prova medico legale (anche se sola), quando, anche in presenza di un guadagno non contratto, si sia tuttavia in grado di motivare che la persona per il futuro non sarà più capace di guadagnare come guadagnava prima. Tra l'altro, ammettere il contrario significherebbe non dare neppure spazio al danno "potenziale" proprio del bambino, dello studente, della casalinga, ecc., il che costituirebbe una inaccettabile ingiustizia. 2) Il numero: la valutazione del danno da lucro cessante in permanente va quantificata (espressa cioè con un numero), oppure solo descritta? oppure a coefficienti ? I pareri sono diversi. Per parte mia, insisto nel sostenere che, quando vi sia una riduzione della capacità lavorativa, anche se è compito spesso arduo e faticoso, il medico legale debba fare il possibile per quantificarne l'entità e non limitarsi solo alla descrizione del quadro menomativo per la successiva interpretazione del Giudice. Insisto nel ripetere che se il medico legale abdica a questa sua propria "cultura" del numero, rinunzia a una parte fondamentale non tanto della prassi valutativa, ma della sua storia. Mi conforta il fatto che vi siano magistrati che sostengono "l'utilità di poter disporre di tutti i fattori della formula di capitalizzazione, anche di quello relativo all'incidenza percentuale dei postumi permanenti sulla capacità lavorativa…" e che, "se esiste la possibilità di tradurre parole accurate e ragionate in numero, la migliore traduzione possibile è, ovviamente, quella proposta dal consulente medico legale"; così come pure mi conforta imbattermi spesso in pareri medico legali di parte dove anche i colleghi che propugnano la sola descrizione delle menomazioni poi concludono con il tanto (ma solo a parole) famigerato e vilipeso numero. DANNO NON PATRIMONIALE Sul danno non patrimoniale il dibattito dottrinale in atto da molti anni non lascia vedere una conclusione a breve; le contrapposizioni tra sentenze (di merito e di legittimità) e tra sentenze a norme di legge sono molteplici; questa confusione si traduce in una conflittualità liquidativa, la quale tuttavia, come è ovvio, tocca anche la valutazione medico legale. Le (relativamente recenti) quattro sentenze gemelle di San Martino 2008 sono intervenute in modo reciso, proponendo una organizzazione sistematica del danno non patrimoniale, soprattutto al fine di evitare duplicazioni delle stesse voci di danno: esse hanno affermato che in caso di "lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica" si deve sempre e solamente parlare di danno non patrimoniale; che, pur essendo questi interessi molteplici, la loro lesione non costituisce forma di danno autonoma, rispondendo solo a scopi descrittivi una suddivisone in danno morale, biologico, da perdita parentale, ecc. In definitiva il danno non patrimoniale non può riconoscere sottocategorie di danno. Anche il danno biologico, pur essendo figura che si riconosce in una definizione legislativa e che recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, si giustifica solo a fini descrittivi. "Di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere"; permangono, ovviamente, i pregiudizi di carattere esistenziale [il Cendon parlando di danno esistenziale cita esempi di "caduta di ogni appoggio sicuro", di "agenda rovesciata", di "accantonamento di hobby", di "inferni grandi e piccoli" in famiglia, di "veleni tra fratelli e sorelle", di repertori "dolorosi", di "vincere il proprio orgoglio" per bussare alle porte dei parenti, di sofferenze nel mondo della scuola, di "sentirsi tagliati fuori da vari circuiti", di "una peggiore qualità della vita nell'ambiente di lavoro: mansioni avvilenti, silenzio con i capi, risorse sprecate, scontri coi colleghi, atmosfere difficili, buio sul futuro", dei "disagi" grandi e piccoli di chi vive confinato, del logorio dei dispetti e del sommarsi delle ritorsioni, di "paura incessante, di dover sempre chinare la testa", di "angoscia nella notte e fobie nel salire in macchina", di "irrisione sociale", di "timore" per un nuovo furto, di angoscia del domani, e così via], ma per essi si dovrà parlare di danno non patrimoniale da "sofferenza morale" determinata dal non poter più fare come prima, dal non poter vivere come prima. Il "fare areddittuale" che un tempo definiva il danno esistenziale, ora va a confluire e si identifica negli aspetti dinamico relazionali. Scompare anche il danno morale soggettivo, piuttosto da intendere quale formula che descrive un tipo di pregiudizio costituito dalla "sofferenza morale soggettiva", e senza aggettivazioni temporali, sempre che la sofferenza non degeneri in patologia, nel qual caso essa entra come componente del danno biologico. Questo tentativo di sistematizzazione del danno non patrimoniale ha trovato difficoltà applicative, non è condiviso da tutti i giudici, è disatteso da normativa successiva. In primo luogo ha dovuto far i conti con i problemi legati alla quotidiana liquidazione del danno. Prendiamo ad esempio le tabelle dell'Osservatorio di Milano . Esse, in ossequio formale alle sentenze di San Martino, propongono una liquidazione congiunta e del danno non patrimoniale conseguente a lesione della integrità psicofisica (ovvero del danno biologico) e del danno non patrimoniale in via presuntiva conseguente alle stesse lesioni a titolo di dolore e di sofferenza soggettiva. Il valore economico del punto, aumentato per comprendervi il vecchio danno morale, risente anche, in misura variabile, della gravità della lesione, dandosi per scontato che a lesione/menomazione più grave corrisponda maggior sofferenza. Questo avviene quando sotto il profilo relazionale e/o della sofferenza soggettiva ci si trovi di fronte a situazioni medie; in casi peculiari ed eccezionali, il Giudice potrà, con idonea motivazione, aumentare ulteriormente il valore economico del punto. Nella pratica, per consentire al Giudice una celerità di calcolo nei casi "medi", i più numerosi, la componente rappresentata dalla sofferenza e/o dalla compromissione alla vita di relazione (il vecchio danno morale) è riconosciuto in via pressoché automatica, senza che ne sia fornita la prova, così superando quanto asserito dalle sentenze gemelle: le tabelle dell'Osservatorio milanese privilegiano indubbiamente una uniformità del risarcimento, salvo considerare a parte i casi più rari, peculiari ed eccezionali. Ma l'inquadramento giuridico sostenuto dalle sentenze gemelle, oltre che non trovare adesione in alcune successive pronunce di Cassazione dove il danno morale è definito voce di danno autonoma, non ha tenuto conto del legislatore, che lo scorso anno è intervenuto con due provvedimenti significativi, anche se in settori normativi specifici e particolari. Il primo è stato il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.), dove si afferma una distinta valutazione percentuale e del danno biologico (DB) e del danno morale (DM) ["la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico"] e il concorrere sia del danno biologico sia del danno morale a determinare la percentuale di invalidità complessiva (IC): ["la percentuale di invalidità complessiva (IC), che in ogni caso non può superare la misura del cento per cento, é data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico: IC = DB+DM+(IP-DB)"]. Il secondo è stato il D.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181 (Regolamento recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell'articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206), dove premessa la definizione di danno morale ("per danno morale, si intende il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato), si afferma in modo simile al decreto precedente che "la valutazione della percentuale d'invalidità … è espressa in una percentuale unica d'invalidità, comprensiva del riconoscimento del danno biologico e morale" , ribadendo che "la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso, fino ad un massimo dei 2/3 del valore percentuale del danno biologico". Quali sono gli aspetti per noi utili da cogliere in queste affermazioni giurisprudenziali e normative pur in parte contrastanti? In primo luogo credo vada sottolineata l'importanza che nei due citati e recenti decreti viene riservata non tanto alla liquidazione, bensì alla valutazione del danno morale, con l'implicito riconoscimento che tale valutazione, anche del danno morale, non può che essere di matrice biologica. In secondo luogo, anche i Giudici dell'Osservatorio milanese mi pare diano grande risalto alla valutazione medico legale. Essi suggeriscono che tale valutazione, alla base del loro successivo calcolo liquidativo, sia espressa con un numero omnicomprensivo, che rappresenti cioè la lesione della integrità psicofisica "sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, ovvero peculiari". In altri termini, si richiede proprio al medico una valutazione personalizzata del danneggiato: la modulazione del numero è considerata espressione di personalizzazione del fondamento risarcitorio, forse anche perché le operazioni liquidative successive, accetto casi particolari, abbiamo visto che si caratterizzano per una indiscutibile omogeneità e predeterminazione di calcolo. Da ultimo va valorizzato quanto affermato dalle sentenze gemelle in relazione al danno biologico nel suo aspetto estetico, al danno da perdita o compromissione della sessualità ed al danno alla vita di relazione, con i loro relativi pregiudizi di tipo esistenziale concernenti gli aspetti relazionali della vita: ribadiscono infatti tali sentenze che queste voci di danno vanno assorbite nel danno biologico nel suo aspetto dinamico. Il danno estetico, alla vita di relazione e alla vita sessuale, questi danni che il Cazzaniga chiamò "coefficienti di danno", è evidente cha tanto sono più gravi, quanto maggiore non è la menomazione anatomo-funzionale (la componente statica), ma la sofferenza morale e il disagio interiore che il leso, ritenendosi "diverso", avverte nell'esporsi a terze persone e al loro giudizio (la componente dinamica). Anche questa visione "ampia" del danno biologico privilegia senz'altro la fase valutativa. ll merito delle sentenze gemelle è stato quello di sottolineare che, così come il risarcimento del danno biologico comprende e la lesione della integrità psicofisica (componente statica), ma soprattutto i riflessi negativi dinamico relazionali della lesione stessa, di cui la sofferenza soggettiva è fondamento, altrettanto, il risarcimento della lesione di altri interessi areddituali inerenti la persona comprende sia la lesione del bene in se, sia i conseguenti riflessi esistenziali, ovvero dinamico relazionali. In altri termini, i riflessi negativi dinamico relazionali si identificano in quelli esistenziali e, quindi nella sofferenza soggettiva. Questa simmetria valutativa dell'interesse leso, visto sotto il profilo statico, ma soprattutto dinamico, chiama in causa specifiche competenze tecniche appunto nella valutazione della "sofferenza". Numerose sono a questo punto le questioni che si aprono: 1. qual è il confine oltre il quale la sofferenza soggettiva (o il danno morale per chi ancor oggi così lo voglia chiamare) diviene malattia, e quindi, danno biologico a tutti gli effetti ? 2. la valutazione della sofferenza soggettiva "non patologica" da lesione del bene salute va considerata e valutata in modo uguale o diverso dalla sofferenza da lesione di altro pregiudizio esistenziale ? 3. a chi compete valutare la sofferenza "non patologica" e, soprattutto, su quali parametri essa va valutata ? 4. è in grado il medico legale di estendere la propria valutazione alla sofferenza soggettiva, (id est ai pregiudizi esistenziali, ovvero agli aspetti dinamico-relazionali), oppure si deve affidare ad una indagine psicologica, così come ricorre alle competenze di uno psichiatra quando la sofferenza venga a sfociare nel patologico? 5. è utile elaborare scale di sofferenza [anche alcuni colleghi milanesi vi si sono cimentati] ? e possono coesistere scale di sofferenza fisica e psichica ? 6. oppure, va condivisa l'opinione di chi da per scontata la presenza sempre, nella lesione della integrità psicofisica, di un certo grado di sofferenza "non patologica", così da limitarne una specifica valutazione solo alle situazioni più gravi ? (sempre che queste ultime non coincidano con una degenerazione patologica, nel qual caso si strutturerebbe un danno biologico vero e proprio) Sentirò con estremo interesse quanto al riguardo diranno i prof. Umani Ronchi , Catanesi e Di Vella. LE TABELLE DEL DANNO BIOLOGICO Prevalente dottrina afferma che nel danno biologico suscettibile di valutazione medico legale rientrano sia gli aspetti statici sia quelli dinamici della singola persona, conferendo così all'opera ed alla valutazione del medico legale il significato di atto effettivamente preliminare al risarcimento. Eppure, pur se pienamente consapevoli della necessità di un risarcimento personale ed integrale, sempre dal medico legale è stata avvertita la esigenza di appoggiarsi a dei riferimenti tabellari, forse per quel principio di uguaglianza che sta alla base della nostra società civile. La contraddizione di fondo della valutazione medico legale è proprio quella di dovere far coesistere queste due esigenze tra esse non facilmente conciliabili: evitare giudizi grandemente difformi e rispettare il principio della personalizzazione del danno. Il far ricorso a parametri valutativi di base condivisi era considerato dal Cazzaniga un ripiego proprio delle assicurazioni, "dovuto alla necessità di semplificare i giudizi di valutazione, di consentire meglio le previsioni degli oneri finanziari, di ridurre al minimo le controversie", oltre che di uniformare la valutazione su tutto il territorio nazionale. Purtuttavia, anch'egli giunse alla fine a stilare delle tabelle, sia pure di invalidità lavorativa "ultragenerica". Ma espressione di un analogo compromesso furono le tabelle di Como e Perugia, quelle della scuola romana e anche le altre tabelle di volta in volta succedutesi negli anni. A questo proposito, mentre ci si trovava entrambi sul traghetto che per un convegno trasportava entrambi all'isola d'Elba, fui fatto partecipe dal prof. Bargagna (questa sua cortese confidenza era probabilmente dettata dal fatto che, su sua richiesta, avevo ottenuto che una compagnia assicurativa milanese di cui era consulente medico centrale facesse periodicamente pervenire al suo gruppo di studio del danno copia delle sentenze in tema di danno biologico che la vedevano coinvolta) del dilemma che stava vivendo: doveva decidere lui, che sempre aveva sostenuto la necessità di un risarcimento integrale e personalizzato del danno biologico, se aderire o meno alla proposta di redigere con altri una tabella del danno biologico. Alla fine, egli optò per la tabella, spinto dal desiderio di contribuire a maggiormente uniformare quello che considerava un caos valutativo, anche se era pienamente consapevole che, nel contempo, avrebbe legittimato come valutatori del danno biologico colleghi e mestieranti che di medicina legale nulla o poco sapevano. Le cose non sono cambiate: le tabelle rimangono sempre un ripiego, utile finché si vuole, ma sempre un ripiego. Ma se ripiego sono, sarebbe bene costruirle ed utilizzarle nel modo migliore, in modo che presentino le minor ambiguità possibili. Quelle attuali, e mi riferisco non ai valori numerici, ma alla criteriologia applicativa, prestano il fianco ad una critica per me cruciale: infatti mi è incomprensibile il parametro di riferimento costituito dalla "menomazione della integrità psico-fisica della persona … la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti". Quali siano questi aspetti relazionali comuni a tutti nessuno me l'ha mai spiegato; è un modo di dire dettato dal politicamente corretto senso di uguaglianza, in cui siamo i primi a non credere. Abbiamo ferocemente criticato il concetto "di capacità lavorativa generica, intesa quale attributo dell'uomo medio" perché concetto astratto, in cui confluiva tutto ed il contrario di tutto, e siamo ricaduti nell'errore di concepire e dar credito ad aspetti dinamico-relazionali per tutti uguali (uomini e donne, bimbi ed anziani, ignoranti e letterati, lavoratori e benestanti, operai e contadini, ecc.). Un minimo di coerenza dovrebbe portarci a dire che, al più, ed anche qui con molti limiti, siamo