Since the 1980s the Pakistani society has been characterized by a rise of sectarian violence that has especially involved the Sunni and Shiite communities in the Punjab province. While there is a long history of communitarian and sectarian violence in South Asia before 1947, the contemporary phenomenon has significantly innovated the forms of violence. Sectarian clashes in the past were typically sporadic and localized, where the contemporary Sunni-Shi'a violence is based on a perception of religious identity as collective and homogeneous. Sunni and Shi'a conflicts in the Punjab are connected to the activity of sectarian organizations that combine requests for religious purification with socio-political themes. The essay analyzes the historical evolution of this phenomenon in connection with the larger economic and social change in the Punjab province from the 1970s onwards. ; La società pachistana è stata caratterizzata dagli anni ottanta del novecento da una violenza a carattere settario che ha coinvolto in special modo le comunità sunnita e sciita. Pur presentando elementi di continuità con i conflitti del passato, questo fenomeno ha innovato in modo rilevante le forme della violenza tipiche dell'Asia meridionale. I conflitti settari attuali non hanno le caratteristiche sporadiche e localizzate tipiche della violenza "tradizionale", ma si basano su una percezione dell'identità come collettiva e omogenea. Inoltre il fenomeno è collegato all'attività di organizzazioni che uniscono richieste di purificazione religiosa a temi di carattere socio-politico. Il saggio analizza le radici storiche e l'evoluzione di questo fenomeno ricollegandolo alla più generale trasformazione sociale ed economica della provincia del Punjab dagli anni settanta in poi.
Da circa settanta anni il Jammu e Kashmir è motivo di scontri fra India e Pakistan, i due paesi si contendono il controllo dello stato per ragioni di tipo religioso e politico. La stipula dell'atto di annessione del Jammu e Kashmir all'Unione Indiana è stato l'evento scatenante della prima guerra indopakistana che si è risolta grazie all'intervento delle Nazioni Unite. L'ONU ha raccomandato ai due paesi di indire un referendum per stabilire la volontà popolare kashmira riguardo al tema dell'annessione, tuttavia il plebiscito non è mai stato organizzato, le richieste di autodeterminazione kashmira non sono state ascoltate e l'annessione dello stato all'India non è stata revocata. Dal 1947 dunque il Jammu e Kashmir si trova sotto amministrazione indiana per volere del maharajah Hari Singh che firmò l'Instrument of Accession e parte della sua autonomia politica e legislativa è stata rimessa al governo indiano, che nel corso degli anni ha esteso progressivamente il proprio controllo sul paese. Questo ha inasprito i rapporti fra India e Pakistan, causando lo scoppio di altri tre conflitti, ed ha alimentato il malcontento della comunità musulmana in Jammu e Kashmir che è sfociato nel 1989 in un'insurrezione armata. Attualmente l'autonomia kashmira è stata ulteriormente limitata, continuano le proteste e le rivolte popolari contro il dominio indiano in favore del referendum e del diritto di autodeterminazione kashmiro e continuano gli scontri fra India e Pakistan.
Escrito en marzo de 2002, tras un viaje en Pakistán entre los refugiados afganos, este ensayo quiere documentar la labor realizada por las mujeres de RAWA (Revolutionary Association of Women in Afghanistan) y sus luchas en defensa de la laicidad, la libertad y la democracia. No es exactamente un diario de viaje. Más bien se trata de un recorrido de conocimiento que quiere establecer canales de comunicación y entendimiento en oposición a la retórica neocolonial de las bombas portadoras de civilización y el ataque a las libertades de las mujeres, que hoy ve aliados los fundamentalismos de diversos colores y matices. ; Escrito en marzo de 2002, tras un viaje en Pakistán entre los refugiados afganos, este ensayo quiere documentar la labor realizada por las mujeres de RAWA (Revolutionary Association of Women in Afghanistan) y sus luchas en defensa de la laicidad, la libertad y la democracia. No es exactamente un diario de viaje. Más bien se trata de un recorrido de conocimiento que quiere establecer canales de comunicación y entendimiento en oposición a la retórica neocolonial de las bombas portadoras de civilización y el ataque a las libertades de las mujeres, que hoy ve aliados los fundamentalismos de diversos colores y matices.
Il lavoro di ricerca ambisce a mettere in risalto le similitudini storico culturali tra il nazionalismo a stampo religioso dei musulmani d'India e il sionismo politico di Theodore Herzl. Il lavoro si compone di due parti, precedute da una introduzione e seguite da una conclusione. La prima parte, con taglio più culturale, analizza alcuni aspetti degni di nota per comprendere il processo culturale che ha portato alla formazione di una identità nazionale tra i musulmani d'India e tra gli ebrei d'Europa. La seconda, dal taglio più storico, ricostruisce il processo storico-politico che sta alla origine della nascita di Pakistan e Stato d'Israele come entità statali indipendenti. Nella prima parte del lavoro mi soffermerò sui seguenti aspetti: -l' appartenenza religiosa intesa come tratto accomunante -Il tema della lingua e della riscoperta di Urdu ed Ebraico moderno -il ruolo della storia nel processo di national building Nella seconda parte del lavoro si faranno emergere i tratti comuni delle due epopee nazionalistiche: -il debito culturale che il nazionalismo dei musulmani d'India e il sionismo politico hanno con l'Europa -la formazione laica e progressista di Mohammad Ali Jinnah e Theodore Herzl -il periodo storico nel quale queste aspirazioni nazionalistiche si sono realizzate: la fase della decolonizzazione. -il rapporto con le autorità inglesi - gli squilibri internazionali derivati alla nascita di Pakistan e Stato d'Israele -la questione umanitaria legata ai fenomeni migratori -la questione delle minoranze Il lavoro è accompagnato da una bibliografia delle fonti.
The history of the Italian archaeological school in Swat began in 1955 with Giuseppe Tucci, who inaugurated a tradition that survives to this today. The mission that he founded has had an uninterrupted presence albeit with a hiatus between 2007 and 2010 when a self-declared Taliban emirate was established in Swat, and has assumed a prominent role in Indo-Pakistani archaeology. Since its beginnings, the Italian mission has obtained excellent results in the excavation and preservation of the Buddhist shrines of Butkara 1, Panr 1, and Saidu Sharif 1 under the direction of Domenico faccenna. many sites of different eras have been investigated by prominent figures as Giorgio Gullini, Giorgio Stacul, maurizio Taddei, Umberto Scerrato, and Pierfrancesco callieri. from 2011 to 2016, the mission, which is now under the patronage of ISmEO and directed by the author of this contribution, led the joint Italian-Pakistani project "Archaeology, community, Tourism-field school" (AcT), funded by the Pakistani- Italian Debt Swap Agreement (PIDSA). AcT project included research, restoration and teaching activities aimed at promoting archaeological tourism, aiding the economic growth of the region involving the local community in the study and preservation Swati heritage. The core of this project is the new Swat museum, that is the result of the cooperation between Italian and Pakistani experts, and was inaugurated in November 2013. The older local museum, built under the initiative of Giuseppe Tucci in 1963, was severely damaged by an explosion in 2008; its surviving parts were restored and incorporated into new construction. The sixty-year presence of the Italian mission, the responsibility of extensive archaeological areas on behalf of the Pakistani government and the continuity of the local working relationships on a generational scale has made this program unique in its field and has offered the conceptual basis of the AcT and archaeological site management. Archaeology was initially only an earning opportunity for many, but through active participation has created a growing sense of belonging and shared responsibility. Such an awareness is fundamental for the protection and restoration of the sites; for which end the field school organized by our project provided the methodological base. In addition to its social-economic value, the AcT project pursues scientific aims of utmost relevance for Indo-Pakistani archaeology. fieldwork has provided a new, indepth interpretation of Proto-historic cemeteries, and the mission has promoted excavation and restoration programs at Buddhist sites, such as Saidu Sharif, Jahanabad, Amluk-dara, and Gumbat. moreover, excavation activities, directed by the author of this contribution, have been being carried out at Barikot, where evidence of the early city (6th century Bc), with subsequent Achaemenid, mauryan, and Indo-Greek phases,were brought to light.
