La partecipazione italiana all'intervento in Afghanistan va giudicata nel quadro degli obiettivi che il paese ha nel suo posizionamento internazionale e, più specificamente, nel contesto euro-atlantico. Prendere parte ad una missione così impegnativa non ha risposto né a interessi strategici immediati né a problemi di sicurezza nazionale. Le ragioni dell'impegno italiano vanno invece cercate nel combinato di considerazioni di prestigio internazionale e politica delle alleanze
La Nato è un caso eccezionale nella storia delle relazioni internazionali. È un'alleanza straor-dinariamente longeva. È un'alleanza eccezio-nalmente istituzionalizzata. Ed è una delle pochissime alleanze nella storia che è sopravvissuta alla sua vittoria sull'avversario. Non solo, la Nato ha paradossalmente mostrato più attivismo e vitalità proprio nel periodo successivo alla scomparsa dell'Unione Sovietica, che per quarant'anni è stata la sua ragione strategica fon-damentale. Tuttavia non è chiaro se e quanto la longe-vità, il solido processo di istituzionalizzazione e un rinnovato attivismo rendano ancora oggi la Nato uno strumento efficace.
Negli ultimi vent'anni la Nato è vissuta e sopravvissuta grazie alle crisi internazionali. Non potrebbe essere altrimenti, non esistono alleanze militari nella storia che vogliano essere credibili ed efficaci ma che siano prive di una minaccia da affrontare. Ha ragione dunque l'Economist a sostenere che la crisi in Ucraina è – oltre che una minaccia – un'opportunità per la Nato, un'opportunità per riconfermare il suo ruolo, la sua efficacia e la sua indispensabilità (soprattutto per i paesi europei).
Il presente lavoro di ricerca si propone di analizzare lo stato attuale delle relazioni tra l'Unione europea e la NATO perseguendo un duplice obiettivo: da un lato, l'analisi dei progressi compiuti negli ultimi anni in termini di meccanismi ed ambiti di cooperazione tra le due organizzazioni e dall'altro lo svisceramento delle problematiche ed i nodi politici irrisolti che ne ostacolano un'efficace attuazione. L'analisi non prescinde dai mutamenti che lo scenario internazionale, nonché le organizzazioni stesse, ha subito soprattutto durante la fase successiva alla guerra fredda, fase in cui la natura sostanziale della NATO ha dovuto necessariamente tramutarsi sulla base di contingenze che imponevano una rivalutazione della sua logica di difesa. Ed è inevitabile approfondire il corollario di tali meccanismi evolutivi che si traduce in una diversa e più concreta cooperazione tra l'Ue e la NATO.
La tesi si concentra sulla presenza italiana nella NATO nel primo quarantennio di vita dell'organizzazione, cioè dalla sua fondazione (4 aprile 1949) alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) con il successivo collasso dell'URSS e del blocco comunista. La tesi è divisa in 3 capitoli, preceduti da una breve introduzione: il capitolo 1 è dedicato alla scelta atlantica, scelta che in quegli anni non era totalmente scontata per la presenza in Italia di un blocco di Sinistra (socialisti e comunisti) che era numericamente di poco inferiore al blocco di orientamento filo-occidentale. Inoltre, il blocco di orientamento filo-occidentale, era tutt'altro che monolitico al proprio interno, visto che i filo-atlantici autentici erano complessivamente pochi, mentre abbondavano quelli per necessità ed i dubbiosi, come la Sinistra Democristiana, fino addirittura ai neutralisti. Il capitolo 2 è dedicato alla politica estera svolta dall'Italia in riferimento all'allineamento alle direttive atlantiche, mentre il capitolo 3 è invece dedicato alla politica militare svolta dall'Italia in ambito NATO e quindi l'acccettazione, volente o nolente, di un ruolo di Stato-satellite nei confronti degli USA quale Stato egemone ed in secundis della NATO.