in grado di tabellare il danno biologico statico, e quindi di convenire sulla percentuale di invalidità permanente da riconoscere alla menomazione anatomo-funzionale, a prescindere dai riflessi extralavorativi e non reddittuali della menomazione medesima (danno biologico dinamico), i quali, variando da persona a persona, necessitano di una stima a parte. Il ristoro del danno biologico statico, statuario o anatomo-funzionale che dir si voglia, si configurerebbe così in un chiaro ed evidente indennizzo, così come avviene in ambito assicurativo INAIL. La peculiarità del danno a persona starebbe poi nella personalizzazione risarcitoria dello stesso, mediante integrazione con il danno non patrimoniale da dolore e sofferenza soggettiva e, se del caso, anche con il danno patrimoniale. LO STATO ANTERIORE (ovvero DELLE PREESISTENZE) In questa prospettiva, grande rilievo assumono le preesistenze: la stato anteriore inevitabilmente condiziona sia la valutazione del medico legale, sia poi il risarcimento, in quanto, esso deve reintegrare lo scarto in peggio, ma non di più. Secondo me, quando il parametro di riferimento su cui poggia la valutazione della invalidità è simile per tutti, tanto da consentire di stilare una lista di menomazioni tabellate, il coesistere di molteplici menomazioni non potrà mai portare ad una valutazione superiore all'unità (mai potrà andare oltre il 100%); in altri termini, mi pare consequenziale che le menomazioni preesistenti non possano che agire come fattore di riduzione della valutazione (ma non della liquidazione). Su questo argomento già da molto tempo (sia nel 1989 che poi nel 1996 ) ebbi modo (con altri colleghi di Milano) di proporre l'utilizzo del cd. danno differenziale, che, sulla falsariga della teoria delle capacità residue del Melènnec , si riconosce nella differenza ottenuta sottraendo alla invalidità permanente post-evento lesivo quella pre-evento; nell'affermare che non si può pretendere venga compensata una funzione che già sia perduta (il paraplegico con esiti fratturativi di un arto che nulla di più né nulla di meno apportino, non può pretendere di essere risarcito di una funzione che neppure possedeva; mentre invece avrà il sacrosanto diritto di essere risarcito per altre componenti di danno che non sia quello funzionale). Ma anche nel dire che non si può pretendere di considerare come integra - pari al 100/100 - la realtà psicofisica di una persona che già sia parzialmente compromessa. Né valgono motivazioni di tipo falsamente etico-pietistico, in quanto la quota di danno differenziale così economicamente calcolata, si colloca sempre nella parte più alta nella tabella di conversione monetaria, laddove il valore del punto è sensibilmente più elevato. Ma qui mi fermo, sia perché mi ripeterei, sia, soprattutto, per non invadere l'argomento affidato al prof. Tavani. IL DANNO DA PERDITA DI CHANCES Così come, non volendo neppure invadere il campo del prossimo intervento del prof. Fiori, vorrei solo rimarcare le perplessità. e, quindi, i molti interrogativi che il danno da perdita di chances mi sollecita, e che, per motivi di tempo, riduco a due, ma a mio avviso cruciali. Se il danno da perdita di chances è sinonimo di danno da sacrificio di possibilità, qual è il limite tra questo danno ed il danno aleatorio non risarcibile? Il danno da perdita di chances mediche veniva definito nel 2004 dalla III Sezione della Cassazione Civile "ontologicamente diverso" dal danno a persona, in quanto sono le stesse chances "l'oggetto della perdita e quindi del danno"; in altre parole, non necessitando esso di accertamento del nesso causale, veniva introdotta una sorta di danno punitivo del solo comportamento illecito del medico. Successivamente, la Cassazione Civile a Sezioni Unite , trattando delle varie forme del danno da dequalificazione, tra cui anche il pregiudizio subito per perdita di chances lavorative, ha ritenuto di aderire all'indirizzo secondo il quale "il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro … deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile ad una valutazione equitativa", affermando sia che "dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo", sia che "una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento … (è) istituto (che) non ha vigenza nel nostro ordinamento". Quanto sopra vale solo per il datore di lavoro, ovvero si estende anche alla responsabilità professionale medica ? Il danno punitivo del solo comportamento illecito non vale per il datore di lavoro; ma continua a valere per il medico ? Confido nella relazione del prof. Fiori per aver qualche maggior lume. CONCLUSIONI Per concludere, e facendo riferimento al tema di questa giornata, se all'aggettivo unitario dovesse essere attribuito il significato di risarcimento del danno alla persona per tutti uniforme, è ovvio che sarei profondamente contrario, pena lo sconvolgimento della stessa nozione di danno risarcibile: l'essere umano non è omologabile e neppure il danno che lo dovesse colpire potrà mai essere omologato. Solo la componente statica del danno biologico (vale a dire la pura lesione della integrità psico-fisica, il danno anatomo-funzionale in sé considerato) ha possibilità di valutazione uniforme. Non sono contrario di principio che questo parametro valutativo del danno biologico statico venga trasferito dalla responsabilità civile in altri ambiti valutativi: osservo tuttavia che la sua adozione dovrà comunque essere accompagnata da opportuni fattori di correzione inerenti la specifica tutela assicurativa o previdenziale: così è avvenuto per l'INAIL con la tabella dei coefficienti, ed altrettanto è stato per la cause di servizio per le missioni militari all'estero e per le vittime del terrorismo, laddove, nel calcolo della invalidità complessiva [IC=DB+DM+(IP-DB)"] rientra anche la "percentuale di invalidità permanente riferita alla capacità lavorativa".
Scopo di questo lavoro è proporre una comparazione a livello tematico tra l'Odissea e il poema I Lusiadi, cui dà vita, nel 1572, Luìs Vaz de Camões, il maggiore scrittore di lingua portoghese. Dopo questo primo capitolo introduttivo, l'esposizione si focalizzerà sulla relazione che sussiste tra la cultura portoghese e quella classica. Nel secondo capitolo verrà introdotta l'episteme storica e culturale entro cui si situa il secolo de I Lusiadi: il secolo delle scoperte, delle Gesta Dei por Lusos, che vede assurgere ad eroe primario un Ulisse nuovo, dantesco, che con il suo "fatti non foste a viver come bruti" spinge a seguire nuove rotte e diviene - diremmo oggi, idolo, di naviganti e navigatori. Poi verrà introdotta, nel quarto capitolo, una sinossi del poema di Camões, funzionale all'indagine comparatistica. Dopo aver individuato riprese, riformulazioni e novità prenderà avvio lo sviluppo delle correlazioni individuate: nel quinto capitolo verrà analizzato il transito marittimo ed il suo fine, nel sesto capitolo il ruolo degli dei, nel settimo la struttura delle narrazioni e degli espedienti tecnici messi in opera per strutturarle (mise en abyme, flashback e flashforward). A seguire vengono dunque presentate, nel paragrafo 1.2, le peculiarità che fanno de Lusiadi un poema epico. In 1.3.1, la presentazione del cronotopo de I Lusiadi permette di avvalorare queste affermazioni. Nel paragrafo 1.4, infine, viene presentata la componente più innovativa del poema camoniano. 1.2 L'epica de "I Lusiadi" Nell'introdurre lo statuto epico del poema camoniano, vanno considerate non solo le radici profonde che legano quest'opera cinquecentesca all'epica classica, ma anche le variazioni sul tema che permettono al poema di rispecchiare in pieno la propria epoca. Camões canta il viaggio di Gama considerandolo molto più di un avvenimento concluso: quel viaggio rappresenta il culmine non solo delle esplorazioni della costa africana occidentale, iniziate con il vigoroso impulso dell'Infante Dom Henrique, ma della storia stessa del Portogallo che con tali esplorazioni si identifica a partire dal 1415. L'essenza ultima del poema non è però solo questa. Si è discusso a lungo, infatti, sulla natura simbolica del viaggio che viene rappresentato nei poemi epici. Questo schema definisce i tre momenti fondamentali della chiamata, del viaggio propriamente detto e del ritorno. Di contro, dal punto di vista della comunità, il ritorno dell'eroe costituisce l'obiettivo e l'unica giustificazione della sua lunga assenza. 1.3 Il cronotopo dell'epica Nel riflettere sulla capacità di autoanalisi di una comunità, è interessante notare come l'epica letteraria, a giudicare dalle sue migliori produzioni, non sbocci mai nei tempi d'oro di una nazione, ma nel momento del suo declino. Se ciò accadesse solo in un caso, potremmo ascriverlo al temperamento del poeta e considerarlo nei termini di tale specifica occorrenza. 1.3.1 Il cronotopo de "I Lusiadi" Camões vive alla fine di grandi avventure e all'alba di grandi cambiamenti. Così decide di cantare la grandezza della sua nazione e di coloro che l'hanno costruita. 2. Dalla follia di Ulisse alle gesta Dei por Lusos: esegesi di una rivoluzione mentale 2.1 Il Portogallo Rinascimentale Non è semplice riuscire a comprendere pienamente l'ascesa e il declino dell'Impero coloniale portoghese rinascimentale. Il Portogallo detiene una posizione di preminenza nella storia delle scoperte geografiche grazie a tre grandi imprese: l'apertura delle rotte oceaniche verso Oriente, la colonizzazione del Brasile e la diffusione della cristianità in terre lontane, soprattutto ad opera dei Gesuiti. I portoghesi del Rinascimento non erano tutti grandi pensatori; molti di loro, come Álvaro Velho e Pero Vaz de Caminha, erano uomini semplici, non colti, che presero parte con modestia alle scoperte e che, senza dubbio, sapevano come resistere alle difficoltà marittime. Intelligenze acute, come il vate Camões, combinarono una innata capacità di resistere alle avversità della vita con una disincantata, realistica visione del mondo, degli uomini, del Portogallo, che sottende l'apparente ottimismo patriottico dei Lusiadi. Forse queste qualità possono aiutarci a capire come tali uomini siano riusciti a raggiungere quasi tutti i lidi del mondo perseverando nel sacrificio. Molti della ciurma erano in realtà veterani dei viaggi di Dias. È probabile che questo resoconto di viaggio sia il diario di bordo di uno dei quattro vascelli – il São Rafael – che salparono dal Restelo, il porto di Lisbona, alla volta delle Indie. Eccone l'incipit: Nel nome di Dio. Uno degli scopi dei viaggi portoghesi era quello di scoprire se e che tipi di evidenze cristiane vi fossero in India. L'ideale sarebbe stato trovare qualche monarca cristiano e stringere alleanze politiche e religiose con lui, per quella convinzione secondo cui le navigazioni intraprese sotto l'egida della diffusione del Cristianesimo potevano avere buon fine e portare prestigio alla madrepatria. 2.2 Un caso tardomedievale: l'impresa dei Vivaldi In epoche anteriori al Rinascimento, comunque, si rendeva già manifesto un cambiamento culturale che, considerando superata l'idea del non più oltre, tentava la via del mare alla ricerca di nuove rotte. Vi furono già nel Medioevo alcuni che, salpati alla volta dell'Atlantico suscitando la meraviglia di chi li vide partire, non fecero più ritorno. Come sostiene Nardi, non è inverosimile che Dante abbia avuto notizia dell'accaduto e, ispirandosi a questa storia, sia riuscito ad animare della stessa intraprendenza la figura del suo Ulisse. Se l'Ulisse di Omero, al sicuro nella propria reggia, può lì attendervi una decorosa vecchiaia, tale sorte non si addice all'eroe dantesco, che personifica la ragione umana insofferente ai limiti e ribelle al decreto divino che interdice il trapassar del segno . L'Ulisse di Dante non nasce dallo sforzo erudito di un tardo umanista, abilissimo nel riprodurre fedelmente modelli; quanto poi il dantesco sia lontano dall'omerico è visibile al primo sguardo. Forse spira veramente, nel pathos con cui Dante dà ali al discorso del suo Ulisse, il futuro spirito dei viaggi intorno al mondo. L'oceano era la parte del globo terracqueo negata ai viventi, dove l'unica terra emersa era la montagna del Paradiso Terrestre; nessun mortale l'aveva impunemente violata. Dante sceglie di seguire un cammino differente da quello del suo Ulisse, una strada luminosa, non folle, ma sublimata da una visione cristiana delle cose e del mondo. L'Ulisse trecentesco incarna la nascita del mondo moderno e lo fa grazie ad una poesia di altissimo valore che sgorga dalla realtà dei fatti, da un evento tanto impensabile allora quanto la grandezza dei sogni e delle speranze umane. 2.4 Colombo e Vespucci: dall'arte alla vita. La realtà del Nuovo Mondo affonda l'incubo dantesco: la poesia si inoltra nel mare, seguendo stavolta Ulisse senza biasimarlo, diventa vita, vissuta e vera. Le gesta dei Portoghesi ricevono così il sigillo di Dio. 3. Ulisse e Lisbona: un legame da sempre 3.1 Le radici leggendarie Al fine di introdurre l'eziologia della città di Lisbona pare opportuno riportare l'episodio mitologico seguente che narra della fondazione della città . Nel frattempo, il nemico sconosciuto e occulto era in cerca di Ulisse. Si avvicinò alla donna che gli parlava. La regina, consapevole del proprio trionfo, continuava a incantarlo nel suo sguardo enigmatico. Aveva nostalgia del mare e sete di nuove battaglie. La presenza femminea, in primo luogo, rimanda all'archetipo del matriarcato, tipico delle civiltà mediterranee arcaiche. In seconda istanza, la presenza dei serpenti. Il serpente, nelle società matriarcali africane, viene considerato signore delle donne e della fecondità. Lorenzo Valla, tra il 1445 ed il 1446 al servizio del re di Aragona, afferma che in Portogallo si usa una forma del nome di Lisbona a pretesto di una derivazione etimologica da Ulisse, e sostiene che la referenza greca può notarsi al massimo in un ipotetico, sebbene infondato, elemento finale della parola, ossia in –hìppoi , in cui mito e realtà si incontrano . / Ulisse è quel ch' alza la sacra casa / alla dea che gli diè lingua faconda. / Dopo aver Ilio in Asia al suolo rasa / su terreno europeo Lisbona fonda) . In questo passo Paolo da Gama illustra al catual di Calicut gli stendardi di seta che svettano sulle navi portoghesi, su cui è dipinta la storia del Portogallo. Rodrigues parte da un'osservazione sul titolo del poema camoniano, sostenendo che Resende fu uno degli innovatori della parola Lusiadae, impiegandola per la prima volta – in vece della forma Lysiadae, molto usata dai latinisti rinascimentali – proprio nel seguente passaggio del Vincentius: …urbemque [ Olysses] suo de nomine primum Finxit Odysseiam, quae nunc carissima toto Cognita in orbe, ducem fama super astra Pelasgum Tollit. 3.3 Una Laudatio Urbis: letteratura apologetica a sostegno del mito. La laudatio si articola in maniera peculiare: si esaltano la strategica posizione della città, l'opulenza del porto, la salubrità del clima. 