Questo lavoro, attraverso una ricognizione teorica e una sistematizzazione tecnico- operativa, propone una riflessione sui processi di vittimizzazione e sulle dinamiche che ad essi sottendono, la cui lettura non può essere solo criminologica, psicologica e giuridica ma anche sociale. Oggetto di studio sono le vittime di reato e la vittimologia, disciplina che nasce alla fine degli anni '40 del secolo scorso, come branca della criminologia e che oggi ha ottenuto da essa autonomia teorica. La vittimologia è infatti la disciplina che studia l'agito violento dalla prospettiva della vittima, tenendo conto anche della personalità del carnefice, della relazione che intercorre tra questi due soggetti, del loro ambiente e del contesto in cui l'evento delittuoso avviene. Ma è anche lo studio delle interazioni tra vittima, aggressore, sistemi di giustizia penale, mass media, agenzie di controllo sociale e di aiuto, con lo scopo di prevenire e ridurre i processi di vittimizzazione primari, cioè causati direttamente dal reato, e secondari, determinati dalla reazione sociale alla vittimizzazione stessa e identificativi di conseguenze a breve, medio e lungo termine. La vittima di reato è la persona che ha subito un danno fisico, psicologico, morale, economico, a causa di un agito violento, espressione della distruttività, dell'incapacità comunicativa, della perdita di significatività dell'altro, in violazione di una norma penale. È una persona che necessita di un supporto specifico ed appropriato per riuscire ad affrontare e, dove possibile, superare le conseguenze del trauma subito. È la persona che ha perso il controllo sulla propria vita a causa di un comportamento lesivo altrui, che spesso deve riadattarsi al proprio ambiente, che è portatrice di un patimento fisico e psicologico, che ha subito un danno inaspettato e immeritato, che soffre conseguenze materiali, finanziarie, di salute fisica e mentale. In Italia ad oggi l'assenza di una normativa nazionale di tutela delle vittime di reato, indipendentemente dal tipo di crimine che le ha colpite (e dalla sua definizione giuridica), dalla natura del danno e degli esiti, dalla criminogenesi e criminodinamica del fatto reato, dalle caratteristiche della vittima, non rende esigibili i fondamentali diritti di cittadinanza di cura, assistenza e risarcimento che sono riconosciuti dalla nostra Costituzione. Vi sono ancora vittime non tutelate, la cui voce e il cui riconoscimento, soprattutto in termini di diritti non è ascoltata, affermata. Abbiamo ancora una cultura lontana dal riconoscimento della vittimizzazione come danno sociale, nonostante determini costi altissimi. Ci si deve chiedere quando per una vittima essere sostenuta, orientata, protetta, curata, diventerà un diritto esigibile. I danni che lamentano le vittime sono espressione di bisogni complessi, che non possono essere sottovalutati in termini di politiche sociali. Lo "sguardo" non può più essere rivolto solo al reo (abbiamo ancora in Italia un sistema giudiziario e penale sostanzialmente reocentrico) ma allargato ad un orizzonte sociale che coinvolga i servizi preposti alla prevenzione, alla cura e all'accoglienza delle persone più bisognose. Sono infatti più a rischio di vittimizzazione i cittadini più "deboli" come i minori, gli anziani, le donne, i disabili fisici o psichici e coloro che vivono in marginalità. Sono le vittime fragili. La violentizzazione di soggetti fragili (l'abuso commissivo od omissivo su minori, donne, anziani e portatori di disabilità fisica e psichica o la violenza nelle relazioni strette), e quindi i processi di vittimizzazione in genere, hanno caratteristiche oggettive a cui diamo significato attraverso processi diagnostici diversi. Le vittime hanno di fatto riconoscimento sociale se ciò che subiscono viene percepito e considerato dalla società e dalla collettività come danno, se cioè al comportamento dannoso che subiscono viene dato un significato lesivo della loro integrità soprattutto se fisica ed economica, meno se psicologica o morale. Lo studio dei processi di vittimizzazione, che creano dolore e patimento spesso limitativi dell'autonomia personale e delle competenze partecipative e di sviluppo sociale, che creano danni e costi sociali altissimi, necessita di un approccio complesso che richiede osservazioni multidisciplinari per comprendere i fenomeni devianti e quindi quelli di vittimizzazione in maniera proattiva sia nella prevenzione che nella diagnosi funzionale e trattamentale. Nel tentativo di dare una continuità e una certa omogeneità ai processi teorici e operativi, il presente lavoro, suddiviso in tre parti, propone analisi e osservazioni teoriche ed operative. Consapevoli di non poter trattare approfonditamente la sociologia della devianza, si propone alcune riflessioni di ambiti teorici e Autori nei quali è possibile rintracciare considerazioni riguardanti le vittime in quegli stessi processi devianti osservati, con lo scopo di individuare corrispondenze e punti di interconnessione tra società, identità deviante e identità vittimale. Presentiamo inoltre anche l'analisi del cambiamento nella storia della figura della "vittima" attraverso le scuole e gli Autori che dalla fine degli anni '40 ad oggi hanno contribuito alla costruzione della disciplina vittimologica. Attraverso l'analisi dei processi di vittimizzazione, e della relazione tra vittima e carnefice, si sono delineate inoltre le tipologie vittimologiche, i rapporti patologici, l'analisi dei danni dovuti alla vittimizzazione primaria e secondaria, i diritti delle vittime, il ruolo della vittima nelle investigazioni e i processi di giustizia riparativa. Infine proponiamo una riflessione sulle "vittime fragili" e sul trattamento di donne, minori, anziani e disabili che hanno subito processi di vittimizzazione, cercando di dimostrare la congruenza tra l'osservazione criminologica e vittimologica e l'applicazione di strumenti tecnici propri anche del servizio sociale. L'analisi della "violenza", la sua tipologia in termini criminogenetici e criminodinamici, l'analisi relazionale e le strategie umane di sopravvivenza al dolore, sono la base conoscitiva imprescindibile per qualsiasi agito professionale. Gli strumenti di intervento sia diagnostici che trattamentali sono stati differenziati sulla base della tipicità vittimologica, delle caratteristiche di rischio e fragilità dei cittadini più facilmente esposti, per caratteristiche personali e sociali, ai processi di vittimizzazione. La proposta operativa della costruzione della perizia vittimologica, nell'ottica di una riduzione dei processi di vittimizzazione secondaria, conclude il lavoro con un'analisi dei Centri di Supporto alle Vittime. La prospettiva vittimologica attuale propone uno "sguardo" diverso, che pone al centro di qualsiasi intervento, sia del sistema giudiziario e penale sia del sistema assistenziale, la persona che ha subito violenza e un danno a causa di un reato. A questa dobbiamo far riferimento. Dare l'opportunità di riflettere sui processi determinanti la vittimizzazione e sui percorsi di prevenzione, cura e sostegno delle vittime significa restituire centralità alla persona e al cittadino, significa cambiare la cultura dell'intervento e sviluppare politiche sociali non settoriali ma umanamente proattive di una reale cultura di benessere sociale. Così l'impegno di questo lavoro, di questa ricognizione tra teorie sociologiche, criminologia, vittimologia e servizio sociale, ha voluto evidenziare, tra "sapere e fare", come poter migliorare il sistema degli interventi in favore delle vittime.
2004/2005 ; L'Arcipelago delle Falkland/Malvine è composto da due isole maggiori, dell'ampiezza del Trentino Alto Adige e da circa ottocento isolotti minori. Posto all'estremità inferiore del Continente Sudamericano e a circa 400 chilometri dalla costa patagonica, è uno dei pochi territori senza substrato culturale precolombiano di tutta l'area. Il clima è atlantico: a causa,del freddo vento antartico éhe perennemente soffia sull'Arcipelago, la vegetazione è costituita da alte erbe con completa assenza di specie arboree. Avvistato dai Grandi navigatori europei durante le esplorazioni del XVI secolo, l'Arcipelago venne colonizzato soltanto verso metà del '700 dal francese de Bougainville, e da marinai - coloni provenienti da Saint Malò, da cui il nome Malouines, poi diventato Malvinas per gli spagnoli. L'insediamento, Port Louis, era sito nell'isola principale ed era composto da un forte e poche case di fango per i coloni. I consulenti del re di Francia avevano individuato per primi l'importanza geostrategica delle Isole, da utilizzare come base per la riparazione dei vascelli che avevano doppiato Capo Horn e per controllare il traffico marittimo in transito tra i due Oceani. La Corona di Spagna, preoccupata dalla presenza di una base francese così vicina alle sue coste sudamericane, pretese l'immediata restituzione di ciò che, richiamandosi al cinquecentesco Trattato di Tordesillas, era un suo territorio. La Francia cedette l'insediamento agli spagnoli, senza conflitto, ma chiedendo un risarcimento per le opere costruite. Nel frattempo anche l'Ammiragliato inglese aveva colto il valore strategico delle Isole, e ad insaputa degli spagnoli, aveva insediato un forte ed una piccola guarnigione, Port Egmont, sull'isola occidentale. Qualche anno dopo una nave inglese incrociò una nave spagnola nei pressi delle isole e la presenza degli inglesi venne scoperta. Una possente forza armata spagnola, proveniente da Buenos Aires, prese possesso dell'insediamento inglese ma soltanto la mediazione del re di Francia non fece sfociare in conflitto quella scaramuccia. Le Isole rimanevano spagnole e gli inglesi lasciarono il territorio. La gestione spagnola delle Isole si trasformò ben presto in abbandono del territorio e si dovette attendere il primo decennio del XIX secolo per l'arrivo di nuove comunità stanziali, eredi degli spagnoli, ormai ritiratisi dal continente Latinoamericano. La nuova Repubblica del Mar de la Plata prese possesso delle Isole inviandovi mandriani, contadini, pescatori e un piccolo contingente militare. In quegli anni la Gran Bretagna stava raggiungendo il suo apice come Potenza commerciale e coloniale e, in un'ottica di acquisizione dei territori prossimi ai punti di controllo delle rotte navali, le Isole Malvine rappresentavano tali caratteristiche. Il 4 gennaio 1833. la corvetta britannica HMS Clio sbarcò i suoi Royal Marines che costrinsero alla resa la guarnigione argentina. Iniziava il periodo inglese delle Isole Falklands, così chiamate dal nome di un Tesoriere della Royal Navy. Le proteste argentine per la spogliazione del loro territorio furono immediate, ma, per ragioni politiche, il Presidente argentino Rosas preferì mantenere nei confronti degli inglesi un atteggiamento cauto. Le posizioni tra Argentina e Gran Bretagna erano fiorenti sugli aspetti della penetrazione economico-commerciale nel paese sudamericano mentre sull'argomento Falkland/Malvine rimasero su posizioni alterne, con periodi in cui da parte britannica si dichiarava il totale diniego sulla sovranità delle Isole, ad altri, come quando durante la seconda guerra mondiale sperava nell'intervento armato argentino al loro fianco, in cui si prospettavano aperture e possibilità di accordo. La controversia continuò tra i giuristi dei due paesi fino agli anni sessanta. L'Argentina vantava diritti derivanti dal principio dell' "uti possidetis juris", principio largamente applicato tra gli Stati sorti delle colonie spagnole, in cui si prevedeva che il territorio coloniale della Corona di Spagna venisse riportato nei territori degli Stati neo costituiti ricalcando esattamente la precedente suddivisione regionale. La Gran Bretagna si opponeva rimarcando come gli spagnoli lo avessero abbandonato, una sorta di "res nullius", dal quale ogni pretesa di subentro in un diritto ereditato sarebbe stata infondata. Tale giustificazione appariva debole anche al Foreign Office e, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, la Gran Bretagna utilizzò una nuova forma giuridica integrata nel Diritto internazionale: la prescrizione acquisitiva od usucapione. Anche questa giustificazione serviva più come alibi all'opinione pubblica britannica sull'usurpazione del 1833 che per ottenere un reale vantaggio giuridico sull'Argentina. Inoltre l'applicazione nel campo internazionale del principio di usucapione, tipico del Diritto privato, era stato oggetto delle critiche di illustri giuristi. Anche accettando tale principio su base internazionale, fondandosi esso essenzialmente sull'inerzia della controparte nella rivendicazione del territorio conteso, ciò non si prefigurava nello specifico caso, avendo l'Argentina espresso in ogni sede ed in ogni occasione le sue argomentazioni per ottenere la restituzione dell'Arcipelago. L'Argentina si rivolse all'Assemblea delle Nazioni Unite, sull'onda del grande dibattito che si stava sviluppando sulla decolonizzazione. L'ONU riconobbe le tesi argentine e con la Risoluzione 2065 del 1965 il caso delle Falkland/Malvine venne inquadrato in un contesto coloniale. La risposta britannica era fondata sulle stesse argomentazioni che le stesse Nazioni Unite avevano deliberato e più precisamente Londra si richiamava al principio di autodeterminazione dei popoli, confidando nel pieno appoggio degli isolani, di etnia prevalentemente anglosassone. La disputa si pose quindi su due aspetti insormontabili e, sebbene le successive delibere dell'ONU dessero piena ragione alle tesi argentine, non potevano che auspicare una soluzione mediata tra le parti, non avendo alcun altro strumento per forzare il Regno Unito a restituire l'Arcipelago agli argentini. Le. trattative proseguirono in un contesto di parziale abbandono da parte britannica degli abitanti delle Isole, che producevano principalmente lana e che si rifornivano dei necessari materiali e mezzi dalle cittadine della vicina costa continentale sudamericana. La particolarità strategica dell'Arcipelago era stata confermata nel corso delle due guerre mondiali, in due episodi che videro l'annientamento della flotta germanica del Pacifico in rotta verso l'Europa nel 1914 e nel 1939 la caccia alla nave corsara tedesca GrafSpee, costretta all'autoaffondamento nei pressi delle acque neutrali uruguayane dalle navi inglesi partite dalle F alklands; anche durante la Guerra fredda le Isole diedero il loro contributo strategico quale base di controllo delle rotte meridionali della flotta sovietica e per la creazione di un sistema di blocco nel caso il Canale di Panama fosse stato interdetto all'utilizzo. Inoltre l'Arcipelago e le altre Dipendenze australi della Corona britannica permettevano, e permettono, la proiezione degli interessi inglesi sul continente antartico. Nei primi anni ottanta l'Argentina stava attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia, con una Junta militare al potere che, per contrastare la penetrazione marxista nel paese, utilizzò metodi repressivi culminati nel fenomeno dei desaparecidos. Quando la tensione raggiunse limiti ormai ingestibili dai militari, questi ricorsero al richiamo ali 'unità nazionale, invadendo le Isole contese. Già dagli anni cinquanta il Presidente Peròn utilizzò il tema delle Malvinas per ottenere il consenso popolare,' che venne inserito nei programmi scolastici e divulgato presso l'opinione pubblica argentina tramite i mass media. L'invasione argentina delle Malvinas ebbe l'effetto che i militari si attendevano ed anche le opposizioni più radicali si dimostrarono a favore della dittatura militare. L'Inghilterra invece considerò l'azione armata argentina, che non aveva provocato nessuna vittima britannica, un affronto e, sebbene la maggioranza degli inglesi immaginasse che le Falklands fossero delle isole britanniche al largo della Scozia, il governo conservatore di Londra pretese l'immediata restituzione da parte argentina mentre stava inviando una imponente flotta verso l'Atlantico meridionale, nella sua ultima guerra coloniale. Lo scontro avvenne dopo le fallite mediazioni internazionali, specialmente del Segretario di Stato statunitense che doveva trovare una soluzione diplomatica tra due paesi alleati degli Stati Uniti. I combattimenti si svolsero in mare, per cielo e per terra, coinvolgendo le forze dei due paesi, in una nuova guerra tecnologica ed in una zona d'operazioni molto limitata. La vittoria britannica fu netta, nonostante il grande valore dell'aviazione argentina che si oppose ali' avversario nel modo più appropriato. Il dopoguerra per gli abitanti delle Isole contese riservò un miglioramento inaspettato. La guarnigione britannica sulle Isole si ampliò e vennero costruite quelle infrastrutture necessarie alla partenza dello sfruttamento delle risorse che l'Arcipelago custodiva. Si iniziò la ricerca di giacimenti di idrocarburi ma la risorse minerarie non diedero effetti immediati, mentre la vendita di licenze ittiche a vascelli da pesca d'alto mare provenienti da Giappone, Taiwan ed Europa, subordinate al ferreo controllo delle forze armate britanniche sull'isola, diedero un tale gettito fiscale alla piccola economia isolana da farla diventare in vent'anni l'unico Territorio d'Oltremare della Corona britannica economicamente indipendentè. Grazie a questo deciso incremento economico le attività dei 2.200 abitanti dell'Arcipelago si sono moltiplicate e la qualità della vita si è stabilizzata ed è una tra le migliori al mondo, in un ambiente virtualmente senza criminalità e senza inquinamento. Acquisita anche la piena cittadinanza britannica, gli isolani sperano di abitare in una specie di Eden australe, paragonabile all'Islanda, con.una popolazione che potrà raggiungere i 20.000 abitanti e in un clima di buoni rapporti diplomatici con l'Argentina aspirare ad una completa indipendenza da Londra sia pure all'interno del Commonwealth britannico. ; XVIII Ciclo ; 1963 ; Versione digitalizzata della tesi di dottorato cartacea. Nell'originale cartaceo manca la pag. 106
I comportamenti nutrizionali stanno assumendo sempre maggiore rilievo all'interno delle politiche comunitarie e questo sottolinea che la dieta sta avendo, negli ultimi anni, una maggiore importanza come fattore di causa e allo stesso tempo prevenzione nella diffusione di malattie croniche come il cancro, malattie cardiovascolari, diabete, osteoporosi e disturbi dentali. Numerosi studi mostrano infatti che i tassi di obesità sono triplicati nelle ultime due decadi e si è stimato che, se i livelli di obesità continueranno a crescere allo stesso tasso del 1990, nel 2010 il numero di persone obese raggiungerà i 150 milioni tra gli adulti e i 15 milioni tra bambini e adolescenti. I governi nazionali stanno quindi cercando di risolvere questo problema, a cui sono inoltre legati alti costi nazionali, tramite l'implementazione di politiche nutrizionali. Analisi di tipo cross-section sono già state evidenziate da studiosi come Schmidhuber e Traill (2006), i quali hanno effettuato un'analisi di convergenza a livello europeo per esaminare la distanza tra le calorie immesse da 426 prodotti diversi. In quest'analisi hanno così dimostrato la presenza di una similarità distinta e crescente tra i paesi europei per quanto riguarda la composizione della dieta. Srinivasan et al. invece hanno osservato la relazione esistente tra ogni singolo prodotto alimentare consumato e le norme nutrizionali dell' Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) Lo scopo di questa tesi è quello di evidenziare il problema a livello di aggregati nutritivi e di specifiche componenti nutrizionali come zucchero, frutta e verdura e non relativamente ad ogni singolo prodotto consumato. A questo proposito ci si è basati sulla costruzione di un indicatore (Recommendation Compliance Index) in modo da poter misurare le distanze tra la dieta media e le raccomandazioni del WHO. Lo scopo è quindi quello di riuscire a quantificare il fenomeno del peggioramento della dieta in diverse aree del mondo negli ultimi quattro decenni, tramite un'analisi panel, basandosi sui dati sui nutrienti consumati, provenienti dal database della FAO (e precisamente dal dataset Food Balance Sheets – FBS). Nella prima fase si introduce il problema dell'obesità e delle malattie croniche correlate, evidenziando dati statistici in diversi paesi europei e mondiali. Si sottolineano inoltre le diverse azioni dei governi e del WHO, tramite l'attuazione di campagne contro l'obesità e in favore di una vita più salutare e di una maggiore attività fisica. Nella seconda fase si è costruito un indicatore aggregato (Recommendation Compliance Index) in modo da analizzare le caratteristiche nella dieta dei diversi Paesi a livello mondiale rispetto alle norme del WHO. L'indicatore si basa sui dati ottenuti da FAOSTAT ed è calcolato per 149 paesi del database dell'FBS per il periodo 1961-2002. Nell'analisi si sono utilizzati i dati sulle percentuali di energia prodotta dalle varie componenti nutritive, quali grassi, grassi saturi e transaturi, zuccheri, carboidrati, proteine e le quantità di frutta e verdura consumate. Inoltre si è applicato un test statistico per testare se il valore del RCI è significativamente cambiato nel tempo, prendendo in considerazione gruppi di Paesi (Paesi OECD, Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati). Si è voluto poi valutare la presenza o meno di un processo di convergenza, applicando l'analisi di σ-convergenza per osservare ad esempio se la variabilità è diminuita nel tempo in modo significativo. Infine si è applicato l'indicatore ad un livello micro, utilizzando il database del National Diet and Nutrition Survey, che raccoglie dati di macrocomponenti nutritive e misure antropometriche della popolazione inglese dai 16 ai 64 anni per il periodo 2000-2001. Si sono quindi effettuate analisi descrittive nonché analisi di correlazione, regressione lineare e ordinale per osservare le relazioni tra l'indicatore, i macronutrienti, il reddito e le misure antropometriche dell' Indice di Massa Corporea (Body Mass Index, BMI) e del rapporto vita-fianchi (Waist-hip ratio, WHR). ; The growing economic relevance of the adverse health effects of poor dietary choices is leading governments of developed and developing countries towards the implementation and calibration of nutrition policies, hence requiring a stronger quantitative basis to policy monitoring and evaluation. Quantitative research on the nutrition-health relationship is being pushed towards considering meal and dietary patterns as opposed to the traditional analysis of food consumption on a product-by-product basis. To this purpose, nationally aggregated data comparable across countries might provide support to monitor the impact of dietary guidelines and to model the health-diet relationship. In this paper we propose an indicator of distance from the WHO recommendations for an healthy diet, based on FAOSTAT time series of energy intakes for 150 countries over the period 1961-2002. Using parametric methods we explore the evolution in diet healthiness evolved over time, with a special focus on disparities and convergence in different World regions. A single aggregated indicator of distance from the key WHO recommendations for a healthy diet is built using FAOSTAT intake data, bounded between 0 (maximum possible distance from goals) and 1 (perfect adherence). Two hypotheses are tested for different country groupings: (a) whether adherence has improved over time; (b) whether cross-country disparities in terms of diet healthiness have decreased. Preliminary results show that on average diets in developed countries are becoming healthier over time, with a reduction in disparities across countries. Such trend is not confirmed in least developed countries, nor disparities seem to reduce over time. The recommendation compliance index (RCI) shows significant improvements in adherence to WHO goals for both developing and especially OECD countries. The latter group of countries show the highest levels of the RCI and the largest increase over time, especially between 1981 and 2002. No improvement is detected for least developed countries. A reduction in disparities (convergence of the RCI) is only observed within the OECD grouping. Diets are so improving and converging in advanced economies, but developing and especially least developed countries are still far from meeting WHO nutrition goals. This confirms findings on the double burden of malnutrition and suggests that economic drivers are more relevant than socio-cultural factors in determining healthiness of diets. Finally, we have applied the same index on the National Diet and Nutrition Survey database, that is about nutrient intakes and anthropometric measures of English people from 16 to 64 years old over the period 2000-2001. We have implemented correlations, linear and ordinal regression analysis to show the relationship among the index, the macronutrients, the income and the anthropometric measures of the Body Mass Index and the Waist-hip ratio.