L'intervento della NATO in Kosovo ha riproposto il problema della regolamentazione dell'uso della forza nelle relazioni internazionali, che è centrale nel sistema di diritto internazionale consacrato dai Trattati di Miinster e Osnabriick del 1648. L'idea stessa del diritto internazionale nasce da questa fondamentale esigenza. In questa fine secolo, l'ampliamento semantico del concetto di "pace internazionale" e l'enfasi posta sugli altri valori già solennemente proclamati al preambolo della Carta delle Nazioni Unite - in primis, il rispetto dei diritti dell'uomo - hanno portato al ricorso progressivo alla forza per fini definiti umanitari. Si è così assistito alla reviviscenza della teoria ottocentesca degli interventi di umanità, da tempo abbandonata e deplorata, anche per la sua scarsa credibilità, dalla dottrina maggioritaria. Pertanto, delle numerose questioni giuridiche che gli eventi della primavera del 1999 hanno sollevato, viene qui affrontata la problematica della liceità degli interventi umanitari.Le pagine che seguono rappresentano la prima parte di un lavoro che propone una lettura dell'azione militare della NATO, come eventuale "intervento umanitario", nel quadro dell'evoluzione del sistema di diritto internazionale. L'articolo ripercorre le origini antiche della crisi del Kosovo e delle relazioni interetniche del contesto balcanico, avvelenate dalle ideologie nazionaliste di matrice romantica che hanno profondamente attecchito nei programmi politici slavi dell'ottocento. Proprio i residui di tali ideologie sembrano all'origine del più grave conflitto europeo dalla seconda guerra mondiale, la cui prima scintilla è scoccata in un'insurrezione albanese a Pristina. Nell'esaminare il conflitto in Kosovo, esacerbatosi dopo gli accordi di Dayton, particolare attenzione è posta all'atteggiamento della comunità internazionale. L'autore illustra come tutto il processo decisionale culminato con l'Activation Order dei merribri dell'Alleanza Atlantica, si sia articolato al di fuori delle istituzioni ...
Traduzione dall'arabo di un breve racconto di Emil Habibi, che l'autore scrisse sia in arabo che in ebraico per un numero speciale della rivista Politika (aprile 1988).
Le Forze Armate dei Paesi membri dell'Alleanza atlantica annoverano tra i loro ranghi, sebbene sovente con limitazioni di specialità o di categoria, personale femminile la cui integrazione, in un ambito lavorativo storicamente dominato da cultura e dinamiche mono-genere, è oggetto di questo studio. Dopo oltre un decennio dall'apertura all'arruolamento femminile da parte delle ultime Forze Armate che erano ancora caratterizzate dalla presenza esclusivamente maschile, si ritiene che le fasi della resistenza al cambiamento e della conseguente conflittualità tra generi siano oramai superate e si debba rivolgere l'attenzione verso i fattori che possono ostacolare od agevolare un'equilibrata integrazione di genere. Si è inteso dunque analizzare le politiche di genere che, poste in essere dalla NATO come Organizzazione sovranazionale, si riverberano su quelle attuate dalla NATO come alleanza di nazioni sovrane che, seppur indipendenti nella scelta della tipologia di Forze Armate da perseguire, devono adeguarsi ai requirement internazionali. Questa scelta è però condizionata dalle esigenze operative conseguenti dagli impegni assunti dall'Alleanza che, nel corso della propria storia ultra sessantennale, si è trasformata da mero strumento di difesa militare comune ad attore che affronta la globalità delle tematiche inerenti la sicurezza sul proscenio internazionale. Difatti, la fondazione della NATO prese le mosse dalla necessità dei Paesi europei di bilanciare lo strapotere numerico delle Forze Armate sovietiche che incutevano la paura di un'incombente invasione dei territori occidentali. Tale minaccia poteva essere scongiurata solo facendo ricorso ad un patto di mutuo soccorso con l'altra superpotenza all'epoca presente sullo scacchiere geostrategico mondiale – gli Stati Uniti d'America – e creando un'Organizzazione per la difesa comune. Le modalità con cui questo scopo è stato perseguito hanno conosciuto varie fasi di trasformazione, testimoniate dai diversi Concetti Strategici che sono oggetto – nel