3.4 L'Ulisseia: Lisbona mulher à espera Se si guarda al secolo XVII, infine, Gabriel Pereira de Castro, autore nel 1636 dell'Ulisseia, altro poema epico con l'intento di narrare le avventure che portarono Ulisse alle sponde lusitane, ricorre all'Odissea come modello. L'evolversi di questa programmaticità è ben visibile fin dall'apertura, con l'invocazione alla musa, la dedica al re e l'inizio della narrazione in medias res, passando attraverso l'utilizzo della mitologia, il ricorso alla profezia ed una certa varietà stilistica che stempera il tono epico talvolta con episodi lirici, talaltra con inserti bucolici. Questa aspirazione letteraria incontra, nel Portogallo del secolo XVI, fatti grandiosi appena occorsi. Fin dall'esordio del poema è enunciata la poetica della verità e realtà dell'epos narrato. La varietà di inserimento della materia è strutturata in maniera armoniosa: è possibile notare infatti una lunga analessi costituita dalla narrazione di Vasco de Gama ai canti II – IV; seguono l'ekphrasis delle scene rappresentate sugli stendardi portoghesi al canto VIII e la profezia al canto X. Questi tre blocchi narrativi sulla storia portoghese sono assai istruttivi perché mostrano il procedere del poeta. Oggetto della narrazione è il passato portoghese, fino ad anni prossimi alla composizione del poema; l'ottica che caratterizza questo incedere muta di continuo: nel primo blocco dona una visione travagliata della monarchia portoghese, nel secondo è colma d'ammirazione verso i più fulgidi esempi di eroismo dei suoi servitori, nel terzo guarda alla colonizzazione futura. Il passato portoghese appare segnato dalla fragilità umana; non va mai dimenticata la situazione psicologica in cui de Gama è narratore. Canto I – il poeta dichiara la sua intenzione di cantare le gloriose imprese d'Asia e Africa dei portoghesi. Invoca per questo le ninfe del Tago e dedica il suo poema al giovane don Sebastiano. Bacco, dal cielo, non tollera la buona sorte dei portoghesi. Canto II – all'arrivo a Mombasa, un messo del re locale invita de Gama a sbarcare; i due degredados che de Gama manda in perlustrazione a terra sono ingannati dagli abitanti e da Bacco. Gli infedeli lasciano le navi insieme al pilota mozambicano che teme sia stato scoperto il suo inganno. Vasco de Gama invoca la Divina Provvidenza e Venere, per soccorrerlo, si reca da Giove chiedendo al padre di confermare l'aiuto ai portoghesi. Qui il re accoglie favorevolmente i portoghesi, e chiede di essere informato sulla storia del popolo lusitano e sulle traversie affrontate dai naviganti per giungere fino alla sua città. Canto III – Vasco de Gama dà avvio alla sua lunga risposta al re di Malindi. Inizia descrivendo la collocazione geografica del Portogallo e, dopo un cenno alle antichità portoghesi, tra mito e storia, ricostruisce la nascita del regno a partire da Enrico di Borgogna e dal figlio di lui, Afonso I, le cui vicende sono descritte in dettaglio. Il pianto del gigante, sotto forma di tempesta, segna la fine dell'angoscioso incontro. La narrazione al re termina con l'esaltazione della veridicità delle scoperte dei portoghesi. Camões canta infine a sua volta la grandezza delle opere portoghesi, esaltando il valore della poesia che le celebra. All'alba viene avvistata Calicut, meta tanto sospirata; de Gama, in ginocchio, rende grazie a Dio. Il poeta conclude il canto esaltando l'onore raggiunto grazie al valore individuale e al rischio della vita, non tra le mollezze e fondandosi sulla nobiltà dei propri predecessori. Canto VII – Camões celebra con ardore il valore dei portoghesi, introducendo poi una descrizione sintetica dell'India e dei suoi abitanti. Monçaide riferisce le principali vicende del regno del Malabar, a partire dalla conversione all'Islam del re Perimal, illustrando anche gli usi sociali e religiosi degli Indù. De Gama viene accompagnato fino alla reggia da un catual mandato dal re e, nella sala del trono, propone allo zamorino l'alleanza con i portoghesi; l'indiano rimanda la decisione all'incontro con il suo consiglio, facendo ospitare i portoghesi negli appartamenti del catual. Il poeta interrompe allora la descrizione per rivolgere alle ninfe del Tago e del Mondego una nuova invocazione in cui ricorda l'impegno profuso per la poesia e la scelta di cantare gli eroi che misero a repentaglio la vita per Dio e per il re. L'animo del re è mal disposto verso i portoghesi sia per i responsi degli auspici, che ne predicono il dominio, sia perché Bacco, assunti i panni di Maometto, appare in sogno ad un sacerdote musulmano esortandolo a contrapporsi ai cristiani, provocando così i maneggi dei musulmani e dei catuali. Venere, mentre i portoghesi sono sulla via del ritorno, appronta per loro il meritato riposo: una splendida isola oceanica in cui i naviganti possano provare le gioie dell'amore con le ninfe del mare. Canto X - Un sontuoso banchetto è pronto nel palazzo di Teti, che canta le future glorie dei lusitani, ricordandone le più brillanti figure: tra gli altri, Duarte Pacheco e Francisco de Almeida, Afonso de Abuquerque e João de Castro. Infine Teti conduce de Gama – privilegio straordinariamente concesso ad un mortale – a contemplare la macchina del mondo, illustrata secondo il modello geocentrico tolemaico, retta dalla Provvidenza Divina, mentre gli dei sono, dice Teti, solo bei nomi di cui Dio si serve per le cause seconde. Il poema si conclude con la dura invettiva contro l'insensibilità nazionale nei confronti della poesia e con l'invito al re a ricompensare i suoi fedeli servitori che rischiano la vita per lui; la poesia del poeta non cesserà di celebrarlo. La tematica dell'attraversamento, del transito, del viaggio che si compie in un moto dalle più disparate sfaccettature è stata numerose volte oggetto d'indagine e di riflessioni. Ad esempio, finita la narrazione al banchetto di Alcinoo, così possiamo leggere tra i primi versi del libro tredicesimo: [….] Ricordo e ritorno costituiscono un'endiade in cui i due termini sono inscindibile rinvio dell'uno all'altro: dimenticare il ritorno equivale alla perdita della propria identità, della propria destinazione, equivale alla condanna allo smarrimento errante senza un fine. Nel libro dodicesimo, ai versi riportati nel paragrafo precedente, riguardanti l'episodio della terra dei lotofagi, l'oblio è una terrificante evenienza che viene oggettivata da Omero nel loto. Tale meccanismo rimanda inferenzialmente ad un'altra oggettivazione presente in un altro mito: la mela offerta ad Eva nel giardino dell'Eden oggettivizza in sé la possibilità della conoscenza del bene e del male. In corrispondenza ossimorica con questa oggettivazione troviamo appunto il loto: se la tentazione propugnata ad Eva conduce alla conoscenza del bene e del male, quella offerta dai lotofagi porta all'oblio. ( Odissea, IX, 224 – 225 / 228 – 230 ) Possiamo vedere come contenga il germe del mito dantesco di Ulisse: "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. La continua ridefinizione e rielaborazione di se stessi attraverso l'acquisizione dell'ignoto permette di prendere coscienza della propria finitezza, di avvertire l'urgenza della conoscenza, di spostare i baricentri epistemologici dagli infiniti celesti alla limitatezza mortale, che però racchiude in sé l'infinito della mente umana. 6.Il ruolo degli déi In questo capitolo verrà esposta in maniera sistematica la funzione degli dei all'interno dei due poemi presi in esame. 6.4.1 Atena. Per sollecitare la capacità decisionale del padre, Atena sottilmente agisce suscitando la commozione di Zeus. La dea, nel perorare la causa del proprio protetto, nel primo libro dell'Odissea dispiega in toto la propria capacità intellettuale e, appunto in sede di concilio, la vediamo fare leva in maniera incalzante proponendo il suo argomento preponderante: Ma il mio cuore si spezza per Odisseo cuore ardente, misero!, che lunghi dolori sopporta lontano dai suoi, nell'isola in mezzo alle onde, dov'è l'ombelico del mare: [………………………………….]Se però tale attributo avvicina ad una dimensione umana il dio, eccolo nel V libro riportare l'adorata figlia glaucopide alla lungimiranza divina, con una risposta che riguarda la punizione che attende i pretendenti. Infatti ai vv. 21 – 27 ricorda alla figlia che proprio a lei è affidato il compito di punire le malefatte degli usurpatori della casa di Odisseo. È ciò che Ermes, su comando del Cronide, riferisce a Calipso nel V libro, quando il messaggero degli dei viene inviato dalla ninfa per comunicarle la decisione del concilio riguardo all'eroe itacese: Ma certo il volere di Zeus egìoco non può Un altro dio trascurare o far vano. Quando infatti il Sole, nel XII libro, si lamenta del sacrilegio compiuto ai suoi danni ad opera dei compagni di Odisseo, ossia l'aver osato cibarsi delle vacche sacre a lui, protesta in maniera clamorosa ed estremistica: abbandonerà la terra per trasferirsi negli Inferi qualora i Greci non venissero puniti. (XII, 385 - 388) Oltre che le lagnanze del Sole, Zeus riceve anche le rimostranze di Poseidone, che, progenitore dei Feaci, si sente tradito da loro perché hanno reso troppo facile il ritorno di Odisseo, che pure il dio del mare sa di non potere impedire, in quanto assicuratogli dal destino e quindi dallo stesso Zeus che ne è garante. Che pietrifichi una nave al suo ritorno in patria, quando è già visibile dalla città, e copra la città stessa con un gran monte. Nel libro XX troviamo Odisseo in ascolto del pianto di Penelope, finalmente ritrovata e accanto a lui; crede sia una fantasia, e chiede a Zeus conferma del lieto presagio; vuole un segno divino ed uno umano che lo rassicurino sulla contingenza dell'evento che sta vivendo. (XX, 102 – 105 / 111 - 119) L'epifania gratuita garantisce la validità del segno, e risulta gratuita in quanto proveniente, nella sua manifestazione umana, da persona estranea al conflitto. Tale evenienza svolge una funzione maieutica nel procedere degli eventi; Odisseo comprende che è l'ora di agire, che il fato e gli dei lo accompagnano. L'ultima performance del padre degli dei ha luogo nel libro ventunesimo, e decreta la fine dei pretendenti dando il via alla gara con l'arco: […………….] 6.1.3 Poseidone Il ruolo di Poseidone può essere considerato quello dell'antagonista primario, portatore di distruzione, ma sopra ogni cosa figurazione del caos, della furia devastatrice che, nella propria ira, diviene causa primaria del lungo peregrinare. All'inizio, nel libro I, durante il concilio degli dei, il dio non è in sede: sta smaltendo i bollori nel paese degli Etiopi, dove gli vengono tributati lauti sacrifici. Così Camões, affidandosi al proprio amore per l'antichità, sceglie di reintrodurli, e di dare loro una posizione preminente nel proprio schema principale. Gli dei sono comunque reali, nel senso che incarnano forze potenti nel cuore umano e nello scorrere della vita. Nel Rinascimento questi due mondi potevano convivere fianco a fianco. Non è il dio del vino e dell'estasi dionisiaca, ma lo spirito orientale nella propria vanità, astuzia e disordine. A Giove - come a Zeus nell'Odissea - spetta la decisione finale, ma egli è al di fuori della battaglia. A Mozambico diffonde cupe voci, ma viene frustrato nel suo intento dall'accortezza di Gama. Camões si concede una fantasia bizzarra nel rappresentare Bacco rogante all'altare. Tutto ciò non è mera fantasia; ha delle basi nella storia. Determinato nell'impedire che la flotta raggiunga l'India, Bacco invoca i poteri del mare affinché scatenino una tempesta. Avendo sofferto a causa della malignità degli uomini, adesso soffrono per la malignità degli elementi. Una volta ancora Venere e Bacco fanno le veci dei poteri sovrumani che aiutano o ostacolano i portoghesi. Le benefiche forze del mondo che nascono dalla civiltà non vengono spesso mostrate in natura; le forze del male, che riempiono il cuore dell'uomo di nefandezze e menzogne sono simili alla violenza dei poteri naturali che gli esploratori devono affrontare. In Venere e Bacco Camões mostra una dicotomia fondamentale del mondo, una lotta tra gli opposti nella quale uno dei due deve necessariamente cedere il passo all'altro. Alla fine Venere vince. Nella propria mitologia pagana Camões crea nuovi simboli per mostrare la reale situazione che intravede come sostrato del viaggio di Gama. Dall'apertura del concilio degli dei nel canto I alle ultime parole di Venere nel X non smette di prendere il massimo da ogni opportunità che gli si presenta. La prima riunione degli dei avviene in un immenso aere olimpico. ( I, 20, 5 – 6 ) Qui, Giove, assiso sul trono; e quando gli dei si dispongono secondo l'ordine previsto si rivolge loro con un linguaggio che si addice alla loro olimpica posizione: O Eterni Abitatori del lucente Polo e del vasto chiaro Firmamento. I poteri che lavorano nell'universo hanno la gloria e la maestà che l'entusiasmo dei giovani conferisce all'oggetto della propria devozione. In questi esseri, al di sopra del tempo e delle altre limitazioni proprie della finitudine mortale, Camões trova l'antitesi delle proprie tribolazioni e il fulcro dei suoi desideri. La protettrice del Portogallo è ancora la dea dell'amore e della bellezza, ed il poeta è fiero del fatto che il suo Paese sia favorito da lei. Gli uomini hanno la loro gloria, ma la gloria degli dei è al di sopra delle possibilità umane. Libero dalle inibizioni teologiche del Medioevo e duramente colpito dalla controriforma, egli lavora in maniera certosina al fine di inserirli nel proprio poema. L'accanita lotta degli esploratori portoghesi è una parte del racconto; l'altra parte contiene tutto ciò che gli dei rappresentano: la gioia e la gloria che portano con sé, l'ordine che istaurano. Aderendo a questa convenzione della poesia epica Camões ottiene un successo trionfale. Come Correggio e Raffaello, Camões comprende gli antichi numi e adatta il loro significato al proprio tempo. 6.4 Che posto per gli Dèi? Il Vate tuttavia non è pagano ma cattolico, suddito di un re cristiano, ed il suo Portogallo doveva gran parte della propria dignità al baluardo della causa cristiana contro gli idolatri, mori ed orientali. Ad ogni modo la spiegazione viene resa inconsistente con ciò che Camões sostiene in un altro momento del poema, parole che non possono ricevere lo stesso trattamento riservato alle sue ultime. Nel canto X l'idea è elaborata. Che questa sia la concezione di Camões è provato dal modo in cui cesella le sue divinità all'interno del poema. Quando Venere o Mercurio intervengono ad aiutare de Gama, non è a loro che egli rivolge le proprie preghiere e le lodi, ma al Dio dei suoi padri. ( II, 65, 3 – 4 ) Quando Venere salva la flotta, de Gama attribuisce l'impresa alla provvidenza e termina con una solenne preghiera al suo Dio: Tu solamente puoi, Guardia Celeste Salvarci dall'insidia che c'investe. ( II, 31, 7 – 8 ) Ancora più impressionante è la grande preghiera di de Gama durante la tempesta nel VI canto. ( VI, 85, 1 – 4 ) Quindi segue l'intervento della dea ed il mare si placa. Poseidone è irato a causa dell'inganno perpetrato da Odisseo nei confronti del figlio Polifemo, Bacco teme che il proprio regno, l'Oriente, in cui ha istaurato il regime del caos, venga paradossalmente scosso da eventuali contaminazioni dell'ordine occidentale. Risulta però interessante notare come gli schemi narratologici che sottendono l'agire delle forze del bene siano sempre diversi tra loro: nel loro intreccio, nel loro svolgersi, nelle dinamiche che li attraversano. L'agire del male, invece, è sempre caratterizzato dalle stesse dinamiche, dallo stesso svolgersi dei fatti, come una iterazione che si ripete in un continuum e che è destinata a non centrare i propri obiettivi. Se le variatio che marcano l'agire del bene possono essere ritenute meno capaci di suscitare l'attenzione del lettore a causa della difficoltà di acquisirle, allo stesso modo le si può ritenere specchio delle infinite risoluzioni di stasis che la vita reale paventa. 7. Struttura delle narrazioni In questo capitolo verranno prese in esame le narrazioni di Odisseo e Vasco de Gama. 7.1 Odisseo narratore Risulta molto utile ai fini di questa comparazione esaminare la funzione assolta, nella costruzione dell'Odissea, dalla figura di Odisseo narratore alla corte dei Feaci, nel libro XI. Dal punto di vista della conoscenza dell'oggetto del canto, l'eroe è nelle condizioni ideali: il lungo racconto dei suoi "errores" è narrazione di una esperienza personale. Odisseo non è visto solo come narratore della propria personale vicenda: all'interno del suo stesso racconto ad Alcinoo lo si vede esporre κατά μοιραν quanto gli viene richiesto, (Ilio e le navi degli Argivi, e il ritorno degli Achei). Quando, nella cortese replica, il re itacese acconsente alla ripresa del racconto, la lega al desiderio degli ascoltatori e accenna, secondo consuetudine, al tema iniziale prima di riprendere il racconto nel punto interrotto. Le mitiche creature posseggono il dono del canto che consente di partire conoscendo più cose: l'oggetto della scienza delle sirene è precisato, non si tratta soltanto del racconto tradizionale delle gesta degli Argivi e dei Teucri, le Sirene conoscono tutto quanto avviene sulla terra. L'eroe canta κατά μοιραν perché ben noto gli è l'oggetto del canto, note gli sono le imprese degli Achei sotto Troia la cui narrazione di Demodoco l'ha mosso al pianto. 