E' a seguito di numerose calamità naturali verificatesi dal dopoguerra ad oggi che il 24 febbraio 1992 con la legge n° 225 ,veniva istituito il servizio Nazionale della Protezione Civile. Quella legge sanciva la competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito al coordinamento ed alla promozione delle attività legate alla Protezione Civile. Da quella "storica" data ai giorni nostri molto è cambiato in seno alla Protezione Civile; tante le leggi che si sono succedute, per arrivare dapprima alla riforma Bassanini (legge.300) che nel 1999 ha istituito l'Agenzia della Protezione Civile e poi alla Legge n°401 del novembre 2001 che sopprimeva l'agenzia stessa per assegnare tutte le competenze ad un apposito dipartimento della Protezione Civile. Oggi la Protezione Civile è strutturata in questo modo: A coordinare le attività a livello nazionale è il Dipartimento della Protezione Civile posto alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le strutture di cui si avvale sono quelle del Corpo Nazionale dei vigili del Fuoco, delle Forze armate, delle Forze di Polizia Italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, i servizi tecnici nazionali, i gruppi di ricerca scientifica, l'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la C.R.I. il soccorso alpino , il S.S.N. e le organizzazioni di volontariato. Le Regioni partecipano all'organizzazione delle attività di Protezione Civile assicurandone lo svolgimento delle attività ad essa collegate. Predispongono ed attuano programmi regionali di previsione e prevenzione su direttive nazionali. Le Provincie assicurano lo svolgimento dei compiti relativi alla rilevazione, alla raccolta ed alla elaborazione dei dati interessanti alla Protezione Civile e predispongono dei programmi provinciali di previsione e prevenzione contro le calamità in armonia con i dettami nazionali e regionali. Il Prefetto sulla base di questi programmi di previsione e prevenzione predispone il piano per fronteggiare l'emergenza su tutto il territorio provinciale e ne cura 'attuazione. Il principale modello di intervento a seguito di calamità è il Metodo Augustus, uno strumento di riferimento per la pianificazione nel campo delle emergenze utilizzato dal Dipartimento della Protezione Civile. Sulla base di questo metodo un piano di emergenza viene schematizzato in tre parti: A) la raccolta di informazioni(Dati di Base); B) l'individuazione degli obiettivi da salvaguardare; C) la realizzazione di un modello di intervento operativo sul territorio. Al momento dell'evento calamitoso viene istituita immediatamente la DI.COMA.C.(direzione di comando e controllo), quindi il C.C.S.(Centro Coordinamento Soccorsi), il C.O.M.(Centro operativo misto) e il C.O.C(centro operativo Comunale) che è una struttura decentrata sul territorio e quindi più vicina alla popolazione. Il Metodo Augustus si compone di 15 funzioni: F1- Tecnica Scientifica e di pianificazione; F2- Sanità, assistenza e veterinaria; F3-Mass-media ed informazione; F4-Volontariato; F5-Materiali e Mezzi; F6-Trasporto, circolazione e viabilità; F7- Telecomunicazioni; F8- servizi essenziali; F9-Censimento danni a persone o cose; F10- Strutture operative e S.A.R.; F11- Enti Locali; F12- Materiali pericolosi; F13-Assistenza alla Popolazione: F14-Coordinamento dei centri operativi; F15-tutela dei beni culturali. Il Polo di Protezione della Provincia della Spezia nasce di fatto il 25 agosto 2007 quando i referenti di alcuni gruppi di volontari si riuniscono presso i locali del Centro Integrato di Protezione Civile di Santo Stefano Magra e costituiscono il Coordinamento dei Volontari di Protezione Civile della Provincia della Spezia. Lo scopo che si prefiggono è quello di coordinare le attività dei gruppi aderenti al coordinamento, partecipare quando richiesti, ad interventi di soccorso in ambito locale e nazionale, promuovere l'addestramento dei volontari di Protezione Civile ed incentivare lo spirito del volontario di protezione civile attraverso apposite manifestazioni. Successivamente alla costituzione del "Polo" presso le strutture di Santo Stefano Magra ha trovato una apposita sede parte della Colonna mobile regionale Ligure e d attualmente trovano ricovero numerosi automezzi tra cui cinque Land Rover Defender, due pulmini a nove posti, due furgoni Ducato allestiti SCAM, un ufficio mobile, una cucina mobile, un carrello mobile con servizi igienici, cinquanta tende dalla capacità di 6/8 posti letto, un potabilizzatore con insacchettatrice ed un generatore con container. Il primo grande intervento dei volontari liguri senza l'ausilio dell'esercito, dopo l'abolizione della leva militare, è stato quello relativo al terremoto in Abruzzo. All'indomani della prima grande scossa tellurica del 6 aprile 2009 che aveva distrutto il territorio Aquilano la colonna mobile della Liguria era pronta alla partenza. I volontari del Ponente Ligure partiti dall'Aeroporto Panero di Villanova d'Albenga giunti a Santo Stefano Magra si erano uniti a quelli del Levante ligure ed insieme si erano mossi per le zone terremotate. Quattordici interminabili ore di viaggio, una lunghissima colonna di mezzi e materiali, scortati dalla Polizia per tutto il viaggio necessario per raggiungere Tione degli Abruzzi e le frazioni di Goriano Valli e Santa Maria del Ponte dove erano stati incaricati dell'allestimento di tre tendopoli. A quella missione in Abruzzo avevano preso parte 258 volontari, 27 tra medici, paramedici ed agenti del Corpo Forestale dello Stato della Liguria. La Colonna mobile Ligure aveva organizzato gestito tre tendopoli fornendo pasti e un tetto caldo a circa 450 sfollati. L'opera dei volontari liguri era stata molto apprezzata dalla popolazione locale; il sindaco del paese sottolineava il "grande impegno del contingente ligure a Tione degli Abruzzi e si augurava che il contributo di amicizia e solidarietà fosse continuato nel tempo". Ancora oggi un solido legame di amicizia cimenta i rapporti tra la popolazione del paese Abruzzese e i volontari del Polo di Protezione Civile di Santo Stefano Magra. Il territorio del Comune di Arcola(SP) il 23 dicembre 2010 è stato colpito da un violento nubifragio che ha provocato danni ingenti al territorio arcolano. L'abitato di Romito, cosi come quello di Ressora e il Piano di Arcola sono rimasti completamente allagati. Numerose sono le frane attivate, fanno paura quelle sui fianchi della montagna in località Ressora e quella che è scesa dalla collina di Trebiano. I volontari , dopo l'apertura del C.O.C. in località Romito hanno prima provveduto a mettere in sicurezza le persone intrappolate dalle acque e successivamente hanno cominciato a spalare fango nelle varie frazioni per permettere il ripristino della circolazione e le normali attività. Le operazioni si sono protratte per diversi giorni; ogni sera un breefing al C.O.C. per valutare e coordinare le attività del giorno successivo; i volontari sopraggiunti da ogni parte della Liguria e dalla vicina Toscana hanno lavorato alacremente fino al termine dell'emergenza che si è protratto fino alla prima decade del gennaio 2011. Con la crisi dei governi dell'area Mediterranea Africana, dei paesi del Magreb è cresciuta l'emergenza profughi al punto che è diventata una emergenza nazionale. Gli sbarchi sulle coste italiane sono aumentate a dismisura ed il Canale di Sicilia è diventato improvvisamente una autostrada del mare attraverso la quale centinaia di migliaia di profughi hanno tentato di raggiungere l'Europa ricca e opulenta. A seguito di questo continuo esodo il 6 aprile 2011 tra Governo Italiano, Regioni, Provincie autonome ed Enti Locali era stato firmato un accordo che conferiva alla Protezione Civile Nazionale di pianificare l'accoglienza degli ospiti in strutture dedicate. Era stato così che a La Spezia presso il "Polo" di Protezione Civile erano stati alloggiati 35 ospiti provenienti da diversi paesi Africani e dal Bangladesh e dalle diverse professioni religiose. Far convivere Cristiani e Mussulmani non era cosa facile; gli usi, i costumi , le tradizioni religiose sono molto diverse tra le due grandi religioni monoteistiche, tuttavia nessuno tra gli ospiti ha mai rivendicato il diritto ad una predominanza religiosa rispetto all'altra. Anzi durante quel periodo il Camerunense Fotso Calvin aveva abbracciato la religione cattolica facendosi battezzare. I profughi erano stati seguiti dai volontari della Protezione Civile fino al 25 ottobre 2011 quando una grave alluvione aveva colpito il territorio Spezzino. L'alluvione aveva dirottato il personale volontario verso l'emergenza ed il supporto ai migranti era stato affidato alla cooperativa Maris. Il 25 ottobre 2011 circa 600 millimetri d'acqua sono caduti in poche ore sulle Cinqueterre, sulla Val di Vara e sulla Val di Magra provocando morte e distruzione. Le comunicazioni erano totalmente interrotte ed i volontari del Polo di Protezione Civile si sono resi immediatamente disponibili per interventi sul territorio. Vernazza e Monterosso al Mare erano due paesi spettrali con enormi colate di ghiaia che arrivavano fino al mare. Pignone, Brugnato e Borghetto Vara apparivano distrutte e tutta la pianura alluvionale dei fiumi Vara e Magra risultava fortemente allagata con il ponte della Colombiera in località Cafaggio di Ameglia crollato sotto la forza della piena. I volontari Spezzini si sono subito impegnati per soccorrere le popolazioni ferite ed in difficoltà. Importante è stato anche l'intervento delle colonne mobili del volontariato delle Regioni confinanti che sono scese nel territorio ligure per dare una mano, ripulire i paesi e ripristinare la viabilità. Il piazzale del "Polo" in quei giorni era diventato un immenso deposito di viveri e materiali stoccati in attesa di essere distribuiti alle popolazioni. C'erano numerosi elicotteri che planavano , caricavano merci e derrate alimentari per poi ripartire verso le località colpite. E' stato un lavoro immane e continuo per le migliaia di volontari che da tutta l'Italia sono accorsi nello spezzino ed in Lunigiana per far fronte all'emergenza alluvione. La scossa di terremoto che ha colpito l'Emilia Romagna la notte del 20 maggio 2012 ha scosso di fatto tutto il Nord Italia. Numerosi i morti ed i capannoni distrutti. La colonna mobile della Liguria con cinquanta tende, cucine da campo ha allestito in località San Biagio nel Comune di San Felice Sul Panaro una tendopoli per dare assistenza alle popolazioni colpite. All'interno del campo 250 sfollati di cui 60 bambini , ma soprattutto 15 etnie. C'erano le diverse attività ludiche per i numerosi bambini ospitati ma anche molte difficoltà per fare coesistere le molte religioni che per certi versi erano in contrasto tra loro. Tra le altre cose quello era il periodo del Ramadan e quindi molti assistiti mangiavano e bevevano solamente dopo il tramonto del sole. La Colonna Mobile Regionale Ligure è rimasta a San Biagio nel Comune di San Felice sul Panaro fino al 29 Luglio 2012 quando la Protezione Civile della Provincia Autonoma di Trento è subentrata nella gestione della Tendopoli Conclusioni: L'obiettivo condiviso dalle associazioni di volontariato di Protezione Civile associate al Centro Integrato della Protezione Civile di Santo Stefano Magra è stato quello di creare in ogni zona di territorio della Provincia della Spezia, un servizio di pronta risposta alle esigenze della popolazione. All'interno delle varie associazioni esistono tutte le professionalità della società moderna, insieme a tutti i mestieri e questo mix costituisce una grande risorsa, fondamentale nelle grandi emergenze, quando il successo degli interventi dipende dal contributo delle varie specializzazioni(medici, ingegneri, infermieri, cuochi, falegnami etc). L'impegno di ogni volontario è una risorsa preziosa e vitale, non solo per il territorio spezzino ma, per tutto il territorio nazionale. La gratifica più grande per un volontario di protezione civile è il cittadino che ti dice "Grazie", anche dopo aver spalato per una intera giornata fango dalla sua abitazione. Mentre la risorsa è una sola: "La voglia di fare qualcosa per se e per gli altri".
Con questo lavoro, ho cercato di raccontare in che modo il movimento gay, lesbico, bisessuale e transessuale italiano ha contribuito a rendere la nostra società più laica, libertaria e nonviolenta. Per farlo, ho analizzato i tre aspetti principali che ne hanno caratterizzato l'agire: - la difesa della laicità dello Stato - La tutela e l'ampliamento delle libertà individuali - E, soprattutto, il carattere nonviolento delle lotte. La tesi si compone di sette capitoli. In quello iniziale, mi sono occupato delle origini del movimento glbt. Le prime notizie riguardanti l'attivismo politico della comunità glbt, arrivano da Firenze. Nel 1512, un gruppo di trenta giovani aristocratici, riuniti sotto il nome di Compagnacci, fece irruzione nel palazzo del governo, costringendo un alto funzionario alle dimissioni e chiedendo che il consiglio comunale abrogasse le condanne di quei sodomiti che erano stati costretti all'esilio o a cui era stato fatto perdere il posto di lavoro a causa della loro omosessualità. Nel 1432, infatti, era stato creato un corpo di guardie speciali (gli ufficiali di notte), incaricate di occuparsi delle accuse, delle prove e dei processi riguardanti i casi di sodomia. Le denunce contro gli omosessuali venivano presentate anonimamente, infilate in apposite cassette sparse per la città. Una delle vittime più illustri di questo sistema fu Leonardo Da vinci, il quale intratteneva una relazione con il giovane Jacopo Santarelli. Anche a Lucca, nel 1448, fu istituita una magistratura simile. Facendo un salto avanti nel tempo, arriviamo all'avvento del fascismo e notiamo che, rispetto al nazismo, viene adottata una strategia diversa contro i gay. Mentre in Germania, sulla base del paragrafo 175 del codice penale (che prevedeva il carcere per gli atti sessuali tra maschi), il nazismo fece arrestare e deportare nei campi di concentramento circa trentamila omosessuali, in Italia fu deciso in un primo tempo (nel 1936, sulla base delle leggi razziali) di prevedere la misura del confino per i gay, in quanto "nemici della razza". Tre anni dopo, però, ci fu un ripensamento, dovuto alla considerazione che perseguitare un gruppo sociale in quanto gruppo, richiedeva che lo si riconoscesse come tale. Quindi l'omosessualità venne depenalizzata non per indulgenza, ma per dimostrare che gli omosessuali non esistevano: gli italiani erano troppo virili per esserlo. Il controllo e la repressione di questo "problema" fu lasciato alla Chiesa cattolica: un sistema più efficace e meno costoso. Nel secondo capitolo ho illustrato come e quando il movimento glbt si è manifestato come gruppo politico. A livello internazionale, la realtà glbt appare per la prima volta in America, in un locale gay di New York (il bar Stonewall, nel Greenwich village), nella notte del 28 giugno 1969. E' lì che prende avvio "la rivolta di Stonewall", ricordata ogni anno in tutto il mondo con i cortei del Pride. Cosa accade? Per la prima volta, gay, lesbiche e trans decidono di ribellarsi ai soprusi della polizia, che frequentemente faceva irruzione nel locale picchiando e schedando i presenti. La rivolta fu generata dal gesto di una diciassettenne transessuale, Silvia Rivera: il lancio di una scarpa col tacco contro uno dei poliziotti. L'uso di quell'"arma" impropria, è l'emblema del carattere atipico e nonviolento che, fin dalle origini, ha caratterizzato l'agire del movimento glbt. In Italia, sulla scia della rivolta di Stonewall, si verificò la prima uscita pubblica del movimento glbt. Era l'aprile del 1972, e a San Remo il Centro Italiano di sessuologia, un organismo di ispirazione cattolica, aveva organizzato un congresso internazionale sulle devianze sessuali, inserendo nel programma una tavola rotonda e molti interventi specificamente dedicati a cause e terapie dell'omosessualità. Il timore di gay e lesbiche era che l'iniziativa servisse a promuovere un disegno di legge contro l'omosessualità, così com'era già accaduto in Spagna, dove la dittatura franchista, nel 1970, aveva prescritto l'obbligo di cura per questo tipo di "malati" attraverso l'internamento in apposite strutture. Così, la mattina del 5 aprile 1972, organizzarono una clamorosa e inedita contestazione, chiedendo aiuto anche a gruppi glbt di altri paesi. Una protesta decisa, ma allo stesso tempo ironica e gioiosa, per dimostrare che anche nel nostro paese si doveva e poteva lottare a viso aperto contro l'omofobia. Il capitolo 3, è dedicato al rapporto tra movimento glbt e nonviolenza. Secondo lo storico e attivista gay Giovanni dall'Orto, il movimento glbt ha scelto di adottare il metodo di lotta nonviolento "per convinzione, non per debolezza". Ho cercato di dimostrare la veridicità di questa affermazione, raccontando alcuni episodi concreti, ed analizzando il rapporto tra il movimento glbt e il movimento delle donne. Con le femministe, il mondo omosessuale ha condiviso la sperimentazione di pratiche e linguaggi nuovi, alternativi rispetto ai metodi di lotta politica tipici degli anni '70 (ma purtroppo in voga ancora oggi) caratterizzati dal ricorso all'uso della forza, allo scontro fisico e ad un lessico preso in prestito dal mondo militare. L'intento comune era di cambiare una società sessuofobica, fondata sul dominio del maschio, sul familismo e sulla morale cattolica. Nel corso degli anni, il movimento glbt ha avuto più di un'occasione per dimostrare che il proprio agire politico è basato interamente sul pensiero e sul metodo nonviolento. Ad esempio, A Padova, nel 2002, alla vigilia del Pride, gli organizzatori si trovarono stretti da specie di tenaglia: da un lato l'organizzazione di estrema destra "Forza Nuova", annunciava una contromanifestazione; dall'altro, i Disobbedienti del nord est, ribattevano che avrebbero impedito quel corteo. Gli esponenti del Pride, si liberarono da quella morsa esprimendo pubblicamente il rifiuto della comunità glbt di indossare l'elmetto e guerreggiare:"Ogni tentativo di arruolarci nella logica maschilista della violenza è sempre fallita. La violenza è l'arma dei nostri avversari, del maschio fallocratico, dell'esercito. Noi siamo l'alternativa a questo modo di essere e di pensare. Noi siamo l'altro mondo che è possibile. Un altro mondo in cui non sarà più la violenza a dettare legge, ma la nonviolenza, la ragione e le ragioni degli esseri umani". Viene espressa in questo modo la convinzione che per perseguire fini giusti, sia necessario adottare mezzi giusti, ossia nonviolenti. Nella storia dell'umanità, invece, si è costantemente trascurato questo rapporto tra mezzi e fini, con la conseguenza che anche certe rivoluzioni, nate per affermare ideali di libertà e giustizia, si sono trasformate in nuovi dispotismi. Nel capitolo 4 ho descritto come sono nate, in quale contesto storico, e come operano le principali associazioni glbt italiane: Arcigay, Arcilesbica e Movimento di Identità transessuale (Mit). L'ultima parte del capitolo, è dedicata invece ai gruppi glbt di Movimento, aventi posizioni più radicali rispetto alla politica dei "piccoli passi" portata avanti da Arcigay. Queste associazioni, presero parte nel 2001 al contro vertice del G8 a Genova e, l'anno seguente, alle manifestazioni contro la guerra in Iraq e al Social Forum Europeo di Firenze, dando vita (insieme a numerose sigle glbt europee) al workshop"Gay, lesbiche, trans e neoliberismo". Da quest'ultimo scaturirono critiche dure e articolate al modello liberista di sviluppo e di società, e la netta opposizione ad ogni guerra, dato che "non c'è differenza tra intervento in Iraq, in Jugoslavia, in Cecenia, quando si sia in grado di vederne le cause reali e gli effetti, che sono sempre morte e distruzione". Nel documento conclusivo, è resa palese la convinzione che la costruzione di "un altro mondo possibile" passa per l'unione di quanti contestano il modello attuale di società: un'aggregazione tra diversi che oltre ad aumentare la forza della lotta favorisce, allo stesso tempo, un interscambio continuo. Il capitolo 5 è dedicato alla soggettività transessuale. Ho cercato di spiegare i concetti di transessualità e di identità di genere, e di illustrare il percorso (molto lungo e impervio, stabilito dalla legge 164/1982), che una persona transessuale deve affrontare per ottenere l'autorizzazione a modificare i propri dati anagrafici in relazione al sesso prescelto. In Italia, a differenza di altri paesi europei, la giurisprudenza maggioritaria non ammette la rettifica dei dati anagrafici (nome e sesso), in assenza dell'intervento di riattribuzione sessuale. Ciò significa che per anni, una persona che ha assunto di fatto i caratteri tipici di una donna, è costretta ad esibire documenti che la presentano come uomo. Sono molti i casi di transfobia (in questo capitolo ho raccontato quelli originati e alimentati dai mass media), che spesso hanno un epilogo tragico: nel periodo 2008-2013, nel nostro paese le trans uccise sono state ventisei, un numero decisamente superiore a quello delle altre nazioni europee, e che fa dell'Italia il secondo paese per numero di vittime in Europa dopo la Turchia. Nel capitolo 6 mi sono concentrato sul World Pride di Roma del 2000, un caso che dimostra la capacità del movimento glbt di sperimentare e di trascendere i conflitti con grande creatività Nonostante fosse stata programmata e annunciata quattro anni prima, la manifestazione rischiò di essere vietata (o fortemente ridimensionata), a causa della concomitanza con il Giubileo della Chiesa cattolica. Il Presidente del Consiglio dell'epoca, Giuliano Amato, intervenendo sul tema nel corso di una seduta della Camera dei Deputati, disse: "purtroppo c'è la Costituzione, che impone vincoli e costituisce diritti", ma vi è il proposito del Governo di "limitare la manifestazione ad un luogo definito, di isolarla dal resto della città". Una precisazione che non soddisfò il cardinale Camillo Ruini, Presidente della conferenza episcopale italiana, che sottolineò: "La nostra richiesta continua ad essere che questa manifestazione non si faccia. Se non verrà accolta saremo dispiaciuti e adombrati". Il contesto era tutt'altro che favorevole, ma il movimento glbt riuscì a entrare in empatia con l'opinione pubblica e a suscitare sostegni significativi. Amos Luzzato, ad esempio, all'epoca presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, affermò:"a una frazione minoritaria del paese, da sempre oggetto di discriminazione oggi si contesterebbe il diritto di organizzare, come qualsiasi altro gruppo, una manifestazione nei tempi e nei luoghi prescelti, nel rispetto della Costituzione e delle leggi dello Stato. Esprimiamo la nostra comprensione e solidarietà per questo gruppo umano(.). Nei campi di sterminio (noi con il triangolo giallo, loro con il triangolo rosa), hanno sofferto insieme a noi e con noi quell'indicibile orrore. Sottolineiamo come il rispetto delle minoranze sia sempre stato e e sia oggi più che mai un segnale e una misura dello stato di salute e della democrazia di una società civile". L'8 luglio del 2000, il corteo che si snodò per le vie di Roma, divenne (e lo è ancora oggi, a distanza di 14 anni) il Pride più partecipato che si sia mai svolto in Italia. Come ebbe modo di scrivere Natalia Aspesi su "La Repubblica" "Duecentomila, un milione, non ha importanza. Perché la folla era comunque immensa, e l'aria era quella di una grande festa di fratellanza, di un oceanico e colorato gioco di solidarietà, di un gigantesco raduno familiare"
La tesi analizza la valenza artistica e politica delle esperienze di riproposta e di ricerca della musica popolare in Italia. La riflessione si sviluppa a partire dall'opera di Gramsci (in particolare le sue "Osservazioni sul Folklore", il rapporto fra egemonia culturale e egemonia politica, il ruolo degli intellettuali), analizzando come questa abbia condizionato gli studi sul folklore dal dopoguerra, soprattutto nel lavoro di Ernesto De Martino e di Gianni Bosio. Seguendo il filo rosso della riflessione sul senso del riproporre la musica popolare e sulle sue modalità di riproposta la tesi racconta le attività e i principali dibattiti interni al Nuovo Canzoniere Italiano, con un focus finale sull'opera di Giovanna Marini, che viene letta come una grande sintesi di questo percorso. In Italia la riflessione e il lavoro sulla musica popolare sono stati fortemente condizionati e, almeno fino agli anni ottanta, sostanzialmente indirizzati dalle considerazioni espresse in proposito da Antonio Gramsci che, come viene ricostruito nel primo capitolo di questa tesi, in alcune pagine dei suoi Quaderni del carcere definiva il popolo come «l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita» e il folklore come la «concezione del mondo» di questa parte della società. Questa tesi cerca di ricostruire il dibattito fra coloro che si sono occupati di musica popolare in Italia in questo specifico senso (e che in effetti non si limitarono all'ambito della musica di tradizione orale o "contadina"), cercando di approfondire in particolare due aspetti: il valore politico dello studio e della riproposta dei repertori popolari e la riflessione sulle modalità della riproposta stessa. I due fili sono chiaramente intrecciati perché la modalità di esecuzione di un brano, il contesto dove viene eseguito, le scelte interpretative, ecc., contribuiscono sempre a definire il senso che si vuole dare ad una operazione. La riscoperta della musica popolare in Italia è stata collegata ad un dibattito di ampio respiro (fra musicisti, intellettuali, organizzatori, ricercatori, ecc.) su quale ruolo essa avrebbe potuto avere come mezzo per valorizzare la cultura delle classi che (in questa visione) la esprimevano, nel quadro di una concezione che assegnava alla cultura un ruolo da protagonista nella lotta per l'emancipazione politica: una specificità tutta italiana. L'interesse per la riscoperta e la riproposta della musica popolare in Italia dal secondo dopoguerra in poi è scaturito ed è stato sempre accompagnato da una grande riflessione teorica e da un grande dibattito sul senso delle operazioni che venivano messe in atto. Non si è trattato del lavoro di "semplici" musicisti o appassionati che hanno scoperto e appunto revivalizzato, cioè ridato nuova vita, a un repertorio che tendeva ad essere dimenticato, ma dell'opera di intellettuali che si sono interessati anche alla musica (in veste di teorici, organizzatori, esecutori e autori) o di musicisti che convergendo su questo tipo di repertorio hanno poi sviluppato anche una profonda riflessione teorica su aspetti che non necessariamente sarebbero stati collegati ad esso. La definizione di folklore data da Gramsci come concezione del mondo delle classi subalterne e la sua riflessione sul ruolo della cultura e degli intellettuali sono il punto di partenza di questa tesi che cerca di ricostruire i riferimenti ideologici che animarono il lavoro di alcune figure chiave di questa stagione andando a costituire la cornice teorica nella quale esse inserirono il loro agire. Ernesto De Martino è la seconda figura di rilievo che incontriamo: la sua riflessione è analizzata nei suoi aspetti di continuità e di discontinuità con quella di Gramsci, soprattutto attraverso alcuni articoli scritti fra la fine degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta. La tesi cerca anche di mettere in evidenza il modo militante in cui De Martino declinava la sua vocazione di studioso e il suo tentativo di essere un intellettuale vicino alle classi oggetto dei suoi studi. Gramsci vedeva il folklore come legato all'espressione di una subalternità culturale e quindi come qualcosa da superare, ma al tempo stesso come una materia che gli intellettuali avrebbero dovuto conoscere e studiare in profondità, da usare come trampolino per una spinta propulsiva che contribuisse alla nascita di una nuova cultura generata dalle classi non egemoni stesse, integrando il meglio della cultura borghese. La definizione di folklore come concezione del mondo delle classi subalterne, che quindi lo identificava come l'espressione di una precisa classe sociale (e non ad esempio in modo temporale o in base ad una collocazione geografica), insieme al suo particolare modo di guardare al ruolo della cultura e degli intellettuali, sono stati la principale eredità gramsciana raccolta in seguito da De Martino e soprattutto da Gianni Bosio (intellettuale, editore, organizzatore di cultura, animatore del gruppo Nuovo Canzoniere Italiano). De Martino accoglieva la definizione gramsciana di folklore, ma mostrava come in esso fossero già presenti importanti elementi progressivi, cioè messaggi di emancipazione e non solo di rassegnazione e sottomissione (anche Gramsci parla di questi aspetti, ma in modo marginale e in testi che probabilmente De Martino non conosceva). In De Martino l'arretratezza poteva configurarsi addirittura come una forma di resistenza. Sarà Bosio a compiere un passo ulteriore teorizzando l'importanza dello studio e della riscoperta del folklore nella sua totalità in quanto tutto espressione di una cultura "altra" rispetto a quella delle classi egemoni e ad essa oppositiva. Secondo Bosio questa immensa cultura non era mai stata