primo capitolo della ricerca – di un'analisi storico-politica.Il ricorso ad un approccio semantico e filologico nello studio dei prefati documenti, è significativo della multidisciplinarità cui si ispira questa ricerca che spazia dalla geopolitica alla geostrategia, dalla storia alla sociologia, attraverso l'analisi di documenti e la raccolta – di stampo giornalistico – di opinioni e testimonianze. Nel corso dei decenni, le Forze Armate che individuavano nelle armi nucleari e nella costante deterrenza il fattore di equilibrio per evitare che la Terza Guerra Mondiale abbandonasse il suo aggettivo di Fredda e fosse combattuta sui campi di battaglia, si trasformarono in strumenti più flessibili capaci di fornire peso alle risposte politico-diplomatiche per la risoluzione delle crisi. Questa nuova e necessaria flessibilità operativa ha richiesto anche all'interno degli strumenti militari una dimensione che non fosse esclusivamente votata al combattimento ma anche rivolta ad altre aree di conoscenza professionale che prefiguravano l'impiego di nuove professionalità. In tal senso le donne in uniforme hanno cominciato a ritagliarsi uno spazio sempre crescente nell'ambito delle Organizzazioni militari, affrancandosi dai ruoli esclusivamente di supporto in cui erano state relegate per anni anche perché quegli stessi ruoli cominciavano ad assumere un'importanza fino all'epoca sconosciuta. Questo processo è stato naturalmente reso possibile da differenti concause anche non direttamente afferenti al settore di studio come, ad esempio, l'emancipazione sociale raggiunta dalle donne in alcune nazioni che ha tracciato la strada per consentire l'impiego femminile in svariati contesti lavorativi. Con la fine della contrapposizione dei blocchi Est-Ovest a causa dell'implosione del sistema politico economico sovietico, sembrava essere giunto il momento di scrivere l'epitaffio dell'Alleanza che, come una società disciolta per conseguimento dell'oggetto sociale, non doveva più garantire la sicurezza comune che rappresentava l'essenza della propria esistenza. Il corso della Storia ha però voluto che proprio il termine della Guerra Fredda, ed il conseguente passaggio ad un mondo unipolare dominato dall'egemonia statunitense, delineasse nuovi scenari in cui la NATO si sarebbe rivelata non solo utile ma addirittura indispensabile. Infatti, lo smembramento e la trasformazione degli apparati militari –in quella parte di globo fino allora controllata dall'Unione Sovietica – provocò un aumento dell'instabilità e la moltiplicazione delle possibili minacce. Lo scongelamento delle relazioni internazionali con molti dei Paesi prima gravitanti nell'orbita sovietica, e la contemporanea diminuzione del potere politico della Russia rispetto a quello della disciolta Unione, consentì un interventismo fino allora impedito dal precario equilibrio bipolare. La risposta fornita da altre Organizzazioni Internazionali – quale l'intervento delle Nazioni Unite in Somalia – si rivelò inadeguata e la NATO, unica ad avere uno strumento militare integrato, assunse il ruolo di appaltatore monopolista della sicurezza globale attraverso le Crisis Response Operations che cominciarono con l'intervento in Bosnia Herzegovina. Nell'ambito del secondo capitolo si analizzano quei fattori che hanno concorso a delineare uno scenario favorevole all'integrazione femminile nelle Forze Armate. Nel corso degli anni la complessità delle Operazioni condotte dalla NATO – avvalendosi di solito di un mandato delle Nazioni Unite o appellandosi al principio d'ingerenza umanitaria – è andata crescendo in maniera esponenziale fino a raggiungere il suo picco con l'intervento militare in Afghanistan; grazie alle mutate esigenze operative le donne divenivano un fattore indispensabile per la riuscita delle Operazioni ed il loro ruolo era internazionalmente accreditato dall'adozione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite 1325. Per la prima volta, infatti, le donne non erano solo oggetto passivo di protezione ma erano chiamate ad assumere un ruolo attivo nei processi di ricostruzione sociale nelle zone di intervento delle Organizzazioni Internazionali.La Risoluzione auspicava un numero crescente di donne coinvolte nelle fasi di