7.2 Vasco narratore. L'eroe inizia così la sua narrazione al Re di Malindi, nel III canto: Stavano tutti attenti per udire Quello che Gama avrebbe raccontato. L'eroe afferma di non riuscire a dire tutta l'eccellenza della propria terra, in una ripresa del topos della falsa modestia, qui utilizzato in rapporto alle straordinarie imprese del popolo portoghese e dei suoi re. Più volte, nel quinto canto, con anafora al primo verso delle ottave 16, 17 e 18 questo concetto viene ribadito: vidi i casi che i rudi marinai (….); 7.3. Strategie della metanarrazione. Il procedimento della mise en abyme accomuna infatti anche i due testi presi in esame: la narrazione delle proprie vicende da parte di Odisseo ai Feaci, e quella della propria storia compiuta da Vasco de Gama al Re di Malindi, si configurano come una vera e propria mise en abyme, una narrazione omodiegetica che si inserisce all'interno della più ampia narrazione che è lo stesso poema. Situazione similare si verifica alla corte del Re di Malindi ne I Lusiadi. 8.1. Polifemo Nell'avventura nel paese dei Ciclopi ( libro IX ) si fondono la violenza sanguinaria e l'alterità straniante; può essere davvero considerata il vertice del terrore di tutto il poema. La prima avvisaglia è data dalla definizione dei loro usi che Odisseo dà con l'occhio di poi, descritti come " ingiusti e violenti"; visione che appartiene cioè al narratore Odisseo e non al personaggio che vive la vicenda. La funzione strutturale di quest'isola nella vicenda è quella di permettere ad Odisseo di rischiare una sola nave nell'esplorazione della terra dei Ciclopi. Si trovano ben presto davanti alla grotta di Polifemo, la cui paurosa descrizione è ricavata da dati acquisiti successivamente da Odisseo – personaggio: Polifemo porta alle estreme conseguenze l'isolamento dei Ciclopi, non ha una famiglia, e alto com'è quanto una montagna, appare come un massiccio isolato dagli altri. La prima è il rumore di un immenso fascio di legna, che determina l'arretrare di Odisseo e dei compagni nel fondo della caverna – un movimento che assomma all'angoscia l'automatismo del riflesso. La richiesta di sopravvivenza intrinseca alla supplica è appesa al filo dell'onnipotenza del capriccio del Ciclope. Di fatto, la risposta alle suppliche sta nel gesto violento con cui il mostro afferra due uomini e si ciba di loro. Ai portoghesi in viaggio verso le Indie appare la mostruosa figura di Adamastor, il Capo delle Tempeste, che racconta la sua storia. Esattamente a metà del poema, l'incontro di Gama con Adamastor marca, geograficamente, il passaggio dall'Occidente all'Oriente, dall'Atlantico all'oceano Indiano, ossia dalla fine del mondo conosciuto all'inizio del mondo sconosciuto. L'eroe entra nella regione delle forze indomate. Con riso onesto Rispose Teti: "Quale dea può tale Gigante ricambiar con forza eguale? ( V, 53) Imprigionato nella roccia in cui si trasforma nel tentativo di violarla, Adamastor rimane eternamente carceriero della propria prigione, guardia dei segreti nascosti in cui si è intrappolato. Dunque, il colosso orrendo gli permette l'accesso alla conoscenza delle cose segrete del mare. Dubbio al quale sorgerà Adamastor come risposta, provocando la seconda domanda: [……………….]"Chi sei tu, così tremendo - dissi – all'immensa mole ed all'aspetto?" ( V, 49, 3 – 4 ) Di contro al lungo discorso del gigante, questa breve domanda racchiude, nel suo laconismo, un intenso potere significativo. Lungi dal tradire tremore, la voce del capitano manifesta stupore ed esprime, proprio per queste ragioni, la vittoria del coraggio sulla forza e sulla paura. Non vi è un tentativo di attacco in difesa del bene che gli appartiene, ma il riconoscimento del valore di quella gente che merita non solo di vincere, ma anche di essere testimone del suo dolore e delle sue lacrime. (IX, 317–318; 326; 331–333; 345–347; 361; 366; 372; 382-383) Il primo proposito di Odisseo di fronte alla brutalità del Ciclope è ispirato allo statuto della violenza eroica: pensa di trafiggere il Ciclope con la spada, ma questo proposito non viene realizzato, perché lucidamente l'eroe si rende conto che assieme a Polifemo condannerebbe a morte sé e i suoi compagni, non essendo in grado di rimuovere il masso dalla porta della caverna. L'offerta del vino al Ciclope, e l'accettazione da parte di Polifemo di questo dono, marca fortemente il primo passaggio in cui notiamo il mostro avere un ruolo attivo nel compiersi dell'inganno ai suoi danni. (V, 54, 5–6; 55, 1 – 6; 56.) La similarità sostanziale, sta, credo, nell'identico abbandono da parte dei due giganti ai piaceri sensoriali. Questo abbassamento della soglia di lucidità permette l'interpretazione di un ruolo "attivo", Polifemo e Adamastor divengono coadiutori del loro inganno. Vengono ingannati da Odisseo e da Teti, ma si prestano alla loro parte, partecipano attivamente. .l'agire convulso del Ciclope, il suo scagliare massi contro le navi, l'impossibilità di requie denotano una follia che, lungi dall'essere sterile, produrrà l'ira funesta del padre Poseidone, persecutore senza sosta dell'astuto Odisseo La cifra stilistica di Adamastor diviene invece l'irreversibilità statica della sua nuova condizione,. 8.4. Tracce di un'evoluzione La riformulazione di contenuti della tradizione epica con una feconda capacità stilistica è uno dei tratti più suggestivi dell'opera di Camões. Le dinamiche di attuazione dell'evento sono simili, nel primo caso avvengono realmente, nel secondo si tratta di una proiezione nel futuro: e proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave sei compagni, i più vigorosi per la forza del braccio. Come osservato nei precedenti paragrafi, molte sono le caratteristiche che accomunano il Ciclope ed Adamastor, ma la collocazione topografica e l'atrocità dell'agire nei confronti dei naviganti rendono possibile un accostamento del Capo Tormentorio al mostro che abita lo stretto. se nell'Odissea questo percorso viene compiuto dall'eroe in persona ( XI libro ), ne I Lusiadi è l'antagonista, Bacco, a raggiungere un altro posto, il fondo del mare, regno di Nettuno, per chiedere al dio del mare di aiutarlo nella sua lotta contro le navi portoghesi ( VI, 6 – 34 ). Odisseo necessita della sapienza di Tiresia, e tutto ciò che è in suo potere per riuscire ad accedervi egli lo compie senza esitare, esegue alla lettera le disposizioni di Circe ( X, 504 – 540). 9.1. Odisseo: discesa e profezia di Tiresia Odisseo raggiunge i confini della terra, dei Cimmerii che è "avvolta nella nebbia e nelle nubi" (XI, 15 ) e presso il fiume Oceano, al limite dell'esperienza degli uomini, scava una fossa in cui versa – dopo riti di libagione propiziatoria con latte, miele, vino, acqua e un'offerta di farina d'orzo – il sangue delle vittime che Circe gli ha indicato. Merita fermarsi un attimo per far notare il molteplice registro dei simboli. Il sangue, elemento liquido della vitalità, permetterà alle ombre dei morti una effimera ripresa di contatto con il mondo dei vivi. È un contatto limitato alla comunicazione: il morto non può prescindere dalla propria incorporeità. Ciascuno vuol sapere quello che non sa, ciascuno ritaglia una porzione di conoscenza contornata dalla dimensione del proprio universo affettivo. Le pene in casa consistono nella presenza arrogante e dissipatrice dei pretendenti, di cui il lettore già sa, ma Odisseo non ancora. Lo sguardo del profeta si estende poi ad un futuro ancora più lontano, in cui Odisseo si riconcilierà con Poseidone a mezzo di un sacrificio; per un bizzarro contrappasso, l'uomo che ha sconfitto il mare deve rendere omaggio al dio del mare in luogo che gli sia radicalmente estraneo, dopo una lunga peregrinazione alla ricerca di una terra che ignori tutto della civiltà marinara. Nella morte che viene dal mare è forse possibile leggere una allusione alla leggenda della morte di Odisseo per mano del figlio avuto da Circe, Telegono che, sbarcato a Itaca, uccise il padre. È accreditata tuttavia un'interpretazione diversa del passo nel senso che la morte sopravverrebbe a Odisseo "lontano dal mare". (………………………………………………) Scende d'Olimpo infine disperato Per liberarsi della grave soma, e va spedito alla divina corte di chi dei mar l'imperio ha avuto in sorte. ( VI, 6, 5–8; 7, 5–8; 28, 1–4;35, 5–8) La discesa di Bacco negli abissi marini è per il dio, così come è la catabasi per Odisseo, necessaria alla realizzazione del proprio fine. Il dio è disperato poiché vede gli dei del cielo, suoi pari, essere tutti favorevoli alla riuscita dell'esplorazione portoghese che mina il suo reame. Dopo l'introduzione della decisione, vi è nel poema una lunga digressione che descrive il regno di Nettuno, oltre ad una raffigurazione del dio stesso. Vi è un raddoppiamento dei concili divini ne I Lusiadi: il primo, nel I canto, riunito in cielo; il secondo, in fondo al mare. Altro motivo simmetrico è che nel primo il discorso diretto, pronunciato da Venere, era riservato a fiancheggiare i portoghesi; qui, al contrario, Bacco manifesta direttamente le sue recriminazioni contro l'incedere della flotta lusitana. Le invettive del dio fomentano rabbia nel concilio marino, tanto è vero che risulta impossibile prendere una decisione frutto di saggi avvisi: l'intemperanza del momento porta Nettuno ad agire d'impulso. Come considerare a livello strutturale questa evenienza? La profezia fondamentale del poema verrà proferita da Teti nell'isola degli Amori. Il viaggio di Da Gama e dei suoi eroi si conclude, nei canti IX e X, nella migliore maniera possibile, con tutta la gloria che è dato agli uomini di acquisire e con una rinnovata e maggiore esperienza di se stessi, degli altri e del mondo. L'Ilha dos Amores è un'isola divina, sorta in mezzo alle acque come la stessa Venere. È un prodotto dell'Essere primordiale, un locus amoenus la cui descrizione scorre lungo tutto il canto IX, intrecciandosi al rincorrersi dei marinai e delle ninfe e alle loro schermaglie amorose. La chiusa degli amori con un matrimonio collettivo dà l'abbrivio all'incontro tra Gama e Teti, che porta alla visione grandiosa del canto X. L'isola è simbolicamente un punto d'arrivo. Coronati dalle "spose eterne", i naviganti ritornano alla patria. Non si separeranno più da quel sapere acquisito che le ninfe rappresentano; loro, e soprattutto Teti, la loro regina, sono forme di presenza divina, finalmente manifesta a Vasco, ai suoi compagni e, per bocca del poeta, ai portoghesi e al mondo. La differenza di livello è simbolicamente rappresentata dal monte su cui Gama e la dea salgono, da una catabasi che segnala una variatio rispetto al procedere tradizionale della narrazione in caso di rivelazioni. Se infatti, nel caso di Odisseo, è la catabasi a marcare il momento della rivelazione, Camões compie una innovazione facendo sì che de Gama salga sul monte per ricevere la rivelazione della dea. L'atmosfera di elevata aulicità del palazzo di Teti ben introduce alla rivelazione della dea a de Gama, scandita nei modi della profezia in una prima parte, e nell'esposizione descrittiva della macchina del mondo nella seconda. La profezia funzionale allo svolgimento dell'azione, alle vicende dell'eroe – come lo è stata quella di Tiresia – si sviluppa, diviene altro; la conoscenza attraverso l'aiuto della dea sopravviene dopo due altri elementi: la giustizia e l'amore. Una eccezione strutturale dunque, che marca ancora di più la particolarità dell'opera camoniana Una possibile lettura di questa variazione può essere svolta considerando quanto Camões sapesse bene che l'apice della propria storia passata può dalla sua vetta guardare ai posteri, al tempo del vate dunque, carico di aspettative verso un continuum nella stessa direzione. Speranza disattesa, disillusa; al suo tempo il poeta non risparmia le proprie tirate veementi. Eppure conclude con la speranza che la sua Musa ispiratrice, cantando le glorie del suo re, riceva l'accettazione che merita. Questa connotazione contraddistingue Vasco de Gama, l'ansia di seguire la propria curiositas, mediata dall'Ulisse dantesco, si trasforma nel Rinascimento in quello che sarà il pungolo che spinge alle scoperte geografiche, al nuovo mondo, e, ovviamente, a un nuovo uomo. È un umanista anche nelle sue contraddizioni, nell'associare la mitologia pagana ad una visione cristiana del mondo, nei suoi sentimenti conflittuali verso la guerra e l'Impero, nel suo amore per la patria e nel suo desiderio di avventure, nel suo apprezzare il piacere estetico e nella richiesta di uno statuto eroico che fa ai suoi personaggi. Ma è soprattutto un Umanista nella sua devozione agli ideali classici, e nel suo considerarli la forza vitale dell'immaginario europeo del suo tempo. Racconta il suo Portogallo servendosi sia della cristianità che della tradizione classica. Sebbene Camões abbia molto della magnificenza rinascimentale nel suo incedere narrativo, la stempera con una sensibilità che sa sempre quando fermarsi, senza sfociare in pericolosi funambolismi estetici.
0 ORGANIZZAZIONE DEL PROGETTO: "Analisi degli ambiti prioritari di domanda e offerta di tecnologie per la "Fabbrica Intelligente"" 0.1 Cenni Teorici sull'attività di Project Management La parola "Progetto" è utilizzata per indicare compiti e attività in apparenza molto diverse tra loro, basti pensare ad un progetto di ricerca e ad un progetto di costruzione di un edificio: due attività assai diverse e formalmente senza punti in comune. Al fine di approfondire i concetti legati al progetto in esame, sarebbe utile definire in maniera più precisa cosa si intende con la parola "progetto". Sin dai primi studi di Taylor e Gantt ad inizio del 1900 si è cercato di dare una definizione chiara del termine, arrivando a definirlo come: "Un insieme di persone e di altre risorse temporaneamente riunite per raggiungere uno specifico obiettivo, di solito con un budget determinato ed entro un periodo stabilito" (Graham, 1990) "Uno sforzo complesso, comportante compiti interrelati eseguiti da varie organizzazioni, con obiettivi, schedulazioni e budget ben definiti" (Russel D. Archibald, 1994) "Un insieme di sforzi coordinati nel tempo" (Kerzner, 1995) "Uno sforzo temporaneo intrapreso per creare un prodotto o un servizio univoco" (PMI – Project Management Institute, 1996) "Un insieme di attività complesse e interrelate, aventi come fine un obiettivo ben definito, raggiungibile attraverso sforzi sinergici e coordinati, entro un tempo predeterminato e con un preciso ammontare di risorse umane e finanziarie a disposizione." (Tonchia, 2007) È da notare che, a prescindere dall'organizzazione e dal settore di riferimento, un progetto è caratterizzato da alcuni elementi distintivi: • un obiettivo da raggiungere con determinate specifiche; • un insieme di attività tra loro coordinate in modo complesso; • tempi di inizio e fine stabiliti; • risorse normalmente limitate (umane, strumentali e finanziare); • carattere pluridisciplinare o multifunzionale rispetto alla struttura organizzativa. La specificità dell'obiettivo determina l'eccezionalità del progetto rispetto alle attività ordinarie e quindi l'assenza di esperienze precedenti. Le organizzazioni, siano esse imprese, enti pubblici o Università, svolgono appunto due tipologie di attività con caratteristiche distinte: 1. funzioni operative; 2. progetti. Talvolta le due categorie presentano aree comuni e condividono alcune caratteristiche: • sono eseguiti da persone; • sono vincolati da risorse limitate; • sono soggetti a pianificazione, esecuzione e controllo. Nonostante queste caratteristiche comuni, progetti e funzioni operative hanno obiettivi diversi tra loro: il progetto infatti è di natura temporanea e ha lo scopo di raggiungere il proprio obiettivo e quindi concludersi, la funzione operativa invece è di natura ripetitiva e fornisce un'azione di supporto continuativo all'azienda. Un progetto indipendentemente dal settore e dall'organizzazione nel quale si sviluppa, ha 3 vincoli fondamentali tra loro in competizione: • qualità o prestazioni; • tempo; • costo. Per di più se il progetto è commissionato da un cliente esterno sarà presente un quarto vincolo, ovvero le buone relazioni tra l'organizzazione e il cliente, è chiaro infatti che è tecnicamente possibile gestire un progetto rispettando i primi tre vincoli senza coinvolgere il cliente, ma così vengono pregiudicati i futuri business. Le principali caratteristiche di un progetto sono: 1. Temporaneità: Ogni progetto infatti ha come detto una data di inizio e di fine definite, e quest'ultima viene raggiunta quando: a. gli obiettivi del progetto sono stati raggiunti; b. è impossibile raggiungere gli obiettivi; c. il progetto non è più necessario e viene chiuso. Temporaneità non significa che un progetto ha breve durata, i progetti infatti possono durare anche diversi anni, l'importante è comprendere che la durata di un progetto è definita con l'obiettivo di creare risultati duraturi. La natura temporanea dei progetti può essere applicata anche ad altri aspetti: - l'opportunità o finestra di mercato è generalmente temporanea; - come unità lavorativa, raramente il gruppo di progetto sopravvive dopo il progetto, il gruppo infatti realizzerà il progetto e alla conclusione di questo verrà sciolto, riassegnando il personale ad altri progetti. 