Addentrarsi nel campo linguistico indiano significa affrontare ad ogni pié sospinto problemi di ogni genere: filosofici, semantici, storici ecc., alcuni determinati da circostanze contingenti e perciò ormai risolti, altri ancora oggetto di discussione ed indagini per altro forse destinate a rimanere senza valida conclusione. Già parlare di Hindi vuol dire passare in rassegna la lunga serie di questioni critiche. Dalle indagini effettuate risulta chiaro che le motivazioni della polemica Hindi-Urdu non vanno ricercate in campo linguistico, quanto piuttosto in quello politico, che infatti esse movimenteranno in un crescendo sempre più febbrile e violento lungo tutto l'arco della dominazione coloniale britannica, fino a sfociare nei disordini sanguinosi e fratricidi culminati nel 1947 con la divisione tra India e Pakistan.
On tracing the radical revisionism of American Studies' cultural and methodological paradigms, this intervention will specifically investigate the multicultural and transnational turn of the field, whose material and conceptual boundaries have been increasingly confronting other extra-national literary traditions, such as those from the Indian subcontinent. The relationship between the USA and the postcolonial diasporas from India and Pakistan resounds with the political and intellectual Asian American experience of the Sixties and the Seventies, and configures a literary space that simultaneously addresses the migratory flows from many South Asian countries in the last decades of the previous century, as well as globalization's challenges: citing works by first and second generation South Asian American writers such as Amitav Ghosh, Bharati Mukherjee and Jhumpa Lahiri, I will highlight the complex intercultural dialogue that these authors entertain with multiple linguistic and national collectivities. Keywords: literary multiculturalism in the USA; Indian diaspora; Asian American literature; postcolonialism ; Tracciando le linee storiche del ripensamento radicale dei paradigmi culturali e metodologici alla base degli studi americani, il seguente intervento prenderà in considerazione la dimensione multiculturale e transnazionale di un'americanistica i cui confini reali e concettuali si interfacciano con altre tradizioni letterarie extra-nazionali, come quelle provenienti dal subcontinente indiano. Il rapporto tra gli Stati Uniti e le diaspore postcoloniali dall'India e dal Pakistan, che si snoda attraverso l'esperienza politica e intellettuale asiaticoamericana degli anni '60 e '70, riconfigura un panorama letterario che risponde simultaneamente ai fenomeni migratori degli ultimi decenni del XX secolo e alle sfide della globalizzazione: citando opere di autori di prima e seconda generazione sud asiaticoamericana, come Amitav Ghosh, Bharati Mukherjee e Jhumpa Lahiri, metterò in evidenza il complesso dialogo interculturale che questi autori e le loro opere intrattengono con multiple tradizioni linguistiche e realtà nazionali. Parole chiave:multiculturalismo letterario negli Stati Uniti; letteratura asiatica americana; diaspora indiana; postcolonialismo
Negli ultimi decenni l'immigrazione in Europa è divenuta materia di primaria e strategica importanza per la definizione sia delle politiche interne che delle relazioni esterne dell'Unione. Il progressivo insediamento di consistenti gruppi nazionali ed etnici pone ai paesi membri importanti sfide economiche, sociali e culturali, alle quali le politiche messe in atto hanno dato fino ad ora solo parziale risposta. Concetti-guida come integrazione, assimilazione e rispetto della diversità faticano ancora oggi a trovare una adeguata ed equilibrata attuazione pratica nelle politiche di accoglienza realizzate dagli stati europei. Il lavoro di tesi intende ricostruire lo stato dell'arte relativo ai modelli di integrazione fino ad oggi seguiti dai paesi europei di più antica esperienza migratoria (Francia, Inghilterra e Germania) e, attraverso il loro confronto, mette a fuoco le peculiarità che hanno fatto del modello multiculturalista britannico quello teoricamente più adatto a promuovere l'inclusione sociale degli stranieri residenti, come singoli e come comunità. A partire da questa ricognizione, la tesi procederà successivamente ad un confronto tra questi modelli e l'esperienza italiana, che definiremo un nonmodello per la mancanza di linee di orientamento strategico-culturale. Di fronte alle sfide poste ai paesi europei non solo dall'aumento qualitativo, ma soprattutto dalla dinamicità e dall'eterogeneità dei nuovi flussi migratori, l'ultima parte della tesi discute della necessità di superare anche il modello pluralistico britannico e di sviluppare un modello di integrazione dinamico e differenziale, in grado, cioè, di adottare strategie di integrazione diverse in funzione dell'anzianità migratorie, e al tempo stesso di riconoscere e garantire le diversità culturali e religiose. La riflessione teorica su questo modello viene approfondita, nella parte conclusiva del lavoro di ricerca, mediante una verifica di applicabilità di questo nuovo modello al caso italiano. In questa analisi di fattibilità, la riflessione è sorretta da una indagine di terreno sui punti di forza e di debolezza dell'esperienza di insediamento a Pisa delle comunità Bengalesi e Pakistane, realizzata dal candidato mediante numerose interviste a membri ed ai leader delle due comunità. Le interviste hanno infatti consentito a precisare da un lato le sfide aperte nel nostro paese dai nuovi ed eterogenei flussi migratori che lo attraversano e, dall'altro, le richieste di riconoscimento e di integrazione (appunto dinamiche e differenziali) che provengono al modello italiano dalle nuove comunità che si sono insediate.
La tesi tratta di una vicenda molto importante e delicata: la storia dei finanziamenti ai mujaheddin con i quali gli Stati Uniti, in particolare attraverso il Congresso e la CIA, diedero vita alla più grande jihad moderna contro i sovietici in Afghanistan, costringendo l'Armata Rossa a ritirarsi nel 1989. I documenti che riguardano questi fatti rimangono tuttora in gran parte segreti per volontà dei numerosi servizi di intelligence coinvolti, i quali, pur conclusasi ormai da tempo la fase storica della Guerra fredda, hanno ritenuto inopportuna una loro pubblicazione. L'elaborato, dopo un' introduzione nella quale viene delineato il contesto storico nel quale si origina la vicenda, analizza le dinamiche interne ed i conseguenti atteggiamenti tenuti in politica estera delle tre realtà che maggiormente verranno coinvolte nel conflitto afghano durante gli anni Ottanta: gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica ed il Pakistan. Oltre a ciò viene delineato il quadro della situazione politica ed etno-linguistica afghana nel ventennio precedente all'invasione sovietica del 1979. La trattazione si focalizza in seguito sulle personalità e sui meccanismi che, all'interno del Congresso e della CIA, permisero ad un esercito di guerriglieri tribali di provocare la ritirata del più grande esercito convenzionale del mondo. Proseguendo, viene messa in luce la partecipazione agli eventi ed il ruolo ricoperto da altre importanti realtà della scena politica mondiale come l'Egitto, l'Arabia Saudita, Israele e la Repubblica Popolare Cinese, la quale tuttora nega il proprio coinvolgimento. Il lavoro prosegue illustrando, con carte geografiche ed immagini, le varie fasi del conflitto, le differenti armi utilizzate da entrambe le parti, nonché i potenti mezzi messi in campo dall'esercito sovietico. Il lavoro si conclude riportando fedelmente la cronaca degli avvenimenti che seguirono al definitivo ritiro sovietico, come la rivalità all'interno del fronte dei ribelli, la caduta del governo comunista nel 1992 ed il brusco disimpegno americano. Nelle conclusioni, infine, si sottolinea come questi fatti ebbero diretta responsabilità nel generare le condizioni che portarono i talebani al potere a Kabul e con ciò tutta la serie di tragici eventi che ebbe luogo a partire dall'11 settembre 2001. La parte più difficoltosa nella stesura del presente elaborato si è rivelata il reperimento di materiali e documenti. In una vicenda nella quale gli attori principali sono i migliori servizi di intelligence al mondo ciò è perfettamente comprensibile. Le interviste concesse dai protagonisti si sono rivelate un elemento insostituibile per una narrazione delle vicende il più completa possibile. Oltre a ciò, è presente un'appendice documentaria all'interno della quale vengono riportati, in ordine cronologico, alcuni dei documenti più sensibili prodotti e desecretati dai governi di Stati Uniti ed Unione Sovietica. Essi, al di là del loro linguaggio ufficiale permettono di comprendere le motivazioni che portarono a decisioni di portata epocale, i cui effetti continuano ad essere evidenti ed a manifestarsi tuttora.
Regione borderline alla periferia occidentale della Repubblica Popolare Cinese, lo Xinjiang ha un patrimonio genetico complesso di tredici etnie, delle quali gli uiguri costituiscono il fenotipo predominante. L'identità della regione è contesa tra la Cina che la considera parte del proprio territorio dalla antichissima dinastia Han e gli uiguri, per i quali è terra turca (Sharqi Turkestan). La denominazione "Xinjiang" è diventata d'uso comune non prima della riconquista nel XVII da parte degli ultimi imperatori Qing, i quali chiamarono le terre sottratte al "Grande Gioco" e agli emiri centrasiatici "Nuova frontiera". Ma chi sono gli uiguri? Sono gli eredi delle tribù nomadi della Mongolia (gli Sciti secondo Erodoto) che intorno al VII sec. d.C. nelle oasi del bacino del Tarim crearono un grande regno, completamente islamizzato alla fine del XIV sec. Dal 1955 lo Xinjiang è retto da un sistema di self-government di fatto regolato da Pechino che non ha mai soddisfatto le aspirazioni indipendentiste degli uiguri. Dopo i due fallimentari tentativi di creare uno Uiguristan indipendente filoturco e filosovietico nella parentesi tra le due Guerre mondiali, negli anni Novanta essi sono perciò tornati a rivendicare il diritto a essere popolo, stimolati dalla politica di "openness" di Xiaoping e dalla nascita delle vicine repubbliche centrasiatiche ex sovietiche. Il "Paese Celeste" da sempre alterna campagne "Strike hard" a una strategia più indiretta., come il piano "Go West" che ha calcolato l'equazione del benessere a vantaggio delle colonie agricole di stato dei Bingtuan , oggi anima di un meccanismo da rentier state del petrolio e del cotone. Ma perché gli uiguri sono così scomodi? Perché la Cina è un grosso importatore di risorse energetiche e lo Xinjiang è un bacino domestico che da solo può coprire più di 1/3 del fabbisogno cinese, al punto che è qui che si sta ridisegnando la nuova Via della Seta, inaugurata dalla geopolitica delle joint venture dell'energia in Asia centrale. All'indomani dell'11 settembre la "crociata antijadista" statunitense ha dato il la a Pechino per denunciare per la prima volta di un "problema Xinjiang" a lungo negato. La partnership politica, tuttavia, è stata più obbligata che voluta e lo dimostrano gli Stati Uniti che dei quattro gruppi terroristici uiguri scritti nella "lista nera" di Pechino hanno riconosciuto solo ETIM e i suoi legami con Al Qaeda nel centro di addestramento delle FATA pakistane e che inoltre continuano a finanziare il "gruppo della diaspora" di Rabiya Kadeer, la "prigioniera di coscienza" che lotta per i diritti del kalk uiguro. Intanto sulle spalle di Pechino le organizzazioni internazionali fanno pesare la colpa dei diritti umani negati e nonostante la "democraticità" proclamata dalla Costituzione del 1982, la Cina non è ancora al giro di boa. La dimensione collettiva di diritti e doveri non oltrepassa il "modello asiatico" di tutela e il Paese di Mezzo non sa proprio redimersi in uno Stato del popolo che sia cosa diversa da una "dittatura", seppure "democratica". Dai programmi scolastici alla musica, il velo della propaganda mostra la filigrana di un'architettura di governo che deve poggiare sull' unica minzu (nazione) possibile, quella han, dove il dissenso ha la stessa identità legale del terrorismo. Se la storia è un teatro, tra uiguri e han non è ancora mai calato il sipario della Grande Muraglia cinese.
This study analyses the intellectual and political history of Laskar Jihad, the most spectacular Muslim paramilitary group that emerged in Indonesia in the aftermath of the collapse of the New Order regime in May 1998. Using an interpretive framework derived from social movement theory and identity politics, this study exposes the roots of the group and its transformation into a militant, jihadist movement. Based on extensive fieldwork, numerous interviews and a study of the movement's literature, this study demonstrates that the very existence of Laskar Jihad cannot be dissociated from Saudi Arabia's immensely ambitious global campaign for the Wahhabization of the Muslim umma. Operating under the banner of the transnational Salafi da'wa movement, this campaign has succeeded in disseminating the Wahhabi message around the world. The impact of this campaign has been felt in Indonesia since the mid-1980s, reflecting the success of the movement's proponents to attract a significant number of followers and establish an exclusive current of Islamic activism. This study addresses how the rapid efflorescence of the Salafi movement coincided with increasing tension among its protagonists caused by their increasing competition to become the movement's legitimate representative. Fragmentation and conflict among the Salafis became inevitable. The movement's main actor was Ja'far Umar Thalib, a typical cadre of Islamism who grew up in the puritanical atmosphere of al-Irsyad and Persis, two reformist Muslim organizations in Indonesia. His militancy matured in Pakistan, and he went to Afghanistan to fight with the Afghan mujahids. Upon return, he immediately immersed himself in Salafi activism, giving lectures and sermons in Salafi teaching centres scattered among various Indonesian cities. Bolstered by further study with Muqbil ibn Hadi al-Wadi'i of Yemen, he quickly emerged as the movement's most visible, and leading, authority. Utilizing pre-existing networks and interpersonal bonds formed through his activism in the Salafi movement, Ja'far Umar Thalib mobilized thousands of Salafis and other aspirant mujahids to join Laskar Jihad. Through conspiracy rhetoric blaming Zionist and Christian international powers for the escalation of the Moluccan conflict, he created a pretext for collective action that encouraged an analytical shift from individuals to groups. Based on this pretext, which was strengthened and legitimized by fatwas from prominent religious authorities in the Middle East, the Salafis justified their actions and created a new collective identity as heroes for their religion and fellow faithful and as patriots for their beloved state. Thus it is not surprising that they vied with one another to captain the ships that would take them to the frontlines of the Moluccas in a fervid attempt to absorb themselves into a protracted, bloody communal conflict in the islands. For these youths jihad seems not only a demonstration of their commitment to Islam but also a way to express their resentment and frustration in the face of rapid modernization and globalization. From April 2000 until its disbanding in October 2002, Laskar Jihad dispatched more than 7,000 fighters to the Moluccas to confront Christians. This brief episode of jihad activism owed much to the support of military elites who saw it as a chance to use militant Muslim groups to retaliate against Abdurrahman Wahid for having sacked them from key military positions. Ironically, however, most of the Laskar Jihad fighters were unskilled combatants. They went to the Moluccas with limited experience and an untried fighting capacity. Their greatest achievement perhaps lay in creating propaganda that successfully influenced public opinion through the media. Given this fact, this study argues that the jihad conducted by Laskar Jihad can be more accurately described as drama: an endeavour by the Salafis to shore up their self-image as the most committed defenders of Islam, and thereby to put their identity on the map of Indonesian Islam.
Salman Rushdie, always considered an intercontinental narrator between East and West, addresses the unresolved fractures that run through the world in his recent novel Shalimar the Clown (2005), producing a chain reaction, and showing how globalization, which draws up and mixes cultures, at the same time accomplishes disasters. It is a story of betrayal and revenge: desire draws up culturally distant subjects, but generates a tear that can no longer be pacified, partly because of stiffness and misunderstandings that afflict their behaviour, both traditional and modern, as well as their communities. All the characters perform actions of which they do not calculate the consequences and fatal outcomes, until the last scene of clash, left unresolved in the final page. In this novel, the use of magic which Rushdie has often accustomed to us is less relevant, although not entirely absent: there is rather the presence of history, from the resistance against the Nazis to terrorist and fundamentalist outbursts. More than in other texts, in Shalimar the Clown Rushdie has wrapped his novel in a gloomy and hopeless weather, with the intent to strike precisely the absence of easy solutions and to awaken the reader to consciousness, because, despite all the difficulties of mediation and unresolved fractures that are found there, the meaning of the book is a call to freedom and a condemnation of the blindness of power, whichever the uniform it wears. ; Un narratore come Salman Rushdie, da sempre votato a uno scenario intercontinentale e alla interrelazione tra Oriente e Occidente, nel suo recente romanzo Shalimar il clown (2005) affronta le fratture irrisolte che solcano il mondo producendo reazioni a catena, e mostra come la globalizzazione, che pure avvicina e mescola le culture, nello stesso tempo compie disastri che le si ritorcono contro. La vicenda è una storia di tradimento e di vendetta: il desiderio accosta soggetti culturalmente distanti, ma costituisce uno strappo prodotto che non potrà più essere pacificato, la via del ritorno sarà preclusa e i personaggi finiranno sradicati, anche a causa delle chiusure e delle incomprensioni che affliggono i loro comportamenti, tradizionali o moderni che siano, così come le rispettive comunità. Ognuno dei personaggi, sia gli europei che gli asiatici, compie azioni di cui non calcola le conseguenze e che si ripercuotono in effetti a catena con esiti mortali, fino all'ultimo scontro, lasciato in sospeso nella pagina conclusiva. In questo romanzo meno rilevante, anche se non del tutto assente, è il ricorso alla magia cui Rushdie ci ha spesso abituati: c'è piuttosto la presenza della storia, dalla resistenza contro il nazismo agli scoppi del terrorismo. Una storia, quest'ultima, che l'autore ha vissuto sulla propria pelle, costretto all'esilio dalla condanna a morte. Il romanzo si apre e si chiude a Los Angeles, quindi con una apertura geografica planetaria; ma sullo sfondo c'è il luogo originario dell'autore, il Kashmir, un piccolo lembo di terra che ben rappresenta la contraddizione del mondo globale, un paese conteso e straziato dalla guerra, sicché le "scissioni" dei personaggi si intrecciano con la divisione dei popoli, ne sono in certo senso l'allegoria. Nel Kashmir esisteva una radicata coesistenza pacifica tra gli Indù e i Musulmani, che è stata rovinata dalle mire degli stati confinanti, il Pakistan e l'India, frutto di un'infausta spaccatura religiosa. Il testo rushdiano mostra efficacemente l'infiltrarsi del baco dei fondamentalismi contrapposti e la sciagura della repressione militare che fa orrori da entrambe le parti, finché le pratiche locali, le abilità artistiche come i piaceri della cucina, non saranno più in grado di costituire un collante sufficiente. Questo saggio vuole mettere in evidenza tutte le sfaccettature di questa "contraddittorietà globale" che si ripercuote anche sui toni e sui caratteri stilistici del romanzo. Più che in altre occasioni, in Shalimar il clown, Rushdie ha avvolto il suo romanzo in clima cupo e senza speranza; e ciò, tuttavia, con l'intento di colpire il lettore proprio con l'assenza di facili soluzioni e di risvegliarlo alla presa di coscienza. Perché malgrado tutte le difficoltà della mediazione e le fratture irrisolte che vi si riscontrano, il senso del libro è una esortazione alla libertà e una condanna della cecità del potere, di qualsiasi divisa si rivesta.
2008/2009 ; Le armi di distruzione di massa rappresentano uno degli aspetti più spaventosi degli sviluppi tecnologici che sono intercorsi nell'ultimo secolo. Sebbene alcuni effetti delle armi chimiche e biologiche fossero noti già da centinaia di anni, solamente nel ventesimo secolo si è assistito ad un vasto uso delle armi di distruzione di massa in diversi contesti bellici. La necessità di trovare armi "definitive", idonee a travalicare la forza ordinaria delle armi convenzionali ha spinto la scienza ad investigare sempre più nuovi strumenti in grado di annichilire l'avversario. Una parte di primissima rilevanza negli equilibri mondiali – e ancora oggi fonte di destabilizzazione in certi teatri regionali – è imputabile alle armi nucleari. La scoperta delle implicazioni belliche della fisica atomica ha semplicemente rivoluzionato il quadro militare mondiale, chiudendo la Seconda guerra mondiale e spalancando le porte della Guerra fredda. Basata in gran parte sull'equilibrio nucleare, questo tipo di guerra ha visto fronteggiarsi in primis due superpotenze dotate di arsenali nucleari tali da eliminare per sempre ogni tipo di forma vivente dalla faccia della Terra. Le armi di distruzione di massa sono oggi raggruppabili in diverse categorie: nonostante ogni nazione fornisca una propria definizione al riguardo, sostanzialmente questa tipologia di armi si articola su quattro tipologie diverse a seconda delle differenti sostanze di cui ognuna è composta. Esistono le armi nucleari, biologiche, chimiche e radiologiche: ognuna di esse presenta caratteristiche tattiche, strategiche e modi di funzionamento ben diverse. L'elemento che le accomuna è comunque la capacità, almeno potenziale, di arrecare una quantità di danni decisamente superiore a qualsiasi dispositivo militare convenzionale oggi presente negli arsenali. Seppure con modalità diverse, le armi di distruzione di massa hanno fatto la loro apparizione nei campi di battaglia soprattutto nel ventesimo secolo. Le prime ad essere utilizzate su vasta scala furono le armi chimiche, le quali apparvero come un mezzo per superare lo stallo della guerra di trincea. Durante la prima guerra mondiale la paura dei "gas" divenne un vero e proprio incubo per tutti i soldati, ed anche per i relativi stati maggiori, incapaci di provvedere contro questa nuova arma. Ma la vera svolta nel mondo delle armi di distruzione di massa arrivò nella Seconda guerra mondiale: dopo l'esplosione delle armi atomiche nei cieli giapponesi di Hiroshima e Nagasaki era chiaro che le superpotenze vincitrici della guerra non potevano prescindere dal possedere l'arma atomica. L'iniziale ritardo sovietico venne ben presto compensato, e nel 1949 Stalin poteva annunciare al mondo la parità militare con gli Stati Uniti. La bomba atomica venne poi seguita dalla bomba all'idrogeno, ultima frontiera degli sviluppi militari nucleari. Come noto, le ami atomiche ressero il confronto bipolare (e le sue certezze) fintantoché gli accordi SALT e START non cominciarono a ridurre il numero delle testate, ad oggi comunque presenti in molti arsenali. Le armi biologiche apparvero in seguito, soprattutto dopo gli sviluppi delle biotecnologie. La capacità militare di virus, batteri e tossine era già ben chiara ai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: tuttavia i sovietici, grazie alla colossale impresa "Biopreparat" riuscirono a creare ed ad accumulare un'enorme quantità di agenti biologici. La fine del mondo bipolare poteva sembrare idonea a far diminuire i pericoli derivanti dalle armi di distruzione di massa: ma purtroppo eventi come gli attentati con il gas "sarin" nella metropolitana di Tokyo (1995) o l'uso di antrace negli Stati Uniti (2001) dimostrarono che inevitabilmente le armi di distruzione di massa rimanevano una minaccia costante per ogni Stato. Alle tre armi tradizionali si è affiancata una nuova categoria: le armi radiologiche, spesso indicate nel gergo giornalistico come "bombe sporche", consistenti nel diffondere elementi radioattivi mediante esplosioni convenzionali. Tale tipo di arma rischia di causare molti più danni grazie all'effetto mediatico che alla diffusione di materiali radioattivi: non tutti questi, infatti, hanno tempi di decadimento lunghi come l'uranio. La paura per quest'ultimo tipo di ordigni è cresciuta negli ultimi anni in quanto per un gruppo anche piccolo è relativamente semplice potersi procurare materiale radioattivo e farlo detonare in un centro urbano, contaminando tutta la zona. La preoccupazione per gli effetti delle armi di distruzione di massa si è concretata in una serie di trattati internazionali che progressivamente hanno disciplinato tutti i tipi di armi. La normativa in materia è costituita sia da trattati multilaterali che da trattati bilaterali: questi ultimi, pur essendo vincolanti solo per le due nazioni che li sottoscrivono, hanno comunque generato rilevanti effetti geopolitici nel pianeta. Subito dopo la seconda guerra mondiale l'Assemblea dell'Onu aveva cominciato a riflettere su un possibile contenimento delle armi nucleari, decisamente le più rilevanti a livello di effetti. Le ferite di Hiroshima e Nagasaki erano recenti, e l'Unione Sovietica stava sviluppando a tappe forzate il proprio programma nucleare. Nonostante le preoccupazioni della comunità internazionale, occorse aspettare la "Crisi dei missili" cubana del 1962 per poter vedere sviluppare delle prime forme di cooperazione internazionale per interdire, o quantomeno limitare, la minaccia dell'uso delle armi nucleari, sfiorata durante le tensioni cubane. A partire da quella data si succedettero diversi trattati internazionali e bilaterali in materia di armi nucleari, inizialmente legati alla limitazione del dispiegamento degli ordigni in determinati contesti, e, successivamente, rivolti alla riduzione del numero di vettori. Quest'ultimo ruolo fu particolarmente giocato dalla diplomazia americana e da quella sovietica, e conobbe un'autentica accelerata con l'arrivo delle presidenze Reagan-Gorbacev. È evidente che molte delle scelte compiute dalle due superpotenze influenzarono anche le rispettive coalizioni e le dottrine di impiego delle forze. Ma non tutte le iniziative regolamentari sortirono effetti positivi: ad oggi vi sono paesi, quali Israele, la Corea del Nord o il Pakistan che sono dotati di armamenti nucleari e non sono sottoscrittori del trattato NPT, cioè di non proliferazione nucleare. Questi stati sono inseriti in contesti regionali complessi e delicati, in cui spesso insistono interessi delle "potenze atomiche" legittimate in questo ruolo da una discutibile statuizione indicata nel trattato NPT. A fianco delle numerose iniziative svoltesi per disciplinare le armi nucleari sono state pure create delle Nuclear Weapons Free Zones, cioè aree del pianeta nelle quali gi stati membri si impegnano a non acquisire o usare armi nucleari. Tali iniziative hanno permesso di "liberare" dalla minaccia nucleare alcune aree (Antartide, Asia centrale, America del Sud, Asia del sud-est, Mongolia) e costituiscono un'iniziativa sinergica alle attività di contenimento e riduzione degli arsenali nucleari. Per le altre armi di distruzione di massa vi sono sicuramente stati meno trattati internazionali, ma non per questo essi sono stati meno importanti: è il caso delle armi chimiche, che possono vantare la prima proibizione in un protocollo del 1925. In tale settore è stata poi creata un'organizzazione internazionale idonea a verificare il rispetto della convenzione per la proibizione delle armi chimiche del 1993. Le armi biologiche presentano invece più difficoltà, ed al momento, secondo certa letteratura, sono identificate come un settore non ancora pienamente tutelato a livello internazionale. Se è vero che la convenzione sulle armi biologiche del 1972 vieta ogni tipo di arma biologica, la mancanza di una struttura internazionale di controllo e la velocità di sviluppo delle biotecnologie impauriscono gli stati, così come la mancata adesione di alcune importanti nazioni. In ogni modo, nonostante le critiche e le difficoltà, i trattati internazionali in materia di armi di distruzione di massa sono serviti per contenere e comunque evitare la diffusione di tali strumenti bellici attraverso le nazioni del pianeta: molto è ancora da fare, ma comunque le esperienze intraprese al momento sono tali da confermare questo cammino come valida via per limitare la diffusione di questa categoria di armamenti. Eppure il positivo processo di limitazione delle armi di distruzione di massa ha incontrato, soprattutto negli ultimi anni, alcuni limiti soprattutto in seguito alle azioni intraprese da alcune nazioni. In certi contesti regionali delicati alcuni stati vedono di buon occhio una propria capacità militare sostenuta da quella nucleare: il miraggio di entrare nel "club atomico", cioè nel ristretto numero di stati "armati" nuclearmente, è un miraggio che ha valenza sia di politica interna che di prestigio internazionale. I recenti casi della Corea del Nord e dell'Iran, ad esempio, indicano chiaramente come azioni di singoli paesi possano seriamente mettere a repentaglio anni di lavori e di incontri internazionali per limitare la diffusione di armi di distruzione di massa. Soprattutto l'arma nucleare rimane al centro del dibattito mondiale, in quanto i due paesi di cui sopra hanno deciso di dotarsene per questioni di prestigio e di politica interna. La Corea del Nord si è recentemente ritirata dal trattato NPT e ha fatto esplodere due ordigni nucleari, seppure di piccola capacità. Ciò che al momento preoccupa di più la comunità internazionale è l'isolamento dell'autocratica repubblica, le difficoltà nella transizione del potere ed infine il tentativo di acquisizione di capacità missilistica a lungo raggio. Negli ultimi mesi la Corea del nord ha ripetutamente condotto esperimenti missilistici che hanno notevolmente esacerbato la situazione regionale: in particolare destano la preoccupazione del Giappone, nel quale è in corso un dibattito sulla rivisitazione del ruolo delle forze armate, cosa decisamente avversata dalla Cina. Gli Stati Uniti, tradizionali difensori della Corea del Sud, potrebbero cogliere l'occasione per dispiegare i propri missili nucleari nel teatro, accrescendo così la militarizzazione dell'area e complicando il rapporto con le altre due potenze nucleari della regione, La Cina e la Russia. Allo stesso modo l'Iran sta attraversando una complessa fase di transizione a trenta'anni dalla rivoluzione del 1979. La granitica forma di governo teocratica è oggi minacciata da una fase economica non brillante e da difficoltà politiche interne: le recenti affermazioni del presidente iraniano Ahmadinejad hanno attirato l'attenzione del mondo sull'Iran, desideroso di accrescere il proprio peso nell'area. D'altra parte le affermazioni sulla scomparsa di Israele hanno notevolmente preoccupato il governo di Gerusalemme, il quale è in possesso di armi nucleari. Il rischio di un'escalation nucleare nella regione sarebbe un problema gravissimo, soprattutto considerando le difficoltà in cui si trovano diversi stati limitrofi, quali il Pakistan, l'Iraq o l'Afghanistan. Infine va considerato il problema del terrorismo internazionale. Non è detto che gruppi terroristi non possano essere ancora interessati all'acquisizione di armi di distruzione di massa: rispetto a quelle nucleari, più difficilmente acquisibili ed utilizzabili (occorre anche un vettore idoneo per trasportarle, stante il loro peso e le loro dimensioni) ipotesi come armi radiologiche, armi chimiche o armi biologiche rappresentano soluzioni ugualmente allettanti per spargere terrore e destabilizzazione nelle società da colpire. L'attenzione a tale riguardo si concentra soprattutto sul network di Al-Quaeda, in quanto struttura militare e militante più capace di possedere fondi tali da permettere l'acquisto di questo tipo di armi. Resta da chiedersi, in conclusione, quali risposte siano possibili a questo tipo di minaccia. La percezione della minaccia NBCR è differente a seconda dei paesi e dei contesti in cui gli stati sono inseriti: la riflessione più ampia sull'argomento è comunque quella americana, supportata da abbondante letteratura e servita addirittura come giustificazione ad un attacco preventivo (Iraq 2003). Allo stesso modo la Nato ha elaborato una propria posizione sulle armi di distruzione di massa, riconosciute dall'Alleanza come una minaccia concreta e tangibile, meritevole anche di risposte dal punto di vista operativo. Infine vi è il caso italiano, che concentra le competenze NBCR presso un'idonea struttura interforze, che opera in stretto raccordo con strutture civili dello Stato, a partire dei Vigili del Fuoco. Per terminare si può sostenere che le armi di distruzione di massa sono oggi una minaccia potenziale difficilmente eliminabile, ma tuttavia limitabile e controllabile tramite gli strumenti della diplomazia, della politica e del diritto internazionale, affiancata comunque da azioni delle attuali potenze dirette a limitare sempre più la diffusione e la proliferazione di questo tipo di armamenti. ; XXII Ciclo