ricostruzione – tra queste erano comprese le donne in uniforme che agivano sotto l'egida della NATO – in grado di imprimere un concreto gender mainstreaming alle stesse. Le relazioni per niente idilliache tra ONU e NATO che erano andate avanti per decenni tra la diffidenza reciproca, si rasserenarono per necessità o per virtù fino a far divenire l'Alleanza uno degli Organismi più attivi nell'implementazione del disposto della Risoluzione 1325. Le donne militari traggono dunque vantaggio da un momento storico particolarmente favorevole alla loro integrazione e che discende da fattori contingenti di natura sociale, politica, militare ed economica stratificatisi nel corso degli anni. Lo status quo dell'integrazione, descritto nel terzo capitolo, evidenzia le variegate realtà delle Forze Armate dell'Alleanza che si diversificano a seconda dell'incidenza dei suddetti fattori, fino a delineare quattro tipologie di leadership con riferimento alle politiche di genere. Nel corso della ricerca, specificatamente nel corso del quarto capitolo, si sono altresì individuati quegli aspetti che rappresentano, di contro, un freno al processo integrativo e che sono stati individuati nelle manchevoli politiche necessarie a garantire, in primo luogo, una sufficiente presenza e, in seguito, un ruolo adeguato delle donne nelle Forze Armate. Le politiche di recruitment e retention applicate dalla maggior parte dei Paesi membri sono sovente tese alla pedissequa applicazione della normativa generica e non all'adattamento della stessa alla particolarità della professione militare. Inoltre, proprio ciò che abbiamo indicato con il termine "militarità" si configura come fattore che limita l'attrattiva della professione a causa della prerogativa di totale abnegazione – in termini di mobilità, sacrifici personali e famigliari – richiesta a chi indossa l'uniforme. Tale specificità è stata suffragata dai dati concernenti la presenza di personale civile femminile nei dicasteri della Difesa nazionali e nella stessa NATO.Nonostante i notevoli progressi compiuti dalle Forze Armate nell'inclusione femminile, l'ancora insufficiente percentuale di donne ed il loro impiego secondo politiche che non ne favoriscono la progressione di carriera, impedisce il formarsi di una leadership femminile che possa apportare nuove e differenti dinamiche all'interno degli apparati militari. Le donne militari si ritrovano invece a subire un inevitabile processo di omologazione, con un conseguente principio di mascolinizzazione di genere che non permette il raggiungimento di un'integrazione che, per essere soddisfacente, presuppone cifre professionali e comportamentali proprie e specifiche. La mera presenza femminile ed il replicare senza innovare una professione che è da sempre ad appannaggio maschile, con la conseguenza di ottenere risultati spesso considerati inferiori, non sottendono ad un'integrazione di successo. Tali considerazioni sono state corroborate anche dai risultati dell'indagine sociologica – condotta su un campione di cinquecento militari uomini e donne e di omologhi colleghi civili – dai quali emerge che l'assenza di riferimenti omogenere e la limitata applicazione dei fattori agevolanti non favoriscono il processo di integrazione delle donne in uniforme. La situazione presenta dunque una duplice connotazione: da un lato il processo di integrazione è oramai al suo stadio finale giacché l'accesso alla professione e l'accettazione verso la componente femminile hanno raggiunto valori soddisfacenti, dall'altro vi è la necessità di completare il processo attraverso azioni che si sviluppino lungo quattro direttrici. Impedire la mascolinizzazione di genere, garantire pari dignità d'impiego, costruire una cultura della professione, adottare politiche agevolanti, sono i pilastri per raggiungere un'integrazione piena e completa. Il lungo processo storico che ha portato all'attuale situazione – che rappresenta un'eccezionale congiuntura di fattori favorevoli – potrebbe nei prossimi anni essere sprecato qualora le autorità politiche e militari non dovessero compiere l'ultimo e decisivo passo verso la definizione di un ruolo delle donne in uniforme che sia consono alle professionalità espresse ed ai sacrifici compiuti.