2. Prodotti, servizi o risultati unici: Un progetto crea prodotti, servizi o risultati unici. I progetti solitamente creano: - un prodotto finale o un componente di un prodotto; - un servizio; - un risultato, come degli esiti, dei documenti e report. L'unicità è un'importante caratteristica degli output di un progetto. 3. Elaborazione progressiva: con questa espressione si intende lo sviluppo in fasi, organizzate attraverso una successione incrementale per tutto il ciclo di vita del progetto, infatti man mano che un Project Team (Gruppo di Progetto) approfondisce la conoscenza del progetto è anche in grado di gestirlo ad un maggiore livello di dettaglio e sarà in grado di arricchirlo di maggiori dettagli via via che il Team sviluppa delle conoscenze sul settore. L'attività di Gestione del Progetto o Project Management è l'applicazione di conoscenze, abilità, strumenti e tecniche alle attività di progetto al fine di soddisfarne i requisiti, dove il Project Manager (PM) è la persona incaricata del raggiungimento degli obiettivi di progetto. La gestione di progetto include: • identificare i requisiti; • fissare obiettivi chiari e raggiungibili; • adattare specifiche di prodotto, piani e approccio alle diverse aree di interesse e alle diverse aspettative dei vari stakeholder. • individuare il giusto equilibrio tra le esigenze di qualità, ambito, tempo e costi, che sono in competenza tra di loro. Nella gestione dei progetti infatti, è costante lo sforzo atto a bilanciare i tre vincoli (qualità e prestazioni, tempi e costi), poiché i progetti di successo sono quelli che consegnano il prodotto, il servizio o il risultato richiesti nell'ambito stabilito, entro il tempo fissato e rimanendo entro i limiti del budget definito, infatti la variazione anche di uno solo dei tre vincoli implica che almeno un altro ne risulta influenzato. Il PM si occupa inoltre di gestire i progetti tenendo conto dei rischi intrinseci di un progetto, ossia eventi o condizioni incerte che, se si verificano, hanno un effetto o positivo o negativo su almeno uno degli obiettivi di progetto. Una Gestione dei Progetti efficace ma allo stesso tempo efficiente, può essere definita quindi come il raggiungimento degli obiettivi del progetto al livello di prestazioni o qualità desiderate, mantenendosi nei tempi e nei costi previsti e utilizzando senza sprechi le risorse disponibili. Tutto ciò è fondamentale che sia conforme al desiderio del cliente, infatti nei casi in cui un progetto è commissionato da un cliente esterno, le relazioni con quest'ultimo diventano un ulteriore vincolo di progetto e quindi Il successo di un progetto si raggiunge con quanto detto sopra e con l'accettazione da parte del cliente. Raramente i progetti vengono completati rispettando l'obiettivo originale, spesso infatti con l'avanzamento del progetto alcune modifiche sono inevitabili, e se non gestite in maniera opportuna possono anche affossare il progetto e il morale di chi ci lavora. Perciò è necessario un accordo reciproco tra PM e cliente relativo ai cambiamenti degli obiettivi, che comunque devono essere minimi e sempre approvati. È da ricordare infine che i PM devono gestire i progetti in base alle linee guida dell'azienda a cui fanno riferimento, rispettando procedure, regole e direttive dell'organizzazione, altrimenti si rischia che il PM venga considerato come un imprenditore autonomo, finalizzato esclusivamente al raggiungimento dei suoi obiettivi, rischiando così di modificare il flusso di lavoro principale dell'organizzazione. 0.2 Scopo del Progetto Sotto il suggerimento della Commissione Europea, tutte le Regioni degli Stati membri dell'UE, sono state invitate a stilare un documento nel quale si definisca la propria Smart Specialisation Strategy SSS , al fine di favorire lo sviluppo delle politiche di coesione delle regioni e degli stati membri, da finanziare con i Fondi Strutturali per il periodo 2014-2020. Il concetto indica Strategie d'innovazione concepite a livello regionale ma valutate e messe a sistema a livello nazionale con l'obiettivo di: • evitare la frammentazione degli interventi e mettere a sistema le politiche di ricerca e innovazione; • sviluppare strategie d'innovazione regionali che valorizzino gli ambiti produttivi di eccellenza tenendo conto del posizionamento strategico territoriale e delle prospettive di sviluppo in un quadro economico globale. In linea con le direttive comunitarie e in coerenza con quanto indicato nella SSS della Regione Toscana, IRPET Regione Toscana ha incaricato quindi il Consorzio QUINN a redigere un report denominato "Analisi degli ambiti prioritari di domanda e offerta di tecnologie per la "Fabbrica Intelligente"", affinché venga delineato il panorama delle imprese regionali che fanno uso di queste tecnologie, al fine di erogare in una seconda fase dei finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo, in particolare quelli gestiti nell'ambito dei fondi strutturali che svolgono un ruolo rilevante come promotori dell'innovazione tecnologica. La "Fabbrica Intelligente" infatti rappresenta una delle 9 aree tecnologiche individuate dal Bando «Cluster Tecnologici Nazionali» presentato dal MIUR il 30 maggio 2012, e definita come strategica per la competitività del Paese. Nella SSS regionale, l'ambito prioritario legato alle tecnologie per la Fabbrica Intelligente si rivolge alle tecnologie dell'automazione, della meccatronica e della robotica. Ai fini degli obiettivi della SSS queste tre discipline concorrono in maniera integrata a sviluppare soluzioni tecnologiche funzionali all'automazione dei processi produttivi, in termini di velocizzazione, sicurezza e controllo, della sostenibilità ed economicità degli stessi, nonché dell'estensione della capacità di azione. Per un più semplice inquadramento definitorio, le tecnologie di questi tre settori vengono di seguito approfonditi e descritti in maniera distinta. 1. AUTOMAZIONE : Per "automazione" si intende lo sviluppo di sistemi, strumentazioni, processi ed applicativi che consentono la riduzione dell'intervento dell'uomo sui processi produttivi. L'automazione in tal senso si realizza mediante soluzioni di problemi tecnici legati all'esecuzione di azioni in maniera ripetuta, nella semplificazioni di operazione complesse, nell'effettuazione di operazioni complesse in contesti incerti e dinamici con elevato livello di precisione. Il concetto di automazione assume un carattere estensivo di integrazione di tecnologie e di ambiti applicativi (dal laboratorio, alla fabbrica intelligente), mantenendo il focus sul controllo automatico dei processi. 2. MECCATRONICA : La "meccatronica" è una branca dell'ingegneria che coniuga sinergicamente più discipline quali la Meccanica, l'elettronica, ed i sistemi di controllo intelligenti, allo scopo di realizzare un sistema integrato detto anche sistema tecnico. Inizialmente la meccatronica è nata dalla necessità di fondere insieme la meccanica e l'elettronica, da cui il nome. Successivamente l'esigenza di realizzare sistemi tecnici sempre più complessi ha portato alla necessità di integrare anche le altre discipline per applicazioni industriali robotiche e di azionamento elettrico. 3. ROBOTICA : Come ramo della cibernetica rivolto alle tecniche di costruzione (ed i possibili ambiti di applicazioni) dei robot, la robotica è la disciplina dell'ingegneria che studia e sviluppa metodi che permettano a un robot di eseguire dei compiti specifici riproducendo il lavoro umano. La robotica moderna si è sviluppata perseguendo principalmente: a) l'autonomia delle macchine; b) la capacità di interazione/immedesimazione con l'uomo e i suoi comportamenti. 0.3 Stakeholder del Progetto La definizione stakeholder o portatori di interesse fu elaborata nel 1963 al Research Institute dell'Università di Stanford da Edward Freeman, definendoli come i soggetti senza il cui supporto l'impresa non è in grado di sopravvivere. Gli stakeholder di un progetto sono persone o strutture organizzative coinvolte attivamente nel progetto o i cui interessi possono subire effetti dell'esecuzione o dal completamento del progetto, possono quindi avere influenza sugli obiettivi e sui risultati del progetto. Ignorare gli stakeholder può portare a conseguenze negative sui risultati del progetto, il loro ruolo infatti può avere sia un impatto negativo che positivo sul progetto: gli stakeholder positivi sono quelli che traggono vantaggi dalla buona riuscita del progetto, è quindi vantaggioso supportarne gli interessi, mentre i negativi sono quelli che vedono risultati sfavorevoli dalla buona riuscita del progetto, gli interessi di questi ultimi avrebbero la meglio con un aumento dei vincoli sull'avanzamento del progetto. Solitamente gli stakeholder principali in un progetto sono rappresentati da: • Project Manager: persona responsabile della gestione del progetto; • Cliente/utente: persona o struttura organizzativa che utilizzerà il prodotto del progetto; • Membri del Team di progetto: membri del gruppo incaricati all'esecuzione del progetto; • Sponsor: persona o gruppo che fornisce le risorse necessarie al progetto; • Soggetti influenti: persone o gruppi che sono non direttamente collegati con l'acquisto o l'uso del prodotto ma che, a causa della posizione ricoperta nella struttura organizzativa del cliente, possono influire positivamente o negativamente sul corso del progetto. Il compito di gestire le aspettative degli stakeholder va al Project Manager, spesso ciò non è semplice a causa dei differenti e contrastanti obiettivi degli stakeholder. Nel presente progetto gli stakeholder coinvolti nelle varie attività possono quindi essere ricondotti a quattro soggetti o gruppi: • Ente Committente: IRPET; • Ente Incaricato: Consorzio QUINN; • Team di Progetto; • Regione Toscana. 0.3.1 IRPET: ISTITUTO REGIONALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELLA TOSCANA L'IRPET, nato nel 1968 come organo tecnico-scientifico del CRPET (Comitato regionale per la programmazione economica della Toscana) con la finalità di compiere gli studi preliminari all'istituzione dell'ente Regione, è diventato Ente pubblico con legge della Regione Toscana nel 1974. L'Istituto è ente di consulenza sia per la Giunta che per il Consiglio regionale per lo svolgimento di compiti di studio e ricerca in materia di programmazione. Sono compiti dell'Istituto, in particolare: a) lo studio della struttura socio economica regionale e delle sue trasformazioni, degli andamenti congiunturali e dei relativi strumenti analitici; b) lo studio della struttura territoriale regionale e delle sue trasformazioni e dei relativi strumenti analitici; c) lo studio delle metodologie di programmazione, di valutazione e di verifica delle politiche; d) gli studi preparatori per gli atti della programmazione regionale e per il piano di indirizzo territoriale regionale in ordine ai problemi economici, territoriali e sociali; d bis) elaborazione dei documenti o rapporti di valutazione dei programmi nazionali e dell'Unione europea gestiti dalla Regione Toscana, di cui agli articoli 10, comma 5, e 12 della legge regionale 2 agosto 2013, n. 44 (Disposizioni in materia di programmazione regionale). e) la circolazione delle conoscenze e dei risultati di cui alle lettere a) b) e c). L'Istituto, nell'ambito delle medesime materie, può altresì svolgere altre attività di studio, ricerca e consulenza su committenza di soggetti pubblici e privati diversi dalla Regione, e inoltre: • stabilisce relazioni con enti di ricerca, anche esteri, istituti specializzati, dipartimenti universitari; • assume iniziative di formazione specialistica nelle discipline oggetto dell'attività dell'Istituto. 0.3.2 QUINN: CONSORZIO UNIVERSITARIO IN INGEGNERIA PER LA QUALITÀ E L'INNOVAZIONE Istituito nel 1989 su iniziativa dell'Università di Pisa con l'adesione di numerose grandi imprese italiane e riconosciuto dal MURST (oggi MIUR) con Decreto del 1991, l'attuale QUINN: Consorzio Universitario in Ingegneria per la Qualità e l'Innovazione viene costituito inizialmente con il nome "Qualital" allo scopo di far collaborare un gruppo di grandi imprese nella ricerca applicata e nella formazione manageriale in una disciplina in forte crescita, il Total Quality Management ed in particolare l'ingegneria dei processi aziendali. Nel 2005 alla missione originaria se ne affianca un'altra: l'innovazione. Cambia il nome: Quinn, Consorzio Universitario in Ingegneria per la Qualità e l'Innovazione, ma resta l'approccio rigoroso: sviluppare metodologie e strumenti di supporto ai processi innovativi derivanti dalla migliore ricerca e dalle esperienze più avanzate a livello internazionale. Il Consorzio con sede a Pisa, non ha fine di lucro; esso mira a creare sinergie tra le competenze del suo staff e dei partner accademici e le capacità operative delle Imprese industriali, delle Organizzazioni pubbliche e private operanti nella produzione di beni e servizi, allo scopo di promuovere e svolgere: • ricerca applicata e sperimentazione on field di metodologie e strumenti per il miglioramento della qualità di prodotti e servizi; • progetti di rilievo nazionale ed internazionale finalizzati allo sviluppo scientifico e tecnologico dell'ingegneria della qualità e dell'innovazione. Per quanto concerne la ricerca applicata le linee strategiche seguite riguardano: • Metodiche, strumenti per l'innovazione, la qualità, il miglioramento delle performance aziendali; • Gestione per Processi sviluppata in contesti diversificati; • Sistemi Integrati Qualità, Ambiente, Sicurezza, Sostenibilità. Il Consorzio QUINN è una struttura professionale con al vertice un rappresentante della componente accademica dell'Università di Pisa (discipline ingegneristiche) e gestito dal Direttore operativo con comprovata esperienza manageriale. QUINN opera quindi con un pool di professionisti che, con background multidisciplinare e approccio per «commessa», presidiano i principali ambiti di intervento: • il recupero di efficienza dei processi organizzativi; • la capitalizzazione dell'ascolto dei clienti e delle lessons learned; • il miglioramento continuo delle performance di unità operative e key people; • l'evoluzione dei sistemi di gestione Qualità, Ambiente e Sicurezza verso la sostenibilità. I componenti del pool, oltre ad operare personalmente sul campo, attivano collaborazioni con esperti del mondo della ricerca e delle professioni, per portare a termine progetti e ricerche che creino valore tangibile per i Committenti. Gli incarichi di QUINN si caratterizzano per la relativa non convenzionalità degli obiettivi assegnati, dei metodi di lavoro utilizzati e per l'interdisciplinarietà delle competenze richieste; costante è la flessibilità di approccio per rispondere ad esigenze che evolvono anche durante l'iter progettuale e l'attenzione a coinvolgere le risorse del Cliente che possono contribuire al risultato finale. Tra le linee di intervento a supporto dell'Innovazione attivate da QUINN negli ultimi 15 anni evidenziamo i "Servizi di supporto alle Policy pubbliche", che per la realizzazione di interventi di supporto alle policy regionali toscane (2010-2014) per l'innovazione delle imprese si sono articolate in: • Organizzazione e gestione di un percorso d'incontri per i centri servizi e di trasferimento tecnologico aderenti alla Tecnorete della Regione Toscana; • Revisione catalogo dei servizi avanzati e qualificati, sua estensione all'internazionalizzazione; • Analisi del concetto e di esperienze di Dimostratore Tecnologico; • Linee guida per la Divulgazione Tecnologica nel Trasferimento Tecnologico; • Linee guida per la valutazione della performance dei laboratori di ricerca e trasferimento tecnologico e laboratori di prova/analisi; • Linee guida alle attività di Business-Matching / Matchmaking; • Studio di fattibilità per una società di seed capital per Toscana Life Sciences e collaborazione con le attività di incubazione di Siena (2006); • Studi di fattibilità per le policy di sostegno alla nascita di nuove imprese innovative - CCIAA Lodi, ARTI/Regione Puglia (2007- 2008); • Indagine sul sistema dei Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani (2010); • Studio di fattibilità dell'incubatore universitario di Sesto Fiorentino (2009); • Progettazione condivisa con gli attori territoriali del progetto Innovation Building a Prato (2009); • Ricerca sulla nuova imprenditorialità e attrazione di investimenti nel distretto della nautica della Spezia (2007-2008); • Attività di supporto all'Incubatore tecnologico di Firenze finalizzate alla ricerca e accoglimento di nuove imprese (2007); • Analisi di opportunità di nuove imprese innovative derivanti dalla costruzione di un nuovo ospedale (2006-2007). 