2006/2007 ; LA PROIEZIONE ENERGETICA CINESE NEGLI SCENARI CAPITALISTICI GLOBALI Dottorando: Dr. Fabio Massimo Parenti Relatore: Prof.ssa MARIA PAOLA PAGNINI RIASSUNTO L'analisi dei cambiamenti economico-politici al livello globale ha costituito una sfida costante alla quale gli scienziati sociali sono stati chiamati a rispondere. Ciò ha portato, nel corso del tempo, allo sviluppo di molteplici approcci interpretativi, capaci di volta in volta di fornire modelli esplicativi più o meno efficaci. L'emergere della cosiddetta globalizzazione ha poi accelerato, in una certa misura, il bisogno di proseguire tali studi, che malgrado la loro diversità sono confluiti il più delle volte nell'ambito disciplinare delle "Relazioni Internazionali" (RI). La tesi sulla proiezione energetica cinese negli scenari capitalistici globali tenta di entrare in questo ampio dibattito, partendo innanzitutto dall'adesione alle analisi più accreditate sui principali cambiamenti geoeconomici e geopolitici in corso - la ricomparsa dell'Asia al centro del sistema produttivo/commerciale mondiale, il declino dell'egemonia statunitense e l'emerge della Cina come nuovo centro di accumulazione capitalistica3 - e nel contempo dalla dissociazione da quelle sulla riduzione dell'importanza dello Stato-nazione e sull'emergere di una nuova "guerra fredda". La crescente integrazione cinese al modo di produzione capitalistico svela sia la centralità dello Stato-nazione dietro i nuovi processi di accumulazione asiatici, sia le crescenti interdipendenze economico-finanziarie fra gli USA e la Cina, sia infine l'emergere di un modello di sviluppo cinese sui generis, che abbiamo definito del free State (in confronto a quello del free trade britannico e del free enterprises statunitense). Le strategie energetiche cinesi, incentrate su una serie di accordi bi/multilaterali, regionali ed intersocietari, rendono conto dell'ampiezza dei processi di accumulazione capitalistica in alcuni poli asiatici, della spinta verso l'integrazione macroregionale e delle conseguenze geopolitiche prodotte da tali movimenti. Ricordandoci, in ultima istanza, la dipendenza delle dinamiche di cambiamento dalla dimensione energetico-materiale. Sottolineando dapprima i limiti interpretativi delle RI, in particolare delle analisi più influenti dell'approccio realista (Huntington, 1996; Bernstein e Munro, 1997; Mearsheimer, 2001, e altri), la tesi proposta rivendica la centralità dello sguardo geografico nella comprensione della natura dei cambiamenti in fieri, nonché l'adeguatezza degli strumenti analitici della disciplina geografica (l'articolazione scalare degli spazi umani) nella interpretazione della dinamica capitalistica globale (Harvey) e dei correlati sviluppi geopolitici. Il ricorso a un'analisi energetica e interscalare, che ha messo al centro dell'attenzione la regione mobile e l'infrastruttura, ha consentito di svelare la parziale trasformazione degli Stati nazione in "entità regionali mobili" (imbrigliate in un sistema sempre più interdipendente e competitivo), nonché la capacità degli Stati stessi di produrre regionalità. Da questa angolazione, il cambiamento degli equilibri del sistema internazionale è stato desunto proprio a partire dall'analisi degli sviluppi che occorrono nelle principali regioni strategiche (geo-energetico-minerarie) e dalla costruzione di sistemi di controllo economico-finanziario, direttamente influenzati dalle politiche dei principali attori statuali. Nello specifico, la tesi ha cercato di rispondere alla seguente domanda: perché la rivalità sul controllo delle risorse petrolifere (USA/Cina) si sta ponendo in forme nuove rispetto al passato? In condizioni geoeconomiche in profondo mutamento, e nell'ambito di una competizione capitalistica Ovest/Est, la Cina si moverebbe con approccio diverso dagli USA, inserendosi nei processi di globalizzazione con una diversa soggettività politica e un compromesso sui generis fra lo Stato e gli interessi economici capitalistici. Il Beijing consensus è il frutto di una strategia alternativa a quella degli USA (basata sul sostegno alle private corporations e ai loro interessi immediati), che possiamo riassumere in tre elementi distintivi: l'uso prevalente delle State-owned enterprises per scopi strategici; la costruzione di rapporti di lungo periodo, tramite investimenti in perdita o con ritorni minimi; e infine, ma non meno importante, l'attenta elaborazione di politiche macroeconomiche (monetarie, fiscali e industriali) tese a ridurre le ripercussioni negative indotte da un eccessivo affidamento agli aggiustamenti di mercato. Mentre l'approccio unilaterale degli USA sembra essere il risultato di un progressivo declino di legittimità e consenso (Washington consensus), l'azioni cinese nel mondo non ha come obiettivo l'egemonia, ma il consolidamento di uno status di grande potenza, garante di un ordine mondiale multipolare. Una strategia che è coerente con alcuni principi guida scritti nella costituzione del 1982, e che riguardano il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale, la non aggressione, la non ingerenza negli affari interni, l'eguaglianza e la coesistenza pacifica. Nella sostanza, la Cina si oppone all'imperialismo e all'egemonismo e si impegna a sostenere le nazioni oppresse, la pace e il progresso nel mondo (Rinella, 2006). Tuttavia, non è l'ordine unipolare in sé che viene contestato, quanto piuttosto la posizione egemonica degli USA nei confronti della Cina, la quale è preoccupata degli effetti che l'unilateralismo statunitense possa avere sulla stabilità di regioni del mondo da cui dipende il suo sviluppo (Foot, 2006). L'obiettivo di costruire un mondo multipolare si traduce in un'estesa strategia di cooperazione bilaterale e regionale con quegli Stati asiatici, come la Russia e l'Iran, che condividono lo stesso bisogno cinese di rimarginare gli squilibri prodotti dall'unilateralismo statunitense (Domenach, 2003; Garver, 2006). Inoltre, l'emergere di un'architettura energetica asiatica più indipendente dall'Occidente, nonché di un sistema economico-finanziario multipolare, dipende anche dal ruolo ricoperto dall'India e da altri Stati asiatici (tra cui soprattutto il Pakistan, le Repubbliche Centro-Asiatiche, l'Iran e l'Arabia Saudita), le cui interdipendenze geoeconomiche e politiche con la Cina stanno aumentando sia nell'ambito di rapporti bilaterali, sia nella sfera d'influenza della Shanghai Cooperation Organization (SCO) (cioè uno spazio regionale riconosciuto de jure e in continua espansione). L'evoluzione di questa organizzazione va avanti e si rafforza sul piano di accordi economici ed energetici, che sono finalizzati, in ultima istanza, a costruire un tessuto di infrastrutture capaci di "vestire" la macroregione asiatica. Le ambizioni della Cina sono concretamente sostenute dalla sua performance economica, molto significativa sul piano quantitativo e qualitativo, dal connesso sviluppo di tecnologia militare (missili, satelliti, nucleare etc.) e dalla sua abilità diplomatica, che in ultima istanza si rifà ai principi originari dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Tutte carte da grande potenza che gli consentono di giocare un ruolo sempre più importante sull'arena internazionale, in cui l'emergere di una nuova Guerra Fredda non sembra essere un esito compatibile con i nuovi sistemi di organizzazione economico-politica capitalistica al livello mondiale. Se lo sviluppo cinese e statunitense dipende in modo crescente da ampi sistemi di approvvigionamento energetico che possono entrare in competizione, entrambi i Paesi sono sempre più legati sul piano economico-finanziario. ; XX Ciclo
2008/2009 ; Sfruttando l'allentamento delle rigidità del sistema internazionale subentrato alla fine del confronto bipolare, un certo numero di paesi ha intensificato gli sforzi per migliorare il proprio status regionale, incidendo sui rapporti di forza locali principalmente attraverso il potenziamento delle proprie capacità militari. Il fenomeno è risultato particolarmente significativo in quello che viene definito come 'Grande Medio Oriente' (Great Middle East), comprendente la fascia di territori che si estendono dal Nord Africa al Golfo del Bengala. Questa vasta macro-regione condivide numerosi aspetti, fra i quali il rapido sviluppo demografico ed una perdurante situazione di instabilità endemica, mentre le sue importanti risorse energetiche sono oggi fondamentali non solo per l'Occidente, ma anche per le potenze asiatiche, la cui crescente rilevanza geopolitica e geostrategica è in larga parte conseguente alla loro rapida ascesa economico-industriale. Collocate prevalentemente in corrispondenza di quello che Saul Cohen aveva definito col termine di "zone di rottura" (shatterbelts), che separavano le sfere di influenza delle due superpotenze, varie potenze emergenti hanno individuato nel possesso – reale o anche solo potenziale – di armi di distruzione di massa lo strumento privilegiato per accedere a posizioni egemoniche negli equilibri locali, affermando contestualmente la propria sovranità nazionale. In tale quadro, esiste da parte di larga parte degli attori regionali una condivisa aspirazione a conferire concretezza alla netta opposizione ad ogni forma di ingerenza esterna, che tenti di influenzare, condizionare o indirizzare la soluzione delle molteplici questioni locali. Con questi obiettivi, sono stati avviati vari programmi tendenti a realizzare armi di distruzione di massa, necessariamente integrate dai relativi sistemi di lancio (delivery means). Contrariamente a quanto attuato dalle due superpotenze alla fine del secondo conflitto mondiale, i programmi in questione non hanno finalità egemoniche su scala globale, ma sono dichiaratamente finalizzati alla realizzazione di arsenali idonei, per quantità e caratteristiche dei sistemi d'arma, a tutelare gli interessi nazionali, sia nei confronti dei competitori regionali, come anche nell'eventualità di un confronto asimmetrico con la sola superpotenza rimasta dopo la fine dello scenario bipolare. Utilizzati per la prima volta in battaglia dall'impero cinese (280-233 a.C.), i proiettili autopropulsi, indicati anche col termine di razzi o missili, per molti secoli le loro applicazioni militari sono risultate saltuarie e marginali, soprattutto per la scarsa precisione e il limitato peso della carica trasportata. Negli usi bellici veniva preferito il cannone, sottoposto a continui miglioramenti in termini di portata, precisione e potenza distruttiva. Dopo la fine del primo conflitto mondiale, allo scopo di superare le severe limitazioni poste dal Trattato di Versailles allo sviluppo di armamenti pesanti ed a lungo raggio, nel 1929 l'esercito tedesco finanziava un programma di ricerca nel settore missilistico. Gli sforzi si concretizzavano nella realizzazione di due diverse classi di ordigni autopropulsi, le V-1 e V-2, il cui impiego veniva peraltro limitato alla fase terminale della seconda guerra mondiale. Ulteriori sviluppi – immediatamente avviati negli Stati Uniti ed Unione Sovietica col contributo di progetti, ordigni e tecnici catturati ai tedeschi – portavano alla realizzazione di vettori di crescente potenza, i cui persistenti problemi di precisione erano mitigati dall'enorme capacità distruttiva degli ordigni nucleari, tanto che la loro combinazione si affermava rapidamente come il principale strumento della deterrenza nucleare nel confronto bipolare. Attualmente, le applicazioni militari delle tecnologie nucleari sviluppate dai paesi emergenti richiedono consistenti investimenti in termini di tempo e risorse, anche per l'esigenza di aggirare i vincoli alla proliferazione imposti dai regimi internazionali. In questa prospettiva, lo sviluppo dei vettori di lancio balistici presenta problemi minori, di natura prevalentemente tecnica ed anche per questo i programmi missilistici godono di maggiore favore. Infatti, l'assenza di un accordo internazionale, ampiamente condiviso ed accettato, che limiti lo sviluppo di programmi missilistici e la loro duplice valenza, civile e militare, rende più agevole l'acquisizione e l'osmosi delle applicazioni dual-use. Inoltre, l'elevato contenuto tecnologico tende ad incentivare la formazione di personale scientifico e tecnico, favorendo il finanziamento di iniziative ed attività che contribuiscono allo sviluppo dei paesi proliferanti. Infine, la marcata valenza geopolitica, prima ancora che strategica, dei sistemi balistici nei rapporti di potenza regionali e nelle prove di forza con gli attori extra-regionali, favoriscono i sistemi missilistici, i quali – rispetto agli aerei da combattimento – offrono superiori prestazioni in termini di velocità, autonomia, capacità di sopravvivenza e di penetrazione. Inoltre, essi richiedono minori oneri di acquisizione e di gestione dei sistemi d'arma. Infine, il possesso di vettori missilistici consente, indipendentemente dal loro numero, significativi miglioramenti del livello di prestigio di cui gode il Paese che li possiede, che può anche sfruttare i test di lancio, opportunamente pubblicizzati, come strumenti di provata efficacia nell'esercitare forme di pressione psicologica a livello politico-diplomatico, utilizzabili sia per finalità interne che per scopi di deterrenza nei rapporti internazionali. Non sono rari, inoltre, momenti in cui, emulando quanto a suo tempo attuato dalle superpotenze, gli arsenali missilistici sono sfruttati come strumento di coercizione diplomatica, dimostrando anche in questo caso una valenza superiore a quella degli tradizionali armamenti. Alla luce di queste considerazioni, nel presente lavoro vengono delineati i vari aspetti della proliferazione missilistica nel Grande Medio Oriente, considerata nell'ambito del più ampio ed articolato problema della proliferazione delle armi di distruzione di massa, cui viene accennato ove necessario. La trattazione è articolata in tre parti principali, integrate da una serie di considerazioni conclusive. La prima parte del lavoro, dedicata all'analisi del ruolo svolto dai sistemi missilistici nell'attuale contesto internazionale, viene aperta da una sintetica disamina storica dello sviluppo ed impiego dei sistemi missilistici nei conflitti moderni. Viene tratteggiato lo sviluppo della missilistica moderna alla vigilia e durante il secondo conflitto mondiale, seguito dalle principali vicende che hanno caratterizzato l'evoluzione della deterrenza nucleare e missilistica nel corso della guerra fredda. A partire dall'inizio degli anni sessanta, i vettori missilistici hanno progressivamente acquistato un ruolo centrale, a discapito dei bombardieri strategici, progressivamente relegati a compiti complementari, mentre l'aviazione manteneva una presenza significativa a livello tattico-operativo. Nel prosieguo della trattazione, si esaminano brevemente i passaggi salienti della crisi missilistica del 1960, conseguente allo schieramento a Cuba dei vettori nucleari sovietici, che rappresenta una tappa importante nella storia della contrapposizione bipolare. Sul piano tecnologico, l'evento ha impresso un importante impulso allo sviluppo di vettori missilistici da parte degli Stati Uniti (che, all'epoca, paventavano un inesistente gap missilistico), mentre sul piano delle relazioni internazionali veniva evidenziata l'esigenza di instaurare meccanismi di comunicazione e di consultazione fra le due superpotenze, al fine di scongiurare ogni rischio di spiralizzazione nucleare. L'evento serviva anche da spunto iniziale per la successiva decisione francese di intraprendere una autonoma strategia nucleare e missilistica, ritenuta più rispondente alle esigenze francesi in termini di sicurezza nazionale di quanto assicurato dalla NATO. Nel prosieguo, una rassegna di casi di impiego di sistemi missilistici in particolari eventi storici consente di tratteggiare alcune delle motivazioni che alimentano gli attuali timori e le reciproche diffidenze radicate nell'area, nonché le inquietudine internazionali per i possibili effetti destabilizzanti causati da ordigni relativamente semplici, ma efficacemente utilizzabili anche in contesti di confronto asimmetrico. Segue una analisi dell'attuale proliferazione missilistica, che considera le motivazioni delle varie parti in causa, evidenziando i possibili rischi connessi con la proliferazione delle armi di distruzione di massa, alle quali i vettori missilistici forniscono l'indispensabile complemento operativo e strategico. In questo quadro, vengono sottolineati i tratti salienti e i limiti degli accordi internazionali attualmente operanti per contrastare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, integrati da un sintetico cenno ai programmi di difesa antimissile ed alle convenzioni che regolano l'uso pacifico dello spazio. Nella seconda parte, vengono considerate le dimensioni geopolitiche e geostrategiche della proliferazione missilistica nella macroregione, partendo dall'esame delle caratteristiche geografiche, politiche e strategiche dello scenario mediorientale, nel quale soggetti geopolitici profondamente diversi – spesso in antagonismo fra loro – possono talora condividere finalità politico-strategiche identiche o complementari. Considerato come la percezione della minaccia influisca sulle motivazioni degli Stati proliferanti, particolare attenzione è stata riservata ai meccanismi della deterrenza ed alla combinazione dei fattori di potenza e vulnerabilità, così come si sono sviluppati nel contesto della contrapposizione bipolare ancora oggi operanti. In tale quadro, viene esaminato il processo evolutivo della deterrenza nucleare – inizialmente in funzione contro-risorse e successivamente orientata in funzione contro-forze – di pari passo con il miglioramento della precisione dei vettori missilistici. Inoltre, viene fatto riferimento anche alle formule di deterrenza sviluppate autonomamente da parte di Cina, India e Pakistan, contestualmente alla formazione dei rispettivi arsenali nucleari. L'introduzione di testate nucleari imbarcate su sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare ha conferito una sostanziale invulnerabilità a parte del deterrente nucleare, rendendo realisticamente impraticabile l'opzione dell'attacco preventivo per annullare l'arsenale nucleare avversario. Questa nuova situazione ha comportato il superamento della dottrina del first use ed ha posto le basi per il consolidamento degli equilibri esistenti, mantenuti sotto la reale minaccia di distruzione reciproca assicurata (MAD). Con la dissoluzione del blocco orientale e l'emergere della posizione egemone degli USA, la dottrina della deterrenza è entrata in un processo evolutivo ancora in atto, influenzato in misura significativa dai programmi di difesa antimissile statunitensi e dallo sviluppo di armi antisatellite avviato da parte della Cina e di altri paesi. Queste iniziative rappresentano, almeno in parte, una risposta alla dottrina strategica statunitense – che ha rivendicato il diritto americano all'intervento preventivo - ed alla dottrina della "full spectrum dominance". Dopo il ritiro dal Trattato ABM, l'amministrazione Bush ha adottato una serie di iniziative in materia di difesa contro i vettori balistici, in linea con la unilateralità delle posizioni e degli obiettivi di politica spaziale, che, al momento, risulta sostanzialmente confermata dalla nuova amministrazione USA. D'altra parte, Washington nutre forti preoccupazioni per la proliferazione missilistica in atto in numerosi Stati del Medio Oriente allargato, in quanto – in un futuro confronto asimmetrico – potrebbe da un lato alterare gli equilibri di potenza locali, dall'altro sarebbe in grado di ipotecare pesantemente le capacità statunitensi di proiezione di forza convenzionale nella regione, in cui hanno origine flussi energetici di vitale importanza. Nel prosieguo, viene trattato il ruolo geopolitico e geostrategico svolto dai sistemi missilistici e spaziali, sia per quanto si riferisce all'applicazione di tecnologie dual-use nello sviluppo dei vettori missilistici civili e militari, sia per quanto concerne l'evoluzione delle visioni incentrate sui rapporti di potenza, con particolare riferimento alle maggiori potenze. A completamento, viene introdotta una breve disamina delle possibilità e dei limiti che incidono sulla formazione del quadro conoscitivo, con specifico riferimento allo sviluppo dei sistemi missilistici. In presenza di mezzi che rappresentano allo stesso tempo strumento della capacità militare e mezzo della propaganda politica, l'analisi oggettiva risulta oltremodo difficoltosa e fortemente penalizzata, essendo talora problematico valutare l'attendibilità delle fonti aperte disponibili. Le maggiori difficoltà interpretative dei dati reperibili derivano dalla sovrapposizione degli interessi propagandistici dei paesi proliferanti e delle valutazioni dell'intelligence avversaria, col risultato di una sopravvalutazione delle prestazioni e dei risultati conseguiti dai programmi di proliferazione. Difficoltà che, in qualche caso, risultano amplificate dal particolare ed articolato contesto mediorientale, in cui i complessi intrecci fra le aspirazioni dichiarate dalle leadership locali e le reali finalità rendono indefinito il bilancio di certezze e probabilità, come peraltro esemplificato nel 2003 dalla errata valutazione statunitense relativamente alle armi di distruzione di massa irachene. In questa prospettiva e al fine di fornire alcuni semplici elementi di valutazione, è stato redatto un sintetico allegato tecnico, in cui sono raccolti i principali parametri tecnologici ed operativi che caratterizzano le varie tipologie di vettore balistico, con una sintetica integrazione dedicata ai missili da crociera. Nella terza parte, vengono tratteggiati i lineamenti essenziali che contraddistinguono le posture strategiche dei principali attori del Grande Medio Oriente, inclusi India e Pakistan, accennando anche ai relativi programmi e dotazioni missilistiche. Contestualmente, si fa cenno, per quanto noto, anche ai coinvolgimenti dei principali attori extra-regionali. Uno specifico approfondimento viene dedicato ai potenziali missilistico iraniano ed israeliano, sottolineando le premesse storiche, geopolitiche e geostrategiche che – nell'ambito della politica di sicurezza dei due paesi – contribuiscono a motivare le scelte in questa direzione. Un accenno anche alla nuova dimensione geostrategica dei vettori balistici, con rilevante impatto sul piano politico interno ed internazionale, emerso in occasione degli attacchi missilistici condotti da Hezbollah e culminati negli scontri del giugno 2006. Da ultimo, alla luce di quanto emerso dall'esame dei vari aspetti della problematica e dei principali fattori che intervengono negli equilibri della macroregione, vengono tratteggiati alcuni dei possibili scenari di confronto geostrategico, anche conflittuale, fra i principali attori regionali. In particolare, l'attenzione è focalizzata sulla valutazione del possibile ruolo della componente missilistica, sia quale potenziale elemento destabilizzante, sia come possibile strumento di deterrenza sia, in determinate circostanze, quale stimolo per la individuazione di equilibri condivisi e per escludere ipotesi di spiralizzazione della contrapposizione regionale. Una serie di considerazioni conclude la trattazione che, per una più agevole consultazione, è stato integrata da vari allegati. Oltre ad una raccolta dei termini, acronimi ed abbreviazioni di uso più ricorrente nella trattazione della specifica tematica, in questa parte è stata inserita una sintetica trattazione degli aspetti tecnologici dei vettori missilistici, utile per l'analisi critica di previsioni e scenari relativi alla proliferazione missilistica. Una serie di schede riepilogano le dotazioni missilistiche dei principali paesi della macroregione, secondo i dati attualmente disponibili. Per la preparazione del presente studio, sviluppato sui dati noti sino alla fine del 2009, ci si è avvalsi di fonti differenziate, utilizzando in misura significativa l'ampia e dettagliata pubblicistica prodotta da importanti centri di ricerca che approfondiscono le tematiche della geopolitica e della geostrategia e che dedicano ampi spazi all'analisi delle questioni connesse con le relazioni internazionali e la proliferazione missilistica. ; XXII Ciclo