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica,istituzioni (XIX-XX secolo) ; Questa ricerca ha come oggetto lo studio della repressione dell'omosessualità nei primi decenni dell'Italia repubblicana, e individua come arco cronologico di riferimento gli anni dal 1952 al 1983, ossia quelli che vanno dall'ultima fase dei governi De Gasperi fino all'avvento del Pentapartito di Giovanni Spadolini. Una vicenda, dai risvolti internazionali, che nella sola Italia ha prodotto, tra il 1952 e il 1972, in una stima per difetto, circa 20.000 schedature di omosessuali. La periodizzazione, prima ancora che agli eventi della politica italiana, è da relazionare con tutta una serie di scelte strategiche operate dai governi di quegli anni, sia in merito agli aspetti della sicurezza a livello internazionale, insite nella più ampia vicenda della Guerra Fredda, sia per quanto riguarda il controllo dell'ordine pubblico che della morale, quest'ultima ritenuta un problema per la sicurezza dello Stato. Tutelare la morale pubblica voleva dire, tutelare le alleanze nate dal Patto Atlantico; ma, la vicenda aveva riscontri istituzionali più ampi, nei quali la Nato viene solo a inserirsi. Infatti, l'intervento di quest'ultima nella gestione della vicenda riguarda solo la fase finale, tra le più intense, di un fenomeno di lungo periodo, che affonda le sue radici nella fine dell'Ottocento, permeando tutto il XX secolo fino ai giorni nostri, attraverso dinamiche politiche di carattere internazionale che coinvolgono, oltre la Nato, organismi come la Società delle Nazioni, l'Onu e l'Interpol: un progetto che finisce per ricoprire, nell'Europa tra le due guerre, un ruolo nelle logiche totalitarie e repressive del Novecento. all'interno di questa vicenda, il dibattito sulla morale pubblica ha quindi avuto non solo un suo ruolo funzionale allo sviluppo delle identità nazionali, ma è anche stato in stretto rapporto con attività istituzionali dello Stato, e la questione dell'omosessualità è parte integrante di questo percorso in quanto parte, per le Nazioni Unite, e prima di essa, per la Società delle Nazioni, di un discorso più ampio sulla repressione della prostituzione, che si trasformerà ben presto in un progetto di repressione dei comportamenti sociali; mentre per la Nato il problema si poneva essenzialmente per la tutela dei dati riservati, in ambito lavorativo, da attività di spionaggio che potessero attentare alla sicurezza dello Stato. Uno dei nodi della ricerca è la constatazione che il dibattito su temi non caratterizzati politicamente, quali ad esempio il dibattito scientifico, o il dibattito culturale su temi etici o sociali, abbia contribuito alla costituzione, nel corso del Novecento, non solo delle identità nazionali, ma sia stato colonna portante dello sviluppo dei sistemi legislativo, esecutivo e giudiziario all'interno dei singoli stati, in una rete di relazioni di carattere internazionale che, col pretesto della tutela delle donne e dei minori, aveva come obiettivo il controllo della morale pubblica e un progetto di controllo sociale ben definito, che nasce ai primi del Novecento e matura attraverso accordi di carattere internazionale, in seno alla Società delle Nazioni, per essere poi ripreso dalle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra e condotto a compimento, dopo un breve intermezzo di gestione Nato, alla fine degli anni Cinquanta, e proseguendo, tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta del XX secolo, fino alla denuncia delle convenzioni da parte degli stessi Paesi che le avevano firmate. Nel primo capitolo si affronta la struttura di questa ricerca nel suo complesso, insieme agli aspetti teorici della questione e a una panoramica sulla situazione degli studi a livello nazionale e internazionale, sulle fonti utilizzate e sugli obiettivi della ricerca. Nel secondo capitolo si entra invece negli aspetti generali del fenomeno, affrontando il dibattito culturale, scientifico e politico-giuridico, prima nelle sue caratteristiche internazionali, poi concentrando l'attenzione sugli aspetti più vicini al fenomeno italiano e ai dati quantitativi. Nel terzo capitolo si passa quindi, dopo una breve riflessione sulle modalità operative della repressione, ad una analisi testuale dei casi pubblicati sulla stampa, e delle disposizioni impartite a livello istituzionale e delle attività operative delle forze di polizia. Infine, nel quarto capitolo, si affronta il caso francese, analizzando i paralleli con quello italiano. Al termine del lavoro, le conclusioni finiscono quasi per essere un capitolo a sé stante, e raccolgono quanto, per la vastità del tema, e per gli spunti e i nuovi filoni sorti nel corso del lavoro, non è stato possibile approfondire nel corso di questa ricerca: il ruolo dell'Italia nell'ambito dell'Alleanza Atlantica durante l'installazione delle basi Nato; e l'interazione, tra Stati Uniti e Paesi occidentali, relativamente al cambio di politiche e strategie internazionali; ma anche, ritornando alle convenzioni Onu e Sdn, le responsabilità delle democrazie occidentali relativamente agli strumenti di prevenzione e repressione di carattere internazionale, attuate attraverso l'Interpol. E ancora, il ruolo della chiesa cattolica nella lotta alla prostituzione, e il ruolo dei servizi informativi nella gestione degli scandali sessuali, sia per le operazioni di ordine pubblico, che per la loro interazione coi mezzi di comunicazione di massa; come pure, passando ai giorni nostri, l'attualità delle procedure di pubblica sicurezza adottate in tale vicenda, procedure che sembrano a tutt'oggi godere di credito nella gestione dell'ordine pubblico. Le ultime considerazioni sono infine dedicate ad alcune riflessioni sugli studi di genere e sul loro rapporto con la politica statale, concludendo con alcune riflessioni sull'uso e l'interpretazione delle fonti archivistiche ai fini della ricerca storica.
Questo lavoro ha lo scopo di approfondire l'allargamento della NATO del 1999 che vide come protagonisti la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria. Una particolare attenzione è stata prestata all'opinione francese, analizzata attraverso rapporti di informazione richiesti dall'Assemblea Nazionale e dal Senato, discorsi e interviste di politici illustri dell'epoca, ma soprattutto articoli di tre importanti giornali francesi: "Le Monde diplomatique", mensile di politica internazionale orientato a sinistra, i quotidiani "Les Echos", principale giornale finanziario del Paese, e "La Croix", di stampo cattolico. Alcuni di questi documenti provengono da una ricerca effettuata presso la Biblioteca parigina "François Mitterrand". Ogni allargamento ha una storia e un iter specifici alla base, ma l'adesione di questi tre Paesi si svolge in un contesto del tutto peculiare, derivante dalla fine della guerra fredda e dal crollo dell'Unione Sovietica, il nemico storico dell'organizzazione transatlantica. Il primo capitolo delinea, quindi, le origini della North Atlantic Treaty Organization e il suo passaggio dalla fine della guerra fredda al "nuovo ordine mondiale" come lo definì George H. W. Bush, durante il quale iniziò il percorso di avvicinamento dei Paesi dell'ex blocco comunista alla NATO. A tale percorso venne dato il via al Vertice dei Capi di Stato e di Governo di Roma nel 1991 con la creazione del Consiglio di Cooperazione Nord Atlantico, divenuto Consiglio del Partenariato Euro-Atlantico nel 1997. Infine, si approfondisce la particolare posizione ricoperta dalla Francia dal 1949 al 1995, anno in cui, pur non rientrandovi, si riavvicinò al comando integrato militare dal quale era uscita nel 1966 con de Gaulle. Il secondo capitolo esamina, in primo luogo, la progressiva integrazione dei Paesi dell'Europa Centrale e Orientale nelle istituzioni occidentali tracciando un focus economico e politico, prima in generale dell'ex blocco comunista, poi con una specifica parte dedicata ai Paesi che aderirono alla NATO nel 1999. Il percorso, avviato a Roma, prosegue nel 1994 quando fu lanciato il Partenariato per la Pace, all'interno del quale fu avviato un vasto programma di dialogo e cooperazione. La pressione dei PECO nel voler aderire alla NATO convinse i sedici Paesi Membri a richiedere e, in seguito, ad adottare lo "Studio sull'allargamento", un'analisi sui fattori da tenere in considerazione prima di invitare nuovi membri. In primis, necessario era il contribuito che ogni nuovo Stato Membro avrebbe dovuto apportare alla sicurezza della regione transatlantica, principio contenuto nell'articolo X del Trattato istitutivo della NATO, la base normativa che permette le nuove adesioni. Infine, si esaminano gli ostacoli posti inizialmente sulla via dell'allargamento, soprattutto quelli che preoccuparono Parigi, primo fra tutti la risposta della Russia, che passò dall'avere una posizione nettamente contraria al tollerare in cambio di vantaggi e impegni da parte dell'Alleanza. Il terzo ed ultimo capitolo si sofferma sul Summit di Madrid del luglio 1997 che diede l'avvio ufficiale ai negoziati per l'adesione di Varsavia, Praga e Budapest, sul costo dell'allargamento sul quale negli anni precedenti molti avevano speculato, e sulla ratifica dei protocolli di adesione del Parlamento francese. Il capitolo si conclude con la cerimonia negli Stati Uniti dove i tre Paesi invitati depositarono gli strumenti di accesso al Trattato, come previsto dallo stesso, aderendo ufficialmente all'Alleanza, e il Summit di Washington dell'aprile 1999, cinquantesimo anniversario della nascita della NATO e prima partecipazione dei nuovi aderenti al tavolo degli Stati Membri.
The aim of this proposal is to explain the paradigm of the American foreign policy during the Johnson Administration, especially toward Europe, within the NATO framework, and toward URSS, in the context of the détente, just emerged during the decade of the sixties. During that period, after the passing of the J. F. Kennedy, President L. B. Johnson inherited a complex and very high-powered world politics, which wanted to get a new phase off the ground in the transatlantic relations and share the burden of the Cold war with a refractory Europe. Known as the grand design, it was a policy that needed the support of the allies and a clear purpose which appealed to the Europeans. At first, President Johnson detected in the problem of the nuclear sharing the good deal to make with the NATO allies. At the same time, he understood that the United States needed to reassert their leadeship within the new stage of relations with the Soviet Union. Soon, the "transatlantic bargain" became something not so easy to dealt with. The Federal Germany wanted to say a word in the nuclear affairs and, why not, put the finger on the trigger of the atlantic nuclear weapons. URSS, on the other hand, wanted to keep Germany down. The other allies did not want to share the onus of the defense of Europe, at most the responsability for the use of the weapons and, at least, to participate in the decision-making process. France, which wanted to detach herself from the policy of the United States and regained a world role, added difficulties to the manage of this course of action. Through the years of the Johnson's office, the divergences of the policies placed by his advisers to gain the goal put the American foreign policy in deep water. The withdrawal of France from the organization but not from the Alliance, give Washington a chance to carry out his goal. The development of a clear-cut disarm policy leaded the Johnson's administration to the core of the matter. The Non-proliferation Treaty signed in 1968, solved in a business-like fashion the problem with the allies. The question of nuclear sharing faded away with the acceptance of more deep consultative role in the nuclear affairs by the allies, the burden for the defense of Europe became more bearable through the offset agreement with the FRG and a new doctrine, the flexible response, put an end, at least formally, to the taboo of the nuclear age. The Johnson's grand design proved to be different from the Kennedy's one, but all things considered, it was more workable. The unpredictable result was a real détente with the Soviet Union, which, we can say, was a merit of President Johnson.
L'ascesa della Repubblica Popolare Cinese ha indotto gli Stati Uniti ad un ripensamento dei propri obiettivi e priorità strategiche, tra cui particolare rilievo ha assunto il riorientamento del baricentro della loro politica estera verso il quadrante Indo-pacifico. Nonostante alcuni Stati europei della Nato stiano iniziando a tributare maggior interesse alle dinamiche di sicurezza dell'area, le priorità strategiche dell'Alleanza Atlantica rimangono profondamente ancorate in Europa, lungo quel fianco est su cui si affaccia la Federazione Russa e quel fianco sud esposto all'ormai decennale instabilità degli Stati nord-africani. Il mutamento in corso, tuttavia, impone alla Nato di interrogarsi sul proprio futuro e sul dilemma strategico cui esso si trova intimamente legato: continuare ad essere un'alleanza con un raggio d'azione poco più che regionale oppure trasformarsi in un attore compiutamente globale che si confronta con il revisionismo cinese, ovvero con la grande sfida strategica del XXI secolo?