0.4 Fasi del Progetto La Pianificazione del Progetto, nell'ottica di un'efficace Project Management, è stata svolta suddividendo il progetto in fasi al fine di poter effettuare un miglior controllo. I passaggi da una fase all'altra del progetto, che rappresentano il ciclo di vita del progetto, comportano generalmente una forma di trasferimento tecnico o comunque un passaggio di consegne, dove gli output ottenuti da una fase a monte, prima di essere approvati per procedere alla fase a valle vengono analizzati per verificarne completezza e accuratezza. Quando si ritiene che i possibili rischi sono accettabili, può essere che una fase venga iniziata prima dell'approvazione dei deliverable della fase precedente. Per fasi si intendono sequenze identificabili di eventi composti da attività coerenti che producono risultati definiti e che costituiscono l'input per la fase successiva. Le fasi standard identificabili nella maggior parte dei progetti sono: • Concezione e Avvio del Progetto; • Pianificazione; • Esecuzione e Controllo; • Chiusura. In sostanza il ciclo di vita del progetto definisce quale lavoro tecnico deve essere svolto in ciascuna fase, quando devono essere prodotti i deliverable in ciascuna fase e come ciascun deliverable deve essere analizzato, verificato e convalidato, chi è coinvolto in ciascuna fase e come controllare e approvare ciascuna fase. Le fasi che hanno portato alla redazione del report, nel quale le informazioni raccolte sul campo sono state organizzate in modo tale da consentire l'inquadramento del fenomeno della Fabbrica Intelligente in Toscana, sono così individuabili: • FASE 0: Fase Preliminare Dopo aver ricevuto l'incarico da parte di IRPET per la redazione del report, il QUINN ha analizzato la fattibilità del progetto, in modo da prevenire un rischio di insuccesso e dare concretezza all'idea progettuale, e una volta verificata ha redatto la propria Offerta Tecnica. Dopo l'accettazione dell'Offerta da parte dell'Ente Committente, QUINN ha costituito il Team di Progetto incaricato a svolgere le attività progettuali, assegnando a ciascun componente le proprie responsabilità e mansioni. Grazie all'utilizzo di tecniche efficaci per la pianificazione, sono state programmate nel dettaglio tutte le attività da svolgere, al fine di completare il report entro il termine fissato. • FASE 1: Comprensione del Contesto di riferimento In questa fase l'obiettivo centrale era rappresentato dalla comprensione del contesto del progetto, il Team di Progetto rispetto al contesto imprenditoriale italiano ha svolto un'analisi interna e una esterna, che hanno permesso di inquadrare il tema della "Fabbrica Intelligente". Partendo dalle origini prettamente letterarie del concetto, è stata illustrata l'evoluzione industriale che ha preceduto questo fenomeno, successivamente sono stati analizzati i macro trend socio-economici che hanno maggiore impatto sull'industria che stanno caratterizzando l'attuale scenario industriale, concludendo infine con la presentazione delle varie iniziative comunitarie e nazionali a sostegno della ripresa manifatturiera attraverso la "Fabbrica Intelligente". • FASE 2: Esplorazione del Concetto nel Panorama Internazionale Durante questa fase, svolta quasi in parallelo con la precedente, sono state analizzate le varie declinazioni al concetto di Fabbrica Intelligente e congiuntamente ricercati i trend e le tecnologie abilitanti. Attraverso un esercizio di Forecasting Tecnologico, osservando molteplici studi condotti da un altrettanto numero di esperti, sono stati identificati i trend attuali e quelli emergenti connessi alla Fabbrica Intelligente, con i conseguenti impatti sulle aziende e sulla forza lavoro. Alla fine sono stati ricercati alcuni casi di Fabbrica Intelligente, o di Industria 4.0 che dir si voglia, sviluppati da diverse aziende nel mondo. • FASE 3: Studio dell'Applicazione del Modello nella Regione Toscana Nello svolgimento di questa fase, si è passati allo studio degli ambiti prioritari della domanda e dell'offerta di tecnologie per la Fabbrica Intelligente nella Regione Toscana, per come identificata all'interno della SSS, focalizzandoci sulle tecnologie connesse all'automazione, alla meccatronica e alla robotica. Successivamente si è passati ad individuare possibili legami tra gli ambiti tecnologici analizzati e lo sviluppo di soluzioni tecnologiche funzionali ai processi produttivi, "in termini di velocizzazione sicurezza e controllo dei processi, della sostenibilità ed economicità degli stessi, nonché dell'estensione della capacità di azione". Si è arrivati infine a delineare il panorama della diffusione del modello della Fabbrica intelligente nelle imprese del sistema produttivo toscano, grazie all'analisi della diffusione fra le aziende produttrici e utilizzatrici delle tecnologie correlate, attraverso il merging di due DB di imprese Toscane stilati da enti qualificati, interviste in profondità e telefoniche, e infine attraverso l'organizzazione di due Focus Group. • FASE 4: Realizzazione Conclusiva del Report La quarta e ultima fase ha portato alla redazione finale del report, nel quale le informazioni sia di carattere quantitativo, ma soprattutto qualitativo raccolte sul campo sono state elaborate in maniera tale da evidenziare la diffusione del fenomeno nel tessuto produttivo toscano. I risultati conseguenti all'elaborazione di tali informazioni risultano essere: - la descrizione di casi studio sia di utilizzatori che di sviluppatori, con la presentazione delle peculiarità di adozione delle tecnologie che prefigurano possibili modelli di adozione alla Fabbrica intelligente; - la mappatura della diffusione delle tecnologie abilitanti della Fabbrica intelligente in Toscana con riferimento alle imprese utilizzatrici; - inquadramento del livello di maturità dei diversi settori produttivi toscani rispetto alle tecnologie target identificate dal Cluster Fabbrica Intelligente; - raccomandazioni di policy. 0.5 Strumenti e Tecniche utilizzate nell'ambito del Progetto Per una più facile comprensione dei contenuti, in questo paragrafo vengono descritti in forma teorica gli strumenti e le tecniche gestionali, che il Team di Progetto ha utilizzato per lo svolgimento delle attività progettuali, elencandoli in funzione dell'impiego nelle diverse fasi del progetto. Nel proseguo del lavoro, dove verranno presentati i contenuti del report, saranno illustrate le modalità operative realmente avviate nell'applicazione dei vari strumenti. 0.5.1 FASE 0: FASE PRELIMINARE In questa fase preliminare il PM detiene la responsabilità della pianificazione, integrazione ed esecuzione dei piani. La pianificazione, ovvero il P nella logica PDCA, è fondamentale a causa della breve durata del progetto e per l'assegnazione delle risorse. L'integrazione risulta altrettanto importante, altrimenti ogni soggetto sviluppa la propria pianificazione senza tener conto degli altri. La pianificazione è la definizione di cosa fare, quando va fatto e da chi; è destinata in linea teorica a: • "acquisire" gli obiettivi del processo; • individuare le fasi o meglio processi, diretti ed indiretti, che consentono di raggiungere gli obiettivi prefissati ovvero stesura della "mappa" di processi e delle interazioni; • scegliere metodi per il do, il check e l'act, il personale, i materiali e/o le informazioni, le macchine/tecnologie e/o attrezzature per ogni processo operativo aggredibile; • provare, sperimentare, verificare là dove non si sa; • emettere specifiche, standard; • occuparsi delle eventuali attività di comunicazione e addestramento. Per un PM è fondamentale utilizzare tecniche di pianificazione efficaci, e di seguito sono descritte quelle utilizzate durante tutte le fasi del progetto: • Work Breakdown Structure (WBS); • Matrice RACI; • Diagramma di Gantt; • Flow Chart (FC). 0.5.1.1 Work Breakdown Structure (WBS) La WBS (Work Breakdown Structure) è una forma di scomposizione (o disaggregazione secondo una struttura ad albero) strutturata e gerarchica del progetto che si sviluppa tramite l'individuazione di sotto-obiettivi e attività definite ad un livello di dettaglio sempre maggiore. Scopo della WBS è di identificare e collocare all'ultimo livello gerarchico pacchetti di lavoro (Work Package) chiaramente gestibili e attribuibili a un unico responsabile, affinché possano essere programmati, schedulati, controllati e valutati. La WBS è uno strumento di fondamentale importanza nel Project Management, infatti fornisce le basi per sviluppare una matrice delle responsabilità e successivamente effettuare lo scheduling . Attraverso la suddivisione dei deliverable in componenti più piccoli definiti "work package" si semplifica la gestione del progetto. Il work package infatti rappresenta il gradino più basso della gerarchia WBS ed è tramite questo che si possono definire in maniera più affidabile schedulazione dei tempi e costi. La suddivisione per livello procede riducendo ampiezza e complessità fino a quando non perviene a una descrizione adeguata e inequivocabile della voce finale. La Work Breakdown Structure (WBS), ha permesso di individuare, ai vari livelli, tutte le attività di sviluppo del progetto. La logica di scomposizione utilizzata è stata quella del processo di lavoro, questa logica consiste nel suddividere il progetto in relazione alla sequenza logica delle attività realizzative che verranno messe in opera, e ci ha permesso di individuare, per ogni pacchetto di lavoro: • scopo del lavoro con obiettivi e vincoli; • il processo di lavoro e le sue interfacce; • le risorse assegnabili e assegnate; • i limiti di tempo. 0.5.1.2 Matrice RACI La Matrice RACI è uno strumento che viene utilizzato per l'individuazione delle responsabilità all'interno di un progetto. Essa indica alle risorse umane coinvolte le mansioni e il grado di responsabilità all'interno del progetto, inoltre fornisce indicazioni specifiche su come comportarsi nel gestire le relazioni e responsabilità di altre persone coinvolte, rappresentando un forte elemento di motivazione per le stesse. La matrice di responsabilità nella sua intersezione indica il tipo di persona a cui è delegata una persona o un'unità organizzativa. Generalmente vengono utilizzate delle sigle che esprimono le responsabilità, le più utilizzate sono quelle corrispondenti all'acronimo RACI: • R: "Responsabile": è il ruolo di colui che è chiamato ad eseguire operativamente il task (per ogni task è possibile avere più Responsabili); • A: "Approva": è aziendalmente il ruolo a cui riporta il Responsabile o che comunque dovrà svolgere un ruolo di supervisione del lavoro del/dei Responsabili(ci può essere un solo A per ogni attività); • C: "Coordinamento": è il ruolo di chi dovrà supportare il/i Responsabile nello svolgimento del task fornendogli informazioni utili al completamento del lavoro o a migliorare la qualità del lavoro stesso • I: "Informato": è il ruolo di chi dovrà essere informato in merito al lavoro del/dei Responsabile e che dovrà prendere decisioni sulla base delle informazioni avute. 0.5.1.3 Diagramma di Gantt La complessità sempre maggiore di molti progetti, la gestione di grandi quantità di dati e le scadenze rigide incentivano le organizzazioni verso l'utilizzo di metodi per la pianificazione delle attività su scala temporale. Le tecniche di scheduling più comuni sono: • Diagrammi a barre o di Gantt; • Tecniche reticolari: - PDM (Precedence Diagram Method); - ADM (Arrow Diagram Method); - PERT (Program Evaluation and Review Technique); - CPM (Critical Path Method). • Approccio della Catena Critica CCPM (Critical Chain Project Management). La tipologia di rappresentazione utilizzata nel presente report, è il diagramma a barre (di Gantt), un mezzo molto semplice e intuitivo per visualizzare le attività o gli eventi tracciati in relazione al tempo, come nel nostro caso, o al denaro. La rappresentazione utilizzata riguarda l'evoluzione del progetto su scala temporale, dove ogni barra rappresenta un'attività la cui lunghezza è proporzionale alla durata dell'attività stessa, la quale è collocata sulla scala temporale. Il diagramma di Gantt permette perciò di definire cosa fare in una determinata quantità di tempo, e stabilisce inoltre eventi o date chiave (milestone) di progetto e un riferimento per il controllo dell'avanzamento. Il vantaggio che ha apportato sta nell'ottimizzazione delle risorse, attraverso una contemporanea visualizzazione delle attività, delle tempistiche e dei soggetti coinvolti. Ha comunque tre limitazioni principali, infatti non illustra: • le interdipendenze tra le attività; • risultati di un inizio anticipato o tardivo nelle attività; • l'incertezza inclusa nell'esecuzione dell'attività. 0.5.1.4 Flow Chart (FC) o Diagramma di Flusso Il Diagramma di Flusso, detto anche Flow Chart, rappresenta una modellazione grafica per rappresentare il flusso di controllo ed esecuzione di algoritmi, procedure o istruzioni operative. Esso consente di descrivere in modo schematico ovvero grafico: • le operazioni da compiere, rappresentate mediante forme convenzionali (ad esempio : rettangoli, rombi, esagoni, parallelogrammi, .), ciascuna con un preciso significato logico e all'interno delle quali un'indicazione testuale descrive tipicamente l'attività da svolgere; • la sequenza nella quale devono essere compiute, rappresentate con frecce di collegamento. Tale strumento permette pertanto di visualizzare tutto o parte del processo e di capire il collegamento delle sequenze necessarie a svolgere una funzione. In particolare permette di individuare i punti del processo in cui si verifica l'effetto che si vuole analizzare e di risalire il flusso fino alle origini delle cause potenziali. 0.5.2 FASE 1: COMPRENSIONE DEL CONTESTO DI RIFERIMENTO Tutti i progetti si interfacciano con il mondo reale, quindi occorre considerare i diversi contesti in cui il progetto converge. Alla luce di questo il PM ha incaricato i componenti del Team di Progetto di effettuare, un'analisi del contesto di riferimento, svolgendo un esercizio di Forecasting Tecnologico, attraverso la Ricerca sul Web, allo scopo di realizzare: • un'Analisi Interna; • un'Analisi Esterna; • l'Analisi SWOT. 0.5.2.1 Ricerca sul Web Lo strumento che normalmente viene utilizzato per effettuare una ricerca sul web è il cosiddetto motore di ricerca, il quale è basato sull'inserimento di una o più parole-chiave le cui occorrenze vengono cercate all'interno dei vari documenti presenti in rete. Bisogna dire che il processo di ricerca e di selezione delle informazioni è molto più complesso di quanto si possa pensare, per l'appunto possiamo differenziare la ricerca delle fonti in due modi: • Fonti Istituzionali (es. Regolamenti Comunitari, EUROSTAT, ISTAT, etc.); • Fonti Pubbliche (es. Unioncamere); • Enti di natura scientifica (es. società di consulenza). La conoscenza precedente dell'argomento influenza e da maggiori garanzie di successo nella ricerca, in questo modo l'utente è in possesso di termini specifici che può utilizzare direttamente come keywords. Gli elementi per impostare una soddisfacente ricerca sul web possono essere riassunti in: • chiarezza dell'oggetto, quesito o obiettivo della ricerca; • tempo e capacità dell'utente che effettua la ricerca; • qualità delle risposte in termini di: - adeguatezza, completezza ed esaustività; - affidabilità e autorevolezza della fonte; - grado di aggiornamento. 