veramente valorizzata e compresa nella sua alterità, prima di tutto perché non era mai stata espressione di una classe egemone e poi perché era essenzialmente orale, quindi non veniva riconosciuta da chi pensava alla cultura come qualcosa da trovare solo nei libri. Da qui l'idea di "restituire" alle classi non egemoni la loro cultura proprio nel momento in cui, con l'abbandono delle campagne e l'affermarsi dei mass media, sembrava inevitabile che i legami con essa venissero recisi; in questa visione il folklore stava scomparendo (pareva) a vantaggio di un'altra cultura preconfezionata dalle classi al potere che oltretutto si configurava come un prodotto da comprare, innescando un meccanismo nel quale essere consumatori di prodotti culturali significava anche assimilare sempre più dei messaggi che andavano a rafforzare l'egemonia politica di chi dalla vendita di questi prodotti traeva un profitto. Il contributo dato dal lavoro avviato da Gianni Bosio, dal Nuovo Canzoniere Italiano e dall'Istituto Ernesto De Martino per lo studio e la riscoperta della musica popolare italiana è stato chiaramente importantissimo anche perché potessero successivamente affermarsi modi più "scientifici" e meno militanti di approcciarsi alla materia, quindi, per tutte le influenze che ha avuto, seguire il filo del dibattito che questa tesi cerca almeno in parte di ricostruire è fondamentale anche per capire come viene pensata ed eseguita la musica popolare oggi in Italia. Tuttavia la cosa che forse resta più attuale di questo dibattito è non tanto quello che può dirci sulla musica popolare in sé, ma, soprattutto, l'idea che essa fosse una importante espressione culturale e che lavorare per una sua maggiore diffusione e riscoperta fosse un'operazione politica di fondamentale importanza (politica prima di tutto perché culturale). Questa tesi si basa soprattutto su fonti interne o vicine al NCI perché tenta di ricostruire specificamente il dibattito al suo interno (e nelle immediate vicinanze) sul significato essenzialmente politico dell'occuparsi della musica e della cultura popolare. Anche parlando di Gramsci le fonti principali sono non a caso Cesare Bermani e Mimmo Boninelli, anch'essi due figure molto importanti nel Nuovo Canzoniere Italiano. Questa scelta mira sia a mostrare come il lavoro del gruppo (ricerca, editoria, produzione discografica e di spettacoli) affondasse le sue radici e traesse le sue motivazioni profonde dalla riflessione di un pensatore così importante, sia a mettere in evidenza il modo particolare in cui Gramsci fu letto dal gruppo: particolare perché molto diverso da altri modi in cui fu letto specialmente nei partiti della sinistra (soprattutto per quello che riguarda il ruolo della cultura e degli intellettuali). Dall'incontro fra Gianni Bosio e Roberto Leydi nacquero nel 1962 la rivista e successivamente l'omonimo gruppo Nuovo Canzoniere Italiano, all'interno del quale si discusse moltissimo su quali dovessero essere le più corrette modalità di riproposta, proprio per rendere più evidente (ed insieme più efficace) il significato politico di un lavoro che voleva essere "al servizio della classe". Leydi era una figura vicina al mondo dello spettacolo (come focus di interessi e frequentazioni) ed ebbe probabilmente un ruolo molto importante per dare una spinta alla nascita del gruppo musicale e alle successive produzioni teatrali. Il suo sodalizio con il NCI però presto si ruppe: la tesi cerca di mostrare come le motivazioni alla base di questa frattura fossero più sfumate di quello che sembra (almeno sulla carta), ricostruendo le posizioni di Bosio e Leydi negli scritti di quegli anni; molti di questi scritti vertono infatti sul significato politico delle attività del NCI e su quali fossero le più corrette modalità di riproposta al fine di massimizzare i possibili esiti che quel lavoro poteva avere in tal senso. Seguendo sempre il filo della riflessione fra valore politico del lavoro e modalità di riproposta il secondo capitolo si occupa dei principali spettacoli del NCI (usando come fonte soprattutto la rivista omonima): Pietà l'è morta (aprile 1964), Bella Ciao (giugno 1964), Ci ragiono e canto (1966) e, successivamente, lo spettacolo Sentite buona gente (1967), curato da Leydi dopo il suo allontanamento dal NCI (in questo caso usando come fonte soprattutto il libro di Domenico Ferraro Roberto Leydi e il "Sentite Buona gente"). Intorno a tutti gli spettacoli c'era un dibattito molto acceso e significativo che si cerca ricostruire mettendo in evidenza forse più i punti di contatto che non i punti di rottura, pur provando ad evidenziare gli aspetti realmente problematici. Il terzo capitolo continua a seguire questo filo soprattutto nella seconda serie della rivista NCI. Questa seconda serie fu di soli due numeri (datati 1970 e 1972) entrambi caratterizzati da una forte riflessione sul rapporto fra riproposta e teatro (con dettagliati resoconti anche su manifestazioni contemporanee del teatro popolare), dal momento che la modalità teatrale si stava affermando come probabilmente la più incisiva per il revival. Successivamente in primo piano continua ad esserci il NCI (gruppo e rivista, che poi ebbe anche una terza serie, pubblicata fra l'aprile del 1975 il marzo del 1977), ma, specialmente per gli anni successivi alla morte di Bosio (avvenuta improvvisamente nel 1971), viene dato conto anche di una parte del dibattito svoltosi altrove. Gli autori degli scritti presi in esame, però, sono sempre riconducibili in qualche modo al NCI, cioè avevano avuto almeno in passato un legame con esso e tutto sommato continuavano a considerarlo un interlocutore. Ad esempio: la rivista "La musica popolare" era diretta dall'ex Cantacronache ed ex NCI Michele L. Straniero, Diego Carpitella aveva avuto molti rapporti con il gruppo e lo stesso vale naturalmente per quanto riguarda Roberto Leydi e Sandra Mantovani. Nel terzo capitolo viene riportato e analizzato abbastanza dettagliatamente anche il dibattito sull'ingresso del folk nella trasmissione televisiva "Canzonissima", una discussione interessante perché diventa l'occasione per analizzare e discutere molti punti problematici, soprattutto riguardo al rapporto fra musica popolare, media e industria discografica. Queste domande ritornano in modo autocritico e problematico anche sulle pagine della rivista NCI (prima, durante e dopo il dibattito sul folk a "Canzonissima") e in altre riflessioni in particolare di Ivan Della Mea. Questa parte della storia si chiude intorno al 1977, quando le attività nel NCI sostanzialmente si diradano fino (quasi) a scomparire. A restare, pur tra mille difficoltà economiche e gestionali, fu l'Istituto Ernesto De Martino, che tutt'oggi custodisce un prezioso archivio con una buona parte dei materiali frutto delle ricerche degli operatori del NCI (e non solo) e continua la sua opera di razionalizzazione, ricerca e diffusione. Il quarto ed ultimo capitolo arriva fino ai giorni nostri soffermandosi però solo sulla figura di Giovanna Marini, anche se un serio lavoro su una musicista così poliedrica richiederebbe naturalmente molto più spazio e approfondimento. Seguendo il filo conduttore di questa tesi anche nell'opera di Marini vengono presi in esame e approfonditi in particolare la ricerca di un equilibrio "fra estetica e politica" attraverso una ricostruzione della sua formazione, del suo particolare modo di stare nelle fila del NCI, delle strade che ha scelto di seguire dopo la disgregazione del gruppo, delle soluzioni che ha trovato per portare avanti un suo discorso musicale nuovo ma nutrito sia da uno studio approfondito della musica di tradizione orale italiana che dalla sua formazione di musicista classica, riuscendo a restare sempre profondamente politico. Come emerge molto bene anche dalla testimonianza di Francesca Breschi, in Giovanna Marini etica ed estetica cercano sempre di fondersi. Il lavoro di Giovanna Marini è stato anche un importante lavoro di didattica e divulgazione della musica di tradizione orale italiana; la tesi cerca di mostrare come anche questo aspetto si possa leggere in chiave politica (sia per il semplice fatto che è un grande lavoro culturale, sia per il suo oggetto specifico, sia infine per le ricadute di vario tipo che ha avuto). In generale, in tutte le discussioni che si tenta di ricostruire in questa tesi la tendenza è quella di soffermarsi più sui punti di contatto che su quelli di rottura; anche nel caso di Giovanna Marini il tentativo è quello di dimostrare come l'insieme del suo lavoro (composizione, ricerca, didattica, interpretazione in concerto.) si possa leggere nell'ottica di un'assimilazione, in una felice sintesi, e in un superamento di molti nodi tematici e punti problematici messi in luce dal NCI (e dintorni). Naturalmente quella di Giovanna Marini non è l'unica "soluzione" possibile, ma il suo lavoro sembra davvero riuscire a superare molte contraddizioni senza aggirarle e ha davvero ancora tanto da dire, a chi lo voglia ascoltare.
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa, società, politica, istituzioni (xix-xx) ; L'obbiettivo di questo lavoro è tracciare una storia istituzionale dell'università, inquadrandola nel più generale contesto sociale ed economico che determinò le politiche formative del paese dall'immediato dopo guerra, passando per gli anni dell'espansione economica e quelli successivi della stagnazione, giungendo fino ai primi anni ottanta. La ricerca ha seguito due direttive: da un lato l'evoluzione dell'università determinata dalla politica istituzionale e i cambiamenti della struttura universitaria, dall'altro lo stravolgimento del ruolo sociale dell'università, determinato dal passaggio dal modello liberale di università d'elitè funzionale alla formazione di una ristretta classe dirigente, a indispensabile strumento per la formazione di numerose e ampie categorie di forza lavoro in un paese avviato verso la completa industrializzazione, verso l'enorme sviluppo del settore terziario e in un contesto di profonda urbanizzazione e in generale di superamento dei rapporti sociali dei decenni precedenti alla guerra. La prima traccia di ricerca è stata sviluppata su due categorie di fonti principali: da un lato il dibattito politico-parlamentare intorno ai progetti di legge (le aperture degli accessi del '61 e specialmente del '69, le liberalizzazioni dei piani di studio dello stesso anno, i provvedimenti sulla docenza degli anni settanta), alle indagini conoscitive (quella promossa dal ministro Gonella nel '47 e quella varata da Medici e conclusa con Gui ministro tra il '63 e il '65), alle proposte di riforma (i progetti n. 2.314 del '65, n. 612 del '69, l'elaborazione della "Bozza Cervone" fra '77 e '78), alla regolazione dell'assetto giuridico ed economico del personale docente, ai piani di finanziamento e sviluppo dell'università; dall'altro attraverso lo studio del dibattito interno e fra i partiti utilizzando come fonti i periodici ad essi vicini o attenti al tema ("Riforma della Scuola" e "Rinascita" per il PCI, "Scuola e Città" e "Il Ponte" per il PSI, "La Discussione" e "Tuttoscuola" per la DC, in seguito riviste come "Universitas", ecc.), oltre che atti di convegni e pubblicazioni curate dai protagonisti dell'epoca. Nella ricerca, un ampio spazio è dato al tema della pianificazione scolastica (animato dagli studi di tecnici dell'economia e della formazione), strettamente connessa al dibattito sulla pianificazione economica sviluppatosi prevalentemente negli anni del centrosinistra. La seconda traccia di studio, quella relativa ai cambiamenti sociali e culturali causa ed effetto dell'espansione dell'utenza universitaria, è stata analizzata attraverso lo studio di fonti inconsuete per la storiografia tradizionale, come gli studi di sociologia e di scienze della formazione sviluppatisi a partire dagli anni settanta, i quali fecero largo uso delle cifre sistematizzate da ISTAT e CENSIS sistematizzate nelle tabelle statistiche che completano il presente lavoro. Analizzare l'evoluzione delle componenti sociali ha significato anche indagare le vicende legate alla docenza universitaria, al suo ruolo rispetto al dibattito politico, alle richieste portate avanti e alle funzioni assunte all'interno delle facoltà di fronte ai profondi cambiamenti descritti. Per quanto riguarda gli estremi cronologici della ricerca, la scelta di interrompere la ricerca alla prima metà degli anni '80 risponde all'analisi più complessiva che si fa di quel periodo della storia politica ed economica non soltanto italiana, le cui successive vicende di riforma dell'università rappresentano a mio avviso l'emblema del netto cambio di fase vissuto dalla politica e dalla società anche per quanto riguarda l'istruzione superiore. La suddivisione in capitoli rispecchia invece più fedelmente le fasi della politica universitaria. Nel primo capitolo si fa il punto sull'eredità dell'apparato normativo ereditato dal fascismo e sulle effettive possibilità che si aprirono o meno alle forze politiche per inaugurare una nuova fase, mettendo in luce anche le prime strategie d'intervento abbozzate dai principali partiti nel corso degli anni '50. Nel secondo capitolo sono affrontate le previsioni scolastiche e i progetti di riforma ad esse più o meno legate: dagli studi della SVIMEZ in poi (influenzati da quelli più ampi condotti dall'OCSE), la programmazione scolastica e le previsioni sullo sviluppo economico del paese assunsero un ruolo determinante per la politica di riforma di scuola e università, politica che nei primi anni sessanta si concretizzò nell'istituzione della scuola media unica (1962), nelle prime aperture dell'università ai diplomati di istituti e soprattutto nella prima vera proposta di riforma dell'università, quella di Luigi Gui del 1966, l'unica inserita in un progetto organico di riforma di tutta l'istruzione, il Piano Gui, dichiaratamente ispirato dagli studi di previsione (anche se non sempre coerente con essi). Con il terzo capitolo si affronta la lunga discussione dentro e fuori il Parlamento in merito al più ambizioso progetto di riforma del periodo, il n. 612, sostenuto dai socialisti proprio mentre l'esperienza dei governi di centrosinistra andava esaurendosi nei primi anni settanta; dello stesso periodo (1969) è l'apertura degli accessi all'università a qualsiasi tipologia di diplomato e le liberalizzazioni dei piani di studio, veri spartiacque della storia dell'università italiana. Il terzo capitolo si chiude infine con l'analisi dei "provvedimenti urgenti" del 1973, emblema di un modello di sviluppo dell'università fortemente precario, sintomo dell'incapacità di riformare e investire seriamente nella qualità dell'istruzione universitaria a vantaggio di una strategia prettamente quantitativa. Le tematiche affrontate nel quarto e ultimo capitolo sono invece determinate dall'inedita fase politica vissuta dal paese dalla metà degli anni settanta, caratterizzata dall'avvicinamento fra maggioranza e opposizione fino alla creazione dei governi di "solidarietà nazionale", nati ufficialmente per far fronte a crisi economica e terrorismo politico. Mentre l'attenzione sulla riforma universitaria andava velocemente calando (nonostante un ennesimo dibattito durato anni in Parlamento su un altro complesso progetto di riforma, la "bozza Cervone"), si verificarono gli ultimi cambiamenti sostanziali della struttura accademica attraverso l'ultimo capitolo del riformismo per decreti, tramite il quale furono istituiti i dipartimenti e le figure di ricercatore e docente associato nei primi anni ottanta. Chiude il lavoro l'Appendice Statistica in cui sono raccolte le cifre dell'università italiana (studenti, docenti, rapporti quantitativi e distribuzione, finanziamenti) dal 1946 al 1985. ; The aim of this study is tracing an istitutional history of university, by focusing in the wider social and economic context that determined the higher education policies after Second World War – spanning from the economic espansion years and the later stagnation to the early eighties. The research follows two main paths: on the one hand the university evolution and change of structure as determined by institutional factors; on the other hand the revolutionized social role of universities over the period under investigation. Indeed, the passage from a liberal model of élite universities – destined to the education of ruling classes – to a mass university – an essential instrument in training numerous labor force categories – took place in a rapidly and profoundly changing context. At that time Italy was headed towards full industrialization, was experiencing a massive development of the third sector and mass urbanization. In general, Italy was overcoming the social relations of the decades before Second world war. The First research line was developed on the basis of two main sources. On the one hand I analyzed the political-parliamentary debate on Education Bill proposals (the opening of the access of 1961 and especially of 1969, the curriculum liberalizations of the same year, the measures on univerity teaching in the seventies), on the investigations (the one proposed by Minister Gonella in 1947, launched from Minister Medici and concluded by Gui which was Education Minister from 1963 to 1965), on the various reform proposals of the analyzed decades (projects n. 2.314 of '65, n. 612 of '69, the elaboration of the "Bozza Cervone" between '77 and '78) and about the regulation of the legal and economic framework of higher education teachers and the plans of university funding and development. On the other hand, I studied the internal party debates by employing periodicals close to political parties or particularly sensitive to higher education issues ("Riforma della Scuola" and "Rinascita" for the communist party PCI, "Scuola e Città" and "Il Ponte" for the socialist party PSI, "La Discussione" and "Tuttoscuola" for the Christian democrat party DC, for more recent years periodical such as "Universitas", etcetera). Furthermore I used as sources conference proceedings and pubblications edited by the key actors of the debate. In the research I gave a significant space to the scholastic planning issue. This debate was strictly connected to the one on the economic planning of the country, developed mostly in the center-left wing years. The second part of the study, as said above, focuses on the social and cultural changes which were cause and consequences of the widening of the university students. This was analyzed through the study of source that are unusual to the tradition historiography, such as sociology or higher education studies which were developed from the 1970s and largely employed ISTAT and CENSIS data and researches. I have rationalized these studies in the statistics tables present in this thesis. The analysis of the evolution of social components regarded also university teaching activity issues, its role in relation to the political debate, and the role of teaching staffs within faculties in the profoundly changing circumstances described above. For what concerns the historical time range of this work, the choice to stop in the early eighties answers to a more general analysis of a chapter of the political and economic history that started in that eighties, not only in Italy. In my opinion, the following sequence of events regarding higher education reforms represent the symbol of the clear and abrupt phase change that politics and society experienced at that time. The thesis is organized as follows. The first chapter takes stock of the legislation inherited from the fascism and of the first debates on university in the Assemblea Costituente and in the Parliament, sheding light on the first intervention strategies of major political parties during the fifties. The second chapter addresses the forecasts on school attendendence and the consequent projects of reform. On the basis of first studies of SVIMEZ – influenced by the broader ones of OCSE – the education planning and the forecasts on the country development played a crucial role for the reform policies of schools and universities. Policies embodied in the early sisxties by the institution of the scuola media unica in 1962, by the first opening of access to professional high school graduates; and, in particolar, in 1966 by the first real proposal of university reform, the Piano Gui of Luigi Gui, the only one included in an integral reform plan of all education levels and explicitely inspired from the educational planning studies. The third chapter focuses on the long discussion – inside an outside the Parliament – concernig the most ambitiuos reform project of the period, the n. 612. The latter, while the experience of the center-left wing goverments were extinguishing, was backed by the socialists. However, the socialist were responsabile for the actual watershed in Italian university history, the opening of university accesses to any category of high school graduated students. Lastly, the third chapter ends with the analysis of 1973's "provvedimenti urgenti", emblem of a model of university development heavily based on precarious work. A synthom of the incapacity both in reforming and in seriously invest in education quality, favoring only quantitative strategies. While, in the fourth and last chapter, focuses on the second halph of the seventies a complete new political phase for the country, characterized by the approach between the parliamentary majority (hold by Christian democrat) and the communist opposition until the creation of natonal solidarity governments, ufficially borned to tackle the economic crisic and political terrorism. In the early eighties, while the attention on university reforms was rapidly decreasing, the last substantial change to the academic structure were made after those of 1969. During the last chapter of the "reformism by decrees", the departments and the roles of researcher and associate professor were established. The statistical appendix ends the thesis. Covering a time window that goes from 1946 to 1985, it reports all data on students, teachers, funding and their distribution in the ltalian
The research opens a new chapter about the studies conducted until now on the traditional architecture of the smaller towns in Sardinia, which I have been part from 2007 to 2010 and has been completed with the editing of Manuals Retrieval of the historical centers of Sardinia. The research started from a socio-anthropological knowledge of the characters, urban and technological centers and from the study of the traditional Sardinian architecture. Furthermore, having the opportunity to meet the Mediterranean architecture on the same viewpoints, the research investigates the archetypal elements of traditional architecture under the aspect of composition. It looks at the ways in which the contemporary design strategies, released by ideological references, take them over elaborating them, comparing with the memory of places, beyond of every stylistic affiliation. Belonging to minimalist positions, regionalist or post-modern resuming solutions, contextualizing and reinterpreting them in a practical and empirical way, even trying to see which characters and modes could be identified as typical and recurrent. This kind of research, which specifically aims to verify the composition and some elements of the experience of this project, needs to be based on the knowledge of the culture and the debate which marked the activity of designers in the near past, from the first modernity trying to recognize which characters were conditioners, which continue to influence the present and which are typical and original in the actuality. For this reason, the research has an introductory part which incorporates some emblematic moments of the debate on the architecture of the twentieth century, referring to reality and figures of the Mediterranean. One is the myth of modernity celebrated from the first rationalism, especially in Italy and Spain, the other one is the debate about the historical centers of the late twentieth century, still typical of our country: in the first season the traditional Mediterranean architecture is transformed into a progressive ideal used to specify shapes and intentions of the new architecture, especially in its character of anonymity and puristic reduction. The first part of the research, introduces the relationship between modern architecture and Mediterranean inspiration and deepens in a critical manner, the weakness of the concept of Mediterranean, founded on one hand in a sham and on the other on how rationalism looks at the historical landscape searching for a radical overhaul of the style of architecture. The Mediterranean myth in the Italian architecture is mainly influenced by the idea of the correspondence of the formal themes of modernity and is used for political reasons in order to find a place of modern Italian positions within the regime. The Mediterranean architecture is not, therefore, re-interpreted conservatively, but revised into a new paradigm, a new way of imagining the architecture. In the second part, by the pre-war myth, still literary and idealized, we move to a more critical and accurate knowledge to the empirical verification and philological sort order, losing the progressive tension of the first season and building a system of strict preservation rules, revealed, too deterministic and inhibitory. The weakness of the rationalist positions, reveals the architecture of the Second World War, who looked to the Mediterranean, devoid by now, of the ideal tension during the rationalism: it is less parallelism between cutting-edge research and charm of the Mediterranean landscape and the question begins to focus more on the relationship with the towns, with the existing environment, and for a certain range of the debate, with the preservation of historic centers, up to produce more and become part of the theories of critical regionalism, political manifesto, as Frampton says, of resistance towards globalization. The enhancement of local realities is no longer specific to the Mediterranean, but is extended: it is as if the great architecture of Mediterranean figures lost part of the universal value, which instead is recognized during rationalism. In the present, after the crisis of the great paradigms interpretive, the debate about relationship between new and old loses strength and becomes eccentric compared to issues considered preeminent. Some great works receive media attention representing particular methodologies, these are exceptional circumstances, related to charismatic personalities who avoid to define a strong theory. This research select a field of attentive investigation to the works of medium size on which you can recognize an empirical approach (not programmatic), which could be recognized as typical of this period. An approach that addresses issues that in the past were strongly ideological - the relation between modernity and tradition and continuity and rupture with the figures of history - out of those programmatic intentions and norms: in this way many architects of the younger generation, active in the Mediterranean territories, they built a sensitive and imaginative dialogue between the elements inherited from the context and strategies - even radical - of contemporary design, defining a fertile scene and interesting to build new methodologies and practices of intervention. Currently there is no attention to the great paradigm, but an open and practical approach. I will approach the scope of this study as part of the Mediterranean, in order to understand the outcome of discussions which are the current approaches and isolating a specific subject of the tradition, one of the most characteristic, trying to figure out how the projects chosen take up and rework the issue. The modulation of the light, treated according to the manner in which you relate to some elements of tradition: the dematerialization of the building mass, the dimming systems, gaps in the patio and courtyard and places of shade. Each of the examples treated, shows that there is a traditional way to control the light that has characterized the Mediterranean architecture of the past and that has been expressed by the categories identified. I prove that there are contemporary projects which reflect those solutions contextualizing and reinterpreting them in an empirical and practical way: this is very interesting because it demonstrates the vitality of the relationship between contemporary architecture and history and how certain paradigms of the Mediterranean tradition have survived as a cultural and architectural legacy, in the attempt to offer a possible answer to the complexity of the problems posed by the existing historic and how have been reinterpreted. Beyond each "nuovismo", as well as the obsession of memory, which often gave rise to an analytical mummification that carries with it the nostalgic for the unachievable quality of the ancient city and the assurance of the absence of quality of the city modern-contemporary, can be an alternative based on the careful study of places to go back to the essential qualities that the architectures are realized in it.
2010/2011 ; Sommario Il principio di legalità nel diritto penale sembra avere subito in tempi recenti quello che può definirsi il processo di eterogenesi dei fini. Quanto più esso ha trovato riconoscimento incontestato tra gi studiosi, affannati ad espungere le fonti secondarie, tanto più la fonte primaria ha smarrito i connotati che ne conclamavano il valore: per un verso, in attuazione del principio di uguaglianza, la generalità e l'astrattezza; per un altro verso, in attuazione del principio di garanzia statuito a vantaggio dei destinatari della norma, la descrizione precisa e pregnante del fatto illecito e delle conseguenze punitive. Se ben deve riconoscersi, come insegnato già da Aristotele, che spetta alla legge determinare "tutto quanto è possibile", restringendo il campo della libertà ai giudici soprattutto "perché il giudizio del legislatore non è particolare, ma riguarda il futuro e l'universale, mentre il componente dell'assemblea e il giudice giocano ogni volta su casi presenti e determinati", incorrendo così il rischio per "amicizia, odio o utilità particolare di non vedere sufficientemente la verità, ma il piacere o il dispiacere personale", allora è evidente come e quanto la fonte legislativa tenda attualmente a distaccarsi dai suoi fondamenti. Da un lato, la perdita di autorevolezza del legislatore determina un calo generalizzato della fiducia nella legge, vista come incapace di risolvere i nodi cruciali del diritto penale; dall'altro la giurisprudenza, "approfittando" di tale situazione, tende ad affermare la sua autorità mediante la correzione in via interpretativa dei supposti errori e delle lacune dei prodotti legislativi. Questi fattori determinano dubbi in ordine al valore oggi da attribuire alla legge, la cui supremazia dovrebbe derivare, non solo formalmente dall'organo rappresentativo che la emana, ma anche sostanzialmente da alcune peculiarità che dovrebbero caratterizzarla, quali generalità, astrattezza, stabilità, determinatezza, precisione, chiarezza, imperatività e razionalità. Tutte caratteristiche queste che sono state viste consuetamente come dirette a realizzare i valori di libertà, uguaglianza e sicurezza collettiva, di cui lo Stato si è fatto garante assoluto. Inoltre, la diluizione formale e sostanziale della sovranità, determinata, sul piano esterno, dalla moltiplicazione dei vincoli internazionali e comunitari e, su quello interno, dalla tendenza a sostituire, a livello di tecnica di regolazione giuridica, il precetto autoritario col metodo della negoziazione e del bilanciamento degli interessi dei rappresentanti dei poteri socialmente forti, solleva ulteriori perplessità sulla validità del principio di stretta legalità nel campo penale. Da non dimenticare, poi, come l'erosione del dogma, sempre alla base della legalità, della rigida sottoposizione del giudice alla legge, abbia favorito l'accrescersi dello spazio interpretativo lasciato alla giurisdizione. Procedendo con ordine, occorre subito rammentare che il senso più pregnante della garanzia apprestata dalla riserva di legge, come garantita dall'art. 25 Cost., nei confronti del c.d. potere punitivo non è solo quello della possibilità data all'individuo di regolare il proprio comportamento su una previa regola generale e astratta, ma è anche e soprattutto quello derivante dalla democraticità, che appunto individua nel procedimento legislativo il migliore sistema con cui prendere decisioni politiche. La crisi della riserva di legge consegue ad una crescente incapacità della stessa di dispiegare il suo ruolo di garanzia su entrambi i piani. Tralasciando i contorni davvero fittizi che ha assunto la garanzia della libertà di autodeterminazione offerta dalla legge al cittadino, ciò che qui rileva è la qualità della legge e della legislazione, pregiudicata dalla produzione quantitativamente inflazionistica e qualitativamente sciatta da rendere nulla più che una finzione la possibilità per il cittadino di orientare il proprio comportamento sulla base di una norma sufficientemente chiara. Ma l'aspetto che più preme è quello della garanzia recata della legge in ragione della sua democraticità, definibile come contenutistica. Su questo piano tre paiono le linee di caduta della legalità: la perdita di consistenza dello stesso principio democratico tradizionale; la trasformazione del sistema delle fonti e la loro proliferazione a scapito della legge; l'alterazione dell'originario equilibrio tra la legge e il potere giudiziario. Quanto al primo aspetto ci si interroga su quali siano i reali vettori che conducono la volontà popolare a trovare espressione nella legge, se i meccanismi della rappresentanza parlamentare o non, piuttosto, le interpretazioni che di tale volontà forniscono le concentrazioni massmediatiche e più in generale i potenti gruppi economici con la loro attività lobbistica; nel campo penale poi il carattere spesso emotivamente coinvolgente delle materie oggetto di disciplina penale finisce per accrescere il ruolo dei mass media nella formazione del necessario consenso sociale. Per quanto riguarda poi le conseguenze del passaggio al sistema maggioritario, è facile constatare come all'accentuato potere della maggioranza in sede parlamentare e governativa faccia riscontro la tendenza a protrarre il processo di formazione normativa presso gli organi di garanzia, quali Corte costituzionale e Presidente della Repubblica. Il fatto è poi che la democrazia non costituisce più l'unico asse su cui si regge il sistema istituzionale. In primo luogo si assiste al diffondersi dell'opera interpretativa dei giudici, per non parlare delle decisioni della Corte Costituzionale. Infatti, sebbene la Corte Costituzionale abbia consolidato un rigoroso self restreint quanto alle questioni di costituzionalità in malam partem, ciò non ha evitato, da parte della stessa, manipolazioni di disciplina talvolta davvero innovative e creative, con effetti favorevoli per il reo. Basti all'uopo pensare alle c.d. sentenze additive di principio, con cui la Corte dichiara l'incostituzionalità di una omissione legislativa: esse, enunciando anche il principio a cui dovrà ispirarsi il legislatore se e quando deciderà di provvedere, implicano, per un verso, forti limiti al quomodo dell'eventuale disciplina legislativa e, per altro verso, conferiscono da subito al giudice il potere-dovere di tradurre sul piano operativo il principio affermato. In secondo luogo, non è possibile non prendere d'atto che alla volontà e certezza alla base della legalità di stampo illuminista, in grado quindi di controllare previamente il conflitto di interessi, si è sostituita l'idea del diritto come strumento di governance dei plurimi interessi in gioco. Alla volontà unitaria del precetto penale si sostituiscono, più che le volontà dei giudici e delle parti chiamati a confrontarsi con la fattispecie, le valutazioni che essi opereranno per rendere la disciplina coerente con gli obiettivi strategici del sistema; dunque, governance al posto di volontà prescrittiva. Questo mutamento comporta nella pratica che alla rigidità descrittiva della fattispecie penale si sostituisca l'indicazione legislativa di parametri, criteri e obiettivi di disciplina; alla certezza della decisione giuridica, sintomo di onnipotenza del diritto, è subentrato l'equilibrio che è, invece, il risultato di un diritto che riconosce la molteplicità delle forze e la conseguente difficoltà delle scelte decisionali e per questo vi appresta degli strumenti per arrivarvi. In terzo luogo, non si può non osservare come la realtà, sempre più pervasa dalla tecnologia, abbia determinato lo spostamento del baricentro normativo dall'organo parlamentare all'apparato amministrativo, con tutta la fioritura di autorità indipendenti e organi tecnici dotati di specifiche competenze comprensive di poteri normativi. Quanto al secondo piano del discorso attinente alle fonti, si può osservare come la maggior parte degli atti parlamentari aventi un contenuto provvedimentale sono quelli elaborati all'esterno attraverso la c.d. contrattualizzazione del processo di formazione della decisione normativa, mentre le poche leggi di principio spesso assumono valore simbolico o si limitano a comporre il conflitto ideologico che sta alla loro base solo grazie a formulazioni ambigue e indeterminate, tali cioè da esprimere solo in apparenza una volontà parlamentare, rimettendo, nella realtà, la decisione agli organi dell'applicazione. Ma ciò che segna la crisi della legge penale è, come noto, l'incremento delle fonti primarie di origine governativa: dopo l'alt dato dalla Corte Costituzionale all'abuso del decreto legge, si è aperta la stagione del decreto delegato. I requisiti costituzionali della delegazione legislativa hanno subito un progressivo allentamento nella prassi, ma è soprattutto con l'invenzione dei decreti delegati correttivi che si è ottenuto il risultato di un prolungamento della delega che tende a stabilizzare nel Governo il potere di normazione primaria. In questo quadro si inserisce anche il procedimento di attuazione delle direttive comunitarie, affidato appunto ad un meccanismo che fa congiuntamente ricorso alla delegazione legislativa e alla delegificazione. In ogni caso, data la quantità di direttive che ormai condizionano la fisionomia attuale dell'ordinamento, ne risulta per questa via potenziato il ruolo delle fonti primarie di origine governativa. Naturalmente si potrebbe osservare, non senza fondamento, che la crisi della legge riguarda l'ordinamento nel suo complesso, mentre il diritto penale dovrebbe esserne immune stante la riserva di legge costituzionalmente sancita in materia. Ma è altrettanto vero che il diritto penale non può ritenersi avulso dalla realtà, condividendo, in misura maggiore o minore, le sorti dell'intero ordinamento, sollecitato com'è, anch'esso, ad aprirsi al pluralismo delle fonti da fattori sia interni che esterni. Invero, se il quadro sopra descritto concerne i fattori interni della crisi del principio della riserva di legge, non si può fare a meno di notare come elementi di minaccia promanino anche dall'esterno; all'uopo occorre distinguere tra diritto comunitario e quello internazionale. Nello scenario mondiale domina ancora lo strumento convenzionale, il quale fa salva la sovranità nazionale e il ruolo del Parlamento, chiamato ad autorizzare la ratifica delle sempre più numerose convenzioni internazionali multilaterali. Tuttavia la libertà dell'organo parlamentare appare piuttosto limitata: da un lato, le convenzioni concernenti la materia penale paiono sempre più dettagliate, perché si spingono non solo a formulare modelli minuziosi di fattispecie ma, non di rado, vincolano gli Stati anche a livello del trattamento sanzionatorio; dall'altro, l'oggetto di tali atti normativi è sempre più spesso tale da imporre obblighi sempre più difficilmente eludibili dagli Stati. Si assiste pertanto ad un fenomeno di grande interesse sul piano delle fonti, caratterizzato dalla riduzione del margine di discrezionalità del legislatore nazionale di fronte ad atti convenzionali e di fatto cogenti, i quali per un verso traggono origine da organi privi di legittimazione democratica e per altro verso si rivelano dotati di una particolare autorevolezza derivante da una legittimazione fattuale fondata sulla capacità di soddisfare bisogni di tutela ovunque condivisi. Passando all'ordinamento comunitario si assiste, oltre al già menzionato meccanismo di recepimento predisposto dalla legge comunitaria annuale, sia all'estensione della competenza penale dell'Unione europea ad opera del Trattato di Lisbona, che al sempre più ampio ricorso a direttive, a loro volta sempre più stringenti e dettagliate, anche riguardo al profilo sanzionatorio, così che anche qui il ruolo della volontà parlamentare nella produzione del diritto penale risulta ridotta. Il descritto stato di crisi del principio di legalità è costretto, altresì, a fare i conti con il diffondersi, nel nostro ordinamento, di un nuovo fenomeno di natura esogena: il (o anche la) soft law, locuzione traducibile in italiano come diritto leggero, ovvero morbido, ovvero soffice, ovvero attenuato. Con tale espressione si intende far riferimento ad una moltitudine variegata di atti latu sensu normativi, accomunati dall'assenza del requisito della forza cogente, che, appunto, sembrava essere l'essenza della nozione di norma giuridica. Alla luce di tale definizione risulta allora evidente come affrontare la tematica della soft law significhi affrontare un paradosso. Innanzitutto perché all'interno di tale categoria vengono ricompresi una congerie di atti che, seppur privi di efficacia obbligatoria, dispiegano comunque degli effetti giuridici. Secondariamente, ma non certo per importanza, tale ambiguità emerge, con immediatezza dall'accostamento dell'aggettivo soft al termine law: il diritto è, infatti, per tradizione considerato hard, ossia obbligatorio. Secondo l'impostazione maggioritaria, infatti, un soft law privo di effetti legali non è law, laddove un soft law fornito di essi è sicuramente hard law. Nonostante tale posizione tradizionale prevalente, alcuni studiosi, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso hanno cominciato, nell'ambito del diritto internazionale, a prospettare la possibilità di immaginare l'esistenza di un tertium genus di fonte di produzione del diritto, nascente in risposta alla complessità giuridica della globalizzazione. Lo sviluppo del diritto soffice testimonierebbe, in tal senso, la possibilità di ingresso nel circuito della giuridicità di soggetti nuovi, non sempre formalmente titolari delle competenze necessarie per produrre un diritto "a denominazione di origine controllata". Ciò implica anche la creazione di un circuito giuridico che attiva logiche e processi che superano il criterio essenziale dell'obbedienza. In pratica, non si tratta solo di un percorso di perdita del carattere verticale del diritto, ma anche in un certo senso di un rimodellamento del suo criterio di legittimazione, che non è più affidato alla forma, ma piuttosto ad un contenuto o a delle modalità che sappiano riscuotere l'adesione dei destinatari, indipendentemente dalla previsione di sanzioni. Alla luce delle descritte peculiarità della normativa attenuata, tutto il sistema penale, hard law per eccellenza, sembra muoversi in una direzione antitetica a quella della soft law. In particolare, questa antinomia si appalesa in tutta la sua chiarezza ove si mettano a confronto alcune caratteristiche fondamentali delle due normative: se l'unico organo di produzione abilitato in campo penale è, ai sensi dell'art. 25 Cost., il Parlamento, in quello attenuato gli enti legittimati sono plurimi e non sono solo statali, substatali o sovranazionali, ma anche espressivi di poteri non necessariamente a carattere territoriale; mentre le norme soffici possono anche limitarsi a porre degli obiettivi, quelle penali devono essere formulate quanto più possibile in modo chiaro e preciso, indicando inequivocabilmente i comportamenti vietati; laddove i destinatari delle norme attenuate coincidono spesso con i soggetti produttori delle stesse e si indirizzano solitamente a categorie ben individuate di soggetti, le norme penali generalmente si rivolgono in maniera indifferenziata a tutti gli individui presenti sul territorio statale; se il diritto debole costituisce un diritto meramente esortativo, diretto a persuadere più che ad obbligare, risultando pertanto privo di sanzioni, all'opposto il diritto penale è il ramo dell'ordinamento giuridico più di ogni altro vincolante; la normativa leggera prescinde dal tradizionale modello delle fonti kelseniano di tipo piramidale, su cui il sistema penale si fonda, per collocarsi all'interno di un modello improntato ad una logica reticolare, senza gerarchie; la soft law è per definizione destinata ad operare in ogni ambito, da quello angusto di una singola impresa a quello sconfinato del mercato globale, mentre il diritto penale è la branca meno universalizzabile, perché simbolizza la sovranità nazionale e la cultura di ciascun popolo; infine, se il diritto penale si caratterizza per un elevato tasso di rigidità e stabilità, dati i beni giuridici che va a tutelare, all'opposto il diritto morbido si esprime con strumenti non solo flessibili, ma anche mutevoli, per meglio rispondere alla rapida evoluzione della società. Tale insanabile antinomia tra diritto soffice e diritto penale pare però, ad un'attenta analisi del panorama giuridico attuale, più astratta che reale, ove solo si consideri quanto detto in apertura sulla crisi dei principi di legalità e della riserva di legge e sulla progressiva alterazione di alcuni tratti peculiari del diritto penale. ; XXIV Ciclo ; 1984
"Mi sia concesso di cominciare con una confessione piuttosto imbarazzante: per tutta la mia vita nessuno mi ha dato piacere più grande di David Bowie. Certo, forse questo la dice lunga sulla qualità, della mia vita. Non fraintendetemi. Ci sono stati momenti belli, talvolta persino insieme ad altre persone. Ma per ciò che riguarda una gioia costante e prolungata attraverso i decenni, nulla si avvicina al piacere che mi ha dato Bowie." (Simon Critchley, Bowie) Quelli che non conoscono l'opera di Bowie, temo, avranno provato un po' d'irritazione per la quantità di cose dette e scritte dopo la sua morte nel gennaio scorso. O perlomeno stupore, viste le innumerevoli sfaccettature per cui è stato ricordato. Come ha scritto giustamente Francesco Adinolfi su Il manifesto del 12 gennaio, "non c'è un solo Bowie, e ognuno ha il suo Bowie da piangere". C'è ovviamente il Bowie che tra la fine dei '60 e i primi anni '70 porta in scena la libertà contro la soffocante pubblica morale, mescolando generi ed identità sessuali in canzoni e concerti, ostentando i suoi personaggi scandalosi per sbatterli in faccia a family day di ogni sorta. Lo scrittore Hanif Kureishi, per esempio, ricorda la canzone "Rebel rebel" (1974) come una spinta che lo porta a desiderare di andarsene dal monotono perbenismo del sud di Londra. Il filosofo Simon Critchley descrive l'impatto di "Rock'n'roll suicide" (1972), dove l'urlo "You're not alone!" ("Non sei solo"!) diventa detonatore emotivo per una generazione di giovani a disagio con se stessi e con il mondo, spingendoli a cercare di diventare qualcos'altro – "qualcosa di più libero, più queer (traducibile con 'eccentrico', e anche 'omosessuale'), più sincero, più aperto, e più eccitante." Ma questo Bowie, l'icona del gender bending, è stracitato. Molto meno noto è il Bowie dall'animo irriducibilmente politico. Intendiamoci, anche dal punto di vista politico Bowie è stato molte cose. Nel 1975 rilascia alcune dichiarazioni di simpatia verso il nazismo, che saranno poi rettificate e (molto parzialmente) giustificate con la sua pericolosa dipendenza dalle droghe di quel periodo. Il clamore è amplificato da una fotografia in cui sembra fare il saluto romano a una folla di fan che lo attende a Victoria Station (ma osservando il filmato dell'evento su Internet, pare che il fotografo abbia preso lo scatto proprio nel momento in cui il braccio si tende in un normalissimo saluto). Si tratta di un aspetto delicato ancora da chiarire completamente, in cui anche critici raffinati come Critchley non si avventurano troppo. E che comunque ha finito per offuscare, secondo me, la figura di Bowie cantore degli ultimi e dei margini. Il nodo cruciale di questo suo aspetto è l'album Scary Monsters (1980), alla fine di un decennio segnato da una serie di album memorabili, dal glam rock alle sperimentazioni berlinesi – storicamente, la fine delle utopie e l'inizio del cosiddetto riflusso. Nel brano "Ashes to ashes" Bowie riprende il personaggio che l'aveva portato al successo, il Maggiore Tom, astronauta che in "Space oddity" (1969) celebrava l'allunaggio ma al contempo si perdeva stranamente a galleggiare nello spazio. Seguendo una parabola analoga agli ideali bruciati di quel periodo, nel 1980 Major Tom ricompare travolto dalle droghe pesanti, schiavo dei mostri che lo perseguitano nello spazio: I want an axe to break the ice, I want to come down right now Ashes to ashes, funk to funky We know Major Tom's a junkie strung out in heaven's high hitting an all-time low Voglio un'ascia per rompere il ghiaccio, voglio venir giù subito Cenere alla cenere, funk al funky Lo sappiamo che Major Tom è un tossico sperso nell'alto dei cieli caduto in una depressione storica Ma anche la realtà in cui Major Tom desidera tornare non promette nulla di buono. In Scary Monsters si manifesta uno dei punti più alti della critica socio-politica nei testi di Bowie, che assume toni quasi profetici. Mi riferisco alla canzone che apre l'album, "It's no game (no. 1)": Silhouettes and shadows watch the revolution No more free steps to heaven and it's no game (…) Documentaries on refugees couples 'gainst the target (…) Draw the blinds on yesterday and it's all so much scarier Put a bullet in my brain and it makes all the papers Profili e ombre guardano la rivoluzione Niente più passi facili verso il paradiso e non è un gioco (…) Documentari su rifugiati coppie nel mirino (…) Chiudi la finestra sul passato ed è tutto più spaventoso Sparami un colpo in testa e ne parleranno tutti i giornali Qui Bowie sembra svelare quella che sarà la faccia oscura degli anni '80 e oltre: la questione dei rifugiati e delle vittime civili dei conflitti (come suonano profetici quei due versi…), l'oblio degli ideali del passato, lo sguardo onnipresente ma banalizzante dei mass media. E' importante ascoltare "It's no game (no. 1)" anche perché Bowie canta questa canzone a squarciagola, a voce quasi stridula, come se lo stessero torturando; l'insieme è reso più complesso dall'alternanza con una voce femminile che canta in giapponese una traduzione del testo, in tono aggressivo. Secondo Critchley, "il genio di Bowie risiede nell'armonizzare minuziosamente parole e musica attraverso il mezzo della voce". I versi finali della canzone introducono poi un riferimento più esplicitamente politico, forse riferendosi alla polemica menzionata sopra: So where's the moral? People have their fingers broken To be insulted by these fascists – it's so degrading And it's no game E allora dov'è la morale? La gente ha le dita spezzate Venir insultati da 'sti fascisti – è così degradante E non è un gioco La voce di Bowie si contorce soprattutto quando pronuncia il titolo della canzone, "non è un gioco": il dramma della 'fine delle ideologie' sta nel poter non prendere più nulla sul serio, neanche le grandi tragedie. C'è una coincidenza curiosa, a questo proposito. L'anno seguente Giorgio Gaber mette in scena il recital Anni affollati, e nel pezzo parlato "Il presente" offre (ovviamente con Sandro Luporini) una caustica riflessione sul nuovo clima dei primi anni '80, dove i più bravi e geniali riescono a togliersi di dosso la pesantezza di qualcosa che ingombra per dedicarsi allo 'smitizzante'. Perché di fronte all'idiozia dei vecchi moralisti, preferisco vedere l'uomo di cultura che si fa fotografare nudo su un divano a fiori. Eh sì, per questa sua capacità di saper vivere il gioco. Sto parlando insomma di quelli veramente colti, che con sottile ironia hanno riscoperto… l'effimero. Ecco che cos'è il presente: l'effimero. E devo dire che per della gente come noi, che non crede più a niente, questo è perfetto. (…) La cosa più intelligente da fare è quella di giocare d'astuzia con i segnali del tempo. Ma attenzione, perché tra l'avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria, e il muovercisi dentro perfettamente a proprio agio, esiste la stessa differenza che c'è tra l'avere il senso del comico ed essere ridicoli… La canzone di Bowie non finisce qui, perché Scary Monsters ha una struttura circolare e si chiude con "It's no game (no. 2)" ("Non è un gioco, parte seconda"), dove viene riproposto lo stesso motivo – o quasi. Questa versione accentua la critica sociale (e la visionarietà profetica) aggiungendo una strofa finale sullo sfruttamento del lavoro minorile: Children 'round the world put camel shit on the walls Making carpets on treadmills, or garbage sorting And it's no game Bambini in tutto il mondo mettono cacca di cammello sui muri Fanno tappeti su macchinari, o frugano in discariche E non è un gioco Ma soprattutto, i versi di questa "parte seconda" sono cantati in modo radicalmente diverso, con voce lenta, calda, modulata, quasi da crooner in stile Frank Sinatra, quasi a voler dire: guardate che anche i miei pezzi apparentemente più commerciali possono essere qualcosa di più di semplici canzoni orecchiabili. E' una caratteristica dei suoi testi che viene colta anche dalla genialità sregolata di Lars Von Trier, il cui durissimo film Dogville (2003), sulla brutalità del sogno americano, si conclude con la scena del massacro di un intero villaggio e uno stacco improvviso sui titoli di coda: una sequenza di immagini di povertà e degrado statunitense con in sottofondo il pezzo "Young Americans" (1975), dal ritmo allegro ma con un sottotesto che accenna alla sterilizzante massificazione degli individui: We live for just these twenty years, do we have to die for the fifty more? Viviamo solo per questi vent'anni, dobbiamo morire per altri cinquanta? Questa ambivalenza è riscontrabile soprattutto nei dischi immediatamente successivi a Scary Monsters, quelli segnati da un disimpegno che per la prima volta fanno diventare Bowie un fenomeno commerciale mainstream, e che molti fan ancora rifiutano. Mi riferisco innanzi tutto a Let's Dance (1983), ovviamente, ricordando il videoclip della canzone omonima che mette in primo piano la condizione degli aborigeni australiani; come scrive Nicholas Pegg nel suo enciclopedico The Complete David Bowie, "prendendo spunto solo marginalmente dal testo della canzone per sposare la causa dei diritti degli aborigeni, il video costituisce il primo (sic) sostanziale esempio del ruolo da militante sociopolitico che Bowie cominciava a ritagliarsi negli anni '80." Sempre in Let's Dance, il brano "Ricochet" ("Pallottola di rimbalzo") è pervaso da un senso di totale sacrificabilità delle vite umane; come in "It's no game", i versi sembrano già descrivere il lato oscuro della globalizzazione neoliberista: Like weeds on a rock face waiting for the scythe (…) These are the prisons, these are the crimes teaching life in a violent new way (…) Early, before the sun, they struggle off to the gates in their secret fearful places, they see their lives unraveling before them (…) But when they get home, damp-eyed and weary, they smile and crush their children to their heaving chests, making unfullfillable promises. For who can bear to be forgotten? Come erbacce sulla roccia in attesa della falce (…) Queste sono le prigioni, questi i crimini che insegnano la vita con nuova violenza (…) Presto, prima del sole, sgomitano verso i cancelli nei loro spaventosi luoghi segreti, vedono la propria vita che gli si dipana di fronte (…) Ma quando arrivano a casa, stanchi e con occhi umidi, sorridono e si stringono i figli al petto ansante, facendo promesse inesaudibili. Perché chi può sopportare di venir dimenticato? Buona parte di questi versi sono parlati con voce metallica, come da un megafono, rimarcando così l'idea di omologazione oppressiva della società contemporanea. Su questi temi Bowie ritorna periodicamente anche nei dischi incisi dopo Let's Dance, dalla fine degli anni '80 fino a pochi anni fa – album quasi sempre di gran qualità, che le commemorazioni dello scorso gennaio hanno praticamente ignorato. Va menzionato, dall'album Tin Machine (1989) il brano "I can't read" ("Non so leggere"), che tratta di deprivazione culturale in un mondo dove "money goes to money heaven / bodies go to body hell" (" i soldi finiscono nel paradiso dei soldi / i corpi nell'inferno dei corpi"). Lo stesso LP contiene una cover di "Working class hero" ("Eroe della classe operaia") di John Lennon (1970), inno anti-sistema cantato da Bowie con voce carica di rabbia: When they've tortured and scared you for twenty-odd years then they expect you to pick a career when you can't really function you're so full of fear (…) Keep you doped with religion and sex and TV and you think you're so clever and classless and free but you're still fucking peasants as far as I can see (…) There's room at the top they're telling you still but first you must learn how to smile as you kill Dopo che ti hanno torturato e terrorizzato per una ventina d'anni poi si aspettano che tu ti scelga una carriera mentre non riesci neanche a pensare tanto sei pieno di paura (…) Ti drogano di religione, sesso e TV e ti credi d'essere così furbo e oltre le classi e libero ma sei ancora un cazzo di bifolco, mi sembra (…) C'è ancora posto là in cima, ti continuano a dire Ma prima, mentre uccidi, devi imparare a sorridere Una diffusa alienazione sociale emerge anche in "Dead man walking" ("Morto che cammina", 1997), un pezzo contaminato da sonorità drum'n'bass che martellano immagini come questa: an alien nation in therapy sliding naked, anew like a bad-tempered child on the rain-slicked streets una nazione aliena in terapia che scivola nuda, di nuovo come un bambino intrattabile per strade viscide di pioggia Due anni dopo, in "Seven", riprende la figura del fratello maggiore Terry, sofferente di schizofrenia e suicida nel 1985, tornando così ad un altro tema per lui ricorrente, quello dei meccanismi sociali che riproducono la malattia mentale: I forgot what my brother said I forgot what he said I don't regret anything at all I remember how he wept On a bridge of violent people I was small enough to cry I've got seven days to live my life or seven ways to die Ho scordato cosa diceva mio fratello ho scordato che diceva Non rimpiango davvero nulla mi ricordo come piangeva Sopra un ponte di gente violenta ero abbastanza piccolo da strillare Ho sette giorni per vivere la mia vita o sette giorni per morire L'attenzione di Bowie verso le vittime della Storia si può ritrovare, comunque, già prima del 1980. Quando ancora cantava ballate alla Bob Dylan, il pezzo "Little bombardier" ("Il piccolo artigliere", 1967) narra di un reduce solo, spaesato e affamato di affetti: War made him a soldier, little Frankie Mear. Peace made him a loser, a little bombardier La Guerra lo fece un soldato piccolo Frankie Mear La pace lo fece un perdente, un piccolo artigliere Per sua grande gioia, diventa amico di due bambine, ma si farà cacciare perché sospettato di pedofilia: Leave them alone or we'll get sore. We've had blokes like you in the station before Lasciale stare o cominceremo a seccarci. Ne abbiamo già avuti come te alla stazione di polizia. Pur puntando esplicitamente il dito contro l'autorità costituita, questa storia malinconica è musicata, scrive Pegg, con un "nostalgico valzer da fiera di paese (…) uno dei pochissimi brani di Bowie scritti in 3/4". Il testo è ispirato al racconto "Uncle Ernest" (1959) di Alan Sillitoe, uno dei più felici narratori del nuovo realismo proletario nel secondo dopoguerra. In quanto a temi socio-politici, Bowie tocca spesso anche l'imperialismo statunitense e la natura repressiva delle religioni istituzionali (si veda ad esempio lo 'scandaloso' videoclip di "The next day", 2013). Ma il Bowie che ho voluto ricordare qui è l'artista che non ha mai chiuso gli occhi di fronte alle ingiustizie, alla sofferenza degli ultimi. Potrà suonare paradossale, ma mi viene da pensare ad un altro grande cantore dei margini come Enzo Jannacci. Bowie torna spesso su ciò che in "Under pressure" ("Sotto pressione", 1981) definisce "the terror of knowing what this world is about" ("il terrore di sapere di cosa è fatto questo mondo"), mentre Love dares you to care for the people in the streets the people on the edge of the night L'amore ti sfida a prenderti cura della gente per le strade la gente al margine della notte Certo, è difficile accostare i maglioni sudati di Jannacci al Bowie che ha creato e curato la propria immagine, cui il prestigioso Victoria and Albert Museum di Londra ha dedicato una mostra di grande successo nel 2013. E la voce di Jannacci, sempre apparentemente sul punto di esaurire il fiato, condivide poco con le virtuosità bowiane. Dietro ad entrambi vedo però una sensibilità comune, e un simile atteggiamento di insofferenza verso ogni inquadramento, ogni norma imposta dall'alto. Per me, i testi di Bowie hanno rappresentato l'inizio di una passione per la letteratura in lingua inglese, e per la natura indecifrabile, sfuggente e mai omologabile che è propria della poesia. Critchley nota che, a partire dal periodo berlinese, i suoi versi diventano meno intellegibili e narrativi, e che "colpiscono maggiormente quando sono più indiretti. Siamo noi a doverli completare con la nostra immaginazione, col nostro desiderio." Continuo a citare Critchley anche perché mi ritrovo profondamente nel percorso del suo libro, purtroppo non ancora tradotto in italiano. Il volumetto si conclude con una frase che sottoscrivo, e che rappresenta il motivo per cui non ho ancora trovato il coraggio di ascoltare Blackstar, l'ultimo album uscito solo due giorni prima della morte: "Non voglio che Bowie finisca. Ma lo farà. E anche io."
Immaginate un paesaggio verdeggiante e idilliaco, sovrastato da un manto cristallino le cui uniche screziature sono date da qualche cirro vagabondo. Immaginate di essere sdraiati sul prato, intenti a gustarvi un panino e la compagnia della vostra dolce metà, con lo sguardo piacevolmente proiettato verso il veleggiare delle nuvole. L'aria è fitta di profumi inebrianti e una brezza squisita rende l'atmosfera ancora più amena e carezzevole. Il flebile boato di qualche aereo – che sfreccia in lontananza fino a diventare un puntino impercettibile nell'oceano di azzurro – è l'unico rumore umano udibile in chilometri e chilometri di placida quiete bucolica. Nulla potrebbe perturbare l'assoluto riserbo d' un'oasi paradisiaca del genere,¬ pensate, quando all'improvviso dei tizi visibilmente agitati emergono dalla macchia boscosa, urlando come ossessi. Hanno un'aria piuttosto anonima, insignificante, e indicano qualcosa di terribile nel cielo, sfoderando una serie di sguardi tra lo sgomento e l'inquisitorio. Li sentite farfugliare incomprensibili astrusità come "geoingegneria clandestina" e "aerosolterapia", mentre ¬– ancora mezzi rintronati dal sonno, dalla sorpresa e dal tepore – vi sforzate di capire il motivo di tanto apparentemente ingiustificato allarmismo. Se fate notare ai misteriosi figuri che ciò che si scorge nel cielo, dal vostro punto di vista, sono solo normalissime nuvole o al limite innocue scie di condensazione, la reazione è brusca e apocalittica: i vostri interlocutori si fanno beffe di voi, sostengono che quelle che appaiono nubi sono in realtà il sostrato di venefiche sostanze sparse nel cielo da infidi aerei militari, pilotati da diaboliche quanto famigerate organizzazioni occulte volte alla distruzione del genere umano. In tutto ciò, voi siete i complici inconsapevoli e acquiescenti di una abominevole macchinazione caldeggiata dal silenzio criminale delle principali istituzioni statali e dai media di regime. La grottesca situazione che ho appena descritto, indubbiamente inverosimile se trasposta nel mondo reale, rispecchia in modo fedele quanto succede quotidianamente su migliaia di blog e pagine di social network. Senza tregua, una massa spropositata e crescente di individui produce e immette a ritmi verti-ginosi, sui principali circuiti informativi odierni e in particolar modo su internet, un'impressionante quantità di materiale fotografico amatoriale riguardante cieli e formazioni nuvolose, al fine di sostenere e fomentare una teoria – la cosiddetta teoria delle scie chimiche – che se fosse attribuita ad una singola mente o a un gruppo ristretto di individui verrebbe bollata senza troppi tentennamenti come psicotica. Parlerò diffusamente di questa e di altre teorie del complotto, figlie o meno della modernità, nel corso della mia tesi. Quanto mi preme sottolineare in quest'introduzione è che viviamo in un momento storico che ha del prodigioso. Sguazziamo in un sistema socioeconomico il cui transito di beni materiali, servizi e informazioni è teso verso un'irresistibile liquefazione, con conseguente sovrabbondanza e dispersione degli output, eppure una considerevole percentuale d'utenti dei maggiori mezzi di comunicazione di massa si può ritenere alla stregua d'un esercito di analfabeti semantici, incapace di cogliere e decodificare in maniera corretta la sconfinata ricchezza di immagini, simboli e segni più o meno manifesti da cui siamo subissati incessantemente. Nell'ambito di una società tecnocratica improntata alla sistematica soppressione di qualsiasi elemento sia intriso di misticismo, magia e superstizione, germogliano epidemiche e inarrestabili delle forme relativamente nuove di pensiero magico: le teorie complottistiche. I cosiddetti complottisti hanno una spiccata tendenza ad attribuire a specifici avvenimenti, a sfondo microsociale o perfino mondiale, una determinazione – o una concatenazione di determinazioni fra loro interconnesse – che presenta una scarsissima aderenza ai fatti o alla logica. Si potrebbe essere portati a pensare che costoro siano individui paranoici, dotati di scarsa cultura e magro intelletto e privi di quegli strumenti scientifico\cognitivi che permettano di discernere criticamente una spiegazione attendibile di un fenomeno da un'altra strampalata e insussistente, ma non è così. L'intero percorso dell'umanità è costellato di visioni del mondo di carattere onnicomprensivo, paranoide e irrazionale, indipendentemente dalle latitudini, dalla eterogeneità delle culture e dalle epoche storiche di riferimento. Con ciò non si vuole destituire di fondamento qualsiasi visione della realtà e della sua inesauribile complessità che esuli dal senso comune o dalle tanto vituperate "versioni ufficiali", ma solo porre l'accento sulle degenerazioni più macroscopiche e perverse d'un trend potenzialmente dannoso per la stessa tenuta del tessuto sociale. E' un dato di fatto che mai come negli ultimi 50 anni ci sia stata una proliferazione così accentuata di questa tendenza a elaborare spiegazioni "alternative" dei fenomeni mondiali, in alcuni casi tanto assurde quanto straordinariamente pittoresche e fantasiose. Da queste considerazioni si può dedurre che nella natura umana esista una qualche tendenza innata, o per meglio dire archetipale, a costruire mitologie basate su un'idea strisciante di macchinazioni occulte e oscuri e indecifrabili intrecci, attribuiti a enti o soggetti sempre diversi ma in ogni caso finalizzati allo sradicamento di un sistema di valori o un regime istituzionale ben consolidati. Allo stesso modo, però, ci si deve chiedere quali siano state le condizioni specifiche, intervenute nell'arco dell'ultimo secolo, tali da favorire e amplificare quei fattori psicosociali da cui scaturisce la genesi e la diffusione incontrollata delle idealizzazioni cospirazioniste. Ciò che mi propongo di fare con la stesura di questa tesi è fornire un'analisi esaustiva del fenomeno complottista in tutte le sue declinazioni – storiche e attuali – per poi pervenire successivamente a un modello interpretativo che fornisca allo studio dell'argomento una prospettiva multisfaccettata. Partendo da un ambito storico\sociologico, che ritengo possa afferrare solo alcune dimensioni del problema, intendo abbracciare altre discipline maggiormente idonee a decodificarne i meccanismi più radicati e ricorsivi. Nel primo capitolo mi occuperò di presentare un lungo excursus storico-culturale sul complottismo in occidente, isolando e analizzando quelli che ritengo dei prototipi di molte teorie cospirazioniste venute alla ribalta nella modernità e nella post-modernità: dal complottismo di orbita intellettuale cattolica (la caccia alle streghe) ai complottismi di contrapposto orientamento politico sorti contestualmente alla Rivoluzione Francese (il complotto massonico per scardinare le monarchie e il complotto cristiano-monarchico per restaurare l'ancien régime). Qualche pagina sarà spesa nello studio della massoneria, intesa in una duplice dimensione: 1) storico\culturale: come agenzia di potere clandestina opposta tradizional-mente al Vaticano e artefice di occulte macchinazioni verso il regime economico e il potere costituito. 2) mitologico\funzionale: come ente ad altissimo tasso evocativo accorpato –nell'immaginario comune e non solo – alle più disparate teorie del complotto, a causa della sua ambigua natura esoterica o per mere ragioni ideologiche e stru-mentali. E' impossibile separare le intricate vicende che hanno determinato uno dei principali nodi della modernità, la Rivoluzione Francese, dall'azione – spesso sotterranea – di quelle società di liberi pensatori, intellettuali e philosophes d'ispirazione o natura massonica. In seguito focalizzerò la mia analisi su quella che può esser letta come la pri-ma vera teoria complottistica moderna: i Protocolli dei savi anziani di Sion. Sebbene si tratti di un falso storico oramai incontestabile, elaborato dall'autocrazia russa in funzione antiebraica, esso ha ottenuto una diffusione talmente capillare da acquistare una vita propria in ciascuno dei contesti nazionali in cui ha attecchito, al punto da costituire anche oggi l'ossatura di molteplici teorie del complotto d'impronta ideologica trasversale. Per spiegare questo formidabile successo, analizzerò i suoi caratteri avveniristicamente "moderni", come ad esempio la visione del mondo totalitaria\distopica e il riferimento ai popoli come "masse" suscettibili di divenire una risorsa politica se adeguatamente manipolate. In seguito cercherò di evidenziare, parlando delle logiche strutturali del totalitarismo, quanto di religioso e dogmatico vi sia nella visione del mondo complottista in seno ad essi e quanto di ideologico, al contrario, sussista nei complottismi d'ispirazione religiosa. Nel terzo capitolo cercherò d'inquadrare concettualmente e storicamente il fenomeno del populismo, evidenziandone le caratteristiche precipue, mettendolo in relazione col substrato culturale italiano e infine estrapolandone quegli elementi strutturali che ne fanno un perfetto complemento, o un humus favorevole, al dilagare del complottismo. Come referente attuale e pragmatico della mia analisi prenderò in considerazione un prodotto relativamente nuovo del laboratorio politico italiano: il Movimento a 5 stelle, con particolare enfasi sul suo marcato accento personalistico (il cosiddetto "grillismo"). Vista l'impossibilità di scindere l'analisi del grillismo da uno studio sui nuovi mezzi di comunicazione di massa, intorno ai quali il movimento è stato edificato e ha proliferato, mi sforzerò di relazionare il populismo alle nuove prospettive multimediali e interazionali offerte dal web 2.0 e 3.0, al fine di soppesarne pro e contro ed eventuali effetti collaterali nella nascita e diffusione incontrollata di letture complottistiche della realtà. L'obiettivo che mi prefiggo con questa tesi è quello di dimostrare una mia intuizione:l'inclinazione alla mentalità cospiratoria - di qualsiasi segno, orientamento, epoca storica sia - si può sempre ricondurre a una forma, spesso dissimulata, di teismo. L'anti-scientismo tornato in auge negli ultimi decenni, il riproporsi di forme arcaiche di pensiero magico pagano e pre-pagano e la diffusione di teorizzazioni new age e nostalgie primitivistiche sempre più accentuate, sono altre sfaccettature di questo fenomeno, inscindibili l'una dall'altra e necessarie per comprendere l'inarrestabile vena complottista e irrazionalistica che pervade il nostro tempo.
Negli archivi europei un cercatore di immagini può davvero diventare il pescatore del mare di cui Hannah Arendt parla a proposito di Walter Benjamin collezionista, cioè di Benjamin storico. In breve, di Benjamin filosofo della storia. In particolare, si tratta di sapersi immergere, saper andare al fondo di un patrimonio fotografico enorme che mostra fin dal primo sguardo – e di sguardo si tratterà in modo esteso – una straordinaria accumulazione di immagini di guerra. La relazione tra fotografia e guerra, infatti, è stata sottolineata da molti pensatori e filosofi – e dallo stesso Benjamin –, ma anche da artisti e sperimentatori di tecniche fotografiche del XX secolo, e in particolare, da una gran parte di teorici di quella che dagli anni '70 è stata definita Visual Culture. Questi studi hanno riconosciuto nella produzione iconografica della Prima Guerra mondiale il momento-zero, l'inizio effettivo della fascinazione della fotografia per la guerra. O viceversa. In effetti, la produzione fotografica dei Servizi preposti dagli Eserciti e la produzione privata – intima – di soldati amatori si realizzano come fenomeno del tutto nuovo dell'esperienza di guerra e si caratterizzano per due aspetti che in questa ricerca si riconoscono fondamentali proprio sul piano del metodo di lavoro e di studio con cui si procede all'analisi: una inedita volontà documentaria dell'esperienza della trincea e una straordinaria necessità di produzione e riproduzione di immagini ad uso delle masse. Definire nel mare di fonti per la Prima Guerra mondiale un oggetto preciso ed efficace di studio è stato per questi due motivi particolarmente difficile ma è su quell'oggetto che si concentra lo scavo archeologico – o la pesca miracolosa – alla ricerca dei caratteri peculiari e in qualche modo "originari" del fenomeno novecentesco di fascinazione per la guerra da parte dello sguardo e dunque del dispositivo fotografico, nodi centrali della riflessione. Dunque, la necessità di lavorare su un corpus il più coerente e riconoscibile possibile, il problema dei diritti di consultazione e riproduzione dei materiali fotografici – problema dovuto a questioni di fragilità materiale della fonte e a questioni di risorse economiche degli istituti di conservazione – e la difficoltà di poterli analizzare, tutto questo obbliga il ricercatore, e allo stesso tempo lo invita, a operare una scelta, a restringere il campo il più possibile. Qui si è trattato di fare i conti con un oggetto che fosse da un lato riconoscibile – le generalizzazioni non sono quasi mai permesse o giustificabili – ma dall'altro anche estendibile – la pratica fotografica nel corso del primo conflitto mondiale viene continuamente descritta come comune a tutti gli schieramenti, su tutti i fronti, sottoposta a dinamiche censorie e politiche propagandistiche pressoché identiche per tutti i Paesi coinvolti nel conflitto. A questi due criteri di scelta, ha risposto con maggiore aderenza un gruppo di circa sessanta album fotografici prodotti dalla Sezione Fotografica dell'Esercito italiano e conservati presso l'Archivio Centrale del Risorgimento di Roma, già a partire dalla fine del conflitto per volontà dell'allora Ministro di Unità Nazionale Paolo Boselli. L'attenzione di allora per questo tipo di pratiche e produzione in tempo di guerra, e l'attenzione di oggi per la loro conservazione e fruizione in vista del centenario della Grande Guerra, hanno aggiunto a questa ricerca almeno due nuovi aspetti da tenere in conto, sia sul piano del metodo sia su quello delle considerazioni generali. Da una parte infatti, questo corpus è al centro di un progetto di digitalizzazione degli archivi iconografici e dei documenti della Grande Guerra condiviso e portato avanti da diversi istituti e enti di conservazione in Italia – si veda il sito www.14-18.it – sul modello di una più ampia progettazione telematica di stampo europeo – si veda il sito www.europeana.eu. Dall'altra, il fatto di essere alle porte del centenario del conflitto rimette straordinariamente in funzione retoriche e contenuti di un discorso nazionale identitario che si vuole fondare proprio sull'accessibilità diffusa a mezzo internet di fonti considerate popolari e fruibili acriticamente, come le immagini dal fronte. Si tratta quindi, sul piano metodologico di un tentativo di "salvare" il patrimonio di fotografie al centro dello studio da una morte "etica", dall'oblio dovuto a una fruizione troppo semplificata – l'interfaccia virtuale e l'infinita rete di link e connessioni possibili; emanciparlo da un uso semplicistico della fotografia come fonte per la storia – spesso decorazione della pagina o illustrazione di posizioni teoriche già stabilite; e in questo periodo, anche liberarlo dalle celebrazioni nazional-patriottiche, dalla riattivazione di ambigue e pericolose retoriche identitarie. Ma, allo stesso tempo, sul piano della Visual Culture di contribuire a rendere questi materiali un archivio aperto, un «archivio potenziale» e disponibile a una consultazione che vada al di là di una pretesa interpretazione ufficiale della Grande Guerra; indagare quindi i piani produttivi della ripetizione delle immagini, il montaggio stesso come dispositivo fotografico più o meno codificato nelle pagine dell'album, la possibilità stessa della loro riproduzione massificata per il tramite di altri strumenti di propaganda e d'informazione durante e dopo il conflitto. Nella prima parte della tesi quindi – la cui struttura generale si compone di quattro macro-sezioni di cui l'ultima è l'album-catalogo fotografico di materiali scelti – si è trattato di riflettere con attenzione sulla natura di questo archivio: una natura doppia, materiale e virtuale innanzitutto; ma anche rigida e ufficiale eppure aperta e passibile di manipolazioni, scomposizioni, connessioni virtuali. In questo senso, nel primo capitolo sono trattate anche le questioni relative alle caratteristiche proprie dell'album e delle singole immagini come oggetti-dispositivi fotografici a sé stanti; alle modalità e alle politiche coeve e recenti di accumulazione, conservazione e fruizione che li hanno prodotti e riprodotti. Tutto questo permette ci concepire il corpus degli album fotografici ufficiali come un archivio in se stesso – strutturalmente simile, come si è accennato prima, agli altri corpus dello stesso genere – nel quale cercare le caratteristiche di base di un materiale prodotto per documentare le attività dell'Esercito da una parte, e per essere diffuso attraverso la stampa di guerra e i giornali popolari, dall'altra. Questi aspetti che si iscrivono in un discorso sull'estetica della politica e della violenza di guerra – ovvero di una violenza legittimata dal monopolio del potere costituito e dalle pratiche stesse della sua circolazione propagandistica – nelle società europee coeve, sono elementi essenziali di una riflessione più ampia sulla visualità della guerra come esperienza percettiva e come espressione culturale – la Visual Culture in senso largo – dal suo debutto all'inizio del XIX secolo. Esiste infatti, una forte caratterizzazione della produzione fotografica nel milieu della guerra che sembra – ed è qui che si trova il nodo dell'analisi – influenzare la relazione tra fotografia e guerra e, di qui, tra esperienza della realtà novecentesca come di una «guerra totale» e la sua riproduzione tecnica che ne moltiplica le visioni fino a identificarla come fenomeno originario, matrice della storia contemporanea, esperienza collettiva e continuativa dell'individuo attore-spettatore del disastro. La seconda macro-sezione del lavoro si concentra quindi sul doppio binario di questo fenomeno spettatoriale nato nella trincea della Grande Guerra: doppio perché da un lato resta ancorato alla sua fonte – l'album fotografico e la fotografia come dispositivo – ma dall'altro, si eleva al livello teorico delle riflessioni e delle teorie sulla percezione, sui media nell'accezione benjaminiana di Apparatur, sull'antropologia della guerra seguendo una linea che parte proprio da Benjamin e da quanti – artisti e non – riflettono sul tema a partire già dagli anni '20 e '30. In modo particolare, il terzo capitolo della tesi cerca di fare il punto delle diverse prospettive e pratiche di manipolazione fotografica che prendono avvio proprio dall'esperienza e dal patrimonio iconografico della Grande Guerra per riflettere e riprodurre un sapere visuale sulla realtà, sul mondo e, in senso critico, sulle sue trasformazioni: naturalmente, il confronto sul dispositivo fotografico tra Benjamin e Kracauer e le opposte scuole di pensiero dell'avanguardia artistica tedesca, la più prolifica da queste punto di vista per quanto riguarda le pratiche e le tecniche di produzione, riproduzione e (foto)montaggio del materiale fotografico di guerra (Moholy-Nagy e Renger-Patzsch; Friedrich, Tucholsky e Heartfield). Questo capitolo si presenta infatti come un atlante dei maggiori fenomeni di produzione culturale in ambito visuale all'inizio del Novecento che sottolineano in modo esemplare – ed è questo ciò che s'intende di-mostrare – la stretta relazione tra cultura contemporanea e visualità e tra questa e l'esperienza della guerra moderna. Nelle trincee europee sembra prodursi infatti, una relazione ottica tra l'uomo e la realtà che dà luogo a una serie straordinaria di punti di vista sulla catastrofe, sulla rovina, sull'orizzonte (di senso), del tutto nuovi e sintomatici della condizione delle masse umane di fronte alla guerra totale di cui il primo conflitto mondiale rappresenta il vero esordio. Due elementi che si ritrovano nell'accostamento del lavoro sugli album fotografici della Grande Guerra e quello sull'atlante di immagini da Warburg a Jünger: da un lato, il profilo del ricercatore; dall'altro, la natura frammentata dell'oggetto che pure si tiene per l'intervento produttivo della disposizione delle immagini. Per quanto riguarda la figura del ricercatore, il pescatore di coralli nel mare della storia del XX secolo che all'inizio assomigliava a Benjamin, assume qui alcuni caratteri di un altro manipolatore di immagini interessato ai resti e ai fenomeni conflittuali della cultura e dell'antropologia visuale: Aby Warburg de «La guerra del 1914-1915. Rivista illustrata» e in parte, del Bilderatlas Mnemosyne; l'Ernst Jünger del «sillabario del mondo mutato» dalla «mobilitazione totale». L'esperienza della trincea rappresenta per questi due pensatori, il momento nel quale la percezione sensibile "omogenea" e pacificata – messa intanto in crisi già alla fine dell'800 – e, di conseguenza, la riproduzione tecnica dei suoi fenomeni sensibili – in particolare sul piano della visione – esplodono con lo scoppio della Grande Guerra e si dispiegano nello spazio terribile ma evidentemente prolifico di un'«urna» di terra. Nella terza sezione del lavoro, ci si impegna direttamente nello scavo metodologico dentro l'esperienza materiale della trincea, seguendo l'esempio del filosofo francese Paul Virilio di fronte ai bunker eretti sulle coste francesi nel corso della seconda guerra mondiale e i suoi studi sulla normalizzazione culturale delle pratiche e delle strategie militari della visibilità come regime che dura fino a noi, passando per alcuni aspetti centrali dell'antropologia fenomenologica di Hans Blumenberg e dell'antropologia delle immagini di Hans Belting e Georges Didi-Huberman. Questa parte del lavoro si presenta come quella più impegnativa sul piano dell'analisi dei concetti teorici di riferimento e della loro rielaborazione nel caso di studio. Un'intuizione porta direttamente dentro questo materiale prolificante di immagini – apparentemente omogenee e generalmente incapaci di sorprenderci: è possibile vedere dentro questo volume enorme di fotografie uno dei regimi scopici di cui si parla a proposito dello statuto dell'uomo come spettatore? Si può parlare dell'esperienza visuale della Prima Guerra mondiale e della sua riproduzione tecnica massmediatica come del momento-zero di una trasformazione antropologica che sposta – o meglio spiazza – l'uomo dalla sua posizione d'osservatore a distanza e pacificato del disastro – del naufragio di Blumenberg che diventa conflitto – in una posizione più complessa e problematica, allo stesso tempo di spettatore/attore, soggetto dello sguardo e della camera dentro il terreno stesso del disastro? È nel quinto capitolo di questa sezione del lavoro che si osserva appunto questo spiazzamento, questa dislocazione del soggetto insieme a quella delle immagini e dei punti di osservazione che nelle fotografie si individuano e da cui permettono di essere analizzate. Le fotografie infatti mostrano i meccanismi del montaggio originale – spesso dovuti a scelte casuali e a pratiche di mera accumulazione e catalogazione – e esse stesse si offrono alla possibilità di «emanciparsi» dal racconto stabilito sulla pagina che diventa terreno di lavoro e di ricerca ogni volta nuovo: un campo di stratificazioni archeologiche della Visual Culture del '900. Trattare album fotografici "aperti" allora, pagine nere per lo più sulle quali si dispongono centinaia di immagini di guerra disponibili ad essere manipolate, offre lo spazio e la possibilità appunto di analizzare i dettagli, di soffermarsi sugli intervalli dovuti alla sovrapposizione di riquadri e cornici – della trincea, della camera fotografica, dell'immagine, dell'ordine del montaggio –, di seguire così percorsi rizomatici e missing links – dovuti anche alla fruizione digitale in rete – che indicano le ripetizioni, le moltiplicazioni e le manipolazioni alle quali sono state sottoposte fin dall'inizio. Infine, dunque, la quarta sezione, costituita dall'album-catalogo fotografico prodotto nel corso dell'analisi dei materiali. Come momento nel quale l'album-archivio e l'archivio di album si aprono diventando materiale potenziale di ulteriori ridisposizioni, il lavoro sulle immagini trova alcuni richiami metodologici fondamentali – per quanto nella sostanza differenti e iscritti dentro pratiche e dispositivi con una propria natura e identità visuale – con l'atlante e il lavoro del montatore di immagini sulla placca nera del suo progetto. Nella visibilità frammentata, mutilata, eterogenea e ossimorica della guerra di trincea, si possono ritrovare dunque in nuce aspetti straordinariamente convincenti della natura visuale della Grande Guerra e quindi, della cesura causata da questa esperienza lunga, terrificante e collettiva, nella collocazione dello spettatore contemporaneo rispetto allo svolgersi del disastro, anche e soprattutto per il tramite del dispositivo fotografico prima, e della sua riproduzione tecnica poi. L'immagine della guerra, il paesaggio dell'assenza e del disastro, il vuoto delle rovine, le ferite delle trincee e dei corpi, lo sguardo mutilato e quasi vietato dello spettatore, la perdita di orizzonte e, allo stesso tempo, la conquista continua di nuovi spazi e punti di vista per una visione spesso caratterizzata dall'apparizione dell'invisibile, si emancipano dal limite dell'album per proporre nel sesto e ultimo capitolo una mise en abîme della geografia del taglio, della cesura, della ferita che vede la sovrapposizione dell'esperienza percettiva del disastro, della sua riproduzione e, infine, della sua accumulazione come patrimonio di una memoria visuale collettiva.
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza
Ieri. I viaggi come strumento culturale cominciano già a partire dal XVIII secolo quando i giovani aristocratici europei si spingono sulle coste del Mare Nostrum per studiarne la cultura, la politica, l'arte e le antichità. Nei secoli successivi il Mediterraneo consolida il suo ruolo di meta privilegiata. Nell'ambito del Grand Tour, le città erano tappe significative di un viaggio più complesso. Raggiunte prevalentemente da mare, presentavano la loro immagine al viaggiatore che ne coglieva lo skyline da lontano e poi le raggiungeva per farne esperienza, preparato a recepirne l'anima e a volte anche a rappresentarne il corpo. Oggi. Le grandi compagnie marittime a proporre modelli di tour comparabili (come estensione e qualificazione delle mete) con il viaggio di formazione culturale degli intellettuali europei. Ma assolutamente incomparabili come esperienze di viaggio perché incomparabili con il passato sono le variabili tempo e spazio dentro le quali "la massa", contenuta in queste città galleggianti sceglie di muoversi; approfittando della varietà delle rotte offerte dalle maggiori compagnie di navigazione e attirata dall' idea di poter assaggiare, seppur in una logica "mordi e fuggi" l'essenza delle città mediterranee e del mare che le unisce. Ma il senso più proprio del viaggio nel Mediterraneo e nelle sue città, in apparenza elemento unificatore delle vacanze in crociera e sponsorizzato dalle compagnie, viene all'atto pratico negato dalle modalità e dai tempi ristretti di questo genere di esperienza. Talvolta la delocalizzazione delle banchine dedicate alle crociere, stravolge il primo approccio con la città che, raggiunta da mare, non sarà più quella vista e raccontata dai grandi viaggiatori del passato, da Goethe a Le Corbusier, ma un luogo spesso anonimo, senza tracce di identità locale e che sembra aver cancellato l'immagine legata all'immaginario collettivo: e questo vale anche per le città del Mediterraneo. Posto che la finalità della ricerca è quella di provare, attraverso un'architettura, a trasformare lo scalo veloce in un'occasione per aggiungere all'esperienza crocieristica un qualcosa in più che possa "aumentare" anche a distanza e in un tempo breve la conoscenza della città coinvolta, e posto che il luogo scelto per effettuare la sperimentazione è stato proprio lo spazio di soglia tra città e porto, è stato naturale aggiungere all'obiettivo principale anche la creazione di una relazione tra crocieristi e cittadini nella dimensione materiale e immateriale di un comune attrattore. Il termine edutainment , il neologismo coniato da Bob Heyman mentre produceva documentari per la società National Geographic, nasce dalla fusione di due termini educational (educativo) e entertainment (divertimento): si potrebbe tradurre come divertimento educativo. Considerata la premessa della ricerca che tende a ragionare sul "residuo" di mediterraneità che è possibile recuperare nel breve spazio/ tempo della sosta tecnica dei porti, questo concetto può incrociarsi con la nozione di portus, così come raccontata da Donatella Calabi: "un luogo chiuso, comunque protetto, utilizzato come deposito, o come tappa di un viaggio per il carico e scarico merci. È il senso originario di ingresso, imboccatura, passaggio, attraversamento, traghetto, assai più che quello figurato di meta ultima, rifugio, asilo che pare fornire qualche suggerimento in proposito. (…) Mercati e fiere sono periodici, il portus è una piazza permanente. È il centro di transito ininterrotto (vanno ad approvvigionarsi di continuo genti vicine e lontane); è un agglomerato di mercati che non solo lo hanno eletto come luogo della residenza, ma vi hanno collocato i propri fondaci. (…) si tratta (quindi) di considerare i vari centri finanziari e internazionali, nei quali lo scambio di merci, di persone, di informazioni, di modelli culturali e artistici è interrelato con funzioni amministrative, religiose, d'istruzione quanto mai complesse" (Calabi, 1993). Ecco che torna ancora la questione dell'edutainment (educare divertendo e divertire educando): considerato il passaggio da viaggio a vacanza, di cui si è parlato nel capitolo precedente, è possibile ritrovare nelle tipologie dei portus/mercati mediterranei, considerati nella loro nuova vocazione di spazi per l'edutainment, il riferimento che consente di interpretare in termini di architettura le complesse questioni poste. L'obiettivo di questa ricerca si inserisce in un processo di contaminazione produttiva tra porto e città proponendo un punto di vista più mirato: come si è detto prima punta a intercettare un target specifico, proprio quello dei crocieristi tradizionalmente convertiti in "truppe" che si muovono compatte verso un obiettivo. L'annullamento del tempo e dello spazio, nell'ottica sperimentale che questa tesi propone, può essere un modo per raccontare la città in una logica edutainment con le modalità cadenzate che le compagnie crocieristiche richiedono reinterpretando gli spazi, che Marc Augè identifica come non luoghi, come un'occasione positiva. Tre sono i punti di contatto con la più generale volontà di lavorare nella relazione città-porto sono evidenti: il primo è la necessità logistica di disporsi sul confine tra i due sistemi; il secondo è quello di ricorrere a un elemento architettonico-urbano che sia in grado di contenere in forma sintetica alcune delle funzioni tradizionalmente connesse all'edutainment; il terzo è la possibile contaminazione tra crocieristi e cittadini. A proposito del primo, la naturale posizione sul confine tra porto e città è legata all'elemento che tiene insieme tutte le escursioni: il percorso dei crocieristi a un certo punto passa attraverso il confine e spesso lo segue per un tratto, all'interno o all'esterno del territorio portuale. A proposito del secondo, l'elemento architettonico-urbano a cui si fa riferimento in questo caso può coincidere con l'intero percorso che il crocierista compie per uscire dal porto o anche solo con alcuni dei suoi tratti: quel che conta è che sia sufficientemente fluido da non rallentare troppo il percorso e sufficientemente articolato da suggerire delle pause. A proposito del terzo, qui la contaminazione tra cittadini e crocieristi potrebbe anche essere parziale, perché alcuni tratti del percorso per motivi di sicurezza o di fluidità dell'attraversamento potrebbero essere riservati. Ma nella logica della dilatazione "spazio-temporale" imposta o solo consentita ai crocieristi, la connessione con pezzi di vita urbana, anche in forma di eventi, potrebbe essere un elemento fondamentale dell'edutainment. Il lavoro di ricerca, muovendo dalla differenza tra soglia, bordo e limite, punta dunque all'individuazione degli spazi di connessione tra crociere e città: la loro posizione e la loro configurazione è fondamentale per identificare la dimensione conforme dell'area progetto e la sua ricaduta sul territorio. Possono essere sia edifici che spazi aperti; devono essere disposti nello spazio di confine tra il porto e la città; devono essere "disponibili" alla trasformazione, nelle logiche di riassetto delle aree portuali che hanno visto coinvolti negli ultimi anni la maggior parte dei porti nazionali e internazionali; devono trovarsi nel tragitto che i crocieristi fanno quando scendono dalla nave per recarsi in gita. Obiettivo della sperimentazione è dunque la costruzione/ricostruzione/riciclo di uno spazio ( di soglia, di bordo, di limite) capace di accogliere grandi masse che possa essere funzionalizzato per presentare la città a chi la intercetta, attraverso uno sguardo che sia culturale ma anche pop e nello stesso tempo attrarre i cittadini verso il porto. Uno spazio poroso e permeabile, di passaggio e di incrocio interno al porto che si insinui nella scaletta dell'escursione crocieristica. Il tentativo di portare la città (e la sua immagine complessiva) nel porto dovrebbe giocarsi quindi nello spazio di contiguità che viene attraversato dai crocieristi, il "portus", "l'agglomerato di mercati", che alcune volte è sulla soglia, altre volte è nel bordo e altre volte è sul limes/limen. La logica che dovrebbe ispirare l'azione utilizza l'idea di "pubblicità" e si fonda sulle funzioni latamente commerciali (vocazione di ogni porto sin dall'antichità), espositive, informative e formative, che sono chiamate da un lato ad aumentare la possibilità di conoscenza della città dal punto di vista culturale, dall'altro a costruire relazioni fisiche più porose tra porto e città. In questa operazione, la configurazione fisica del "portus" assume un rilievo significativo in sé: non solo per la "precisione" della sua posizione ma anche per la conformazione dei suoi spazi, per i punti di vista che privilegia, per le relazioni – anche a distanza – che costruisce. La ricerca, come si è detto, tenta di rispondere a questa domanda attraverso la costruzione di un percorso che possa in qualche modo rallentare il passaggio tra la nave da crociera e il punto d'inizio dell'escursione programmata e che definisca al suo interno delle pause un po' più significative che si traducano in un "aumento di conoscenza" delle città in senso sia spaziale che culturale. A partire da questi elementi si è provato a capire quale potesse essere lo spazio più adatto a questo genere di operazione: uno spazio che non fosse meccanicamente una connessione fisica sul bordo ma che dovesse, attraverso un esperienza spaziale affidare al tempo – limitato - e allo spazio -fluido - un messaggio che vada al di là del semplice collegamento. Il "portus" potrebbe incarnarsi in una nuova architettura, attraverso il riuso di un edificio esistente, attraverso la costruzione di un percorso che tiene insieme cose diverse, attraverso il montaggio di spazi diversi, che potrebbero contenere al loro interno una serie di funzioni miste che trasformino l'immagine della città in un "immaginario" più ricco, più profondo. La ricerca nata attraverso la formulazione di una forma di "domanda" proveniente dalla realtà esterna (il difficile rapporto tra crocieristi e città), orientata da un punto di vista culturale che collega, seppur a grande distanza, la crociera nel Mediterraneo al Grand Tour, finalizzata ad "aumentare" l'esperienza della città che i crocieristi fanno in uno spazio-tempo limitato e tradotta in termini di architettura attraverso l'identificazione di un concept spaziale del "portus" che si esprime in termini di posizione e relazione, ha bisogno di uscire dalla genericità per confrontarsi con dei casi esemplificativi. Queste applicazioni hanno tra l'altro il compito di verificare la tenuta generale del concept e le caratteristiche della sua possibile articolazione in termini di struttura, di misura, e di spazi, in relazione ad alcune condizioni contestuali definite in termini più articolati. Lo studio più approfondito delle tre città, scelte dunque in base alla struttura, alle misure, al carattere degli spazi di intersezione tra le aree passeggeri e il "confine" del porto, in alcuni casi ha consentito di lavorare sulla soglia (Napoli), in altri casi sul bordo (Venezia) e in altri sul limite (Marsiglia). Le modalità con cui oggi i crocieristi si muovono all'interno dell'area passeggeri hanno consentito di identificare per ognuna di esse l'azione propria relativa alle tre condizioni del confine. Lavorare in un punto specifico quando l'area d'intervento si trovava sulla soglia; su una linea quando bisognava attraversare un'area di bordo; attraverso la costruzione di una rete quando bisognava lavorare sul limite ha consentito di declinare in forme diverse sia il ragionamento sul percorso che quello sul "portus" identificando specifici interventi puntuali per ciascuna condizione. La connessione diventa dunque un percorso che declina la nozione di "portus" e le pause definiscono spazi polifunzionali per l'edutainment: le declinazioni di questi spazi variano a seconda della porzione di territorio che il progetto si tira dentro. I tre casi individuati in relazione alla posizione del terminal crocieristico rispetto alla città si differenziano, infatti, anche per la declinazione del "portus" rispetto alla porzione di territorio investito dalla trasformazione. Questa condizione comporta un'interessante conseguenza che investe la potenzialità del percorso di edutainment - che si concretizza nelle diverse declinazioni del "portus" - rispetto all'aumento di conoscenza dell'origine, della storicità, della contemporaneità della città toccata dal crocierista. È evidente che il senso dell'edutainment contenuto nel "portus" potrebbe andare ben oltre la questione dell'immagine e delle specificità urbane, investendo questioni culturali di diverso spessore; ma nella sua configurazione architettonica è in qualche modo contenuta automaticamente una forma di declinazione conoscitiva di quella che abbiamo definito "porzione di territorio" investita dalla trasformazione. Nel caso di Napoli il "portus" racconterà la città storica, l'antica immagine dell'approdo oggi riconfigurata e la sua trasformazione strutturale segnata dal distacco tra città e porto determinato dall'infrastruttura della Marittima. Nel caso di Venezia racconterà la città ottocentesca, le colmate che hanno dato vita alla Venezia produttiva che occupa il fronte ovest; ma racconterà anche la Venezia dei quartieri residenziali più recenti, del riuso di edifici industriali e dell'arrivo in città dal quartiere di Santa Marta e dal bordo urbano costituito dalla Fondamenta delle Zattere. Nel caso di Marsiglia racconterà la città contemporanea che ha ingombrato progressivamente la zona nord della costa, recentemente ripensata nella sua relazione con il porto che si è esteso nella stessa direzione, attraverso il grande progetto Euromediterranée. Il "passaggio" attraverso la soglia, "l'attraversamento" del bordo e "il traghettamento" lungo il limite, identificano le tre modalità con cui si effettua questa delocalizzazione, identificando, anche in funzione della lunghezza e del carattere della "distanza" che i crocieristi devono compiere, una volta in un oggetto, una volta in un percorso e una volta in un'infrastruttura gli elementi del "portus". Il passaggio determina il più delle volte la necessità di un luogo fisico, un edificio, all'interno del quale è necessario sviluppare il percorso che si misura con il tema del mercato in forma di bazar. L'attraversamento viene inteso sia come vero e proprio "scavalcamento", quando c'è la necessità di bypassare un ostacolo, un fiume, un canale, una porzione di territorio, sia come un modo per attraversare lo spazio aperto: in questo senso sarà la strada-mercato il riferimento tipologico che guida l'ipotesi trasformativa. Il traghettamento è usato per indicare lo spostamento più ampio e discontinuo che trasforma il limes in limen con una logica puntuale finalizzata alla definizione di più punti di contatto, di una rete di passaggi che assume il carattere di un'infrastruttura. Il "portus" è questa infrastruttura che rompe il limite in una maniera puntuale determinando punti di connessione con aree-mercato esistenti, configurandosi come la struttura di quell'"agglomerato di mercati" di cui l'infrastruttura misura e colma la distanza. Stavolta l'architettura del "portus" è articolata in tratti e punti; assorbe e aggrega strutture distribuite sul waterfront e le segnala con elementi seriali e riconoscibili che possono alludere alle caratteristiche dei mercati aperti. Ciò che accomuna queste tre modalità di definizione del "portus" è il tema dell'innesto del percorso rispetto alla nave o alla sua estensione terrestre, identificata dalla stazione marittima. Il "portus" come luogo che media il passaggio dalla nave tende a rendere quanto più fluida possibile questa relazione e allo stesso tempo a privarla della sua condizione di puro "transfer". Considerato che la percezione dalla nave propone un punto di vista sopraelevato rispetto alla quota delle banchine e che il punto di partenza del percorso si colloca proprio alla stessa quota, strutturare questa continuità porta a lavorare su un layer superiore: una condizione che consente anche di non interferire con le normali operazioni legati alla logistica portuale. Attraverso questo layer l'immagine della città che si percepiva dalla nave, quando i porti erano prossimi ai centri storici, e che solo talvolta si ripropone oggi, viene intercettata in modi diversi e più "specializzati" anche con una serie di specifiche inquadrature progressive e rappresenta un "aumento" di conoscenza che dalla nave si estende alla terraferma. L'operazione avviene sia attraverso punti di vista e prospettive privilegiate che aiutano a inquadrare e a sottolineare parti importanti di territorio, sia negli spazi in cui questo percorso rallenta attraverso un'organizzazione funzionale che aiuta la comprensione del paesaggio "contemporaneo" dei porti.
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica, istituzioni (XIX - XX secolo) ; La ricerca realizzata ha inteso studiare, in un'ottica di lungo periodo e in una prospettiva complessiva, ciò che ha rappresentato l'esperienza del fascismo in un contesto territoriale periferico e non omogeneo, di cui è espressione quel segmento dell'Umbria meridionale costituito in provincia nel gennaio 1927. Tale area si è rivelata un case study esemplare, in grado di offrire interessanti spunti interpretativi. In effetti, all'unico grande polo industriale della provincia, compreso nel territorio della conca ternana, si contrappone la restante parte del territorio provinciale, comprendente città come Orvieto e Amelia, contrassegnate da consolidate relazioni con le regioni limitrofe, espressione di un'Umbria verde, agricola e mezzadrile, ma anche francescana, terra d'arte, di misticismo, ritenuta dalla pubblicistica di regime "cuore" dell'Italia fascista. A partire da ciò, si è creduto opportuno impostare la ricerca attorno a tre questioni principali, ritenute essenziali per cogliere aspetti e dinamiche della società locale nel ventennio mussoliniano. Per fare questo è stata definita una griglia interpretativa funzionale a verificare il ruolo del Pnf nel quadro del rapporto centro-periferia, continuità-rottura. Si è così puntato a esaminare come il fascismo abbia influito sui processi di formazione e consolidamento dei ceti dirigenti locali, verificandone la capacità di rapportarsi con le vecchie élites, di promuoverne di nuove o, magari, di fare coesistere entrambe. Si è poi cercato di approfondire il ruolo che il partito ha svolto in ambito locale, la sua capacità di inserirsi nelle diverse dinamiche territoriali, di creare e controllare reti clientelari e, soprattutto, di rapportarsi con le due realtà che rimangono fuori dal suo controllo, il grande gruppo polisettoriale rappresentato dalla "Terni" polisettoriale di Bocciardo e la Chiesa locale, il tutto al fine di conseguire i propri obiettivi totalitari. Infine, si è affrontata la questione del consenso. In questo senso, è stato preso in considerazione non soltanto il ruolo della violenza attuata dal fascismo per conquistare il potere e la stessa azione repressiva dispiegatasi negli anni del regime, che si dimostra concreta e reale come è normale in una situazione di dittatura, ma si è provato a fare luce sul dissenso e sulle aree di rassegnazione o di consenso tiepido che sembrano persistere nella società locale. Nel procedere si è poi cercato di coniugare la storia politicoistituzionale con quella sociale e in parte economica, attraverso un costante lavoro di analisi e incrocio delle fonti studiate, scelta ritenuta utile per conseguire gli obiettivi prefissati. Certamente, la riflessione sulle origini, l'affermazione, il consolidamento del fascismo in provincia di Terni, offre sostanziali conferme a quanto una parte della storiografia aveva proposto. Nell'Umbria meridionale il fascismo, nei suoi vertici, sorge e si afferma come punto d'incontro dei ceti dominanti tradizionali. Esso si afferma in quanto strumento della reazione agraria e dei gruppi industriali monopolistici di 2 fronte alla conflittualità contadina e operaia e al dilagare del socialismo. La sconfitta delle élites politiche tradizionali alle elezioni politiche del 1919 e a quelle amministrative del 1920, che seguiva l'effervescenza sociale del biennio rosso; la stipula del patto colonico del 1920 sfavorevole per gli agrari; la stessa esperienza, sebbene breve e contraddittoria, dell'occupazione delle fabbriche, sullo sfondo di una situazione economica difficile, ne determina la reazione, che si concretizza per l'appunto nell'adesione al fascismo. Dapprima nella versione squadrista, capace di sconfiggere sul piano militare gli oppositori, anche grazie al diffuso sostegno degli apparati di sicurezza dello Stato, quindi come blocco elettorale e nuova struttura politica in grado di conquistare il potere, il fascismo si configura come una sorta di union sacrée contro il "bolscevismo", in cui confluiscono conservatorismo agrario ma anche impulsi industrialisti e modernizzatori. Più concretamente, esso viene accorpando tutte quelle correnti politiche, contrapposte tra loro nel primo quindicennio del secolo, che avevano costituito il frastagliato universo giolittiano. In questo senso, come l'analisi dei vertici del Pnf provinciale e degli amministratori locali ha permesso di verificare, sino al 1927 a essere protagonisti sulla scena politica locale sono le forze che tradizionalmente facevano parte del blocco agrario. In primo luogo i proprietari terrieri, molti dei quali appartenenti alla nobiltà, a cui si affiancano esponenti della borghesia delle professioni, le cui proprietà erano cresciute a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché alcuni settori espressione diretta del mondo rurale, come gli agenti di campagna, i fattori, ma anche quei contadini che nei primi anni venti erano riusciti ad accedere alla proprietà della terra. In provincia di Terni quindi, dalla conquista fascista sino all'introduzione della riforma podestarile ma, in gran parte, anche dopo, la presenza ai vertici delle amministrazioni municipali e di quella provinciale di esponenti del notabilato locale, essenzialmente aristocratici, proprietari terrieri, professionisti, si rivela dato costante che permette di accomunare la provincia di Terni a realtà come la Toscana, l'Emilia-Romagna e, anche, a parte dell'Italia meridionale. L'attuazione della riforma podestarile, con le prerogative concesse al prefetto nella nomina dei vertici delle amministrazioni comunali, non sembra variare di molto la situazione, almeno nella prima fase di attuazione della riforma. Come è emerso nei comuni della provincia di Terni, il criterio seguito dai prefetti per l'individuazione dei podestà era connesso con la rilevanza sociale ed economica riconosciuta in una comunità ai candidati alla carica che, senza dubbio, un titolo nobiliare e una professione adeguata erano in grado di assicurare, anche magari a scapito della mancanza di qualche requisito previsto dalla legge istitutiva della riforma podestarile. In questo senso, sembra dunque perpetuarsi un modello burocratico e ottimatizio insieme, grazie al quale il fascismo intendeva presentarsi alle comunità locali con un volto rassicurante, al fine di accattivarsi il favore della popolazione. L'analisi prosopografica dei profili relativi a presidi, consultori provinciali, podestà, membri delle consulte municipali, per il periodo 1926-1943, ha reso possibile definire un quadro che vede sostanzialmente confermata l'analisi fatta in una prospettiva nazionale da Luca Baldissara ormai più di una decina di anni 3 fa1. E' cosi emerso il carattere di classe della rappresentanza politico-amministrativa fascista in questi anni, sebbene con alcune differenze effetto delle specificità socioeconomiche caratterizzanti l'area esaminata. Nello specifico, l'esame condotto sul corpus di 147 amministratori (78 podestà e 69 commissari prefettizi) che si succedono nei Comuni della provincia nell'arco di tempo considerato, ha permesso di tracciare l'identikit di un funzionario con un'età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni; in possesso di un titolo di studio elevato (laurea o diploma di scuola superiore); in cui la proprietà della terra riveste un ruolo essenziale, coerentemente al tessuto socio-economico prevalente in provincia, e in cui dal punto di vista della professione esercitata appare predominante la figura del libero professionista (in genere avvocato e notaio). Forte è poi il legame dei podestà con il Pnf, più della metà del campione individuato risulta nel partito dal biennio 1920-1922; al tempo stesso, la maggioranza delle designazioni effettuate dai prefetti avviene in accordo con la federazione provinciale fascista. Sembra quindi delinearsi un quadro d'assieme che nel corso degli anni trenta, in gran parte della provincia, vede la predominanza delle gerarchie notabilari nella gestione del potere locale. Da tale situazione si discosta in parte l'area industriale compresa tra Terni e Narni, in cui come avviene in altri contesti urbani o regionali, attraverso il Pnf si assiste all'ascesa di personalità espressione della media e piccola borghesia urbana, per i quali l'istituto podestarile diventa uno strumento di promozione sociale e di affermazione nella gerarchia del potere locale. L'immagine del governo locale che si profila non è però statica, appare invece dinamica e contrassegnata da una forte conflittualità che, a vari livelli, si dimostra uno dei tratti comuni percepibili sotto l'apparente pacificazione realizzata dal fascismo. La forte instabilità presente nelle amministrazioni comunali della provincia di Terni, attestata dall'elevato numero di commissari prefettizi e di podestà retribuiti che si succedono, è testimonianza non solo delle difficoltà incontrate dai prefetti nella selezione di un ceto dirigente adeguato ma, soprattutto, del tentativo delle élites tradizionali, attraversate da interessi diversi e relazioni clientelari e familiari molteplici, di resistere all'azione omologatrice del regime. Indubbiamente, lo Stato fascista, attraverso la promozione di un modello di podestà fondato su competenza, capacità di agire, allineamento alle direttive dei vertici, in nome della proclamata modernizzazione puntava a ricondurre le periferie sotto il controllo del centro. Ecco allora che la ricerca di una concreta azione di governo delle amministrazioni locali, frequentemente sollecitata dal prefetto, da perseguire, ad esempio, attraverso la realizzazione di opere pubbliche funzionali alla mobilitazione di settori diversi della società, diventava il riferimento attraverso cui misurare l'efficienza e, soprattutto, "l'operosità" degli amministratori locali. L'elevato turnover dei podestà rappresenta pertanto una spia che si presta a misurare significativamente le difficoltà incontrate dal regime nell'affermare la propria azione in periferia. Non di rado tuttavia l'intervento del prefetto sui podestà si rendeva necessario per stroncare le lotte intestine e di fazione che si scatenavano all'interno delle élites locali per la gestione del potere. Le modalità attraverso cui tali scontri si manifestano sembrano esprimere dinamiche del conflitto omogenee a quanto accertato da altri studi 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 riguardanti realtà comunali, provinciali e regionali diverse. Esse assumono la forma di lettere, esposti, denunzie anonime, che divengono lo strumento di lotta principale tra le fazioni in una dimensione comunale ma, come è stato accertato in chiave provinciale, anche tra i rappresentanti dei diversi poteri locali, oltre che all'interno degli stessi vertici della federazione fascista ternana. A partire dal 1927, con la nascita della Provincia e l'insediamento di istituzioni politiche e amministrative nella città capoluogo, anche per il fascismo locale inizia una fase nuova, l'esame della quale ha permesso di meglio comprendere come in questa realtà si viene definendo il rapporto con il centro. La genesi della nuova entità territoriale è frutto di una serie di variabili legate, da un lato, alle esigenze politiche amministrative dello Stato fascista divenuto regime; a cui si sovrappongono le dinamiche conflittuali interne al fascismo regionale, che portano alla pacificazione dello stesso e alla nascita della federazione provinciale del Pnf. Infine, un ruolo determinante lo ha l'affermazione della "Terni" polisettoriale, vero e proprio potere forte nella nuova provincia, in grado di dare vita a un originale sistema di fabbrica a metà strada tra paternalismo assistenziale e truck-system. Con essa il regime dialoga direttamente, baypassando la neonata federazione provinciale del Pnf e, se necessario, intervenendo per normalizzarla, come dimostra esemplarmente la vicenda politica e personale di Elia Rossi Passavanti, primo federale e podestà di Terni. In questo senso, la ricostruzione dei percorsi personali e professionali dei vertici dell'amministrazione statale (prefetti e questori), degli organi politici (federali, vicefederali, segretari amministrativi, componenti del Direttorio della federazione fascista) ed economici (membri del consiglio provinciale dell'economia, di quello delle corporazioni e del principale istituto bancario del capoluogo), è stata preziosa per le riflessioni che permette di realizzare rispetto al ruolo avuto dal Pnf in provincia e, specialmente, alle dinamiche politiche che si innescano nei rapporti che il partito instaura con le altre autorità, a cominciare da quella prefettizia. Proprio con riferimento ai prefetti, si è potuto osservare che sui nove che si succedono in provincia di Terni nel periodo considerato, ben sei provengono dal Pnf. Tale fatto non sottende necessariamente un'automatica collaborazione con la federazione fascista, quanto piuttosto sembra rispondere all'esigenza del centro di superare i contrasti esistenti tra la federazione fascista e la prefettura che, invece, è situazione ricorrente in provincia. Nel contempo, il succedersi di dodici federali alla guida del partito è prova di una significativa instabilità, dato peraltro ulteriormente confermato dalla netta prevalenza di personalità estranee all'ambiente locale, ben nove. Questo fatto non esprime solo una certa debolezza del fascismo locale, incapace di fornire un ceto dirigente adeguato, ma dimostra la stessa evoluzione che subisce la figura del segretario federale, nei termini di una spiccata professionalizzazione inquadrabile nel più generale contesto di crescente burocratizzazione del Pnf funzionale a consolidarne il ruolo di mediazione e di intervento nell'amministrazione dello Stato, che si rivela uno dei tratti tipici del Pnf staraciano. In questo senso, le guerre che si scatenano tra prefetto e federale nel corso degli anni trenta, ad esempio per la questione delle nomine dei podestà, in cui ruolo determinante lo acquista ancora una volta l'arma dell'esposto e della lettera anonima, attestano il tentativo portato avanti dal partito di far sentire il proprio peso al fine se non di sovrapporsi, quanto meno di affiancare lo Stato in periferia. Affiora così quella di5 mensione policratica che si configura come uno degli elementi caratterizzanti la politica in periferia negli anni del regime. Nonostante i contrasti che si scatenano tra i poteri, le lotte intestine all'interno del Pnf, la cronica debolezza dimostrata dai ceti dirigenti, la federazione provinciale fascista nel corso degli anni trenta riesce comunque a essere vitale e in grado di esercitare il proprio ruolo ai fini della fascistizzazione della società locale. D'altra parte, ai vertici del partito se si escludono i federali e i loro più stretti collaboratori, le restanti cariche continuano a essere gestite in larga parte dal medesimo nucleo originario fascista, fatto di appartenenti al ceto agrario e alla borghesia delle professioni provenienti, per la maggior parte, dall'area ternana. Ciò attesta lo scarso ricambio generazionale esistente all'interno della federazione, ma anche il peso politico ed economico ricoperto dal capoluogo rispetto all'intera provincia. Questi dirigenti fanno parte dei diversi Direttori federali che si succedono e, talvolta, ricoprono contemporaneamente, laddove la legislazione lo consente, incarichi in organismi quali il Consiglio provinciale dell'economia o, anche, alla guida della principale banca locale. Ai vertici del partito il peso degli appartenenti a settori della piccola borghesia e del ceto operaio è invece minore. Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, si fanno strada figure espressione del ceto impiegatizio, ma anche tecnici e qualche sindacalista con alle spalle una carriera nell'apparato burocratico della federazione provinciale, i quali assumono incarichi di un certo peso, come quello di segretario amministrativo o di componente del Direttorio. In questo modo sembra prefigurarsi, sebbene in maniera timida e non paragonabile a quanto accade in altre province, l'affermazione «dal basso e dalle periferie [di] una nuova classe dirigente del regime totalitario»2. Nel corso degli anni trenta dunque, sebbene tra molteplici difficoltà di natura anche economica, il Pnf riesce a dare vita in provincia a una struttura organizzativa in grado di penetrare e inquadrare la società locale. Peraltro, l'afflusso costante di contributi concessi da enti pubblici diversi (amministrazioni provinciali, comunali, Consiglio provinciale dell'economia) e soggetti privati (la Società "Terni" in primo luogo, ma anche altre aziende) a un partito alla continua ricerca di risorse, che la documentazione amministrativa della federazione ternana ha permesso di verificare, rappresenta testimonianza esemplare degli sforzi profusi dal regime per rendere il Pnf un volano di sviluppo del peculiare welfare funzionale alla fascistizzazione della società locale. In questa prospettiva, il rapporto con la Società "Terni" si è rivelato una chiave di lettura che non è possibile trascurare se si vuole comprendere la natura dell'esperienza fascista in provincia di Terni. Si è visto che la stessa nascita della nuova Provincia è connessa alla questione del controllo delle acque del sistema Nera-Velino, presupposto essenziale per la creazione dell'impresa polisettoriale; così come la stipula della convenzione tra il Comune di Terni e la società guidata da Bocciardo, sanziona di fatto in maniera prepotente la forza non solo della grande azienda, ma l'affermazione dello stesso "centro" sulla "periferia". Da quel momento e anche dopo l'inserimento della "Terni" nel sistema delle partecipazioni statali attra- 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 6 verso l'Iri, operazione che garantì allo Stato il controllo pubblico sull'azienda e sul suo assetto produttivo, la grande impresa per il fascismo ma, più in generale, per la stessa società locale diventa emblematicamente una madre-matrigna. Essa viene percepita come un complesso capitalistico che invade la città e, con i suoi vertici, in grado di dialogare con il centro e, anche, direttamente con il duce, si pone rispetto al Pnf locale in una situazione super partes. Non è così casuale che i federali presentino come risultato della loro azione politica i buoni rapporti che riescono a intrattenere con i vertici aziendali, i quali peraltro si dimostrano costantemente impermeabili all'influenza della federazione fascista. D'altra parte, a partire dalla stipula della convenzione del 1927 e per tutto il decennio successivo la "Terni", insieme al partito, appare senza alcun dubbio uno dei pilastri del regime in provincia. Non soltanto sostiene la federazione provinciale con contributi costanti, essenziali per assicurargli la possibilità di svolgere la propria azione sul territorio; ma, più in generale, con tutto il suo peso di grande gruppo polisettoriale sposa in pieno le politiche economiche, sindacali, sociali del regime, garantendo allo stesso le condizioni per affermare «un sistema di aggregazione/costruzione del consenso/controllo sociale e politico che si adegua al modello del regime reazionario di massa»3. In queste dinamiche si inserisce anche, per quanto è stato possibile accertare in relazione alle fonti disponibili, l'atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica locale nei riguardi del fascismo. L'analisi condotta con riferimento specifico alla diocesi di Terni-Narni e al vescovo Cesare Boccoleri che la guida nel Ventennio fascista, ha permesso di accertare che, come succede in altre diocesi italiane e coerentemente con le scelte fatte dai vertici vaticani, la Chiesa ternana sembra tenere una posizione di sostanziale appoggio al fascismo e di collaborazione con il Pnf. Ciò emerge in maniera evidente in alcuni momenti: ad esempio, in occasione delle campagne promosse dal regime sul terreno economico e sociale, come per la Battaglia del grano e, soprattutto, dopo la stipula del Concordato, o nel corso della guerra d'Etiopia e di Spagna. Al tempo stesso, anche quando si hanno tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa (per effetto della crisi del 1931 sulle prerogative dell'Azione cattolica o in occasione dell'introduzione delle leggi razziali), le conseguenze concrete per la Chiesa locale sono di scarso rilievo e, comunque, tali da non incidere sostanzialmente sulla natura dei rapporti esistenti con la federazione fascista. Anche la Chiesa locale quindi, sebbene con l'obiettivo di preservare e, per quanto possibile, incrementare la presenza cattolica nella società locale, contribuisce nella sostanza a consolidare e, anche, ampliare il consenso al regime. In particolare, essa si dimostra attiva nel favorire, specialmente nelle aree rurali, quell'azione di «modernizzazione politica» di natura reazionaria, conseguenza del tentativo di organizzazione della società italiana secondo criteri gerarchici e accentratori, che il fascismo è impegnato a portare avanti in periferia. Certamente, un ruolo essenziale ai fini della creazione e, soprattutto, del mantenimento del consenso lo esercita anche la costante opera di vigilanza e repressione di ogni forma di dissenso organizzato e di attività politica di opposizione, che si attua in provincia per opera degli apparati di sicurezza dello Stato fascista. Tale azione si rivela particolarmente efficace se negli anni del regime solo i comunisti, essenzial- 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 7 mente nell'area industriale ternana, riescono a mantenere in vita, per quanto a fatica e in misura ridotta, una forma di opposizione organizzata. E tuttavia, il fatto che continuamente le autorità, sebbene nell'ambito del riconoscimento di quanto fatto dalle diverse organizzazioni del partito a favore del ceto operaio, lamentassero l'inadeguato grado di "comprensione fascista", quando non la scarsa fascistizzazione dei lavoratori delle industrie ternane e la loro "pericolosità" politica, sembra essere la conferma implicita di come in provincia, non solo non scompare l'insofferenza e il dissenso, anche politicamente organizzato, ma, più in generale, sotto la camicia nera, a prescindere dalla propaganda e dall'attività delle differenti istituzioni del regime, non vengono meno nemmeno gli interessi molteplici che contrassegnano la società locale e le diverse realtà presenti sul territorio. In ultima analisi, il fascismo locale appare in grado di esercitare un ruolo attivo nel disegno di fascistizzazione della società, coerentemente con l'accelerazione nel processo di creazione dello Stato totalitario di cui è strumento il Pnf staraciano. Il partito si rivela dunque un vero e proprio centro di potere, espressione di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario, con cui, inevitabilmente, tutti i cittadini si trovano a confrontarsi per le necessità della vita quotidiana: in altre parole, a dover essere, almeno una volta nella vita, fascisti. ; This research project is an in-depth study, in a comprehensive and long-term perspective, of what Fascism represented at a local level in a peripheral and non-homogeneous context, as in the case of the Southern Umbria areas, established as an administrative province in 1927. This specific geographical district flagged-up all the prerequisites for an exemplary case study, featuring several significant explanatory points. To this unique large provincial administrative industrial hub located within the Terni basin, other districts, part of the same province, remained juxtaposed. Within their respective areas, these districts included towns such as Orvieto and Amelia, which had strong links with the neighbouring communities, representing the rural, agricultural and mezzadrile aspects of Umbria, land of Saint Francis of Assisi, rich in art and religious meanings, which the Fascist Regime came to proclaim officially as the "heart" of Fascist Italy. On the basis of these introductory remarks, the study focuses its scope of research on three main points, all but essential to understand fully the aspects and dynamics of the local society during the Fascist period, also referred to as the ventennio mussoliniano. An interpretative functional grid has been designed with a view to describe the role of the National Fascist Party (Nfp) within the centre-periphery and continuity-innovation relationships with the previous regime. The study seeks to investigate how Fascism exerted its influence on the establishment and process of strengthening of the local ruling ranks, attesting its ability to relate with the old dominant élites, or promote the emerging of new ones or, in addition, facilitate and support the coexistence of both. Furthermore, the research focuses on the role exerted by the Nfp at a local level, its capability to affect the various localised dynamics of power, to create and control networks of affiliates and, above all, to relate with the two main subjects which remained independent from its control, the important industrial group represented by "Terni" of Bocciardo and the local Catholic Church, with an overarching aim to achieve its totalitarian objectives. Finally, the question of popular consent has also been scrutinised. At one level, the study analyses the 2 role of fascist violence deployed to obtain power and the repressive actions carried out under the Regime, which were highly effective, as one might expect under a dictatorship. At another level, it investigates the popular dissent and the grey areas of passive acceptance and weak consent which were common among strata of the local population. Additionally, in a broader perspective, political and institutional historical analysis has been coupled with social and economic investigation, through a systematic scrutiny and cross-examination of the main sources, as a methodological approach needful to the achievement of the final outcomes of the research. Findings on the origins, development, and strengthening of Fascism within the Terni province appear to concur with the conclusions reached by previous historical research. In the Southern areas of Umbria, Fascism, at its highest level, was brought into power and successfully established by the traditional ruling classes. The establishment of Fascism was supported and facilitated by the agrarian reaction and the monopolistic industrial groups threatened by the discontent of the rural and working classes and the rapid advancement of Socialism. The political defeat of the traditional ruling élites at the 1919 general election and the 1920 local elections, which followed the social turmoil of the so-called red biennium; the agreement of the 1920 patto colonico, disadvantageous to landowners; the occupation of factories, though a brief and contradictory experience, against a background of economic difficulty, caused their reaction and prompted their acceptance and support for Fascism. Firstly, Fascism, in the form of Fascist action squads and their capability of defeating its opponents militarily, with the extensive assistance of the State security services, then as an electoral block and political force capable to achieve power, presented itself as a sort of union sacrée against the threat of Bolshevism into which various groups appear to converge: the agrarian conservatism but also industrial and more modern forces. Undoubtedly, Fascism drew together different political forces, which during the first decade of the twentieth-century had been mutually antagonistic, and segments of the complex and divided political establishment of the Giolitti era. The scrutiny of the highest levels of the local Nfp and civil servants has revealed that, at least till 1927, the main political figures belonged to those forces already part of the agrarian block. Firstly, the landowners, many of whom belonged to the local nobility, supported by members of the professional bourgeoisie, whose estates and wealth had augmented during the nineteenth- and twentieth-century, and other sectors which were the direct expression of the rural milieus, such as the rural agents, farmers, but also those peasants whom, during the first two decades of the twentieth-century, had succeeded in becoming landowners themselves. Therefore in the Terni province, from the establishment of the Fascist regime to the introduction of the office of podestà and, for some time even after, 3 the highest offices of the municipal and provincial administration were held by members of the local nobility, primarily aristocrats, landowners and professionals. This is an invariable characteristic which put the Terni province in alignment with similar situations in Tuscany, Emilia Romagna and other areas of Southern Italy. The administrative reform and the establishment of the podestà authority, together with the prerogatives of the prefectures in appointing members of the highest offices within the municipal administrations, did not radically change, at least during the early phases of the reform, established practice. A survey of the municipalities located within the Terni province, shows that the prefects in the selection process to appoint the podestà took greatly into account the candidates' social and economic status of and, without doubt, a honorific title and tenure of highly considered profession were often sufficient criteria for a candidate to be nominated even when lacking some of the prescribed requisites as outlined by the administrative reform. The Fascist regime therefore, in perpetuating a bureaucratic and grandees system, showed an intention to reassure the existing ruling élites and obtain the support of the local population. A prosopographical analysis of the biographical profiles of headmasters, members of the provincial advice bureaus, podestà, members of the municipal advisory councils, during the 1926-1943 period, has made it possible to outline a summary framework which strongly corroborates the analysis carried out at a national level by Luca Baldissarra over a decade ago.1 What has emerged from this analysis is the class-based character of the Fascist political and administrative representation during those years, though presenting various differences linked to the social and economic specificity of the area scrutinised. In more depth, the study carried out on a corpus of 147 civil servants (78 podestà and 69 prefectural officers) employed by the municipalities of the province during the examined period, made it possible to draw up a profile of the typical officer: between forty and fifty years of age; highly educated (having achieved a high-school or university degree); often a landowner, a characteristic consistent with the social and economic structure prevailing throughout the province, and among whom the status of self-employed (generally lawyer or public notary) represented the most frequent professional position held. Relations between the podestà and the Nfp appear to have been particularly close, over half of the sample identified is composed by individuals who had joined the Fascist Party at an early stage, during 1920-1922; additionally, the majority of the appointments made by the prefects were agreed in advance with the Provincial Fascist Federation. It would therefore appear that during the 1930s, in 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 large areas of the province, the highest hierarchies of grandees were the prominent figures holding local high office. The industrial area comprised within the administrative territories of the two municipalities of Terni and Narni, however, appears to contrast with other districts of the province. In this area, as for similar cases in other municipalities or other regional administrations, the Nfp supported the emergence of members of the small and medium local urban bourgeoisie, as the office of podestà became a vehicle of social advancement and an opportunity to climb up the local hierarchy of power. Despite the apparent pacification established forcibly by the Fascist regime, the dynamics of power within the local government remained characterised by extreme unrest and strong conflict at various levels. The sizeable number of prefectural commissioners and remunerated podestà who succeeded in office, often in rapid succession, bears witness to the instability which marred almost all the municipal administrations of Terni province. This is evidence of the obstacles encountered by the prefects during the selection process of a qualified managerial class but, above all, of the resistance put up by the traditional élites of power, motivated by divergent interests and loyalty to various networks of familial and personal relations, to the process of homologation pursued by the Fascist regime. Undoubtedly, the Fascist regime, in implementing a model of podestà based on competence, on the energetic ability to act, on its alignment to official directives, and in order to achieve a modernisation of the administrative system, aimed at placing the local authorities under the prescriptive control of a centralised State. The actual administrative actions implemented by the local administrative offices, frequently under the guidance and pressure of the Prefects, as for example in the case of the accomplishment of public works functional to the civil mobilisation of various segments of the local community, became a measure of their efficiency and, above all, a measurement of how industrious the local administrators should be. The high turn-over of podestà is a clear indication of how difficult it was for the Fascist regime to implement its plans of action in peripheral areas. Additionally, direct intervention by the Prefects was often necessary to put an end to rivalries and internal power struggles which frequently broke out among local élites. These clashes and their manifestations appear to be similar in their dynamics, as pointed out by previous studies, to other cases occurred in different municipalities, provinces and regions. Resorting to anonymous letters, official complaints, accusations, came to represent the instrument to attack and weaken the opposite factions at a local level, within the municipalities, but also within the provincial administration, among the various representatives of the local administration and even the highest offices of the Terni Fascist Federation. From 1927, following the establishment of the 5 Province and the set up of political and administrative authorities in Terni, now seat of local government, a new phase emerged for the local Fascist Party too. The study of this new province has facilitated the understanding of its relations with central authorities. The establishment of this new local administration was the result of various circumstances linked to the political requirements of the Fascist State following the transition to a totalitarian regime. Additionally, the internal conflict dynamics of the regional Fascist Party played an important role. These led to the inner pacification of the Party and the set up of a Nfp Provincial Federation. Finally, the establishment of "Terni" had a pivotal role too. "Società Terni" (also referred to as "La Terni") came to represent the real "strong power" of the province, capable of imposing a factory regimen based partially on paternalistic assistance and partially on a truck-system model. The Fascist regime dealt directly with "Terni", bypassing the newly-established Nfp Provincial Federation and, where necessary, intervened to impose its authority, as the political and personal vicissitudes of Elia Rossi Passavanti, the first Federal secretary and podestà of Terni, exemplified. In this perspective, drawing together personal and professional career paths of the highest officers (prefects and police commissioners), of both political (federals, deputy federals, administrative secretaries, members of the Fascist Federation Federal Bureau) and economic authorities (members of the Provincial Economic Council, members of the Provincial Corporations Council and of the main bank) has represented an invaluable study, conducive to the understanding of the Nfp's role within the province and, in addition, of the political dynamics at play among the Fascist Party and other authorities, such as the prefectures. With specific reference to the prefects, it is worth noticing that of the nine prefects in office in the Terni province during the period under scrutiny, as many as six were Nfp members. This situation, however, did not necessarily imply a spontaneous collaboration between the prefectures and the Fascist Federation, but it would appear to have been a response to the need of overcoming the conflictual antinomy between the two authorities, which was a recurrent event throughout the Terni province. In addition, the succession of twelve Federals as leaders of the Fascist Party bears witness to a pervasive instability, a fact which is also confirmed by the noticeable preference given to individuals, as many as nine, unconnected with the local milieu. This is certainly a clear manifestation of the local Fascist Party's weakness - which appeared unable to express and produce capable managerial ranks - and of the evolution of the Federal Secretary's role, becoming more and more a professional one, in the context of the remarkable bureaucratisation of the Nfp, aimed at strengthening its mediatory and interventional role on the local administration, one of the main characteristics of the Nfp 6 under the leadership of Starace. Within this framework, the contrast between the prefects and the Fascist Federal secretaries during the 1930s, with regard, as a case in point, to the appointments of the podestà, and the crucial utilisation of official complaints and anonymous letters, bears witness to the Party's attempt to impose its decisions or, at least, to influence the administration at a local level. This, in turn, resulted in a situation of polycracy, which was one of the factors denoting local politics during the Fascist regime. During the 1930s, despite deep rooted conflict among the authorities, the internal power struggles within the Nfp and the endemic ineptitudes of the ruling class, the Fascist Provincial Federation was successful in exerting and promoting the fascistisation of the local community. It is manifest that the highest authorities within the National Fascist Party, with the exception of the Federals and their closest advisors, remained the domain of the original Fascist core, composed by members of the rural class and the bourgeoisie originating primarily from the Terni area. This explains the inadequate generational change within the Fascist Federation and, in addition, the political and economic importance of the Terni area in comparison to the entire province. These political figures were part of the various Federal Bureau and, in some cases at the same time, if the law permitted, held additional offices in different institutional bodies, such as the Economic Provincial Council or were in charge of the main local bank. On the contrary, the influence exerted on the high levels of the National Fascist Party by the small bourgeoisie or by members of the working class remained negligible. It was only with the approach of the Second World War that members of the clerical class, but also technicians and a few tradeunionists already employed within the bureaucratic structure of the Provincial Federation, acquired an enhanced importance and gained access to higher office, such as administrative secretaries or members of the Federal Bureau. The Terni area too, though in a more limited way, which bears not comparison with other provinces, saw the rising «from the bottom and the periphery of a new ruling class within the totalitarian regime»2. During the 1930s therefore, despite various difficulties, including economic issues, the Nfp was successful in creating at a provincial level an organisational structure capable of influencing and organising the local community. Additionally, the regular flow of financial contributions bestowed by various public authorities (provincial administrations, municipalities, Provincial Economic Council) and private companies ("La Terni", first of all, but other businesses too) to a political party constantly seeking financial backing, as thoroughly documented by records of the Terni Fascist Federation, bears witness to the outstanding efforts the Regime made to 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 7 successfully present the Nfp as a conducive mean to the development of this specific welfare model, with a view to promote the fascistisation of the local community. In this perspective, the Nfp's relation with the "Società Terni" is key to understanding the nature of the Fascist Regime and its role within the Terni province. The establishment of a Province was connected to the control of the water-system of the two rivers Nera-Velino, essential to create an industrial hub; similar reasons were behind the agreement stipulated between the Terni municipality and the Bocciardo Company, which came to sanction resolutely the importance of the Company and, additionally, the supremacy of the "centre" over the "periphery". It was from this period and following the inclusion of "Società Terni" within the system of state-controlled industries through the Institute for Industrial Reconstruction, a transaction which secured State control over the Company and its productive branches, that "La Terni" became firmly linked to Fascism and, more in general, to the local community, though in a controversial and ambivalent mutual relation. The Company was perceived as a capitalistic enterprise which took over the city, its directors being able to negotiate with the central Government directly and with the Duce himself, taking a super partes position in relation to the local Nfp. It was not a fortuitous occurrence that the Federal secretaries gauged their political influence against the effectiveness and strength of the relations they were able to maintain with the executive directors of "Società Terni", whom, on their part, appeared to be impenetrable to any influence exerted by the local Fascist Federation. Additionally, following the 1927 agreement and during the ensuing decade, "La Terni", in conjunction with the Fascist Party, appeared to become, without doubt, one of the main pillars of the province. At one level, it supported the Fascist Provincial Federation through a constant flow of financial contributions, vital to bankroll the Federation's activities within the province; but, at a more general level, asserting its influence as a large industrial group, it was capable of shaping the economic, trade-union and social policies of the Fascist regime, creating those conditions to establish «a system of aggregation/disaggregation of the social and political consensus/control conforming to the mass reactionary regime model»3. Within this dynamic interactions, and on the basis of documents available, the local Catholic Church played a significant role in relation to the Fascist Party. With reference to the specific case of the Terni-Narni dioceses and bishop Cesare Boccoleri, the Church's main leader during the Fascist ventennio, this research has showed that, as in the case of other Italian 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 8 dioceses and in alignment with the decisions taken by the Vatican, the Church authorities in Terni supported the Fascist apparatus and adhered to a policy of collaboration with the Nfp. This was particularly manifest on specific occasions: for example during the economic and social campaigns promoted by the Regime, as a case in point the so-called "Battle of the wheat" and, above all, following the 1929 Concordat with the Catholic Church, or during the Ethiopian and Spanish conflicts. At the same time, even when tensions arose and marred the relations between the Fascist regime and the Catholic Church (following the 1931 crisis caused by the limitations imposed on the prerogatives of Azione Cattolica or the adoption of the 1938 racial laws), the consequences for the local Church were negligible and did not appear to affect the on-going relations with the local Fascist Federation. The local Church therefore in pursuing the aim of preserving and, wherever possible, augmenting the Church's influence on the local community, contributed to reinforce and widen consensus for the Fascist regime. More specifically, the Church's actions were particularly effective in encouraging, especially in rural areas, that precise process of "political modernisation", though reactionary at its core, based on organising the entire Italian society on hierarchical and centralising criteria, which Fascism was promoting particularly at a local level. Additionally, and without doubt, the important function to create and, above all, to maintain a high level of consensus was exerted by the pervasive surveillance and repression of any form of dissent and political opposition, enforced within the province by the Fascist security services. A repressive action which was extremely effective and, during the dictatorship, only the Communist Party, despite being hemmed in to the Terni industrial area, was able to maintain, albeit with great difficulty and in a limited way, a form of organised resistance. The fact that the Fascist authorities continuously, though recognising what had been achieved by the Party's multifarious organisations to favour and support the working classes, lamented the feeble "fascistisation" of the Terni industrial workforce and their being "politically dangerous", would appear to confirm implicitly that throughout the province the opposition and political dissent had not completely ceased. More in general, under the "black shirts", despite the propaganda and the activities of various Fascist authorities and institutions, it remained evident that the diversified interests which characterised the local society and the different realities rooted at local level persisted. Ultimately, the local Fascist Party appeared capable of exerting an active role in the "fascistisation" process of society, in alignment with the creation and implementation of a totalitarian state, being the main objective of the National Fascist Party under the leadership of Starace. The Nfp was therefore a real centre of power, expression of an authoritarian 9 regime leaning toward totalitarianism. A regime against which all citizens had to relate for their everyday life needs: that is to say, all citizens had to act, at least outwardly, as fascists.