0.5.2.2 Forecasting Tecnologico Il Forecasting Tecnologico è un settore dei Technology Future Studies che racchiude varie strumenti volti ad anticipare e a capire la direzione potenziale, le caratteristiche e gli effetti del cambiamento tecnologico. Sono identificabili 9 cluster: 0.5.2.2.1 Expert Opinion Questa famiglia comprende tecniche basate sull'opinione di esperti, e include la previsione o la comprensione dello sviluppo tecnologico attraverso intense consultazioni tra vari esperti in materia. Uno dei metodi più diffusi è sicuramente il Metodo Delphi. Questo metodo combina richiesta di pareri riguardanti la probabilità di realizzare la tecnologia proposta e pareri di esperti in materia dei tempi di sviluppo. Gli esperti si confrontano e si scambiano pareri in base alle proprie previsioni tecnologiche, in modo da arrivare a una linea comune. 0.5.2.2.2 Trend Analysis L'Analisi del Trend comporta la previsione attraverso la proiezione dei dati storici quantitativi nel futuro. Questa analisi comprende modelli sia di previsione economica che tecnologica. Una tecnologia di solito ha un ciclo di vita composto di varie distinti fasi. Le tappe includono tipicamente • una fase di adozione • una fase di crescita • una fase di sviluppo • una fase di declino. L'analisi cerca di identificare e prevedere il ciclo della innovazione tecnologica oggetto dello studio. 0.5.2.2.3 Monitoring and Intelligence Methods Questa famiglia di metodi (Monitoring e le sue variazioni: Environmental Scanning and Technology Watch) ha lo scopo di fare acquisire consapevolezza dei cambiamenti all'orizzonte che potrebbero avere impatto sulla penetrazione o ricezione delle tecnologie nel mercato. 0.5.2.2.4 Statistical Methods Fra i metodi statistici, i più diffusi sono l'Analisi di Correlazione e l'Analisi Bibliometrica. • L'Analisi di Correlazione anticipa i modelli di sviluppo di una nuova tecnologia correlandola ad altri, quando lo stesso modello è simile ad altre tecnologie esistenti. • L'Analisi Bibliometrica si concentra sullo studio della produzione scientifica (pubblicazioni, etc.) presente in letteratura. In particolare risulta utile al fine di: - sviluppare conoscenza esaustiva del tema oggetto di studio; - analizzare i database da usare, da cui trarre informazioni e dati; - acquisire conoscenza sulle informazioni dei brevetti, fonte importante per acquisire informazioni uniche dal momento che spesso i dati e le informazioni rintracciabili nei brevetti non sono pubblicati altrove; - definire la strategia di ricerca; - utilizzare gli strumenti di analisi, attraverso software di data e text mining efficienti; - analizzare i risultati, grazie alle informazioni di vario tipo da cui gli esperti possono estrarre informazioni strategiche. 0.5.2.2.5 Modelling and Simulation Per "modello" si intende una rappresentazione semplificata delle dinamiche strutturali di una certa parte del mondo "reale". Questi modelli possono mostrare il comportamento futuro dei sistemi complessi semplicemente isolando gli aspetti essenziali di un sistema da quelli non essenziali. Tra i principali metodi: • Agent Modeling, tecnica che simula l'interazione dei diversi fattori in gioco; • System Simulation, tecniche che simulano la configurazione di un sistema a fronte dell'azione di possibili variabili aggiuntive. 0.5.2.2.6 Scenarios Costituiscono rappresentazioni alternative delle tecnologie future, sulla base di considerazioni e condizioni ulteriori a seguito di possibili cambiamenti delle condizioni al contorno inizialmente ipotizzate. 0.5.2.2.7 Valuing/Decision/Economic Methods Tra i metodi il più popolare è il "Relevance Tree Approach": le finalità e gli obiettivi di una tecnologia proposta sono suddivisi tra: • obiettivi prioritari; • obiettivi di basso livello. Grazie ad una struttura ad albero è possibile identificare la struttura gerarchica dello sviluppo tecnologico. In base ad esso viene eseguita la stima delle probabilità di raggiungere gli obiettivi ai vari livelli di sviluppo tecnologico. 0.5.2.2.8 Descriptive and Matrices Methods In crescente affermazione in questa famiglia di metodi è la definizione di Roadmap dello sviluppo di tecnologie, che consiste nel proiettare i principali elementi tecnologici di progettazione e produzione insieme alle strategie per il raggiungimento di traguardi desiderabili in modo efficiente Nel suo contesto più ampio, una Roadmap tecnologica fornisce una "vista di consenso o visione del futuro" della scienza e della tecnologia a disposizione dei decisori. 0.5.2.3 Analisi SWOT L'analisi SWOT è uno strumento di pianificazione strategica semplice ed efficace che serve ad evidenziare le caratteristiche di un progetto o di un programma, di un'organizzazione e le conseguenti relazioni con l'ambiente operativo nel quale si colloca, offrendo un quadro di riferimento per la definizione di strategie finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. La SWOT Analysis si costruisce tramite una matrice divisa in quattro campi nei quali si hanno: • Punti di Forza (Strengths); • Punti di Debolezza (Weaknesses); • Opportunità (Opportunities); • Minacce (Threats). L'Analisi SWOT consente di distinguere fattori esogeni ed endogeni, dove punti di forza e debolezza sono da considerarsi fattori endogeni mentre minacce e opportunità fattori esogeni. I fattori endogeni sono tutte quelle variabili che fanno parte integrante del sistema sulle quali è possibile intervenire, i fattori esogeni invece sono quelle variabili esterne al sistema che possono però condizionarlo, su di esse non è possibile intervenire direttamente ma è necessario tenerle sotto controllo in modo da sfruttare gli eventi positivi e prevenire quelli negativi, che rischiano di compromettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati. I vantaggi di una analisi di questo tipo si possono sintetizzare in 3 punti: • la profonda analisi del contesto in cui si agisce, resa possibile dalla preliminare osservazione e raccolta dei dati e da una loro abile interpretazione si traduce in una puntuale delineazione delle strategie; • il raffronto continuo tra le necessità dell'organizzazione e le strategie adottate porta ad un potenziamento della efficacia raggiunta; • consente di raggiungere un maggiore consenso sulle strategie se partecipano all'analisi tutte le parti coinvolte dall'intervento. 0.5.3 FASE 2: ESPLORAZIONE DEL CONCETTO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE Anche in questa fase, dove l'obiettivo era quello di ricercare nella letteratura le varie declinazioni al concetto di "Fabbrica Intelligente" e le tecnologie attuali ed emergenti connesse ad essa, è stata svolta un'analisi degli organismi specializzati nel Foresight Tecnologico e di profondi conoscitori del settore dell'automazione industriale, per studiare le tendenze tecnologiche per i prossimi anni. 0.5.4 FASE 3: STUDIO DELL'APPLICAZIONE DEL MODELLO NELLA REGIONE TOSCANA Durante lo svolgimento di questa fase, si è intrapreso un percorso di raccolta delle informazioni legate al tema della "Fabbrica Intelligente" nel tessuto produttivo toscano, che è stato strutturato in 3 diverse attività: • Mappatura della Diffusione delle Tecnologie in Toscana attraverso il merging dei DB "Osservatorio sulle imprese high-tech della Toscana" e delle "Aziende eccellenti" dell'IRPET con l'estrapolazione dei dati da Fonti Aziendali: questa attività verrà discussa nel dettaglio nel proseguo del lavoro; • Interviste in Profondità e Interviste Telefoniche; • Focus Group. 0.5.4.1 Intervista L'intervista semi-strutturata è l'equivalente del questionario, con domande predefinite dal ricercatore in fase di preparazione dello strumento; a differenziare i due metodi è il modo di presentazione, orale nel caso dell'intervista, scritto nel caso del questionario, che assicura maggiore capacità di adattamento all'interlocutore e di valorizzazione di tutte le opportunità di raccolta d'informazioni "non strutturate". L'intervista ha quindi il vantaggio di essere un metodo versatile, che è possibile utilizzare in ogni stadio della progettazione, dalla fase di esplorazione a quella di validazione ex post delle informazioni. A differenza dei questionari, la presenza del ricercatore allontana l'eventualità che il soggetto interpreti in maniera errata le domande o che si trovi in imbarazzo perché non comprende quanto gli viene richiesto; inoltre, nel caso di una risposta non attinente, il ricercatore può riformulare la domanda. Il vantaggio maggiore rispetto al questionario consiste nel fatto che l'intervista non registra la stessa alta percentuale di mancati recapiti da parte dei soggetti contattati; di conseguenza, i dati raccolti godono di maggiore validità . A differenza dell'intervista personale, l'intervista telefonica appare concepibile nell'ambito di un sondaggio, offrendo vantaggi legati soprattutto al costo e al tempo di esecuzione, nonostante la mancanza di un'interazione faccia a faccia limita la "competenza comunicativa" () dell'intervistatore e dell'intervistato. Durante l'intervista telefonica l'intervistato non può prendere visione diretta del questionario, come accade nel sondaggio tramite intervista personale, e non consente all'intervistatore il ricorso a tecniche che comportano strumenti da sottoporre visivamente all'intervistato, come forme di gadgets o scale auto-ancoranti. Dal punto di vista dell'intervistatore, si dispone di meno informazioni per valutare se l'intervistato ha capito davvero la domanda; di conseguenza tenderà a ridurre gli interventi opportuni per chiarire il testo. Non è possibile integrare il resoconto dell'intervista con informazioni relative all'ambiente fisico in cui essa ha luogo e al comportamento non verbale dell'intervistato. 0.5.4.2 Focus Group Interviste rivolte a un gruppo omogeneo di 7/12 persone, la cui attenzione è focalizzata su di un argomento specifico, che viene scandagliato in profondità. Un moderatore (spesso definito: 'facilitatore') indirizza e dirige la discussione fra i partecipanti e ne facilita l'interazione, anche attraverso la predisposizione di un "sceneggiatura" finalizzata a fare emergere le peculiari conoscenze ed esperienze, nonché finalizzata a favorire il confronto "creativo". Ogni partecipante ha l'opportunità di esprimere liberamente la propria opinione rispetto all'argomento trattato ma nel rispetto di alcune "regole del gioco" introdotte dal facilitatore; la comunicazione nel gruppo è impostata in modo aperto e partecipato, con un'alta propensione all'ascolto. Il contraddittorio positivo che ne consegue consente di far emergere i reali punti di vista, giudizi, pre-giudizi, opinioni, percezioni e aspettative del pubblico di interesse in modo più approfondito di quanto non consentano altre tecniche di indagine . Nella tabella seguente, sono riportati i metodi di Forecasting Tecnologico , suddivisi nei 9 cluster definiti dal "MIT- Massachusetts Institute of Technology", indicando quali sono stati impiegati nelle attività progettuali e in che fase. 0.5.5 FASE 4: REALIZZAZIONE CONCLUSIVA DEL REPORT Durante la fase conclusiva di redazione finale del report, il Team di Progetto si è concentrato nell'elaborazione dei dati raccolti durante le fasi precedenti attraverso strumenti grafici che hanno facilitato l'attività di capitolazione delle informazioni, tra cui: • Istogrammi; • Diagramma a Torta; • Mappatura con metrica a "semaforo" : questa tecnica di rappresentazione è stata ideata dal Team di Progetto. Le sue peculiarità saranno illustrate più nel dettaglio successivamente. • Modello di Maturità (Maturity Model). 0.5.5.1 Istogramma L'istogramma è la rappresentazione grafica di una distribuzione in classi di un carattere continuo. Un istogramma consente di rappresentare i dati attraverso rettangoli di uguale base ed altezza differente a seconda dei dati stessi, ed in un solo colpo d'occhio permette di capire se una "quantità" è maggiore, minore o uguale di un'altra semplicemente guardando l'altezza dei rettangoli. 0.5.5.2 Diagramma a Torta Un Diagramma a Torta è una tecnica di rappresentazione che in un modo semplice e diretto è evidenzia il peso delle varie componenti di una grandezza. In questo modo la grandezza in questione viene rappresentata sottoforma di cerchio i cui spicchi hanno un angolo e di conseguenza, un arco, proporzionale alle varie componenti. 0.5.5.3 Modello di Maturità Tale modello definisce il livello di maturità di un'entità. L'aspetto caratteristico di tale rappresentazione è il fatto di essere organizzato per livelli. Il modello definisce diversi profili di maturità crescente, indicando implicitamente anche una strategia molto generale di miglioramento che si basa sull'introduzione di quelle pratiche che permettono solitamente ad un'azienda, di muoversi da un livello di maturità al successivo.
2008/2009 ; 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l'importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L'assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un'ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall'altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell'integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l'attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest'ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l'ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull'onda dell'emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di "abuso del risparmio e dei risparmiatori" che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell'ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc.). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all'evidenza, di una visione miope e destinata all'insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell'ultimo ventennio, dettati più dall'improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l'espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell'ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l'idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d'uscita? 3. Quella di avviare, nell'immediato, un importante processo di riforma dell'ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l'integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L'attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall'improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un'eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com'è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l'esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell'informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l'obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l'idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell'integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell'ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un'idea di funzionalizzazione dell'attività d'impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell'ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull'operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L'opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell'effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l'antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l'extrema ratio, l'ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l'unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell'afferrabilità, propri dell'oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l'interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell'insider trading, erroneamente considerata l'architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell'individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del "risparmio": dall'istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all'opinione, oggi prevalente, che identifica l'interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del "buon funzionamento, dell'integrità e dell'efficienza del mercato". E' fuor di dubbio che l'eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l'efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull'i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come "norme manifesto" - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l'osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l'economia o il territorio o l'ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L'affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l'interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore "rischio" e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l'uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle "regole del gioco". 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l'impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l'unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall'esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l'interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l'intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell'interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l'elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l'intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all'osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l'interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l'interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L'epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l'instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall'offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la "fonte di legittimazione sostanziale" dell'avanzamento dell'intervento penale verso le "strutture" e le "funzioni" della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l'oggetto giuridico dell'intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell'interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell'interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un'impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l'oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un'opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell'oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall'evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l'ambiente, senza dubbio l'economia, la finanza ed il risparmio. E' indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall'altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all'evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d'altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E' innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell'ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. "interventista" e "simbolico", caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull'efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un'attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell'interesse tutelato e la concretizzazione dell'offesa ad esso arrecata. Declinando l'assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l'interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l'intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell'oggettività giuridica sopra configurata, quali "regole del gioco", facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l'accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l'identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un'indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L'opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell'evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell'efficienza e dell'integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell'oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all'inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell'interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E' indubbio che l'accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell'esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull'operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall'altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l'introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell'attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un'effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all'insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall'interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall'interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un'allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S'impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell'ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l'appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell'operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell'insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all'attuale divieto, prevedendo, per converso, l'adozione di presidi infrasocietari nell'ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull'individuazione dell'interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell'insider trading, si registra un generale favor per l'opzione penale, sostenendo che il rango dell'interesse da proteggere e la gravità dell'offesa giustificano l'impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall'opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l'istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell'insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell'i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all'evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell'ultimo ventennio. Si è, invece, dell'opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell'opinione pubblica la convinzione circa l'immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall'i.t., si è detto che l'opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l'insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell'economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l'efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all'uno ora all'altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l'interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell'insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l'eticità delle contrattazioni e l'immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell'i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell'art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l'insider trading lo scoraggia, frustrando l'aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt'altro che dimostrato. L'analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell'insider trading. La legislazione penale sull'i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell'efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell'indagine è quello per cui l'informazione rappresenta una componente essenziale per l'efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell'informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell'insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all'efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l'efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l'uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l'efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell'i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall'attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l'investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all'analisi ed alla diffusione delle stesse. L'attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l'ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un'economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l'unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un'eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all'interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell'informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l'obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall'approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l'informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l'interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l'impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l'esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell'i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un'oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell'etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all'efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all'impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l'interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l'interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell'i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l'interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell'aggiotaggio, dell'i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell'ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell'i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una "norma manifesto", che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l'obiettivo di fondo è quello di difendere l'integrità, l'efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell'ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l'oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell'efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull'integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all'interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell'interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l'ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l'ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell'interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall'inosservanza di un dovere fiduciario tra l'insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall'integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l'assunto secondo cui l'i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l'interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell'investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l'informazione esercita un ruolo fondamentale. L'efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest'ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull'andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l'investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta - "la speculazione è la capacità di scoprire cosa l'opinione media ritiene che l'opinione media sia". I canali attraverso i quali l'informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l'attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell'insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall'ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all'acquisizione o alla produzione dell'informazione. In tale ipotesi, l'asimmetria informativa non è il risultato dell'opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all'obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l'informazione l'ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un'attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull'utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell'asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell'ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell'investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall'esistenza di una superiorità informativa, dall'agire di operatori insider. Dall'altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull'immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell'insider trading diventa una questione di regolamentare l'uso dei diritti di proprietà sull'informazione. L'assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l'informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l'antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene "informazione", in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l'informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l'indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l'informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l'escludibilità dell'informazione, ritenendo che l'accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l'informazione diventi pubblica. E' chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell'assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l'uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l'informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l'effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell'informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all'informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l'informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all'informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l'informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l'inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell'attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell'informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell'informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un'attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d'altronde negare che gli effetti negativi dell'i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l'effetto insider). L'informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall'altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell'informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell'informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell'informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l'obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l'informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l'esigenza dell'emittente di tutelare istanze di riservatezza e l'interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull'uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull'uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell'attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all'aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l'autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell'insider dalla società emittente, tanto nell'interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all'immagine della società e per l'impatto sull'andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell'interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l'interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l'uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall'assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull'insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l'ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall'emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l'emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull'uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all'esito di un'attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l'unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell'insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l'abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all'interno delle società emittenti, congiuntamente all'adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l'uso delle informazioni rilevanti e l'assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all'opacità ed all'inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell'ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all'organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell'amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell'accertamento degli illeciti e nell'irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l'introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell'intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell'agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all'interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E' chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall'assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell'ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell'intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l'obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l'occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi "a tripla A" a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un'effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d'obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell'ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l'ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all'illustre Guido Rossi, che "il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all'agire economico". Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell'ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest'opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell'ambito economico e dell'impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell'autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio. ; XXI Ciclo ; 1972
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza