Il tema dell'internazionalizzazione occupa nel contesto socio-culturale attuale una posizione di trasversalità privilegiata. Si tratta di un concetto che si pone in diretta ed immediata relazione sia con l'orizzonte amplissimo della globalizzazione, poiché ha le stesse coordinate storico-geografiche, sia con il fenomeno dei flussi migratori. L'esperienza della migrazione, con la sua ricaduta sociale oggi particolarmente problematica, fa parte da sempre, in realtà, della vicenda umana. A più riprese, dall'epoca del patriarcato, le contraddizioni della dialettica tra nomadi e stanziali si sono manifestate in una relazione complicata ulteriorimente dalla coincidenza storico-geografica che ha visto ritrovarsi negli stessi luoghi e negli stessi anni gruppi stanziali e gruppi nomadi. E' chiaro che solo dalla coincidenza di questi due fattori può configurarsi quel fenomeno sociologico che ha visto mutare nel tempo le relazioni tra indigeni e migranti e porre le basi concettuali del paradigma interculturale tanto più fiorente quanto più critica nel tempo si è rivelata le convivenza di gruppi diversi. Non è sempre stato difficile come oggi per i popoli abitare lo stesso luogo e lo stesso tempo. La memoria di un medioevo lungamente oscurato da una storiografia ostile sta lentamente riassumendo caratteri di luminosità nel proporsi come l'epoca della felice isola di un sincretismo dimenticato fatto di dialoghi tra le sponde del Mediterraneo, tra i confini più lontani e le arti più disparate. Se oggi appare superficialmente rivoluzionario parlare di globalizzazione e di internazionalismo, è proprio a causa dell'amnesia che ha occultato alla comune percezione storica il peso che l'idea di nazione ha esercitato sulla storia moderna. Dall'insorgenza delle monarchie nazionali al fenomeno imperialista per arrivare ai totalitarismi che hanno condotto al disastro della seconda guerra mondiale, lo stato nazionale, nato sul presupposto dell'omogeneità culturale di lingua, razza, religione come da relative tracce nel pensiero fichtiano, non ha cessato di difendere la sovranità del limite elevando la sacralità del confine, al punto di farne una vera e propria religione. In questo arco temporale, si può solo sostenere di aver rimosso la memoria di un internazionalismo che appartiene alla storia dei popoli e quindi presentarne il concetto con la sua istanza non ingenuamente innovatrice o innovativa, ma solo con la sua connotazione restauratrice, per così dire, di una dimensione già vissuta in molti momenti della storia dell'umanità. Il suo carattere apparentemente innovativo, senz'altro legato alla rivoluzione tecnologica, quella sì, originale, non riflette oggi che la necessità di tornare a dialogare pacificamente per culture che altri paradigmi hanno separato, messo le une contro le altre, posto in discussione concettualizzando ad hoc un'ideologia culturale ancora dura da mettere definitivamente da parte, nonostante il dibattito relativista. La risposta è nella formulazione di un nuovo concetto di cittadinanza, compito che lasciamo ai giuristi, ma che qui rimane al centro della riflessione in virtù del legame che lega in ogni paese la scuola, la carta costituzionale e la costituzione europea ad oggi parzialmente concretizzata nel Trattato di Lisbona. Al confine tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sovranazionale siede la complessità del problema in questione: internazionalizzare la scuola per tutti senza tradire i patrimoni nazionali e senza rinunciare alla costruzione di un'identità e di un orizzonte di senso comuni. 2. L'Unione Europea, il corpo diplomatico e l'internazionalismo La storia dell'Unione Europea e dello sviluppo delle sue istituzioni è la traccia più evidente oggi di questa necessità: un bisogno che si è manifestato nella sua massima forza proprio nell'immediato postbellico degli anni successivi al 1945, un progetto di pace statuito nella Dichiarazione Schumann e simbolicamente fondato sulla condivisione delle risorse minerarie che sono state la causa dei ripetuti conflitti franco-tedeschi al quale madri e padri dell'Europa hanno partecipato con il loro contributo economico, diplomatico e intellettuale ponendosi al servizio dei governi in grado di determinare un nuovo orientamento unitario nella politica mondiale capace di salvaguardare a lungo gli equilibri totalmente sconvolti dalle due guerre del XX secolo. In tal senso, emerge chiaramente il ruolo delle diplomazie internazionali e la necessità di un lavoro alacre in questa direzione. Il corpo diplomatico vanta un prestigio e un ruolo che affonda le sue origini in età rinascimentale, quando tra una corte e l'altra della penisola frammentata si rendevano necessari interventi di mediazione politica e di dialogo. I negoziati, spesso condotti da grandi personalità del mondo della cultura, dovevano rivelarsi capaci di tutelare gli interessi dei governanti e di garantire la prosperità delle loro signorie. Si trattava di missioni che all'epoca solo chi fosse già in possesso di lauti mezzi di sussistenza poteva permettersi, dal momento che avevano un costo elevato, non finanziato dalle corti, dovuto alla condizione del viaggio. E si trattava di compiti che da soli bastavano ad aumentare il prestigio personale di coloro che accettavano di mettersi a disposizione dei signori per tali incarichi. Tra questi personaggi, in Italia, si contano numerose figure legate agli ambienti letterari. La diplomazia ha un posto importante in ogni discorso che riguardi l'internazionalità e l'internazionalizzazione e anche in questa sede costituisce la cerniera tra la prima e la seconda parte del saggio che si intende qui presentare sinteticamente. Negli anni Cinquanta, con lo sviluppo delle prime istituzioni europee, sono nate, infatti, esigenze legate alle professioni diplomatiche che si svolgono per loro stessa natura all'interno di quelle che definiamo per comodità coordinate migratorie, caratteristiche stabili dell'orizzonte esistenziale di chi le svolge: periodica mobilità, segmentazione dei percorsi di vita, sradicamento, prestigio economico e sociale. I diplomatici sono parte di una carovana migrante elitaria e, nel loro flusso, portano con sé esperienze e relazioni particolari, legate al mix culturale che oggi sembra l'eccezione, ma che in altri tempi era la regola. Famiglie dove normalmente si parlano due o tre lingue, figli bilingui o trilingui con percorsi educativi segmentati e spesso insoddisfacenti dal punto di vista affettivo, nuclei ricchi di altro, ma privi di una stabilità di cui bambini e adolescenti hanno bisogno per strutturare e sviluppare su basi solide la propria identità di persone e di parlanti. Per loro il rapporto tra l'identità e il linguaggio assume dimensioni non trascurabili, soprattutto perché si trovano ad affrontare situazioni di mobilità ripetuta e non priva di disagi. Una volta costruite le basi per la costruzione di una storia familiare propria, spostarsi non è stato facile nemmeno per i diplomatici di più antica tradizione familiare. 3. Le Scuole Europee di Bruxelles E' così che, nel cuore dell'Europa, si è pensato di dare loro un incentivo alla mobilità che non fosse solo di carattere economico salariale, ma che tendesse proprio alla risoluzione pratica di un problema: quale educazione per la prole europeista? Quale sistema di riferimento per allievi privi di riferimenti stabili, certi, continui e durevoli? Ecco, dunque, nel 1953, nascere la prima Scuola Europea nello Stato di Lussemburgo, il primo di una serie di istituti che apriranno nel tempo per intercettare e rispondere a questo bisogno e che costituiranno una vera e propria minirete dell''istruzione internazionale. Diverse dalle Scuole Internazionali e dalle scuole di paesi presenti sul suolo di altri stati, le Scuole Europee, ad oggi 15 tra quelle di tipo I e quelle di tipo II e III, si ispirano a un modello europeista più tendente a valorizzare le differenze nell'omogeneità dell'offerta formativa rispetto al modello americano più teso all'omologazione filo-occidentalista. Tutti gli altri tipi di scuole sono legate agli istituti di cultura nazionali di origine e fanno capo, di concerto, ai rispettivi ministeri dell'educazione e degli esteri. Di fatto, costituiscono il riferimento educativo delle famiglie che, dal loro paese, sono migrate in un altro, ma che desiderano mantenere nelle generazioni un legame con la tradizione culturale da cui provengono. Questa rete di scuole classificata sotto la denominazione di Scuole Europee di Bruxelles nasce, in primo luogo, per tutelare la differenza linguistica, dunque per garantire un insegnamento nella lingua madre degli allievi iscritti, armonizzando i programmi scolastici in modo che gli stessi contenuti siano affrontati parallelamente in tutte le sezioni linguistiche differenti. E' dall'analisi della struttura pedagogica e amministrativa, passando per programmi didattici, curricoli e materiali in adozione, ma anche per regolamenti inerenti la politica delle iscrizioni e il reclutamento del personale docente e educativo, che si evincono punti di forza e di debolezza rispetto agli obiettivi dichiarati nella Convenzione recante statuto delle Scuole Europee che ne sta a fondamento 4. Teoria, strumenti e metodi Per quanto riguarda la teoria, gli strumenti e i metodi adottati in questa ricerca, i punti di riferimento dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesi-membri dell'Unione Europea sono gli stessi ai quali sono stati ancorati gli strumenti pensati per osservare le Scuole Europee di Bruxelles: parametri di carattere pedagogico e normativo utilizzati nelle statistiche degli osservatori educativi internazionali, infatti, vengono analizzati e posti in relazione alle teorie di pensatori come il francese Durkheim de L'éducation morale, Education et Sociologie, L'évolution pédagogique en France, De la division du travail social, come l'americano Dewey di Le fonti di una scienza dell'educazione, The school&Society, Democracy and Education, come il belga Decroly di Le programme d'une école dans la vie o come Kymlicka de La cittadinanza multiculturale: autori ed opere selezionati secondo un criterio tematico piuttosto che monografico. D'altro canto ne vengono analizzate le specifiche e gli obiettivi raggiunti anche attraverso l'analisi secondaria dei dati ufficiali del Segretariato Generale delle Scuole Europee, del Sistema Statistico Europeo, Eurostat, Istat, dei rapporti Ocse e del Consiglio d'Europa, dei dati Eurydice nonché degli osservatori nazionali sull'internazionalizzazione della scuola e sull'intercultura. L'attenzione ai dati si integra e completa con la raccolta di interviste biografiche nel convincimento che il metodo quali-quantitativo sia il più adeguato alla costruzione di un quadro il più esaustivo possibile, ma anche per sopperire alle limitazioni di cui ha sofferto la rilevazione delle informazioni nel corso della ricerca sul campo. 5. Analisi dei sistemi educativi nazionali dell'Unione Europea L'intento comparativo della ricerca, tenendo fisso lo scopo della maturazione della cittadinanza europea, si fonda su un secondo cardine, quello dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesimembri dell'Ue nei loro aspetti amministrativi e didattici e si concentra in particolare sui contenuti, sulla misura e sugli strumenti delle discipline umanistiche previste nei curricoli con attenzione alle lingue straniere. In questo quadro, emerge un margine di flessibilità curricolare che costituisce, come nel caso delle Scuole Europee, un'apertura positiva verso il migliore raggiungimento del risultato, anche se, ad oggi, l'attenzione a spostare l'asse educativo verso l'acquisizione di competenze di cittadinanza sovranazionale è ancora carente. Si tende più facilmente, infatti, a risolvere il problema mediante l'aggiunta di materie di contenuto civico ad ambiti disciplinari che le comprendano anche dal punto di vista di una valutazione globale di area e comunque ancorate ai paradigmi ordinamentali nazionali. Si tratta di una soluzione di compromesso nata dalle tensioni conseguenti all'adozione del metodo intergovernativo che genera frizioni, competizioni e attitudini di chiusura tra stati costantemente sulla difensiva e poco disposti a porre in discussione il proprio canone culturale di riferimento. Poiché l'aspetto più interessante ai fini di questa ricerca è l'accessibilità a un sistema educativo europeizzante e inclusivo, perché tutti gli allievi possano tramite i suoi curricoli diventare futuri cittadini europei, pare opportuno considerare con maggiore attenzione la fascia della scuola dell'obbligo, le diverse tipologie di indirizzi nella scuola secondaria compresi nell'obbligatorietà e le fonti di finanziamento pubblico anche nel caso degli stati in cui la scuola di riferimento è quella privata. 6. Politica e educazione nell'Unione Europea Nel corso dello studio di questa tematica, la forbice filosofica tra le società della conoscenza così come viene delineata nel Trattato di Lisbona e la società della cittadinanza europea rappresenta lo stesso gap che esiste oggi tra l'Europa finanziaria e l'Europa sociale. E' per questo che viene offerta altresì una panoramica della storia politica europea, dei cambiamenti che nel quadro educativo hanno prodotto gli avvicendamenti delle maggioranze e dei punti di vista che si sono confrontati nei dibattiti interni alla Commissione, al Parlamento Europeo e all'organizzazione internazionale cui inizialmente era stato affidato lo sviluppo di un dibattito che favorisse l'integrazione delle culture dei paesi d'Europa e non solo, il Consiglio d'Europa. Lo sviluppo delle azioni e dei programmi successivi debitamente sostenuti è stato anche il risultato di un'elaborazione condivisa che ha condotto al consolidamento del ricorso alla mobilità, dello scambio e delle buone pratiche non solo al livello di utenza, ma al livello di comunità scolastica, dove cioè anche la formazione dei docenti e dei dirigenti ha il suo ruolo. E' un cammino di datazione trentennale dal quale la riflessione sullo sviluppo della scuola europea per tutti non può prescindere nonostante l'esigenza di fondarsi su basi più stabili e radicate sia ormai alle porte non solo per restare in vetta alla classifica del mercato mondiale, ma soprattutto perché le opportunità offerte dal mercato comune, dall'internazionalizzazione dei percorsi personali e professionali sia ampliata trasversalmente a tutte le classi sociali e non limitata alle esclusive capacità economiche di una borghesia medio-alta. L'anno europeo delle lingue, come ogni altra iniziativa legata alla diffusione delle L2 e L3, ha rappresentato un'occasione storica in tal senso e costituisce la premessa di un potenziamento del monte ore delle lingue nei curricoli nazionali anche in corso di riforma nonché di una definitiva, articolata e diffusa applicazione del clil-teaching, ossia dell'insegnamento di discipline non linguistiche in una L2 veicolare, nelle scuole di ogni ordine e grado con particolare attenzione al segmento dell'obbligo. 7. Una scuola europea inclusiva per i cittadini europei di domani In questo senso la strada da percorrere è lunga e necessita di svariati interventi di diversa natura. Una proposta curricolare di facile adozione e adattabilità ai patrimoni culturali nazionali dell'Europa a 27 viene avanzata e sottoposta all'attenzione degli ipotetici decisori politici nonostante resti aperto un problema di metodi mutuati dalla storia della diplomazia del continente e di competenze determinate da scelte politiche. In questo quadro, un progresso significativo si è concretizzato con la nascita e con l'ampliamento degli uffici della Direzione Generale Istruzione e Cultura della Commissione Europea che rappresenta in qualche modo le istanze discusse e dibattute in altri luoghi di elaborazione privi di forza istituzionale. Il cammino verso un sistema educativo internazionale è aperto e l'obiettivo della cittadinanza europea come risultato dell'unità nella diversità sempre più vicino.
L'invecchiamento della popolazione è un processo irreversibile e un cambiamento globale senza precedenti che l'umanità intera deve affrontare e gestire. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 le persone con oltre 60 anni saranno quasi 2 miliardi (World Health Organization 2012, 6). Le cause sono riconducibili a due importanti fattori: il calo delle nascite e il progressivo allungamento della vita, i quali stanno provocando una graduale ma inevitabile riduzione della quota di popolazione giovane a vantaggio di quella più adulta. Prenderne atto costituisce solamente il primo passo verso la consapevolezza che queste dinamiche demografiche stanno mutando non solo la struttura della popolazione, ma anche quella della società con tutti i rapporti e le relazioni che in essa avvengono. In una sorta di reazione a catena sociale, sono destinate a cambiare anche le strutture produttive, gli schemi culturali, il welfare, i consumi, il mercato del lavoro, i rapporti intergenerazionali: in sostanza va progressivamente ripensata l'intera società in vista delle sfide che si dovranno necessariamente affrontare. In particolare, l'aumento dell'età di una popolazione pone questioni importanti in relazione ai riassetti del mercato del lavoro e dei sistemi pensionistici (questi ultimi non sono oggetto di studio nella ricerca). Infatti, la combinazione tra i fattori demografici precedentemente descritti, le barriere all'ingresso delle giovani generazioni e gli interventi volti a ristabilire l'equilibrio finanziario del sistema pensionistico pubblico (la cosiddetta riforma Fornero del 2011), ha profondamente ridisegnato la struttura per età del mercato del lavoro italiano degli ultimi venti anni circa, contribuendo alla crescita dell'offerta di lavoro collocata nella seconda parte della carriera lavorativa. Il presente contributo concentra l'analisi sugli effetti che l'invecchiamento sta producendo sulla forza lavoro e nel mercato del lavoro, tentando di riflettere su alcuni aspetti intorno ai quali si sta declinando il discorso sul rapporto fra policy, invecchiamento e mercato del lavoro, nell'ottica di approfondire le trasformazioni in corso, sui problemi aperti di cui danno riscontro le statistiche inerenti il mercato del lavoro. In questo contesto, la ricerca è divisa in tre parti. Nella prima si approfondiscono le principali definizioni della tematica oggetto di studio cercando di fornire anche un breve quadro demografico dello scenario italiano con l'utilizzo dei dati dell'Indagine Istat "Rilevazione sulle Forze di Lavoro"; la seconda esplora le modalità con cui le aziende hanno affrontato i recenti mutamenti demografici ed economici nonché le scelte gestionali adottate specificamente in relazione al fattore età attraverso i dati dell'Indagine Inapp " La gestione della forza lavoro matura da parte delle piccole e medie imprese private italiane"; infine la terza analizza i risultati dell'Indagine Istat riguardante "La partecipazione degli adulti alle attività formative", in quanto proprio queste ultime possono svolgere un ruolo chiave, non solo per contrastare il declino delle competenze, ma anche per favorirne l'aggiornamento e l'ampliamento costante, specialmente per la popolazione in età avanzata. In particolare, dall'indagine con oggetto le piccole medie imprese realizzata dall'Inapp emerge, sostanzialmente, che la composizione demografica dell'impresa non rappresenta un ostacolo allo sviluppo. Le PMI non considerano l'età un fattore determinante per il rendimento professionale di un lavoratore, mentre in fase di reclutamento del proprio personale le imprese privilegiano sia l'esperienza che le competenze professionali. L'esperienza viene spesso vista come garanzia di qualità e ciò è sottolineato dall'importanza della trasmissione della conoscenza e del saper fare: spesso infatti i lavoratori anziani istruiscono, attraverso corsi, i lavoratori in entrata. Nonostante la considerazione prevalentemente di "svantaggio", con la quale viene percepito l'invecchiamento, cresca con l'aumentare della numerosità aziendale, proprio le imprese più grandi sembrano adottare comportamenti virtuosi in una prospettiva di sviluppo a lungo termine, nell'ottica dell'intero ciclo di vita lavorativo di ciascun individuo e delle politiche di gestione delle differenze. Tali comportamenti sono anche in linea con quanto auspicato dall'Unione Europea che ha posto l'accento sull'opportunità di sviluppare politiche in un'ottica di ciclo di vita, piuttosto che di target group isolati, seguendo un approccio orientato alla gestione dell'età e della diversità lungo tutto l'arco dello sviluppo professionale, che tenga conto dell'evolversi del rapporto fra individui, mercato del lavoro e vita familiare. Pertanto, nelle medie aziende e ancor di più in quelle di grandi dimensioni, è più probabile rilevare politiche e interventi strutturati rivolti all'età nell'ambito delle gestione delle risorse umane, nonché esperienze ispirate a criteri di responsabilità sociale e sviluppate in un'ottica di lungo periodo che contribuiscono alla costruzione dell'identità aziendale all'interno del sistema territoriale. In generale, a prescindere dalla dimensione aziendale, le imprese non vivono l'invecchiamento delle proprie risorse umane particolarmente come un problema, ma piuttosto come una risorsa per la crescita dell'intero sistema produttivo, considerandolo sostanzialmente un vantaggio, un'opportunità, e nel contempo individuano nella formazione uno degli strumenti principe dei processi ri-organizzativi e per lo sviluppo dei percorsi di carriera, anche se declinato in modalità differenziate in relazione alla tipologia aziendale. Il percorso che dovrebbero intraprendere le piccole e medie imprese, e che le grandi hanno già intrapreso, nell'affrontare il problema dell'invecchiamento dei lavoratori sembra caratterizzato da alcuni passaggi obbligati che vanno da una prima fase di sensibilizzazione al tema dell'ageing, una seconda con l'implementazione di interventi specifici, passando attraverso una fase propedeutica di analisi della composizione demografica del personale (mirata a identificare l'incidenza e le caratteristiche dei lavoratori più anziani, rispetto alla popolazione aziendale complessiva o in relazione alle altre generazioni di lavoratori), fino a una terza fase, altrettanto importante, di progettazione, attuazione e valutazione di "progetti pilota" e politiche mirate. Complessivamente, gli interventi analizzati sono riconducibili a tre tematiche prioritarie - formazione, valorizzazione dell'esperienza e sostegno al dialogo intergenerazionale - la cui finalità generale è quella di sostenere la redditività complessiva dell'impresa attraverso il mantenimento e il miglioramento della produttività dei lavoratori, specialmente quelli più maturi che generalmente rappresentano un costo più elevato. Infatti, l'attuale economia, in rapida trasformazione e sempre più rivolta all'innovazione, sta rendendo le competenze dei lavoratori obsolete più rapidamente che mai. Oltre ad aggiornare le proprie competenze per adeguarsi alle mutevoli esigenze, sta emergendo anche la domanda di nuove tipologie di capacità professionali. Le attività formative sono comunque abbastanza diffuse in un'ottica del lifelong learning quale strumento principale per il sostegno all'occupabilità della forza lavoro e alla competitività delle imprese. Ma tali attività non sono rivolte a tutti i dipendenti in egual misura: emerge infatti, sin dalle prime analisi, che la partecipazione alla formazione differisce tra gli adulti, a dimostrazione che sono presenti alcuni gruppi che richiederebbero politiche specifiche e mirate. A parte i non occupati, che nel presente lavoro non sono stati oggetto di studio, coloro che hanno il minimo accesso all'apprendimento sono i lavoratori vicini al pensionamento (over 50) e quelli con scarse qualifiche professionali. Inoltre, la partecipazione alla formazione professionale continua è positivamente correlata al livello di istruzione. A tal riguardo, l'indagine AES (Adult Education Survey) ha evidenziato come le motivazioni chiave e le barriere relative alla formazione siano correlate al lavoro. Se si considera che oltre il 60% dei percorsi di formazione non formale è finanziato o sponsorizzato dal datore di lavoro, la partecipazione e il ruolo del datore di lavoro nel fornire nuove opportunità di apprendimento sono di fondamentale importanza. Incoraggiare quindi i datori di lavoro, in particolare le piccole e medie imprese, a sviluppare opportunità di apprendimento è fondamentale. Se a volte è la mancanza di consapevolezza della necessità di apprendimento una delle ragioni principali che ostacola la partecipazione formativa, anche altri motivi sono molto frequenti: la mancanza di tempo a causa di responsabilità familiari e di orari di lavoro, la mancanza di risorse finanziarie, la lontananza da casa o dal luogo di lavoro, ragioni di salute e di età. Esempi di buone pratiche mostrano comunque approcci su come aumentare il livello di competenza dei lavoratori più anziani. In alcuni casi infatti, gli interventi formativi sono dedicati specificamente ai lavoratori meno giovani: si tratta principalmente di iniziative mirate all'aggiornamento di competenze tecniche in ambiti particolari (es. competenze informatiche, quando è molto forte la propensione all'innovazione tecnologica) o alla riqualificazione dei lavoratori più anziani nel ruolo di formatori (quando la cultura aziendale è orientata alla valorizzazione dell'esperienza). Valorizzare l'esperienza è infatti un fattore chiave per garantire il trasferimento delle conoscenze tra le generazioni e per individuare le attività in cui i lavoratori più anziani sono produttivi: è quindi anche utile per la capacità di innovazione di tutta l'azienda. Ciò che però ancora manca in Italia è una strategia sistematica di aggiornamento e incremento delle competenze degli adulti, in particolare dei senior. Cofinanziamento pubblico alle azioni formative dirette ai senior, diverse modalità di apprendimento, distribuzione temporale dell'azione formativa potrebbero fare da contrappeso a propensioni e atteggiamenti negativi degli individui e delle imprese verso il lifelong learning. Altrettanto importante è promuovere forme di flessibilità e di organizzazione del lavoro, tecnologie e modelli di cultura manageriale che consentano di valorizzare le competenze dei lavoratori anziani. In questo ambito, in tutta Europa si stanno sviluppando esperienze aziendali di successo sulla promozione dell'apprendimento intergenerazionale e della condivisione delle conoscenze tra i lavoratori giovani e anziani. Si tratta di un'attività complessa e dagli esiti non scontati, che richiede una forte disponibilità da parte delle aziende nello sviluppo di un'adeguata cultura di gestione delle risorse umane e di un sistema in grado di capitalizzare gli esiti dell'applicazione di strumenti di apprendimento intergenerazionale. In generale, sarà comunque fondamentale aumentare il livello di formazione professionale continua per i lavoratori in futuro, sia in termini di numero di ore, sia allargando la partecipazione ai gruppi che tendono purtroppo a rimanerne fuori più facilmente, i cosiddetti non learners. Oltre al livello di partecipazione in questa doppia veste, è importante sviluppare anche una cultura dell'apprendimento all'interno del posto di lavoro, individuando particolari esigenze di formazione. Il buon funzionamento del mercato del lavoro si basa su una corrispondenza precisa tra le competenze e le qualifiche formali dei lavoratori e quelle che i datori di lavoro cercano e richiedono. Molto spesso però vi è una carenza significativa di fabbisogni professionali in quanto, le qualifiche formali, pur essendo uno strumento importante per segnalare i livelli di abilità, sono a volte molto diverse dalle reali competenze del lavoratore e, nelle diverse occupazioni, non sono sufficienti a colmare l'incontro tra il fabbisogno di competenze reali e l'offerta di queste ultime. Di conseguenza, a causa di questa sorta di disallineamento, i responsabili politici e gli attori del mercato del lavoro spesso si trovano a contare su segnali imperfetti in tema di esigenze di competenze. Fortunatamente, sulla base delle raccomandazioni della Commissione Europea, nel 2012 sono state promosse misure per la validazione delle competenze acquisite al di fuori del sistema di istruzione formale e per convalidare quindi i percorsi di formazione non formale e di apprendimento informale, quali ad esempio la formazione in azienda, le risorse digitali, il volontariato, l'esperienza di lavoro e l'esperienza di vita in generale. Dal 2018 gli Stati membri, con l'ausilio della EAEA (European Association for the Education of Adults), hanno accettato di mettere in atto tali misure per la convalida delle esperienze (VNFIL - Validation of Non Formal and Informal Learning) degli individui, permettendo loro di ottenere una qualifica. Tali esperienze sarebbero legate alle qualifiche e in linea con il quadro europeo delle qualifiche con norme equivalenti a quelle utilizzate per l'istruzione formale. A parte alcune problematiche (quali l'accettazione professionale di convalida che resta in molti paesi inferiore rispetto all'accettazione dell'istruzione formale, il livello di burocrazia e i costi di validazione), la convalida di queste competenze è particolarmente rilevante per le persone con qualifiche basse, i disoccupati, coloro che sono a rischio di disoccupazione, chi ha bisogno di cambiare i propri percorsi di carriera, in generale per identificare ulteriori esigenze di formazione ed eventuali opportunità di riqualificazione professionale. Infatti, un sistema di istruzione/formazione ben progettato, efficiente, accessibile e con forti legami con il mercato del lavoro, è di cruciale importanza per facilitare l'incontro tra domanda e offerta di competenze richieste e per dedicare particolare attenzione a quei lavoratori particolarmente svantaggiati analizzati precedentemente. A tal proposito, l'Istat ha reso noto che l'intero sistema statistico sull'istruzione e formazione, nel quale è inserita l'indagine sulla partecipazione degli adulti alle attività formative (AES), è in continua evoluzione e in futuro sarà disponibile il nuovo regolamento comunitario. Le principali innovazioni metodologiche, concordate nell'ottica di raccordare maggiormente le informazioni che attengono all'istruzione e alla formazione provenienti dall'Indagine AES, dall'indagine sulle Forze di lavoro e dall'Indagine CVTS (la Rilevazione sulla formazione del personale nelle imprese) saranno l'adozione della classificazione ISCED 2011 e la realizzazione dell'indagine AES ogni quattro anni invece di cinque. Riassumendo, questa è una sfida che l'Unione Europea, governi, imprese e lavoratori devono affrontare e superare, in quanto, a causa dei recenti cambiamenti demografici, la futura evoluzione del mercato del lavoro può essere sostenuta solo attraverso una maggiore produttività che si ottiene con un elevato livello di competenze e di misure di sostegno e di gestione dell'età. I programmi di formazione dovrebbero essere considerati come una parte fondamentale delle politiche attive del mercato del lavoro e quindi di responsabilità dei governi. Di conseguenza, i datori di lavoro potrebbero essere incoraggiati a impegnarsi in un continuo miglioramento delle competenze del proprio personale e a modernizzare le proprie politiche di reclutamento in accordo con i responsabili delle risorse umane rimuovendo le barriere relative all'età in fase di assunzione. Inoltre, è necessaria una forte motivazione da parte dei lavoratori stessi ad aggiornare le proprie competenze e, infine, vi è un ruolo particolare per l'Europa per quanto riguarda il riconoscimento transnazionale delle abilità, in quanto sono necessari sforzi legali e amministrativi per assicurare una corretta comparabilità tra i professionisti in termini di qualifiche ottenute e validità di diplomi conseguiti. Di conseguenza sono necessari efficaci investimenti in materia di istruzione e formazione per le competenze e l'attuazione di strumenti che favoriscano il loro sviluppo. Ciò richiede una prospettiva di lungo periodo, poiché, sulla base delle previsioni della futura domanda di mercato e coerentemente all'esigenza di investire nel capitale umano, è necessario infatti evidenziare anche la redditività dell'investimento formativo e dimostrare la sua efficacia, efficienza, le conseguenze e gli impatti non solo di ordine economico ad esso collegati. In conclusione, tutte le imprese, non solo le grandi, dovrebbero sviluppare strategie di age management. Prima di tutto incrementando l'utilizzo di strumenti per un "demographic check" aziendale e per una corretta "age structure analysis" in modo da poter sviluppare strategie ad hoc per ogni specifica situazione aziendale e misure di age management per aumentare la produttività, l'occupabilità e le condizioni lavorative. Non è un compito facile, in quanto purtroppo, la maggioranza delle aziende italiane è di piccole dimensioni e di conseguenza con un numero limitato di risorse umane da dedicare alle problematiche relative all'invecchiamento della forza lavoro. Comunque, a tal proposito, manuali e guide sulle buone pratiche di gestione dell'età dovrebbero essere diffusi su più larga scala. In secondo luogo, è fondamentale sviluppare in futuro una maggiore cultura della formazione durante tutto l'arco della carriera professionale per tutti i lavoratori, in particolare dopo i 50 anni, dove assume un ruolo fondamentale come misura di contrasto al declino delle competenze, abbracciando il messaggio che "non è mai troppo tardi per imparare". L'auspicio è che il presente lavoro di ricerca, visto il continuo prolungamento della vita lavorativa, non solo possa contribuire ad una migliore comprensione delle misure di sostegno di gestione dell'età e dei modelli di partecipazione formativa, ma anche ad un ulteriore sviluppo di politiche di formazione e di buone pratiche di age management in grado di promuovere un più equo e inclusivo accesso degli over 50 al mercato del lavoro, considerando questi ultimi non più solo un problema ma anche una risorsa e un'opportunità da saper cogliere. Questo sarebbe il vero cambiamento.
Le motivazioni che mi hanno spinto a redigere questo elaborato sono diverse. Una su tutte il senso di responsabilità verso una frase di H., pastore palestinese e leader della resistenza nonviolenta nelle colline a sud di Hebron, che ho sentito particolarmente ispirante: "il vostro ruolo qui è molto importante, ma è più importante in Italia". Molte sono state le spinte che ho ricevuto in questo senso durante la mia esperienza in Palestina/Israele della primavera scorsa, quando, tramite Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, mi sono recato in qualità di volontario di breve periodo nella parte meridionale della Cisgiordania, nelle colline a sud di Hebron. Su queste colline ho trascorso tre mesi vivendo ad At-Tuwani, il villaggio più grande dell'area, situato nella zona denominata come Masafer Yatta. Questa esperienza, valida anche come tirocinio formativo del corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti, mi è stata utile, soprattutto, per conoscere la verità su quanto accade nei territori palestinesi occupati. Dopo aver conosciuto la triste situazione di precarietà che vivono le famiglie palestinesi della comunità delle South Hebron Hills e dopo aver visto con i miei occhi la prassi nonviolenta che hanno deciso di adottare come metodo di resistenza attiva all'occupazione militare e civile israeliana, in questo elaborato ho provato a trovare il risvolto pratico e "tornare alla teoria" di quanto studiato in Teoria dei conflitti. Le asimmetrie dei conflitti, le teorie e le strategie di resistenza e le differenze di approccio ai conflitti, dopo esser stato immerso totalmente all'interno di una comunità palestinese periferica, sono state ancor più nitide e trasparenti. Oltre ad aver ascoltato numerose testimonianze di volontari internazionali ed essermi informato mediante la lettura di articoli di giornale, saggistica e siti internet, ho conosciuto la situazione israelo-palestinese attraverso i racconti di tre ragazzi provenienti da altrettante famiglie palestinesi: Bashar, Khaled e Hassan. Quattro anni fa, tra il settembre 2008 e il febbraio 2009 ho studiato per sei mesi – tramite il programma Erasmus svolto all'interno del mio precedente ciclo di laurea triennale – presso l'università di Brno, in Repubblica Ceca. In quel luogo ho avuto la possibilità di conoscere giovani provenienti da tutto il mondo e stringere una forte amicizia con i tre ragazzi, due giordani e un siriano. Nel dicembre del 2008, durante i tristi giorni della violenta campagna militare israeliana su Gaza denominata "Piombo Fuso", mi sono trovato così a comprendere ciò che accadeva al di là del Mediterraneo, attraverso coloro che avevano, in un certo modo, subito le stesse sofferenze. Fu per me molto forte condividere quella situazione attraverso i racconti dei figli dei profughi palestinesi. Attraverso il quotidiano aggiornamento delle notizie, gli approfondimenti, le discussioni, le manifestazioni di piazza, la visione di documentari e filmati, audio, sessioni in arabo ed inglese di Al Jazeera e soprattutto mediante numerosi racconti personali di storie raccontategli a sua volta dai genitori e parenti, profughi del '48 e del '67, mi resi conto, in quei mesi, delle forti ingiustizie che avevano luogo in quello spicchio di terra, che prima, per me, non aveva un cosi forte significato. Avendo conosciuto la questione di "Palestina/Israele" tramite questi giovani e le storie delle loro famiglie, ho trovato le giuste motivazioni per svolgere, tre anni e mezzo più tardi, un esperienza con Operazione Colomba nei territori palestinesi. L'esperienza all'estero – anche se per soli tre mesi – è stata fondamentale per la scrittura di questo elaborato poiché ha stravolto il mio modo di vedere e leggere quella ingarbugliata situazione. I pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron non hanno il linguaggio tipicamente geopolitico che spesso si sente nei salotti televisivi o nelle discussioni europee mentre si argomenta riguardo la questione israelo-palestinese. La lingua della gente è quella della dignità e della resistenza, chiede a gran voce la tutela dei più elementari diritti di cui vengono privati ogni giorno e mostra in maniera pratica la possibilità che nei salotti televisivi non viene mai presa in considerazione: la rivoluzione nonviolenta e la trasformazione del conflitto. É questa la ragione, dopo aver esser stato volontario di Operazione Colomba, che mi ha suscitato l'intenzione di redigere questa tesi di laurea. Sentendo forte la necessità di aiutare quella resistenza nonviolenta anche in Italia, ho provato a concedergli lo spazio meritato all'interno di una discussione accademica e ho tentato di farla rientrare a pieno diritto all'interno delle categorie teoriche studiate nella Teoria dei conflitti. Per cercare di non focalizzare l'attenzione solo su una dimensione del conflitto, ho deciso di avvalermi di molteplici strumenti. Ho utilizzato i diari dei volontari, report e articoli scritti sui vari siti delle associazioni che lavorano "sul campo", classici manuali e saggi, documentari, film e interviste video e audio. Oltre alla mia esperienza e al mio diario, ho avuto il prezioso aiuto di alcuni volontari di Operazione Colomba che, attraverso una breve intervista composta da tre domande, hanno riflettuto e poi descritto quelle che sono, secondo il loro parere, le caratteristiche del Corpo Civile di Pace con cui sono partiti per un esperienza all'estero e la metodologia di intervento. Nel redigere questo elaborato, ho provato, come richiede una tesi di laurea magistrale, ad essere oggettivo nel descrivere in maniera analitica tutte le dimensioni, anche quelle che ho vissuto in prima persona. Da italiano e quindi da "parte terza" nel conflitto israelo-palestinese, ho cercato di essere imparziale, pur sapendo le difficoltà in cui incorre qualsiasi autore che redige un determinato documento, accademico o giornalistico che sia. Il mio desiderio è stato quello di cercare l'imparzialità e l'oggettività del narratore, seguendo il modello tracciato dalla nuova storiografia israeliana di T. Segev, B. Morris e I. Pappe. La storia – come sostiene un opuscolo pubblicato da un'associazione di Siena – va ricercata "nelle mani di chi coltiva la speranza, negli sguardi di chi è ebbro di vita, nella fatica di chi ara la terra e accudisce l'olivo"1. L'imparzialità nell'analisi della situazione israelo-palestinese, dal punto di vista grammaticale, è resistita sino alla fine del quarto capitolo, poiché, nella quinta ed ultima sezione, intervistando volontari con cui ho vissuto ad At-Tuwani o che comunque ho conosciuto di persona, raccontando e analizzando anche la mia esperienza personale con la Colomba, non son riuscito a trattenere il mio spirito di forte partecipazione. Se non son riuscito ad essere completamente oggettivo nella descrizione della storia e delle vicende di israeliani e palestinesi significa che sono stato colto da errore e me ne assumerò le responsabilità. Essendo quello su cui ho argomentato un conflitto – come molti altri – ricco di mitologia, le narrazioni presentate al grande pubblico sono quasi sempre solo due e sempre polarizzate una dall'altra. La realtà dei fatti è che entrambe le storie omettono molti passaggi ed eventi diventando così faziose. Il mio tentativo è stato quindi quello di cercare di andare oltre a questa dicotomia e raccontare la storia il piu veritiera e obiettiva possibile. "Lo storico francese Fernand Braudel ha ideato una teoria che paragona il processo storico a un fiume. Ciò che si trova in superficie scorre a grande velocità mentre ciò che si trova sott'acqua si sposta lentamente. Gli avvenimenti scorrono veloci ma nello stesso tempo si nota anche una grande stabilità delle vecchie strutture e dei vecchi modi di pensare. Questi ultimi cambiano molto più lentamente."2 Con questo concetto ben stampato nella mente, anch'io ho cercato di comprendere avvenimenti "di superficie" e i cambiamenti delle "vecchie strutture". Nel primo capitolo ho analizzato gli eventi storici in maniera alternativa, cercando di raccontare i fatti tramite le parole dei protagonisti e provando a ricostruire gli eventi attraverso una pluralità di informazioni. Non mi sono documentato solo dai classici manuali di saggistica, ma ho deciso di avvalermi anche di video-documentari, filmati, report di associazioni, articoli di giornale e siti internet. Inoltre non ho solo incrociato le fonti bibliografiche ma ho cercato di informarmi sottolineando le discrepanze tra le diverse letture che ho svolto. Avendo riflettuto molto sulle parti riportate in questo capitolo e non volendo rinunciare a segnalare alcun autore, forse, il risultato ne è stata una variante un po' troppo estesa. Mi sono prolungato sugli eventi dal 1880 in poi, perché ho considerato necessario soffermarmi su alcuni nodi storici per comprendere meglio la complessità della quotidianità palestinese e israeliana. Ho cercato di rappresentare alcuni aspetti e dimensioni della storia di tutta l'area dando un peso particolare alla questione della terra e delle risorse, evidenziando, quando ne ho avuto la possibilità, la situazione delle popolazioni periferiche, della situazione scolastica, e di coloro che svolgono un lavoro legato a pastorizia, allevamento e agricoltura. Ho tentato di analizzare maggiormente queste dimensioni per comprendere alla radice le cause dei problemi attuali che vivono i pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron. La situazione di quest'area periferica l'ho analizzata nel secondo capitolo, proponendo un percorso storico dal 1948 in poi, dal 1967 con l'occupazione militare, l'insediamento delle colonie e degli avamposti ebraici, fino ad arrivare alla divisioni in aree degli accordi di Oslo, sino alle ultime dinamiche ed eventi accaduti ai giorni nostri. Ho utilizzato esempi provenienti dalla quotidianità della politica di occupazione militare e civile israeliana e come agisce privando i palestinesi che vivono la zona dei più elementari diritti. La situazione paradossale che si crea in quell'area, che secondo gli accordi di Oslo è area C quindi a completa amministrazione militare e civile israeliana è ancora più forte se si pensa alla situazione dei bambini delle South Hebron Hills che, dal 2005 ad oggi, dopo una decisione della Commissione per i diritti dell'infanzia della Knesset, il parlamento israeliano, devono aspettare tutte le mattine e tutti i pomeriggi, una scorta armata dell'IDF che li protegga dagli attacchi dei coloni per poter fare in sicurezza il tragitto da casa a scuola, e viceversa. I capitoli tre e quattro rappresentano il nocciolo della questione, poiché rappresentano quanto mi ero proposto di analizzare e argomentare, espressione del titolo dell'elaborato. Nel terzo ho descritto la situazione di vita complessa e difficile e come viene ribaltata dalla scelta nonviolenta che ha adottato la comunità palestinese che abita le colline a sud di Hebron e del Comitato di Resistenza Popolare, nato nel 2000. Una resistenza, quella di questi palestinesi, che non ha nulla a che vedere con le immagini che i maggiori media nazionali ed internazionali propugnano alla televisione. Una paziente e quotidiana resistenza, che è attiva e decisa nel combattere le ingiustizie e che proviene, in prima istanza, dall'essenza pacifica dei pastori stessi. Alla minaccia di arresto da parte dei soldati o agli attacchi e alle provocazioni dei coloni ai danni di un palestinese su un dato territorio loro rispondono tornando su quell'area organizzando marce e manifestazioni pacifice. Alle demolizioni di strutture o danni ai caseggiati, i nonviolenti palestinesi rispondono ricostruendo quanto distrutto e denunciando le ingiustizie subite presso gli enti preposti. Ai danni degli oliveti e dei campi di grano che sono dislocati su tutte le colline intorno ai villaggi, i palestinesi replicano facendo rinascere la vita, piantando nuovi ulivi e seminando grano per l'anno successivo. Il Comitato, ente preposto per l'organizzazione della resistenza, ha anche il ruolo di organizzare marce per la pace, azioni nonviolente, training di formazione alla nonviolenza e ha avuto l'appoggio di numerosi gruppi di attivisti israeliani e internazionali che vivono e lavorano nell'area. Essendo quella nonviolenta una scelta di massa e popolare, i palestinesi che vivono ad At-Tuwani e nei villaggi vicini hanno avuto l'opportunità, oltre a ricevere in visita numerose delegazioni di israeliani, attivisti e non, di accogliere due gruppi di internazionali, i Christian Peacemaker Team e Operazione Colomba. Oltre alla solidarietà e al supporto, dal 2004 i due gruppi vivono nell'area, condividendo i pericoli e le ostilità quotidiane e accompagnando i pastori palestinesi che pascolano i loro greggi sulle colline. In particolare, sul finire del capitolo ho focalizzato l'attenzione su come il Comitato Popolare delle South Hebron Hills si inserisce nelle questioni nazionali e sulla forza delle donne del villaggio e il loro prezioso ruolo nella resistenza nonviolenta e nelle dinamiche della vita del villaggio. Nel quarto capitolo ho cercato di sintetizzare la resistenza nonviolenta all'interno delle categorie tipiche della Teoria dei conflitti: il conflitto asimmetrico e la risoluzione del conflitto mediante un cambiamento di paradigma. La trasformazione nonviolenta del conflitto, almeno per quanto concerne la situazione nelle South Hebron Hills, è partita dal circuito virtuoso scatenato dalla scelta nonviolenta della comunità palestinese. Le relazioni tra palestinesi e israeliani sono cominciate a differire e il cambiamento pacifico, descritto da Miall in Emergent Conflict and Peaceful Change, ha cominciato a mostrare sin da subito i risultati. Oltre a questioni teoriche legate al conflitto e alla sua trasformazione ho concentrato gli sforzi nel ripercorrere gli anni precedenti la nascita dello stato d'Israele e in particolare nell'accezione nonviolenta, culturale e religiosa di un tipo di sionismo, che con la nascita dello stato Ebraico non ha saputo vincere il braccio di ferro con il sionismo politico di Herzl e Ben Gurion. Infine ho portato altri esempi di prassi nonviolenta e possibili scenari futuri di pace per Palestina/Israele. Nel paragrafo intitolato "Immaginare un altro Israele", ho analizzato uno scambio di missive che è avvenuto sul finire degli anni '30 tra Gandhi e due intellettuali ebrei, seguaci del sionismo culturale, Martin Buber e Judah Magnes. In questo carteggio ho riscontrato differenze sostanziali tra i tre pensatori nonviolenti che ho poi sintetizzato sottolineando in particolare l'importante aspetto della relazione tra politica e religione nelle tre diverse accezioni. Nel quinto ed ultimo capitolo ho mi sono soffermato su Operazione Colomba, le attività che svolge in Palestina/Israele e negli altri luoghi in cui è presente attualmente. Ho portato alla luce la storia del Corpo Nonviolento di Pace che nel 2012 ha festeggiato i primi vent'anni di vita e i tre pilastri fondamentali con cui è intervenuto in zone di conflitto: la scelta nonviolenta, la condivisione della vita con le vittime della guerra e la neutralità dell'intervento o equivicinanza tra le parti. Mi sento orgoglioso del paragrafo "Essere una Colomba" poiché credo fermamente nell'azione di questa organizzazione e nel suo modo di agire. Con l'aiuto di alcuni volontari che ho intervistato, ho riflettuto sul significato di essere una Colomba, all'estero e in Italia e sulla forza della nonviolenza attiva. Infine ho preso ad esempio il lavoro di Operazione Colomba per rilanciare il discorso – ultimamente accantonato – sui Corpi Civili di Pace. La necessità di tale istituzione è, secondo la mia modesta opinione, un'urgenza e un bisogno impellente. Proveniendo dal corso di laurea di Scienze per la pace, ho avuto la possibilità di studiare in maniera interdisciplinare i parametri giuridici e la cornice burocratica all'interno della quale si dovrebbe vedere la nascita di tali Corpi Nonviolenti di Pace, il cui ruolo sarà decisivo per il raggiungimento di quell'obiettivo sancito nella costituzione repubblicana, che è la difesa della Patria con altri mezzi. Infine, ho trovato necessario concludere il mio elaborato, senza assumermi la responsabilità di mettere il punto finale ad una storia, che è ancora in divenire. Ho scelto quindi di chiudere il mio elaborato e il mio percorso di studi, tramite delle conclusioni (o nonconclusioni) dal finale aperto, perchè in corso di scrittura. Ho predisposto, in allegato all'elaborato, alcune mappe geografiche per poter comprendere meglio le complicate questioni dibattute in precedenza.
Lesioni preneoplastiche della cervice uterina Il carcinoma della cervice uterina continua ad essere una delle principali cause di morte delle donne nel mondo, soprattutto nei paesi sottosviluppati. Rappresenta, infatti, nella popolazione femminile, il secondo cancro per incidenza, dopo il carcinoma mammario. Ogni anno vengono diagnosticati circa 500.000 nuovi casi. Nei Paesi sviluppati le donne sono state "educate" ad aderire a programmi di screening mediante pap-test, con una diminuzione della mortalità di circa il 70%. La maggior parte dei tumori invasivi sono preceduti, infatti, da neoplasie intraepiteliali cervicali (CIN), che possono persistere come tali anche per lungo tempo, e che sono suscettibili di trattamenti conservativi, capaci di impedirne nella quasi totalità dei casi la progressione verso forme invasive. Sono stati identificati tre gradi di precursori del carcinoma cervicale: CIN 1, 2 e 3. I primi due corrispondono rispettivamente alla displasia lieve e moderata, il terzo alla displasia grave e al carcinoma in situ. In ambito citologico, tale terminologia è stata modificata nel 2001 dall'introduzione della classificazione citologica del Bethesda System che definisce due livelli di alterazione delle lesioni squamose (SIL): quelle di basso grado (Low-SIL) e quelle di alto grado (High-SIL). La CIN 1, pertanto, corrisponde alla L-SIL, mentre le CIN 2-3 rientrano nel novero HSIL. Su tale base è nato e si è diffuso nel mondo (in Finlandia nel 1965, negli USA nel 1970, in Gran Bretagna nel 1987, etc.) lo screening del cervicocarcinoma, che coinvolge la popolazione femminile sessualmente attiva, in una fascia di età compresa tra i 25 ed i 64 anni, volto ad identificare le lesioni preneoplastiche della cervice utilizzando una metodica di facile esecuzione e di basso costo comunemente conosciuta come citologia cervico-vaginale o, meglio, pap-test, ideata nel 1945 da George Papanicolaue H-SIL. Nell'ambito degli screening organizzati, la colposcopia rappresenta un' esame di II livello. La funzione è stata ben espressa dalla Task Force Canadese (2° Rapporto Walton del 1982): "La citologia evidenzia la neoplasia preclinica e clinica cervicale. La colposcopia valuta la cervice uterina con citologia anormale e permette la localizzazione della zona della portio ove eseguire la biopsia per l'esame istologico. La colposcopia non deve essere considerata una tecnica di screening, L'accuratezza diagnostica della combinazione citologia-colposcopia è risultata, fin dagli anni '60, assai vicina al 100%. Attualmente esistono nuove tecniche per rendere la diagnosi precoce delle lesioni cervicali sempre più attendibile; tra queste l'HPV DNA test. Sono disponibili due metodiche per la determinazione della presenza del papilloma virus sulla cervice uterina: L'Hybrid capture II (HCII) (Digene) e Amplicor Human Papilloma Virus (HPV) Test. Questa tecnica prevede l'impiego di lunghe sonde genomiche ed anticorpi specifici per gli ibridi DNA:RNA allo scopo di ottenere una forte amplificazione del segnale, sfruttando il fatto che ciascuna copia del bersaglio può legare centinaia o migliaia di marcatori enzimatici. Ancor oggi dibattuto è l'utilizzo dell'HPV dna test; uno degli studi più autorevoli, pubblicato recentemente dal Dipartimento di Politica Sanitaria dell'Università di Harward , prendendo in considerazione due modalità di utilizzo del test per l'HPV – screening primario e triage della citologia borderline – in Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Italia, conclude che entrambe le scelte in tutti questi Paesi presentano vantaggi in termini di salute pubblica a fronte di costi accettabili, in confronto con le attuali strategie adottate nei singoli paesi. Questi dati, evidentemente non conclusivi, anche se altamente significativi, indicano che il problema dei costi non appare più, attualmente, motivo di prioritaria esclusione del HPV-DNA test dai programmi clinici. Poiché oltre il 97% dei carcinomi cervicali riconosce la presenza di HPV ad alto rischio (HPV-HR), il razionale per l'introduzione dell'HPV-DNA test nello screening primario viene riconosciuto nell'alto Valore Predittivo Negativo (NPV) di questo test in associazione alla citologia tradizionale (99.7-100%). Ad oggi sono stati pubblicati numerosi studi di screening primario in cui il test per L'HPV è stato utilizzato da solo o in associazione al pap-test, per un totale di circa 80.000 casi distribuiti in 11 paesi di 4 continenti. La sensibilità dell'associazione HPV test – pap-test è sempre risultata maggiore a quella di ciascun test considerato singolarmente e, come era attendibile, il NPV dell'associazione dei test è risultata nella maggior parte dei casi del 100%. Questi risultati sono estremamente interessanti e indicativi della tendenza attuale. Ovviamente le realtà locali sono enormemente diversificate, i programmi di screening non sono tutti identici e di conseguenza questi dati non possono essere assimilati ovunque nello stesso modo; per questo motivo appare ancora prematuro codificare ufficialmente l'utilizzo dell'HPV test in uno screening primario; si aprono tuttavia interessanti scenari in prospettiva, l'elemento predominate dei quali è sicuramente la garanzia della negatività dello screening con l'associazione dei due test . La gestione del pap-test ASC-US e ASC-H e delle L-SIL citologiche è stata recentemente oggetto di un notevole interesse a livello internazionale, e numerosi studi clinici hanno affrontato la questione nelle sue varie sfumature. La problematica emergente è stata sicuramente quella relativa a quale deve essere, in questi casi, la più opportuna delle scelte di triage diagnostico. Come sappiamo, tradizionalmente le opzioni in questi casi prevedono principalmente l'invio diretto alla colposcopia oppure, in alcune circostanze, la ripetizione dell'esame citologico. Ovviamente, a monte di tutto il problema, sta l'indicazione perentoria, ormai fatta propria da tutte le Società di Colposcopia, che la prevalenza di refertazione citologica ASC debba essere il più possibile contenuta entro percentuali ridotte, con il limite ottimale del 2%, circa, per un buon centro di citodiagnostica. Il triage del pap-test dubbio è sicuramente uno degli argomenti in cui l'introduzione dell'HPVDNA test ha ottimizzato le scelte di gestione clinica. Infatti il suo utilizzo in questi casi viene attualmente riconosciuto in molte Linee Guida internazionali. A questo proposito è d'obbligo fare riferimento ai risultati dello studio ALTS (ASCUS Low SIL Triage Study). A questo sono seguiti altri studi analoghi che ne hanno ricalcato il disegno, giungendo a risultati sovrapponibili. L'unicità dello studio ALTS sta nel fatto di essere l'unico studio clinico controllato randomizzato, che ha reclutato 3488 pazienti, suddivise nei tre bracci di trattamento: colposcopia immediata, ripetizione della citologia in fase liquida e HPV-DNA test. Considerando globalmente i risultati degli 8 studi pubblicati ad oggi, si conclude che la sensibilità e specificità dell'HPV-DNA test vs. CIN2-3 (96.3% e 49%) sono superiori a sensibilità e specificità della ripetizione citologica su fase liquida (85.3% e 45%). I risultati longitudinali dello studio ALTS (36) dopo 2 anni di follow-up indicano la superiorità in termini di sensibilità dell'HPVDNA test anche nei confronti della colposcopia. Sulla base di questi dati, negli Stati Uniti, l'American Society for Colposcopy and Cervical Pathology, indica oggi l'HPV-DNA test come opzione ottimale per il triage del pap-test ASCUS. Il razionale circa l'utilizzo dell'HPV-DNA test come test di cura nel follow-up dei casi sottoposti a trattamento escissionale di lesioni di alto grado (CIN 2-3) per determinare il rischio di persistenza o di recidiva della CIN, è riconducibile all'evidenza che in assenza di HPV-DNA identificabile esiste un rischio quasi nullo di presenza di CIN 3. Questa ipotesi è stata pressoché completamente confermata dai risultati di circa 10 studi pubblicati negli ultimi anni. Considerando infatti globalmente i risultati di questi studi, il 97% dei casi di CIN 2-3 identificati nel corso del follow up post trattamento risultavano HPV-positivi. La sensibilità e il NPV complessivi dell'HPV-DNA test sono risultati del 96.5% e del 98.8% rispettivamente, in tutti gli studi superiori a quelle della citologia in fase liquida. In quest'ottica appare giustificato affermare che l'associazione dell'HPV-DNA test alla citologia nel follow-up post trattamento delle lesioni di alto grado presenta un significativo vantaggio in termini di sensibilità e di esclusione della persistenza/recidiva della malattia. In un prossimo futuro risulterà interessante valutare il ruolo del test per HPV E6/E7 mRNA e p16, con alta sensibilità e specificità nell'individuare pazienti con attiva espressione oncogenica. Genotipi virali e management delle lesioni di basso grado SCOPO DELLA RICERCA: lo scopo dello studio è stato quello di valutare se l'identificazione dei genotipi virali, eseguita in corrispondenza dell'esame colposcopico positivo, possa modificare il management terapeutico di pazienti affette da lesioni di basso grado (CIN 1). Inoltre si è voluto analizzare la rilevanza della presenza di coifezione riguardo la storia clinica di queste lesioni, e della loro gestione. A tal fine nel periodo compreso da gennaio 2007 a marzo 2008, presso l'Ambulatorio di Colposcopia e Patologia Cervico-vaginale dell'Università di Napoli Federico II, sono state arruolate 264 pazienti con manifestazioni cliniche HPV correlate. I criteri d'inclusione sono stati i seguenti: • Presenza di condilomatosi genitale; • Positività all'esame citologico e/o colposcopico per lesioni HPV-correlate. • Presenza di lesioni preneoplastiche della cervice uterina diagnosticate all'esame istologico. Non sono state arruolate, in questo studio, pazienti negative all'esame colposcopico, pur in presenza di citologia positiva; donne gravide, immunodepresse o con infezione da virus dell'immunodeficienza umana (HIV-positive). L'età delle pazienti era compresa tra i 16 ed i 69 anni, con una media di 34 ± 8,3 anni ed una mediana di 33 anni. Tutte le pazienti arruolate erano sessualmente attive ed hanno espresso un consenso informato per l'adesione allo studio; inoltre, come previsto dalle linee guida della Società Italiana di Colposcopia e Patologia Cervico Vaginale, è stato richiesto il consenso per sottoporsi a procedure diagnostiche ambulatoriali. Tutte le pazienti sono state sottoposte a colposcopia ed a prelievo cervicale con esecuzione di genotipizzazione virale. Le pazienti con lesione cervicale evidente di basso (ZTAG1) o di alto grado (ZTAG2) sono state sottoposte a biopsia mirata. Le pazienti che presentavano lesioni preneoplastiche di basso grado (CIN 1) hanno eseguito follow-up colposcopico e citologico per 1 anno ad intervalli semestrali. Allo scadere di questo termine, le pazienti con persistente lesione colposcopica sono state sottoposte ad ulteriore esame bioptico mirato; quelle che presentavano persistenza della lesione istologica sono state trattate con terapia distruttiva presso il nostro ambulatorio di laserchirurgia, e seguite con follow-up citologico e colposcopico, trimestrale e poi semestrale, per 1 anno. Le pazienti che presentavano una zona di trasformazione anormale (ZTA), ma biopsia negativa, sono state sottoposte comunque a follow-up colposcopico e citologico semestrale per un anno, e in caso di persistenza dell'alterazione evidenziata colposcopicamente a ripetizione della biopsia mirata al controllo annuale. Le pazienti che presentavano condilomatosi florida sono state sottoposte a trattamento tramite laserchirurgia e successivo follow-up per 1 anno, con tempi e modalità analoghe a quelle descritte. In caso di diagnosi istologica di lesioni di grado moderato o severo (CIN 2 e CIN 3) le pazienti sono state sottoposte direttamente a trattamento escissionale con ansa diatermica (Loop Electrosurgical Excision Procedure – LEEP) o conizzazione chirurgica a lama fredda, in relazione al quadro colposcopico e clinico, come previsto dalle linee guida nazionali ed internazionali. Dal nostro studio emerge che nella maggior parte delle pazienti con CIN 1 e tipizzazione virale positiva per i ceppi 16 o 18, o per infezioni multiple, si verifica persistenza o progressione della lesione a distanza di un anno. Invece, nel gruppo di pazienti con CIN 1 ed infezione da singolo genotipo virale diverso dal 16 e dal 18, si riscontra nella quasi totalità dei casi regressione della lesione nell'arco di 12 mesi. Ciò che si evince dai nostri dati, dunque, è la possibilità di utilizzare la tipizzazione virale come strumento per stabilire il management terapeutico delle pazienti affette da lesioni di basso grado. Grazie alla tipizzazione virale, infatti, è possibile identificare le pazienti con lesioni di basso grado che, a differenza di altre, necessitano di trattamento per l'elevata probabilità che la lesione non regredisca. Le pazienti che presentano lesioni precancerose di grado moderato o severo (CIN 2 o CIN 3) sono state sottoposte a trattamento chirurgico escissionale senza periodi di attesa in accordo con le linee guida della Società Italiana di Colposcopia e Patologia Cervico Vaginale del 2006. Questo management terapeutico è indicato perché, per questo tipo di lesioni, la probabilità di progressione a carcinoma invasivo è sicuramente maggiore rispetto alle lesioni di basso grado, anche se per motivazioni etiche non se ne conosce l'esatta percentuale. La letteratura, infatti, riporta dati molto controversi sulla storia clinica della CIN 3: in alcuni studi è stata descritta una regressione spontanea di queste lesioni nel 32% dei casi, ed una progressione a carcinoma invasivo in più del 12%. Altri autori, invece, osservando periodi di follow-up più lunghi, hanno riportato percentuali di progressione vicine al 100%. Ciò che proponiamo alla luce dei risultati ottenuti, è di sottoporre tutte le pazienti che presentano lesioni preneoplastiche di basso grado ad HPV-DNA test e di trattare solo quelle con tipizzazione positiva per i ceppi 16 e 18 o in caso di infezione multipla. Nelle pazienti in cui è presente un solo genotipo virale diverso dal 16 e dal 18 sarebbe utile eseguire un attento follow-up citologico e colposcopico semestrale per 1 anno, al termine del quale, se la lesione non è regredita e viene confermata all'esame istologico, si potrà procedere al trattamento. Questo protocollo di gestione potrebbe consentire una riduzione sensibile del numero dei trattamenti effettuati in caso di CIN 1. Genotipi virali e recidiva delle lesioni di alto grado Alla luce dei dati emersi dai primi anni di ricerca, cioè che i genotipi HPV 16 e HVP 18 rivestono un ruolo predominante nella persistenza e nell'evoluzione delle lesioni di basso grado verso lesioni di alto grado, abbiamo voluto porre la nostra attenzione all'utilizzo della genotipizzazione virale nel predire la recidiva delle lesioni di alto grado dopo trattamento escissionale. Dagli studi presenti in letteratura è emerso che il genotipo HPV 16 è associato ad una maggior tasso di recidiva di lesioni CIN 3 post conizzazione rispetto agli altri genotipi. Sia nello studio ASC-US LSIL triage (ALTS trial) che nel più recente studio di Heymans , le pazienti con HPV 16 sono state identificate come ad alto rischio di recidiva e pertanto sono state indirizzate ad un follow-up più stretto. Sulla base di questi dati, nel nostro studio abbiamo voluto indagare se il genotipo HPV 16 potesse rappresentare un fattore di rischio rispetto agli altri genotipi nella recidiva delle lesioni di alto grado dopo trattamento escissionale. Il nostro studio prospettico osservazionale si propone di valutare la possibile correlazione esistente tra l'insorgenza di lesioni recidivanti di alto grado ed il genotipo virale 16 . A tal fine abbiamo reclutato dal'aprile 2008 all'aprile 2011, 310 pazienti, presso l'ambulatorio di patologia cervico-vaginale del nostro Dipartimento di Ginecologia, Ostetricia e Fisiopatologia della Riproduzione umana, secondo i seguenti criteri di inclusione: a) Pazienti con diagnosi istologica di H-SIL. b) Tutti i margini dei campioni istologici devono essere liberi da lesioni. Sono state escluse tutte le pazienti con sospetto di patologia neoplastica infiltrante. Ciascuna paziente ha eseguito prima dell'intervento chirurgico: esame colposcopico, esame bioptico, tipizzazione virale (HPV-DNA test) ed endocervicoscopia, al fine di caratterizzare con precisione la topografia della lesione e la sua estensione endocervicale. Le pazienti sono state sottoposte ad trattamento ablativo o escissionale (intervento di LEEP o di Conizzazione a lama fredda) secondo le linee guida internazionali. Il follow up è stato eseguito con controlli periodici consistenti in colposcopia e pap-test a 3-6-12-24 mesi e tipizzazione virale a 6 mesi (ed eventuale ripetizione in caso di positività all'esame colposcopio e/o paptest) dall'intervento per valutare una completa clearance virale post-trattamento. Dai nostri dati si evince che il tasso di recidive di CIN 3 nelle donne con CIN3 HPV 16 correlate pretrattamento è significativamente risultato più elevato rispetto agli altri genotipi HPV ad alto rischio e che quindi queste pazienti necessitano di un follow-up più stretto.
2006/2007 ; Inventario dei luoghi di culto della zona falisco-capenate. Sunto. La raccolta delle fonti relative alla vita religiosa della zona falisco-capenate è stata finalizzata, in primo luogo, all'individuazione di luoghi di culto sicuramente identificabili come tali. Dove questo non fosse stato possibile, soprattutto in presenza di documenti epigrafici isolati e di provenienza non sempre determinabile, si è comunque registrata la presenza del culto. Attraverso la documentazione raccolta si intende cercare di delineare una storia dei culti dell'area considerata, a partire dalle prime attestazioni fino all'età imperiale. La zona presa in esame, inserita nella Regio VII Etruria nel quadro dell'organizzazione territoriale dell'Italia augustea, è compresa entro i confini naturali del lago di Bracciano e del lago di Vico a ovest, del corso del Tevere a est, mentre i limiti settentrionale e meridionale possono essere segnati, rispettivamente, dai rilievi dei Monti Cimini e dei Monti Sabatini. I centri esaminati sono quelli di Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri e Nepi. La comunità capenate occupava la parte orientale del territorio, un'area pianeggiante, dominata a nord dal massiccio del monte Soratte, e delimitata a est dall'ansa del Tevere. Il suo fulcro era costituito dall'abitato di Capena, l'odierno colle della Civitucola, cui facevano capo una serie di piccoli insediamenti, ancora poco indagati, dislocati in posizione strategica sul Tevere, o in corrispondenza di assi stradali di collegamento al fiume. Il principale di essi risulta essere localizzabile nel sito della moderna Nazzano, occupato stabilmente a partire dall'VIII sec. a.C., e posto in corrispondenza dell'abitato sabino di Campo del Pozzo, sull'altra sponda del Tevere. Il comparto falisco si articola, invece, attraverso una paesaggio di aspre colline tufacee, incentrato attorno al bacino idrografico del torrente Treia, affluente del Tevere, che percorre il territorio in direzione longitudinale. Lungo il corso del fiume si svilupparono i due più antichi e importanti centri falisci di Falerii Veteres e Narce, un sito nel quale la più recente tradizione di studi tende a riconoscere, sempre più convincentemente, la Fescennium nota dalle fonti, l'altro abitato falisco, oltre a Falerii, di cui sia tramandato il nome; lungo affluenti del Treia sono ubicate Nepi e Falerii Novi. Pur nella specificità culturale progressivamente assunta da Falisci e Capenati, la collocazione geografica del territorio da essi occupato lo rende naturalmente permeabile a influenze etrusche e sabine, rilevabili attraverso la documentazione archeologica, e rintracciabili in alcune notizie delle fonti antiche, rivalutate dalla più recente tradizione di studi. Una posizione differente era, invece, maturata dopo le prime indagini condotte nella regione, tra la fine dell''800 e l'inizio del '900, che avevano portato a enfatizzare i caratteri culturali specifici delle popolazioni locali, sottolineando la sostanziale autonomia di queste rispetto agli Etruschi, soprattutto sulla base delle strette analogie tra la lingua falisca e la latina. Tale percezione fu dominante fino alla seconda metà degli anni '60 del '900, quando la pubblicazione dei primi dati sulle necropoli veienti mise in luce gli stretti rapporti con le aree falisca e capenate, tra l'VIII e il VII sec. a.C. Gli studi sul popolamento dell'Etruria protostorica condotti a partire dagli anni '80 del '900 hanno sempre più focalizzato l'attenzione su un coinvolgimento di Veio nel popolamento dell'area compresa tra i Monti Cimini e Sabatini e il Tevere nella prima età del Ferro, trovando conferma anche dalle recenti analisi dei corredi delle principali necropoli falische, che hanno evidenziato, nell'VIII e all'inizio del VII sec. a.C., importanti parallelismi con usi funerari veienti, ma anche aspetti specifici della cultura locale. Il corpus di iscrizioni etrusche proveniente dalle necropoli di Narce dimostra, per tutto il VII e VI sec. a.C., la continuità stanziale di etruscofoni, che utilizzano un sistema scrittorio di tipo meridionale, riconducibile a Veio, di cui Narce sembra costituire un avamposto in territorio falisco. Già dall'inizio del VII sec. a.C., tuttavia, si fanno evidenti i segni di una più specifica caratterizzazione culturale delle aree falisca e capenate, anche attraverso la diffusione di un idioma falisco, affine a quello latino, documentato epigraficamente per il VII e VI sec. a.C. soprattutto a Falerii Veteres. Un ulteriore elemento di contatto culturale col mondo latino è rappresentato, in questo centro, dal rituale funerario delle inumazioni infantili in area di abitato. Tale uso, che trova numerosi confronti nel Latium vetus, mentre risulta estraneo all'Etruria, è documentato a Civita Castellana, in località lo Scasato, da due sepolture di bambini, databili tra la fine dell'VIII e la prima metà del VII sec. a.C. A Capena sono state rilevate, a partire dal VII sec. a.C., notevoli influenze dall'area sabina, soprattutto attraverso la documentazione archeologica fornita dalle necropoli, mentre, da un punto di vista linguistico, un influsso del versante orientale del Tevere è stato colto, in particolare, attraverso un'analisi del nucleo più nutrito delle iscrizioni epicorie, che risale al IV-III sec. a.C. La ricettività nei confronti degli apporti delle popolazioni limitrofe e la capacità di elaborazioni originali, attestate archeologicamente sin dalle fasi più antiche della storia dei popoli falisco e capenate, possono offrire un supporto documentario alla percezione che già gli scrittori antichi avevano dell'ethnos falisco, trovando riscontro, in particolare, nelle tradizioni che definivano i Falisci come Etruschi, oppure come ethnos particolare, caratterizzato da una propria specificità anche linguistica, un dato, quest'ultimo, che tradisce il ricordo di contatti col mondo latino. Un terzo filone antiquario, che si intreccia a quello dell'origine etrusca, rivendica ai Falisci un'ascendenza ellenica, e più propriamente, argiva, e sembra, invece, frutto di un'elaborazione erudita maturata in un momento successivo. La notizia dell'origine argiva risale, per tradizione indiretta, alle Origines di Catone, e si collega a quella della fondazione di Falerii da parte dell'eroe Halesus, figlio di Agamennone, che avrebbe abbandonato la casa paterna dopo l'uccisione del padre. Ovidio e Dionigi di Alicarnasso attribuiscono all'eroe greco l'istituzione del culto di Giunone a Falerii, il cui originario carattere argivo sarebbe conservato nel rito celebrato in occasione della festa annuale per la dea. L'importanza accordata al culto di Giunone nell'ambito di tale tradizione ha portato a ipotizzare che questa possa essersi sviluppata proprio a partire dal dato religioso della presenza a Falerii di una divinità assimilabile alla Hera di Argo. Dall'esame linguistico del nome del fondatore, il quale non ha combattuto a Troia e non ha avuto alcun ruolo nel mondo ellenico, si è concluso che dovesse trattarsi di un eroe locale, e che la formazione dell'eponimo sia precedente alla metà del IV sec. a.C., quando è documentata l'affermazione del rotacismo in ambiente falisco. L'elaborazione della leggenda di Halesus deve essere collocata, dunque, in un momento precedente a questa data, che, si è pensato, possa coincidere con la presenza a Falerii di maestranze elleniche o ellenizzate, attive nel campo della ceramografia e della coroplastica, a partire dalla fine del V sec. a.C. Questa tradizione si collega a quella sull'origine etrusca attraverso la notizia di Servio, secondo cui Halesus sarebbe il progenitore del re di Veio Morrius. Il ricordo di una discendenza dalla città etrusca è comune anche a Capena, dove, secondo una notizia di Catone, riportata da Servio, i luci Capeni erano stati fondati da giovani veienti, inviati da un re Properzio, nel cui nome, peraltro, è stata ravvisata un'origine non etrusca, ma italico-orientale. A livello storico, l'accostamento tra Veio, Falisci e Capenati sarà documentato dalle fonti attraverso la costante presenza dei due popoli, al fianco della città etrusca, nel corso degli scontri con Roma tra la seconda metà del V e l'inizio del IV sec. a.C. Di tale complesso sistema di influenze partecipa anche la sfera religiosa dell'area in esame. È interessante notare, a questo proposito, che la massima divinità maschile del pantheon falisco-capenate, il dio del Monte Soratte, Soranus Apollo, costituisca l'esatto corrispettivo dell'etrusco Śuri, come da tempo dimostrato da Giovanni Colonna. La particolarità del culto del Soratte, tuttavia, è determinata dalla cerimonia annua degli Hirpi Sorani, che camminavano indenni sui carboni ardenti e il cui nome, nel racconto eziologico sull'origine del rito, tramandato da Servio, è spiegato in relazione a hirpus, il termine sabino per indicare il lupo, in perfetta coerenza col carattere "di frontiera" di questo territorio. Di origine sabina è la divinità venerata nell'unico grande santuario noto nell'agro capenate, il Lucus Feroniae. La diffusione del culto a partire dalla Sabina, già sostenuta da Varrone, è largamente accolta dalla critica recente, sia sulla base dell'analisi linguistica del nome della dea, sia per la presenza, in Sabina, dei centri principali del culto (Trebula Mutuesca, Amiternum), da cui questo si irradia, oltre che presso Capena, in Umbria e in area volsca. Le attestazioni di Feronia in altre zone, come la Sardegna, il territorio lunense, Aquileia, Pesaro sono generalmente da collegare con episodi di colonizzazione romana. Il carattere esplicitamente emporico del Lucus Feroniae, affermato da Dionigi di Alicarnasso e Livio, che lo descrivono come un luogo di mercato frequentato da Sabini, Etruschi e Romani già dall'epoca di Tullo Ostilio, rende perfettamente conto della varietà di frequentazioni e di influenze, che caratterizzano il santuario almeno dall'età arcaica. Pur in assenza di documentazione archeologica relativa alle fasi più antiche, sembra del tutto affidabile la notizia della vitalità del culto capenate già in età regia. Feronia, infatti, a Terracina, risulta associata a Iuppiter Anxur, divinità eponima della città volsca, il che sembra far risalire l'introduzione del suo culto all'inizio della presenza volsca nella Pianura Pontina, cioè ai primi decenni del V sec. a.C., fornendo, inoltre, un possibile indizio di una provenienza settentrionale, da area sabina, dell'ethnos volsco. È ipotizzabile, dunque, che la dea fosse venerata nel santuario tiberino, prospiciente la Sabina, ben avanti il suo arrivo nel Lazio tirrenico. Al di là della semplice frequentazione del luogo di culto e del mercato, un ruolo di primo piano rivestito dalla componente sabina presso il Lucus Feroniae, in epoca arcaica, sembra suggerito dall'episodio del rapimento dei mercanti romani, riferito da Dionigi di Alicarnasso. I rapitori sabini compiono una ritorsione nei confronti dei Romani, che avevano trattenuto alcuni di loro presso l'Asylum, tra il Capitolium e l'Arx, il che fa pensare che i Sabini esercitassero una sorta di protettorato sul santuario tiberino, e avessero, su di esso, una capacità di controllo analoga a quella che i Romani avevano sull'Asylum romuleo. La vocazione emporica del Lucus Feroniae è naturalmente legata alla sua collocazione topografica, nel punto in cui i percorsi sabini di transumanza a breve raggio attraversano il Tevere, tra i due grandi centri sabini di Poggio Sommavilla e Colle del Forno, per dirigersi verso la costa meridionale dell'Etruria. La dislocazione presso il punto di arrivo dei principali tratturi dell'area appenninica, popolata da genti sabelliche, è, peraltro, una caratteristica comune ai più antichi luoghi di culto di Feronia, come Trebula Mutuesca e Terracina, che condividono col Lucus Feroniae capenate anche la collocazione all'estremità di un territorio etnicamente omogeneo. È stato osservato come, in questi santuari, l'attività emporica marittima si intrecciasse con quella legata allo scambio del bestiame, e, nell'ottica di un'apertura verso l'economia pastorale dei Sardi, è stata inquadrata la fondazione romana, nel 386 a.C., di una Pheronia polis in Sardegna, presso Posada. Da questa località proviene, inoltre, una statuetta bronzea, databile tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a.C., raffigurante un Ercole di tipo italico, divinità di cui è noto il legame con la sfera dello scambio, anche in rapporto agli armenti. L'epoca dell'apoikia sarda ha portato a ipotizzare un collegamento col Lucus Feroniae capenate, dato che già tra il 389 e il 387 a.C. nel territorio di Capena erano stanziati coloni romani, misti a disertori Veienti, Capenati e Falisci. La filiazione del culto sardo da quello tiberino sembra, inoltre, perfettamente compatibile con le pur scarne attestazioni relative a una presenza di Ercole nel santuario capenate. A questo proposito è interessante notare che su una Heraklesschale, ancora sostanzialmente inedita, proveniente dalla stipe del santuario, il dio è rappresentato con la leonté e la clava nella mano sinistra, e lo scyphus di legno nella mano destra. Questi due ultimi attributi di Ercole erano conservati nel sacello presso l'Ara Maxima del Foro Boario, a Roma, e lo scyphus, usato dal pretore urbano per libare nel corso del sacrificio annuale presso l'ara, compare anche nella statua di culto di Alba Fucens, nella quale, per vari motivi, si è proposto di riconoscere una replica del simulacro del santuario del Foro Boario. Il richiamo iconografico a questi elementi, in un santuario-mercato ubicato lungo percorsi di transumanza, come era il Lucus Feroniae, non sembra casuale, ma potrebbe, in un certo senso, evocare il culto dell'Ara Maxima, e, in particolare, un aspetto fondamentale di esso, rappresentato dal collegamento con le Salinae ai piedi dell'Aventino. Queste, ubicate presso la porta Trigemina, e dunque prossime all'Ara Maxima, erano il luogo di deposito del sale proveniente dalle saline ostiensi, e destinato alla Sabina, e, in generale, alle popolazioni dell'interno dell'Italia centrale, dedite a un'economia pastorale. L'Ercole del Foro Boario, che tutelava le attività economiche collegate allo scambio del bestiame, sovrintendeva anche all'approvvigionamento del sale, e in questo senso va spiegato anche l'epiteto di Salarius, attestato per il dio ad Alba Fucens, dove, come è stato visto, il santuario di Ercole aveva la funzione di forum pecuarium. La dislocazione di santuari-mercati lungo i tratturi garantiva, dunque, ai pastori, dietro necessario compenso, la possibilità di rifornirsi di sale, e lo stesso doveva verificarsi presso il Lucus Feroniae. Questo sembra confermato dal fatto che, come è stato di recente dimostrato, la via lungo cui sorge il santuario, l'attuale strada provinciale Tiberina, vada, in realtà, identificata con la via Campana in agro falisco, menzionata da Vitruvio, in relazione a una fonte letale per uccelli e piccoli rettili. Il nome della via va spiegato, infatti, in relazione al punto di arrivo, costituito dal Campus Salinarum alla foce del Tevere, dove erano le saline. Nel comparto falisco, l'analisi della documentazione relativa ai luoghi di culto ha evidenziato una più marcata influenza di Veio rispetto all'area capenate. Questa risulta particolarmente rilevante in un centro come Narce, segnato, sin dall'inizio della sua storia, da una netta impronta veiente, e il cui declino coinciderà con gli anni della conquista della città etrusca. Per limitarci alla sfera del sacro, già da un primo esame dei materiali rinvenuti nel santuario suburbano di Monte Li Santi-Le Rote, di cui si attende la pubblicazione integrale, è stata segnalata, dall'inizio del V sec. a.C., epoca in cui comincia la frequentazione dell'area sacra, la presenza di prototipi veienti, che sono all'origine di una produzione locale di piccole terrecotte figurate. A un modello veiente sono riconducibili le cisterne a cielo aperto, che affiancavano l'edificio templare in almeno due dei principali santuari di Falerii Veteres, quello di Vignale e quello dello Scasato I, da identificare entrambi come sedi di un culto di Apollo. Più problematico risulta, invece, l'accostamento ad esse degli apprestamenti idrici rinvenuti presso un'area sacra urbana, recentemente individuata presso la moderna via Gramsci, nella parte meridionale del pianoro di Civita Castellana, e solo da una vecchia notizia d'archivio della Soprintendenza sappiamo di un'analoga cisterna rinvenuta presso Corchiano all'inizio del '900. Nei casi meglio documentati di Vignale e dello Scasato, tali impianti idrici risultano coevi alla fase più antica del santuario, e rispondono a uno schema che, a Veio, ricorre presso il santuario di Apollo al Portonaccio, presso il tempio a oikos di Piazza d'Armi, nel santuario di Menerva presso Porta Caere, e nel santuario in località Casale Pian Roseto. Non è facile determinare l'esatto valore da attribuire, di volta in volta, a tali cisterne, ma l'enfasi topografica ad esse accordata nell'ambito dei santuari non pare permetta di prescindere da un collegamento con pratiche rituali. Per gli impianti di Falerii si è pensato a un collegamento col santuario del Portonaccio, anche sulla base della corrispondenza cultuale incentrata sulla figura di Apollo, e la piscina è stata spiegata, dunque, in relazione a rituali di purificazione, legati a un culto oracolare. Dopo la sconfitta di Veio Falerii si trovò non solo a tener testa a Roma sul piano militare, ma dovette dimostrarsi non inferiore anche per prestigio e capacità autorappresentativa, essendo l'altro grande centro della basse valle del Tevere. Questo aspetto è stato colto, in particolare, sulla base della decorazione templare della città falisca, che conosce, intorno al secondo-terzo decennio del IV sec. a.C., un rinnovamento generalizzato, dovuto alla nascita di un'importante scuola coroplastica, la cui attività si riconosce anche nel frammento isolato di rilievo fittile rappresentante una Nike, da Fabrica di Roma. Una diversa reazione alla presa di Veio è attestata per l'altro importante centro falisco, quello di Narce, anche attraverso la documentazione fornita dal santuario di Monte Li Santi-Le Rote. Il luogo di culto continua a essere frequentato anche dopo la crisi dell'insediamento urbano, riscontrata attraverso una consistente contrazione delle necropoli a partire dal IV sec. a.C., ma nella prima metà del III sec. a.C. è attestata una contrazione del culto in vari settori del santuario, contestualmente all'introduzione di nuove categorie di ex-voto, quali i votivi anatomici, i bambini in fasce, le terrecotte raffiguranti animali. Questi mutamenti sono stati messi in relazione con la vittoria romana sui Falisci nel 293 a.C., mentre un secondo momento di contrazione del culto sembra coincidere con la definitiva conquista romana del 241 a.C. Dall'inizio del III sec. a.C. anche nei depositi di Falerii vengono introdotti nuovi tipi di votivi, cui si è fatto cenno precedentemente, e, come anche nel santuario di Monte Li Santi-Le Rote, si registra la presenza di monetazione di zecca urbana, che entra a far parte delle offerte. Tale dato diventa ancora più eloquente, se si considera l'assenza di monetazione locale nei contesti di epoca preromana, che sembra tradire l'indifferenza delle popolazioni falische verso tale tipo di offerta. È evidente, dunque, anche per Falerii, un'influenza del mercato romano dopo gli eventi bellici che segnarono la vittoria di Spurio Carvilio sui Falisci. La città, tuttavia, sembra fronteggiare la crisi, tanto da non mettere in pericolo le sue istituzioni, come dimostrano le dediche falische poste, nel Santuario dei Sassi Caduti, a Mercurio, dagli efiles, l'unica carica attestata per la città. Del resto, anche con la costruzione del nuovo centro di Falerii Novi, la documentazione relativa alla sfera religiosa attesta la conservazione, a livello pubblico, della lingua e della grafia falisca, tramite la dedica a Menerva posta dal pretore della città, nella seconda metà del III sec. a.C. (CIL XI 3081). Quanto sappiamo sui culti di età repubblicana di Capena e del suo territorio si limita al santuario di Lucus Feroniae, dove praticamente quasi tutti i materiali e le fonti epigrafiche sono inquadrabili nel corso del III sec. a.C., e a un paio di dediche di III sec. a.C. La capitolazione di Capena subito dopo la presa di Veio (395 a.C.) rende, in questa fase, la presenza romana ormai stabile da circa un secolo, dunque non sorprende che le iscrizioni sacre utilizzino un formulario specificamente latino, anche con attestazioni piuttosto precoci di espressioni che diventeranno correnti nel corso del II sec. a.C. Uno dei primi esempi attestati di abbreviazione alle sole iniziali della formula di dedica d(onum) d(edit) me(rito) è in CIL I², 2435, provenente dalla necropoli capenate delle Saliere. La documentazione archeologica più antica riguardo alla vita religiosa dell'area presa in esame proviene da Falerii Veteres. In ordine cronologico, la prima divinità attestata epigraficamente è Apollo, il cui nome compare inciso in falisco su un frammento di ceramica attica dei primi decenni del V sec. a.C. dal santuario di Vignale. È notevole che si tratti in assoluto della più antica attestazione conosciuta del nome latinizzato del dio, che indica la sua precoce assimilazione nel pantheon falisco, dove, già da quest'epoca, bisogna riconoscere come avvenuta l'identificazione con Apollo del locale Soranus. Il culto del dio del Soratte, attestato per via epigrafica solo in età imperiale, attraverso due dediche a Soranus Apollo, può essere coerentemente collocato tra le più antiche manifestazioni religiose del comprensorio falisco-capenate, e probabilmente la sede cultuale del Monte Soratte doveva fungere da tramite tra le due aree. Nel territorio falisco la presenza del dio lascia tracce più consistenti, attraverso la duplicazione del culto di Apollo a Falerii Veteres, e una dedica di età repubblicana da Falerii Novi, mentre sembra affievolirsi in area capenate, dove ne resta traccia solo in due dediche ad Apollo della prima età imperiale da Civitella S. Paolo, e in una controversa notizia di Strabone, che, apparentemente per errore, ubica al Lucus Feroniae le cerimonie in onore di Sorano, che si svolgevano, invece, sul Soratte. Anche questa notizia, tuttavia, si inserisce in un sistema di corrispondenze cultuali, che associa a una dea ctonia, della fertilità, un paredro di tipo "apollineo", cioè una divinità maschile, giovanile, con aspetti inferi e mantici. Non sembra casuale, in questo contesto, che il santuario per cui è attestata una più antica frequentazione a Falerii Veteres sia quello di Giunone Curite, una divinità che sembra rispondere allo schema di dea matronale e guerriera (era una Giunone armata, ma anche protettrice delle matrone) per la quale, pure, è attestata l'associazione cultuale con un giovane dio, della stessa tipologia di Sorano. Anche se non sono attestati direttamente rapporti tra Iuno Curitis e Sorano Apollo non sembra da trascurare il dato che l'unica statuetta di Apollo liricine, di IV sec. a.C., rinvenuta a Falerii Veteres provenga proprio dal santuario della dea; inoltre quando essa fu evocata a Roma dopo la presa di Falerii nel 241 a.C., insieme al suo tempio, in Campo, fu costruito quello di Iuppiter Fulgur, una divinità parimenti evocata dal centro falisco, e per la quale, pure, si possono istituire dei parallelismi con Soranus, attraverso l'assimilazione con Veiove. Nell'agro falisco, come in quello capenate, le più antiche attestazioni cultuali si riferiscano, dunque, a una coppia di divinità che, pur nelle differenze maturate in aspetti specifici del culto, sembra rispondere a esigenze cultuali piuttosto omogenee. Con l'età imperiale, infine, il panorama dei culti della zona considerata sembra diventare più omogeneo, inserendosi, peraltro, in una tendenza piuttosto generale. La manifestazione più appariscente è costituita, naturalmente, dal culto imperiale, attestato molto presto in Etruria meridionale. Da Nepi proviene la più antica testimonianza nota in Etruria, costituita da una dedica in onore di Augusto da parte di quattro Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'iscrizione è databile al 12 a.C., anno della fondazione del collegio di Nepi, e dell'istituzione, a Roma, del culto del Genius di Augusto e dei Lares Augusti, venerati nei compita dei vici della città. Altri esempi di una piuttosto precoce diffusione del culto imperiale vengono da Falerii Novi (CIL XI, 3083, databile tra il 2 a.C. e il 14 d.C.; CIL XI, 3076, età augustea); da Lucus Feroniae, dove intorno al 31 d.C. è attestato per la prima volta l'uso della formula in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295). Il fatto che la diffusione del culto imperiale in agro falisco-capenate avvenga praticamente negli stessi anni che a Roma, sembra legato anche ai rapporti che legarono Augusto e la dinastia giulio-claudia a questo territorio. Dopo Anzio veterani di Ottaviano ottennero terre nell'Etruria meridionale, lungo il corso del Tevere, e non è un caso che l'Augusteo di Lucus Feroniae, l'unico in Etruria meridionale, che sia noto, oltre che epigraficamente, anche attraverso i suoi resti, sia stato eretto tra il 14 e il 20 d.C. da due membri della gens senatoria, filoagustea, dei Volusii Saturnini. Augusto stesso e membri della dinastia parteciparono direttamente alla vita civile dei centri della regione: Augusto fu pater municipii a Falerii Novi, Tiberio e Druso Maggiore furono patroni della colonia a Lucus Feroniae, tra l'11 e il 9 a.C. Inoltre la presenza, nel territorio capenate, di liberti imperiali incaricati dell'amministrazione del patrimonio dell'imperatore, fa pensare all'esistenza di fundi imperiali. La documentazione di età imperiale è costituita, inoltre, da una serie di iscrizioni che difficilmente possono farci risalire a specifici luoghi di culto, e dalle quali, in molti casi, si evince soprattutto una richiesta di salute e di fertilità alla divinità, come avveniva in età repubblicana, tra il IV e il II sec. a.C., attraverso l'offerta nei santuari di votivi anatomici. Sono note anche alcune attestazioni di culti orientali (Mater Deum e Iside, anche associate, da Falerii Novi e dal suo territorio; una dedica alla Mater Deum da Nazzano, in territorio capenate), che rientrano nell'ambito della devozione privata, tranne nel caso del sacerdozio di Iside a Mater Deum attestato a Falerii Novi. ; Inventaire des lieux de culte de la zone falisco-capenate. Résumé. Le recueil des sources historiques relatives à la vie religieuse de la zone falisco-capenate a eut comme but, tout d'abord, la localisation des lieux de culte identifiables avec certitude comme tels. Lorsque cela s'est avéré impossible, particulièrement en présence de documents épigraphiques isolés et d'origine incertaine, on a tout de même enregistré l'existence du culte. On veut reconstruire, au moyen de la documentation récoltée, une histoire des cultes de la zone considérée depuis les premières apparitions jusqu'à l'âge impérial. La zone considérée, insérée dans la Regio VII Etruria dans le cadre de l'organisation territoriale de l'Italie augustéenne, est comprise dans les limites naturelles du lac de Bracciano et du lac de Vico à l'ouest, du cours du Tibre à l'est, tandis que les limites septentrionale et méridionale sont délimitées, respectivement, par les reliefs des Monts Cimini et des Monts Sabatini. Les centres examinés sont ceux de Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri et Nepi. La communauté capenate occupait la partie orientale du territoire, un zone de plaine, dominée au nord par le massif du Mont Soratte, et délimitée à l'est par l'anse du Tibre. Son centre était constitué par l'habitat de Capena, l'actuel Col de la Civitucola, dont dépendaient une série de petits sites, encore peu étudiés, disséminés en position stratégique sur le Tibre, ou en correspondance d'axes routiers de liaison au fleuve. Le principal de ces derniers est localisé sur le site de l'actuelle Nazzano, occupé de manière permanente à partir du VIIIème siècle av. J.-C., et situé en correspondance de l'habitat sabin de Campo del Pozzo, sur l'autre rive du Tibre. La zone falisque s'articule, par contre, sur un paysage d'âpres collines de tuf, disposées autour du bassin hydrographique du torrent Treia, affluent du Tibre, qui parcourt le territoire en direction longitudinale. Le long du cours d'eau se développèrent les deux plus antiques et importants centres falisques de Falerii Veteres et Narce, un site que les plus récentes recherches tendent à reconnaître, et de manière toujours plus convaincante, comme la Fescennium connue dans les sources historiques, le deuxième habitat falisque, outre à Falerii, dont on reporte le nom; le long d'affluents du Treia sont situées Nepi et Falerii Novi. Malgré la spécificité culturelle progressivement développée par falisques et capenates, la situation géographique du territoire occupé le rend naturellement perméable aux influences étrusques et sabines, aspect relevé par la documentation archéologique et par quelques informations dans les sources antiques, réévaluée par les plus récentes études. Une position différente s'était par contre imposée après les premières recherches effectuées dans la région entre la fin du XIXème et le début du XXème siècle : celles-ci avaient mis l'accent sur les caractères culturels spécifiques des populations locales, en soulignant la substantielle autonomie de ces populations par rapport aux Etrusques, surtout sur la base des grandes similitudes entre les langues falisque et latine. Une telle perception fut dominante jusqu'à la deuxième moitié des années Soixante du Vingtième siècle, lorsque la publication des premières données sur les nécropoles de Véies mirent en lumière les rapports étroits avec les zones falisque et capenate entre le VIIIème et le VIIème siècle av. J.-C. Les études sur le peuplement de l'Etrurie protohistorique, conduites à partir des années '80 du XXème siècle ont focalisé l'attention sur une implication de Véies dans le peuplement de la zone comprise entre les Monts Cimini et Sabatini d'une part et le Tibre d'autre part, et cela au début de l'Âge du Fer, études confirmées par les récentes analyses des trousseaux des principales nécropoles falisques, qui ont prouvé qu'il existait au VIIIème et au début du VIIème siècle av. J.-C. d'importants parallèles avec les habitudes funéraires de Véies, bien que certains aspects spécifiques de la culture locale y fussent conservés. Le corpus d'inscriptions étrusques provenant de la nécropole de Narce démontre, pour tout le VII et le VIème siècle ac. J.-C., la présence continue de populations parlant la langue étrusque, qui utilisent un système d'écriture de type méridional, reconductible à Véies, dont Narce semble avoir constitué un avant-poste en territoire falisque. Déjà au début du VIIème siècle av. J.-C. cependant, on remarque les signes évidents d'une plus spécifique caractérisation culturelle des zones falisques et capenates, et cela au travers, entre autre, de la diffusion d'un idiome falisque, semblable au latin, documenté par des épigraphes au VIIème et au VIème siècle av. J.-C., surtout à Falerii Veteres. Ultérieur élément de contact culturel avec le monde latin est représenté, dans ce centre, par le rituel funéraire des inhumations infantiles dans la zone habitée. Une telle habitude, qui trouve de nombreuses comparaisons dans le Latium vetus, est étrangère à l'Etrurie, alors qu'elle est documentée à Cività Castellana, en localité «lo Scasato», par deux sépultures d'enfants datables entre la fin du VIIIème siècle et la première moitié du VIIème siècle av. J.-C. A Capena a été remarqué, à partir du VIIème siècle av. J.-C., une grande influence provenant de l'aire sabine, surtout à travers la documentation archéologique fournie par les nécropoles, tandis que du point de vue linguistique un influence du versant oriental du Tibre a été remarquée, en particulier par une analyse du noyau plus consistant des inscriptions relatifs aux nouveaux-nés, qui remonte au IV – IIIème siècle av. J.-C. La réceptivité vis-à-vis des nouveautés des populations limitrophes et la capacité d'élaborations originales, prouvées archéologiquement déjà depuis les phases les plus antiques de l'histoire des peuples falisques et capenates, peuvent offrir une aide documentaire à la perception que les écrivains antiques avaient de l'ethnos falisque, en trouvant un équivalent dans les traditions qui définissaient les Falisques comme des Etrusques, ou bien comme un peuple à soi, caractérisé par une spécificité propre, aussi linguistique. Cette dernière donnée trahit la mémoire de contacts avec le monde latin. Un troisième filon antique, qui se mêle à celui d'origine étrusque, revendique pour les falisques une ascendance grecque, plus précisément de l'Argolide et semble le fruit d'une construction d'érudits élaborée successivement. L'information de l'origine argolide remonte, par tradition indirecte, aux Origines de Caton, et se relie à celle de la fondation de Falerii de la part du héros Halesus, fils d'Agamemnon, qui aurait abandonné la maison paternelle après l'assassinat de son père. Ovide et Denys d'Halicarnasse attribuent au héros grec l'institution du culte de Junon à Falerii, dont le caractère originel argolide serait conservé dans le rite célébré en occasion de la fête annuelle de la déesse. L'importance accordée au culte de Junon au sein d'une telle tradition a amené à supposer que celui-ci se soit développé précisément à partir de la donnée religieuse de la présence à Falerii d'une divinité semblable à Héra d'Argos. Grâce à l'examen linguistique du nom du fondateur, qui n'a pas combattu à Troie et qui n'a eut aucun rôle dans le monde grec, on a conclu qu'il devait s'agir d'un héros local, et que la formation de l'éponyme ait été précédent à la moitié du IVème siècle av. J.-C., lorsque l'affirmation du rhotacisme est documenté dans la culture falisque. L'élaboration de la légende de Halesus doit donc être située à un moment précédent cette date qui, comme on l'a pensé, puisse coïncider avec la présence à Falerii d'artistes grecs ou hellénisés, actifs dans la céramographie et dans la choroplastique, à partir de la fin du Vème siècle av. J.-C. Cette tradition se relie à celle sur l'origine étrusque, par l'information de Servius, selon lequel Halesus serait le grand-père du roi de Véies Morrius. Le souvenir d'une descendance de la ville étrusque est commune aussi a Capena où, d'après une nouvelle de Caton, rapportée par Servius, les luci Capeni avaient été fondés par des jeunes de Véies, envoyés par un roi Properce, dans le nom duquel a été identifié une origine non étrusque, mais bien italico-orientale. Du point de vue historique, le rapprochement entre Véies, falisques et capenates sera documenté dans les sources par la présence constante des deux peuples au flanc de la ville étrusque au cours des luttes contre Rome entre la deuxième moitié du Vème et le début du IVème siècle av. J.-C. D'un tel système complexe d'influences participe aussi la sphère religieuse de la zone en question. Il est intéressant de noter, à ce propos, que la principale divinité masculine du panthéon falisco-capenate, le dieu du Mont Soratte, Soranus Apollon, constitue le correspondant exact de l'étrusque Śuri, comme l'a démontré Giovanni Colonna. La particularité du culte de Soratte, toutefois, est déterminée par la cérémonie annuelle des Hirpi Sorani, qui marchaient indemnes sur des charbons ardents et dont le nom, dans le récit étiologique sur l'origine du rite transmis par Servius, est expliqué en relation à hirpus, le nom sabin pour «loup», parfaitement cohérent avec la caractéristique frontalière de ce territoire. D'origine sabine est aussi la divinité vénérée dans le seul grand sanctuaire connu dans le territoire capenate, le Lucus Feroniae. La diffusion du culte à partir de la Sabine, version soutenue déjà par Varron, est largement acceptée par la critique récente, sur la base d'une part de l'analyse linguistique du nom de la déesse et d'autre part vu la présence sur le territoire sabin des principaux centres de culte (Trebula Mutuesca, Aminternum), d'où ceux-ci se diffusent, outre à Capena, vers l'Ombrie et le territoire volsque. Les attestations de Feronia dans d'autres zones, comme en Sardaigne, en territoire de Luni, à Aquilée et à Pesaro sont généralement à mettre en relation avec des épisodes de colonisation romaine. Le caractère explicitement commercial du Lucus Feroniae, affirmé par Denys d'Halicarnasse et par Tite-Live, qui le décrivent comme un lieu de marché fréquenté par les sabins, les étrusques et les romains déjà à l'époque de Tullius Ostilius, rend parfaitement compte de la variété des fréquentations et des influences qui caractérisent le sanctuaire à partir de l'Âge archaïque. Bien que n'ayant pas de documentation archéologique relative aux phases les plus antiques, l'information sur la vitalité du culte capenate déjà à l'époque royale semble fiable. Feronia, en effet, est couplée, à Terracina, à Iuppiter Anxur, divinité éponyme de la ville volsque, ce qui semble faire remonter l'introduction de son culte au début de la présence volsque dans la plaine pontine, c'est-à-dire vers les premières décennies du Vème siècle av. J.-C. Cela fournit, en plus, un indice possible d'une provenance septentrionale de l'ethnos volsque depuis la zone sabine. Il est donc envisageable que la déesse ait été adorée dans le sanctuaire tibérien, en face de la Sabine, bien avant son arrivée dans le Latium tyrrhénien. Au-delà de la simple fréquentation du lieu de culte et du marché, un rôle de premier plan joué par l'élément sabin pour le Lucus Feroniae en époque archaïque semble suggéré par l'épisode de l'enlèvement de marchants romains relaté par Denys d'Halicarnasse. Les ravisseurs sabins effectuent une rétorsion contre les romains, qui avaient enfermé certains des leurs sur l'Asylum, entre le Capitole et l'Arx, ce qui fait penser que les sabins exerçaient une sorte de protectorat sur le sanctuaire tibérien et qu'ils avaient sur celui-ci une capacité de contrôle semblable à celui que les romains avaient sur l'Asylum romuléen. La vocation commerciale du Lucus Feroniae est naturellement liée à son emplacement topographique, à l'endroit où les parcours sabins de transhumance à courte distance traversent le Tibre, entre les deux grands centres sabins de Poggio Sommavilla et Colle del Forno, pour se diriger vers la côte méridionale de l'Etrurie. La dislocation près du lieu d'arrivée des principaux sentiers de la zone apennine, habitée de peuplades sabelliques, est, en outre, une caractéristique commune aux plus anciens lieux de culte de Feronia, comme par exemple Trebula Mutuesca et Terracina, qui partagent avec le Lucus Feroniae capenate l'emplacement à l'extrémité d'un territoire ethniquement homogène. Il a été observé combien, dans ces sanctuaires, l'activité commerciale maritime était liée à l'échange du bétail et il faut prendre en compte l'ouverture à l'économie pastorale sarde pour comprendre la fondation romaine en 386 av. J.-C. d'une Pheronia polis en Sardaigne, près de Posada. De cette localité provient, en outre, une statuette en bronze, datable entre la fin du Vème et les premières décennies du IVème siècle av. J.-C., qui représente un Hercule de type italique, divinité dont on connaît le lien avec la sphère de l'échange, et surtout son rapport avec les troupeaux. L'époque de l'apoikia sarde a amené à envisager une relation avec le Lucus Feroniae capenate, vu que déjà entre 389 et le 387 av. J.-C. dans le territoire de Capena des colons romains s'étaient établis, unis à des déserteurs provenant de Véies, Capena et Falerii. La filiation du culte sarde à partir du culte tibérien semble, en outre, parfaitement compatible avec les rares attestations relatives à une présence d'Hercule dans le sanctuaire capenate. A ce sujet il est intéressant de remarquer que sur une Heraklesschale, encore inédite, provenant du dépôt votif du sanctuaire, le dieu est représenté avec la leonté et la massue dans la main gauche, et le skyphos en bois dans la main droite. Ces deux derniers attributs d'Hercule étaient conservés dans le sacellum près de l'Ara Maxima du Forum boarium, à Rome, et le skyphos, utilisé par le préteur urbain pour faire les libations au cours du sacrifice annuel auprès de l'Ara, apparaît aussi dans la statue de culte d'Alba Fucens, dans laquelle, en raison de nombreuses similitudes, on a proposé de reconnaître une réplique du simulacre du sanctuaire du Forum boarium. La répétition iconographique de ces éléments dans un sanctuaire-marché situé le long des voies de la transhumance, comme était le Lucus Feroniae, ne semble pas un hasard et pourrait d'ailleurs, dans un certain sens, évoquer le culte de l'Ara Maxima et en particulier un aspect fondamental de celui-ci, représenté par la liaison avec les Salinae aux pieds de l'Aventin. Celles-ci, situées près de la porta Trigemina, et donc proches de l'Ara Maxima, étaient le lieu de dépôt du sel provenant des salines d'Ostie destiné à la Sabine, et en général aux populations établies à l'intérieur de l'Italie centrale et vouées à l'économie pastorale. L'Hercule du Forum boarium, qui protégeait les activités économiques liées aux échanges de bétail, gouvernait aussi à l'approvisionnement du sel, et c'est en ce sens que doit aussi s'expliquer l'épithète de Salarius, attesté pour le dieu à Alba Fucens où, comme on l'a vu, le sanctuaire d'Hercule avait la fonction de forum pecuarium. La dislocation de sanctuaires-marchés le long des voies de transhumance garantissait donc aux pasteurs, après compensation nécessaire, la possibilité de se pourvoir en sel, et la même chose devait advenir au Lucus Feroniae. Ceci semble confirmé par le fait que, comme il a été démontré récemment, la route le long de laquelle se dresse le sanctuaire, l'actuelle route provinciale Tiberina, doive en réalité être identifiée comme la via Campana en territoire falisque, mentionné par Vitruve, en relation avec une source mortelle pour les oiseaux et les petits reptiles. Le nom de la route s'explique, en effet, en relation à son point d'arrivée, le Campus Salinarum situé à l'embouchure du Tibre, où se trouvaient les salines. Dans la zone falisque, l'analyse de la documentation relative aux lieux de culte a mis en évidence une influence majeure de Véies par rapport à la zone capenate. Cela résulte particulièrement important dans un centre comme Narce, marqué, depuis le début de son histoire, par une nette influence de Véies, et dont le déclin coïncidera avec les années de la conquête de la ville étrusque. Pour nous limiter à la sphère du sacré, déjà à partir d'un premier examen du matériel retrouvé dans le sanctuaire suburbain de Monte Li Santi – Le Rote, dont on attend la publication intégrale, on a signalé, à partir du Vème siècle av. J.-C., époque à laquelle commence la fréquentation de l'aire sacrée, la présence de prototypes provenant de Véies, qui sont à l'origine d'une production locale de petites terre cuites figurées. A un modèle de Véies sont reconductibles les citernes à ciel ouvert, qui flanquaient l'édifice templier dans au moins deux des principaux sanctuaires de Falerii Veteres, celui de Vignale et celui de Scasato I, tous deux à identifier comme lieux de culte dédiés à Apollon. Plus difficile est par contre le rapprochement de celles-ci aux citernes fermées retrouvées proche d'une aire sacré urbaine, récemment identifiée dans la moderne rue Gramsci, dans la partie méridionale du plateau de Civita Castellana, tandis que c'est seulement grâce à une vieille note des archives de la Surintendance que nous savons de l'existence d'une citerne semblable retrouvée près de Corchiano au début du Vingtième siècle. Dans les cas mieux documentés de Vignale et de Scasato, de tels systèmes hydrauliques résultent contemporains à la phase la plus antique du sanctuaire, et correspondent à un schéma qui revient à Véies dans le sanctuaire d'Apollon au Portonaccio, proche du temple à oikos de la Piazza d'Armi, dans le sanctuaire de Menerva près de la Porta Caere, ainsi que dans le sanctuaire situé en localité Casale Pian Roseto. Il n'est pas facile de déterminer la valeur exacte à attribuer, selon les cas, à de telles citernes, mais l'emphase topographique qu'on leur accorde dans le cadre des sanctuaires ne semble pas permettre de pouvoir exclure une relation avec les pratiques rituelles. Pour le site de Falerii on a pensé à une relation avec le sanctuaire de Portonaccio, entre autre sur la base d'une correspondance des cultes centrée sur la figure d'Apollon, et la piscine a ainsi été expliquée en relation à des rituels de purification liés à un culte oraculaire. Après la défaite de Véies, Falerii dut faire face non seulement à Rome du point de vue militaire, mais elle dut aussi se montrer non inférieure par prestige et capacité d'autoreprésentation, étant l'autre grand centre de la basse vallée du Tibre. Cet aspect a été noté, en particulier, sur la base de la décoration des temples de la ville falisque, qui connaît vers la deuxième – troisième décennie du IVème siècle av. J.-C. un renouveau général dû à la naissance d'une importante école choroplastique, dont l'activité se reconnaît aussi dans le fragment isolé de relief d'argile représentant une Nike, provenant de Fabrica di Roma. Une autre réaction à la prise de Véies est attestée dans l'autre important centre falisque, celui de Narce, aussi grâce à la documentation fournie par le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote. Le lieu de culte continue à être fréquenté après la crise de la ville, comme le démontre une consistante contraction des nécropoles à partir du IVème siècle av. J.-C., mais dans la première moitié du IIIème siècle une ultérieure réduction du culte est prouvée dans de nombreux secteurs du sanctuaire, en parallèle à l'introduction de nouvelles catégories d'ex-voto, comme les ex-voto anatomiques, les nouveaux-nés enveloppés dans des bandes, les terre cuites représentant des animaux. Ces changements ont été mis en relation avec la victoire romaine sur les Falisques en 293 av. J.-C., alors qu'un deuxième moment de contraction du culte semble coïncider avec la définitive conquête romaine de 241 av. J.-C. Depuis le début du IIIème siècle av. J.-C., on assiste aussi dans les dépôts votifs de Falerii à l'introduction de nouveaux types d'ex-voto, dont on a parlé précédemment, et, comme pour le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote, on enregistre la présence de pièces de monnaie romaines, qui commencent à constituer des offrandes. Une telle donnée devient encore plus éloquente lorsqu'on considère l'absence de monnaies locales dans les contextes préromains, qui semble trahir l'indifférence des populations falisques envers un tel type d'offrande. Il est donc évident aussi pour Falerii une influence du marché romain après les évènements belliqueux qui marquèrent la victoire de Spurius Carvilius sur les Falisques. La ville semble toutefois réussir à affronter la crise, au point de ne pas mettre en danger ses institutions, comme le démontrent les dédicaces falisques adressées à Mercure, dans le Sanctuaire dei Sassi Caduti, par les efiles, seuls magistrats attestés en ville. Par ailleurs, aussi avec la construction du nouveau centre de Falerii Novi, la documentation relative à la sphère religieuse prouve la conservation, au niveau public, de la langue et de la graphie falisque, par exemple dans la dédicace à Menerva effectuée par le préteur de la ville, pendant la deuxième moitié du IIIème siècle av. J.-C. (CIL XI 3081). Ce que nous savons sur les cultes de l'époque républicaine se limite au sanctuaire de Lucus Feroniae, où pratiquement tout le matériel et les sources épigraphiques peuvent être situés durant le IIIème siècle av. J.-C., et à deux dédicaces du IIIème siècle av. J.-C. La capitulation de Capena immédiatement après la chute de Véies (395 av. J.-C.) rend, à cette période, la présence romaine stable depuis environ déjà un siècle, et on ne se surprend donc pas du fait que les inscriptions sacrées utilisent un formulaire spécifiquement latin, avec même une présence plutôt précoce d'expressions qui deviendront courante au cours du IIème siècle av. J.-C. Un des premiers exemples attestés d'abréviations aux seules initiales de la formule de dédicace d(onum) d(edit) me(rito) se trouve dans CIL I, 2435, et provient de la nécropole capenate de Saliere. La plus antique documentation archéologique sur la vie religieuse de la zone prise en examen provient de Falerii Veteres. En ordre chronologique, la première divinité présente épigraphiquement est Apollon, dont le nom apparaît gravé en langue falisque sur un fragment de céramique attique remontant aux premières décennies du Vème siècle av. J.-C., qui provient du sanctuaire de Vignale. Il est intéressant de noter qu'il s'agit dans l'absolu de la plus antique attestation connue du nom latinisé du dieu, ce qui indique son assimilation précoce dans le pantheon falisque où, déjà à partir de cette époque, il faut reconnaître comme déjà effectuée l'identification entre Apollon et le dieu local Soranus. Le culte du dieu de Soratte, attesté épigraphiquement seulement à l'époque impériale, à travers deux dédicaces à Soranus Apollo, peut être situé de manière cohérente parmi les plus antiques manifestations religieuses du territoire falisco-capenate, et probablement le centre du culte du Mont Soratte devait servir de point de jonction entre les deux zones. Dans le territoire falisque la présence du dieu laisse des traces plus consistantes, à travers la duplication du culte d'Apollon à Falerii Veteres et une dédicace d'époque républicaine venant de Falerii Novi, tandis qu'elle semble s'affaiblir dans l'aire capenate, où on en trouve trace seulement dans deux dédicaces à Apollon, datant de la première époque impériale à Civitella S. Paolo, et dans un passage controversé de Strabon qui, apparemment par erreur, situe au Lucus Feroniae les cérémonies en l'honneur de Sorano, qui étaient au contraire célébrées sur le Mont Soratte. Cette information toutefois s'insère dans un système de correspondances cultuelles qui, associées à une déesse chtonienne, de la fertilité, et à un parèdre de type « apollinien », c'est-à-dire une divinité masculine, jeune, d'aspect infernal et mantique. Ce n'est pas un hasard, dans ce contexte, que le sanctuaire pour lequel est attestée une plus antique fréquentation à Falerii Veteres soit celui de Iuno Curitis, une divinité qui semble répondre au schéma de déesse matronale et guerrière (il s'agissait d'une Junon armée, mais aussi protectrice des matrones) pour laquelle, en outre, on a la preuve de l'association cultuelle avec un jeune dieu, de la même typologie que celle présente à Sorano. Même si on n'a pas d'attestations directes de l'existence de rapports entre Iuno Curitis et Sorano Apollo, il semble qu'il ne faille pas délaisser le fait que l'unique statuette d'Apollon jouant de la lyre, du IVème siècle av. J.-C., retrouvée à Falerii Veteres provienne justement du sanctuaire de la déesse; en outre lorsqu'elle fut évoquée à Rome après la prise de Falerii en 241 av. J.-C., en même temps que son temple situé in Campo, un autre temple fut construit, celui de Iuppiter Fulgur, une divinité du centre falisque pareillement évoquée, et pour laquelle on peut établir des parallèles avec Soranus, au travers de l'assimilation avec Veiove. Dans le territoire falisque comme dans celui capenate, les plus anciennes attestations cultuelles se réfèrent donc à un couple de divinités qui, tout en ayant des différences dans des aspects spécifiques du culte, semblent répondre à des exigences cultuelles plutôt homogènes. Durant l'époque impériale, enfin, le panorama des cultes de la zone considérée semble devenir plus homogène, en suivant par ailleurs une tendance générale. La manifestation plus évidente est formée, naturellement, par le culte impérial, présent très tôt en Etrurie méridionale. Le plus antique témoignage du culte impérial connu en Etrurie provient de Nepi, et il est constitué d'une dédicace en l'honneur d'Auguste de la part de quatre Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'inscription est datable à 12 av. J.-C., année de la fondation du collège de Nepi et de l'institution à Rome du culte du Genius d'Auguste ainsi que des Lares Augusti, vénérés dans les compita des vici de la ville. D'autres exemples d'une diffusion plutôt précoce du culte impérial viennent de Falerii Novi (CIL XI, 3083, datable entre 2 av. J.-C. et l'an 14 ; CIL XI, 3076, époque augustéenne); de Lucus Feroniae, où vers 31 av. J.-C. l'usage de la formule in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295) est documenté pour la première fois. Le fait que la diffusion du culte impérial dans le territoire falisco-capenate ait commencé pratiquement dans les mêmes années qu'à Rome semble aussi lié aux rapports qu'eurent Auguste et la dynastie julio-claudienne avec ce territoire. Après Anzio les vétérans d'Octave obtinrent des terres en Etrurie méridionale, le long du cours du Tibre, et ce n'est pas un hasard si l'Augusteum de Lucus Feroniae, le seul en Etrurie méridionale connu outre que de manière épigraphique aussi grâce à ses vestiges, ait été érigé entre 14 et 20 apr. J.-C. par deux membres de la gens sénatoriale, filo-augustéenne, des Volusii Saturnini. Auguste lui-même et des membres de la dynastie participèrent directement à la vie civile des centres de la région: Auguste fut pater municipii à Falerii Novi, Tibère et Druse Majeur furent les patrons de la colonie à Lucus Feroniae, entre 11 et 9 av. J.-C. La présence, en outre, d'affranchis impériaux sur le territoire capenate, chargés de l'administration du patrimoine de l'empereur, fait penser à l'existence de fundi impériaux. La documentation d'époque impériale est formée d'une série d'inscriptions qui difficilement peuvent nous faire remonter à des lieux de cultes bien précis, et desquelles dans de nombreux cas, on déduit surtout une demande de santé et de fertilité à la divinité, comme il était fréquent à l'époque républicaine, entre le IV et le IIème siècle av- J.-C., qui s'exprime au moyen d'offrandes d'ex-voto anatomiques dans les sanctuaires. On connaît aussi quelques attestations de cultes orientaux (Mater Deum et Isis, parfois associées, provenant de Falerii Novi et de son territoire ; une dédicace à la Mater Deum de Nazzano, en territoire capenate), qui entrent dans le cadre d'une dévotion privée, sauf dans le cas du sacerdoce d'Isis à Mater Deum présent à Falerii Novi. ; The list of documentary sources concerning the religious life of the falisco-capenate area aim at findings the places of worship that can be identified with certainty. Whenever this has not been possible we have signalled the worship anyway. Through these documents we intend to reconstruct the history of the cults of the area examined, from its beginning to imperial age. The examined area, included in the Regio VII Etruria of the territorial organisation of Augustean Italy, is enclosed within the natural limits of the Bracciano lake and Vico lake at west, of the Tiber at east; the northern and southern limits are marked, respectively, by the Cimini mounts and Sabatini mounts. The sites considered are Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutrium et Nepet. ; XIX Ciclo ; 1977
2006/2007 ; Una ricerca sulla supervisione professionale agli Assistenti Sociali . Anna Maria Giarola frequentante il III anno di Dottorato in "Sociologia, Scienze del Servizio Sociale e Scienze della Formazione"di Trieste, XX Ciclo. tutor Prof.Franco Bressan co-tutor Dott.ssa Elisabetta Neve Premessa Un breve inquadramento storico della supervisione in Servizio Sociale, ci condurrà alle motivazioni sottese alla ricerca svolta. Nell'ambito della formazione e della pratica professionale degli assistenti sociali è sempre stata presente la supervisione, che ha rappresentato il punto di raccordo tra la dimensione formativa e quella lavorativa della professione. Lo sviluppo teorico e metodologico della pratica della supervisione nel Servizio Sociale è stato ampiamente influenzato dal modello statunitense. Iniziata negli anni Trenta, la supervisione nei servizi sociali statunitensi era fortemente improntata a una funzione "amministrativa" di controllo della qualità e della produttività del lavoro degli assistenti, sulla base degli standard, degli scopi e degli obiettivi fissati dall'Ente, secondo uno stile di management ripreso dal modello produttivo e organizzativo aziendale americano.(Cortigiani M.,2005) A questa iniziale impostazione, vennero apportate nel nostro Paese delle correzioni decisive nel senso di dare alla supervisione anche la funzione di garantire agli operatori un supporto tecnico, formativo e personale.(Tommassini G.,1962) I supervisori lavoravano all'interno degli Enti di assistenza ed erano gerarchicamente incastonati nell'apparato amministrativo, ricoprendo quattro funzioni (Hester, 1951) : 1) funzione amministrativa e cioè controllo sull'operato, sulla qualità, sulla programmazione, pianificazione e distribuzione del lavoro; 2) funzione valutativa dei risultati, 3) funzione didattica volta ad integrare e completare la formazione dell'operatore svolta prima dell'ingresso nell'Ente; 4) funzione di consultazione relativamente ai casi specifici per i quali l'operatore necessiti di un supporto tecnico da parte di un operatore più esperto. Queste funzioni erano combinate con pesi e misure diverse a seconda dell'ambito della loro implementazione, ma la figura del supervisore restava una figura chiave all'interno degli Enti erogatori dei servizi e l'elemento di riflessività, che la connotava, portava un valore aggiunto all'operatività dell'assistente sociale. La peculiarità del Servizio Sociale di mettere in stretta, dipendente, relazione prassi operativa ed elaborazione teorica, trovava appunto nella supervisione un elemento forte di riflessione sulla propria operatività, da tradurre o rapportare al paradigma teorico. ( Neve E., 2000) Quando nel nostro Paese, in virtù della riforma dell'assistenza e del decentramento della responsabilità del ruolo assistenziale ai Comuni, gli Enti vennero chiusi e gli assistenti sociali decentrati nelle unità territoriali, la figura del supervisore, così come era stata fino ad allora concepita, tese a sparire. Lo sviluppo del Servizio Sociale è stato da allora molto complesso e la professione si è arricchita di nuove e maggiori competenze nei vari ambiti, ma la figura del supervisore non ha più trovato una chiara rappresentazione al suo interno. Sembra esserci oggi tuttavia una percezione diffusa del crescere di una domanda di supervisione da parte dei professionisti, sia in concomitanza con i rilevanti mutamenti nelle politiche di welfare e nell'organizzazione dei servizi socio-sanitari, sia sull'onda di una più pressante esigenza di qualità nell'erogazione di servizi. Il tema della supervisione professionale nel Servizio Sociale è stato oggetto negli anni, di approfondimenti ed analisi da parte di molti autori appartenenti spesso al mondo dell'operatività : fatto questo che dimostra come per l'assistente sociale risulti necessario trasferire l'esperienza legata alla prassi ad un livello di elaborazione teorica, attraverso una riflessione costante sulle proprie modalità operative. Nonostante i dibattiti attorno a questa tematica, le esperienze formative in questo senso sono restate purtroppo episodiche ed isolate: in pratica, non esiste un percorso formativo istituzionale per i supervisori, né tantomeno un riconoscimento professionale di questa figura. La formazione del supervisore risulta, seppur in taluni casi molto ampia ed articolata, non omogenea e talvolta con imprinting estremamente personali. La nostra ricerca nasce proprio dal desiderio di conoscere le varie esperienze di supervisione in servizio agli assistenti sociali nel nostro Paese, di rilevare le eventuali carenze e positività, di conoscere il percorso formativo dei supervisori che attualmente operano, le loro modalità e le loro opinioni in merito alla necessità di un percorso formativo specifico. Essa si ricollega ad altre più illustri ricerche teoriche, che hanno avuto il pregio di riportare in evidenza una tematica come quella della supervisione, che, tra alterne vicende, è sempre stata presente nel mondo del servizio sociale. Ricordiamo infatti le ricerche teoriche di E.Allegri che hanno messo in luce le inalienabili valenze di supporto alla professione, di valutazione di qualità e di auto-valutazione del lavoro sociale, intrinseche alla supervisione.(Allegri E.,1997,2000) 1. LA RICERCA. La ricerca è finalizzata a rilevare empiricamente, attraverso una serie di indagini, quanto la percezione diffusa dei professionisti e la recente elaborazione teorica hanno messo in evidenza, relativamente alla supervisione agli assistenti sociali in servizio. Essa è finalizzata a : - diffondere la conoscenza, consentire l'elaborazione teorica, contribuire a creare sensibilità e consapevolezza dell'utilità, se non della necessità, di incentivare la pratica della supervisione; - fornire suggerimenti per l'istituzione o sperimentazione di percorsi formativi, dei quali abbiamo la percezione ci sia carenza, ma anche necessità. Il progetto di questa ricerca è articolato nelle seguenti fasi : - costruzione del quadro teorico di riferimento e prima ricognizione panoramica sulla supervisione in Italia. - indagine empirica sulle esperienze esistenti, sia sul piano della domanda che dell'offerta di supervisione. Rilevazione della percezione del fabbisogno di supervisione sia da parte della professione che, indirettamente, da parte dei contesti istituzionali dei servizi; Per la ricerca è sembrata prioritaria una ricognizione sullo "stato" dell'esercizio della supervisione che comprendesse : - indicazioni riguardanti le esperienze già esistenti di supervisione ad assistenti sociali già in servizio, cercando di sondare le modalità e le tipologie esistenti e quantificare anche la disponibilità attuale a tale pratica ; per un quadro della situazione è stato utile indagare sulle tipologie di supervisione esistenti (individuale o di gruppo, mono o pluri-professionale) poiché le diverse tipologie sono sottese da motivazioni ed esigenze diverse (rafforzamento dell'identità professionale, capacità di cooperazione ed integrazione etc,) e possono dare un quadro più significativo della situazione attuale; - indicazioni riguardanti la quantità e la qualità potenziali della domanda di supervisione da parte sia dei singoli professionisti, sia, indirettamente, delle organizzazioni pubbliche e private di servizi ; è stato interessante indagare attorno alle motivazioni sottese alla richiesta di supervisione da parte dei diretti interessati, anche attorno alla "contestualizzazione" della supervisione e cioè se la stessa debba essere intesa fornita da operatori esterni o interni al servizio ed in quale posizione rispetto all'organizzazione; -indicazioni, anche se indirette, sul potenziale grado di disponibilità dei responsabili delle politiche e delle istituzioni di servizi ad attivare con proprie risorse o ricorrendo all'esterno, percorsi di supervisione per i propri operatori ; Si ritiene che questa ricerca possa collocarsi nell'ambito delle ricerche qualitative, nel senso che si darà ampio spazio al punto di vista o, più generalmente, alla prospettiva di chi è protagonista, come fruitore o come propositore, del nostro oggetto di studio. Gli interrogativi che ci siamo posti hanno una natura fondalmentamente descrittiva del fenomeno e non nutrono ambizioni di spiegazioni di portata generale. Il dato quantitativo misurato, relativamente alla presenza di tale prassi nel nostro Paese, sarà di aiuto comunque nel formulare ipotesi di fabbisogno e di intervento, in ambito formativo, sostenute da dati standardizzati. 2. IL PERCORSO DI RICERCA Si è ritenuto quindi opportuno, per le nostre finalità, articolare la ricerca come segue: 1) una ricognizione teorica, che ha preso in esame la letteratura italiana di servizio sociale sul tema, anche in chiave storica, e quella inerente la supervisione in altri ambiti professionali( psicologico, psicoterapeutico, psichiatrico, pedagogico-educativo .) Tale ricerca di sfondo aveva lo scopo, oltre a quello dell'approfondimento della conoscenza dell'oggetto di studio e della familiarizzazione con il contesto, di far emergere i nodi da indagare quali : i componenti del setting della supervisione( Assistente Sociale, Supervisore, Organizzazione ed Utente) , le funzioni della supervisione, la formazione dei supervisori, la scelta tra una supervisione implementata da un professionista interno od esterno all'ente, e tra una supervisione individuale o di gruppo ed infine, un breve excursus sulla supervisione nelle altre professioni d'aiuto ( infermieri professionali, psicologi, educatori professionali, psichiatri). 2) una prima ricognizione sulle esperienze italiane esistenti, attraverso materiale documentario e la somministrazione di un breve questionario a soggetti privilegiati, quali gli Ordini Nazionale e Regionali degli assistenti sociali ed altri organismi di rappresentanza degli stessi ( A.i.do.S.S, S.U.N.A.S, AS.Na.SS…) 3) una serie di interviste destinate ai supervisori esperti, molti dei quali docenti universitari, presenti nel nostro Paese, che hanno implementato tale prassi, nelle varie realtà italiane ( i nominativi ci sono stati forniti dagli Ordini Regionali degli assistenti sociali, ma risultavano già noti, per la grande rilevanza che essi hanno nel panorama formativo della professione ). La numerosità dell'elenco ci ha costretti, per motivi di ordine squisitamente tecnico, a suddividere il campione e a predisporre un questionario da inviare ad una parte dei supervisori. La scelta dei membri dei due sottogruppi è dovuta soltanto alla cronologia della somministrazione. 4) una indagine, attraverso un questionario, presso gli assistenti sociali, estratti casualmente dalle liste degli Albo Regionali, sulla reale possibilità di accedere ad un percorso di supervisione e sulle opinioni in merito degli operatori coinvolti. Si tiene a sottolineare come il nostro piano di indagine non fosse comunque rigido e stabilito, prima dell'inizio stesso dello studio, ma come esso sia emerso e sia stato definito nel dettaglio, durante la raccolta dei dati, una volta terminata l'analisi preliminare. Crediamo infatti che, per la buona riuscita della ricerca, sia necessario attenersi a canoni di flessibilità e adattamento al contesto e ai soggetti coinvolti. Come premesso, attraverso questi strumenti, intendiamo assumere informazioni sul panorama attuale italiano riguardo la supervisione in servizio agli assistenti sociali, ipotizzando che essa ponga reali problemi non solo sul piano del suo concreto esercizio, ma anche sul piano dei requisiti e quindi della formazione dei supervisori di professionisti, che operano in realtà alquanto complesse, come quelle dei Servizi Sociali, sia pubblici, che del privato sociale. 3. GLI STRUMENTI DEL PERCORSO 1.3 Questionario per gli Ordini e le Agenzie Formative. L'approfondimento teorico e documentario, che ha avuto valore di "ricerca di sfondo" ci ha permesso di definire, almeno in prima battuta, i concetti relativi al tema della ricerca ed i nodi attorno ai quali sono state strutturate le nostre indagini. E' stata effettuata una prima panoramica sulle esperienze italiane esistenti attraverso la somministrazione di un questionario a tutti gli Ordini Nazionale e Regionali ed alle Associazioni di categoria ( Associazione Nazionale Servizio Sociale, Associazione Italiana Docenti di Servizio Sociale, Sindacato Unitario Nazionale Assistenti Sociali ). Essa aveva un duplice scopo : 1) avere una prima fotografia delle esperienze esistenti in Italia e delle opinioni in merito da parte delle voci "ufficiali" della professione; 2) ottenere informazioni circa l'entità e la dislocazione di esperienze e persone cui poter fare riferimento per la rilevazione. Il questionario postale, a domande aperte, chiede informazioni sull'esistenza di esperienze recenti o attuali di supervisione in servizio, su chi sono i supervisori, sull'esistenza o meno di corsi di formazione dei supervisori. La scelta di un questionario postale a domande aperte deriva da riflessioni di ordine metodologico e di tipo economico : il questionario a domande aperte infatti può essere immaginato come uno strumento a cavallo tra qualità ( capacità conoscitiva del punto di vista dell'intervistato ) e quantità, essendo la redazione e l'ordine delle domande esattamente uguale per tutti gli intervistati (possibilità di giungere alla costruzione di "matrici di dati") . 2.3 Intervista e Questionario ai Supervisori. Una delle domande del questionario somministrato agli Ordini ed alle Agenzie formative riguarda la conoscenza da parte di questi, di professionisti o agenzie pubbliche o private che forniscono supervisione in servizio agli assistenti sociali nel nostro Paese. Accanto ad altri interessanti dati, abbiamo potuto accedere a molti nominativi di Supervisori, che negli ultimi dieci anni hanno effettuato supervisioni ad assistenti sociali in servizio, nelle loro regioni. Ne è emerso un elenco di circa sessanta professionisti, alcuni dei quali sono nomi estremamente significativi nell'ambito dell'elaborazione teorica e della formazione del Servizio Sociale. Abbiamo ottenuto quindi un campione di supervisori rappresentato dalla totalità dei nominativi fornitaci dai vari Ordini regionali ( campionamento a valanga o snow-ball). Possiamo quindi affermare che non si tratta della selezione di un campione, quanto piuttosto di una scelta degli interlocutori ( nel nostro caso tutti segnalati da Organismi rilevanti all'interno della comunità, alla quale la ricerca è diretta), operata sulla base della significatività dell'esperienza e della collocazione dei soggetti da intervistare relativamente alla più ampia finalità dell'indagine, come pure in ordine alla loro posizione nel contesto di studio. Appoggiandoci alla tripartizione individuata da (Gorden R.1975) che classifica in tre tipi generali gli interlocutori destinati ad una intervista ( chiave, privilegiati, significativi) possiamo affermare che il nostro campione appartiene alla categoria del tipo privilegiato o meglio "specializzato". Questa definizione intende qui una persona che dà informazioni "specialistiche", cioè direttamente rilevanti per gli obiettivi dello studio, scelta sulla base della sua posizione strategica nella comunità scientifica di appartenenza, gruppo o istituzione oggetto di studio.( G.Gianturco 2005) Si è pensato quindi, anche per motivi strettamente economici, di suddividere il campione in due sottogruppi. Tale suddivisione ci ha consentito di individuare, in ordine esclusivamente cronologico, i soggetti da intervistare direttamente e quelli ai quali inviare ( per posta ordinaria o telematica ) un questionario da auto-compilare. L'intervista è articolata in quattro sezioni, con domande aperte, riguardanti : -esperienze di supervisione fatte ed in atto; -riflessioni e commenti sulle esperienze -stima, in prospettiva, del fabbisogno di supervisione per gli assistenti sociali -problemi e prospettive circa la formazione dei supervisori -opinioni su nodi problematici Abbiamo pensato a questo tipo di intervista semistrutturata focalizzata su un determinato argomento, detta anche standardizzata non programmata (Gianturco,2005)che prevede una gestione della relazione di intervista flessibile e con una bassissima direttività. Essa " concede ampia libertà all'intervistato ( gestione dell'ordine ed eventualmente dell'approfondimento delle domande/stimoli) ed intervistatore ( ampiezza della risposta e del racconto, inserimenti di altri elementi non previsti dallo stimolo.) garantendo nello stesso tempo che tutti i temi rilevanti siano discussi e che tutte le informazioni necessarie siano raccolte" (Corbetta,1999) Questa opzione ci è stata suggerita proprio dalla tipologia delle persone, che siamo andati ad intervistare : professionisti esperti, che accanto alle informazioni necessarie alla ricerca potevano fornire ampi ed approfonditi commenti al fenomeno, oggetto di studio, in generale. Non si tratta infatti, di un semplice elenco di argomenti, ma di una struttura ramificata in cui ogni argomento è suddiviso in temi e ogni tema in sotto-temi, con la possibilità di procedere ulteriormente nella scomposizione fino a raggiungere il livello di specificità richiesto dalle finalità conoscitive da perseguire. I supervisori raggiunti con l'intervista, la cui traccia con temi e sottotemi è stata anticipata per posta elettronica, sono stati 18. Abbiamo poi raggiunto con un questionario postale da autocompilare, anticipato da un contatto telefonico, altri 42 supervisori. Il questionario è stato formulato mantenendo gli stessi obiettivi conoscitivi dell'intervista, utilizzando domande chiuse, domande aperte e scale di valutazione, onde ottenere la possibilità di un minimo di standardizzazione dei risultati e contemporaneamente lasciare spazio ad opinioni ed osservazioni utili ad una più ampia conoscenza dell'oggetto indagato. Il questionario, molto simile per costruzione e contenuti alla traccia dell'intervista, è diviso in cinque sezioni, che riguardano: -modalità irrinunciabili, atteggiamenti -opinioni su nodi problematici ( posizione del supervisore, funzioni della supervisione) -esperienze di supervisione fatte ed in atto (sottotemi: condizioni e contesto,contenuto della supervisione,modalità della supervisione, riferimenti teorici) -riflessioni e commenti sulle esperienze ( fattori ostacolanti e favorevoli, obiettivi generali, stima, in prospettiva, del fabbisogno di supervisione per gli assistenti sociali) -problemi e prospettive circa la formazione dei supervisori ( esperienze del supervisore, competenze indispensabili, luoghi e modalità dei percorsi formativi) I nodi che si sono voluti indagare sono emersi, e dalla rilevazione teorica effettuata come ricerca di sfondo, e dagli stimoli derivanti dai questionari destinati agli Ordini e alle agenzie formative. Il questionario è stato utilizzato dopo essere stato "provato" nella fase di pre-test con alcuni assistenti sociali esperti di supervisione, che si sono prestati a testare la sua affidabilità. 3.3 Questionario agli assistenti sociali. Parallelamente ai pareri dei supervisori intervistati, che hanno fornito interessanti dati e ampie considerazioni sia sulle loro esperienze, sia sulle ipotesi di fabbisogno di supervisione agli assistenti sociali, i pareri di coloro che hanno usufruito della supervisione avrebbero completato il quadro, dando maggiore consistenza all'analisi della situazione attuale, nonché alle prospettive di diffusione della supervisione. Qui sono sorti alcuni problemi di metodo. Risultava impraticabile il reperimento di tutti gli assistenti sociali che, magari molti anni fa, hanno usufruito della supervisione; inoltre gli stessi supervisori non sempre erano in grado di fornire i dati relativi ai propri "utenti", spesso soggetti a grande mobilità tra i servizi e nei vari territori. E se anche si fosse riusciti a reperire un numero consistente di questi assistenti sociali, sparsi in vaste zone del territorio nazionale, un'intervista diretta – o tipo focus group - a gruppi omogenei (cioè supervisionati dallo stesso supervisore) avrebbe inficiato le risposte, in quanto influenzati dalla particolarità di quel preciso supervisore. L'ipotesi poi di ovviare a questa distorsione effettuando una serie elevata di focus-group con gruppi misti di assistenti sociali, fruitori cioè della supervisione di diversi professionisti, avrebbe comportato ancora maggiori difficoltà pratiche oltre che costi elevati. Si sarebbe anche potuto limitare l'ambito dell'indagine a livello regionale, o di due o tre regioni limitrofe, ma si sarebbe troppo sacrificata la rappresentatività dell'universo degli assistenti sociali "utenti" di supervisione, che pare essere andato assumendo ormai dimensioni nazionali. Ci siamo perciò orientati a modificare completamente il target, pensando ad un campione indifferenziato di assistenti sociali su tutto il territorio nazionale, svincolandoci sia dall'individuazione di coloro che erano stati supervisionati dai supervisori intervistati, sia da modalità di indagine attraverso interrogazione diretta. Naturalmente questo tipo di scelta ha posto ulteriori problemi, ma ha rilevato anche dei vantaggi: il target non era più costituito solo da persone che hanno già avuto esperienza di supervisione, ma da molte altre, che potevano anche non conoscerne l'esistenza o le caratteristiche peculiari. Questo ha dato la possibilità di rilevare una stima del fabbisogno di supervisione non solo da parte di chi ne era in qualche modo condizionato avendone avuto diretta esperienza, ma anche da parte di chi non ne aveva finora usufruito, per i motivi più diversi, potendo così allargare il panorama delle diverse percezioni degli operatori. La scelta poi del questionario postale, anziché dell'intervista, avrebbe facilitato la rilevazione attraverso la somministrazione ad un campione rappresentativo di tutti gli assistenti sociali italiani. Sul piano metodologico si è posto perciò il problema del campionamento, ben sapendo che qualsiasi esso fosse stato, non vi era alcuna garanzia che esso avrebbe rispecchiato la proporzione tra chi conosce la supervisione per averla sperimentata e chi non vi ha mai partecipato. Il campionamento è stato curato dal Prof. Franco Bressan, Statistico e Presidente del corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale dell'Università di Verona. Si è deciso di puntare, in prima istanza, a disporre di un campione pari o possibilmente superiore a 250 unità ( gli assistenti sociali iscritti nelle liste degli Albi Regionali sono complessivamente 32000 circa e l'intento era quello di avvicinarsi ad numero vicino al 10% della popolazione totale), sufficiente comunque a dare una buona informazione sul senso che assume per l'assistente sociale la supervisione in Italia. Per ottenere tale rappresentatività sono stati inviati circa 500 questionari. La scelta campionaria, di tipo stratificato, ha seguito le proposte di un importante strumento delle tecniche di campionamento , il Cochran (Sampling Techniques, Wiley NY 1963), e si è deciso di utilizzare la procedura di allocazione ottimale su campionamento stratificato per proporzioni per campionamento senza reinserimento. Su di questa ci siamo basati per identificare alcuni presupposti necessari alla definizione della numerosità del campione negli strati selezionati. CONCLUSIONE L'esperienza, nel complesso è stata, anche se faticosa, altamente gratificante. I dati emersi sono numerosi e talvolta preziosi, nonché, come spesso la ricerca propone, di stimolo per ulteriori approfondimenti. La fase conclusiva è forse carente di una analisi in profondità, ma la ricerca è, e vuole essere, una raccolta di informazioni sulla supervisione, fruibili per l'avvicinamento e approfondimento a tematiche ad essa intrinseche o correlate: nuove elaborazioni teoriche, istituzione di percorsi formativi per i supervisori, ricerca di forme di sensibilizzazione alla fruizione della supervisione, ricerca di forme di valutazione scientifica dei suoi effetti….etc. La ricerca si conclude ( ma possiamo ritenerla conclusa ?) con la lettura dei dati rilevati e qualche tentativo di confronto, e con i dati emersi dalla ricerca di sfondo, e tra i vari soggetti coinvolti nell'indagine, lasciando intravedere possibili sviluppi futuri. Bibliografia -Allegri E. (2000)Valutazione di qualità e Supervisione Lint,Trieste. -Allegri E.(1997) Supervisione e lavoro sociale, La Nuova Italia Scientifica,Roma. -Bressan F., Giarola A.M.,"Riflessioni metodologiche sulla ricerca : La supervisione agli assistenti sociali in servizio" su Rassegna di Servizio Sociale 1/2007 . -Cochran (Sampling Techniques, Wiley NY 1963). -Corbetta P.(1999) Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna. -Cortigiani M.(2005) La supervisione nel lavoro sociale Il Minotaruro,Roma. -Gianturco Giovanna(2005) L'intervista qualitativa Guerini Scientifica, Milano. -Gorden R.,(1975)Interviewing,Strategy,techniques and tactis, Dorsey Press, Homewood, Illinois -Gui L.(1999) " Servizio Sociale tra teoria e pratica : il tirocinio, un luogo di interazione",Lint,Trieste. -Hester M.C.,(1951) Il processo educativo nella supervisione,in "Social Case-work"n°6. Il Mulino, Bologna. -Losito Gianni (2004) L'intervista nella ricerca sociale Editori Laterza, Roma. -Marradi A. (2007) ( a cura di R.Pavsic e M.C.Pitrone) Metodologia delle Scienze Sociali. -Mauceri Sergio(2003) Per la qualità del dato nella ricerca sociale Franco Angeli, Milano. -Neve E. (2000) Il servizio sociale Carocci,Roma. -Nigris D. (2003) Standard e non-standard nella ricerca sociale. F.Angeli, Milano -Tomassini S.(1962) La supervisione nel servizio sociale. "Servizi Sociali" n°2.
CAPITOLO 1 Caratteristiche delle schede Le schede utilizzate oltre a mettere a disposizione un numero di risorse di elaborazione congruo all'applicazione, devono essere dotate di bus ad elevato parallelismo e devono poter operare ad alte frequenze. L'architettura del sistema di comunicazione per lo scambio dei dati entro la scheda assume un'importanza fondamentale. Oltre l'esigenza di garantire elevati bit rate, al sistema di comunicazione si richiede di occupare un numero di risorse accettabile. Le applicazioni in tempo reale richiedono che i sottosistemi di input mantengano il ritmo del flusso di dati dagli output dei sensori. In funzione dell'applicazione, un singolo FPGA può sostituire dieci o più processori RISC. In generale, date le notevoli varietà di ambiti di applicazione, la distinzione tra DSP in virgola mobile ("floating-point", in genere a 32 bits) e DSP in virgola fissa ("fixed-point", in genere a 16 bits) risulta fondamentale. . Per implementare le funzioni DSP, le due tecniche più diffuse sfruttano i DSP general-purpose oppure gli FPGA. I dispositivi Virtex II Pro di Xilinx si interfacciano con varie interfacce di sensori consentendo al flusso dati di entrare e uscire dall'FPGA a velocità elevate. CAPITOLO 2 Le schede 2.1 C6713Compact La C6713Compact della Orsys monta un DSP della Texas Instruments TMS320C6713 del tipo floating point che lavora a 225MHz arrivando ad una potenza di calcolo di 1350MFLOPS appoggiato da una RAM interna di 256kB. Connettore JTAG Il connettore JTAG viene usato durante lo sviluppo delle applicazioni, ed è associato alle interfacce JTAG di DSP e FPGA; pertanto è usato sia nella fase di debugging, sia per il download di applicazioni nel DSP, sia per il salvataggio nella memoria flash di codice per il DSP o per la programmazione dell'FPGA. Esso diventa uno strumento molto versatile grazie alla flessibilità delle connessioni permesse dalla scheda: in particolare esiste la possibilità di legare molti dei pin di ingresso/uscita dell'FPGA a quelli del connettore micro-line e all'interfaccia del DSP. Memoria esterna SDRAM La C6713Compact utilizza una memoria esterna SDRAM da 64Mbyte, organizzata a 32 bit. L'accesso alla memoria esterna avviene tramite l'EMIF clock, a 90MHz. Il PLD, tramite i suoi registri, permette di accedere alle varie parti hardware della scheda e di configurarne alcune opzioni. EEPROM seriale E' presente sulla scheda anche una memoria EEPROM seriale di 256 byte, integrata col sensore di temperatura della board. Il Watchdog Timer è di default disabilitato: per attivarlo basterà porre ad 1 il bit numero 4 del registro di configurazione WDG_PHRST del PLD. Periferiche del DSP Il DSP montato sulla C6713Compact possiede un gran numero di periferiche integrate. • Connettore micro-line attraverso bus driver. Di default, i segnali delle porte McBSP sono connessi al bus micro-line. Timers Il DSP TMS320C6713 contiene 2 timer indipendenti, a 32 bit. L'host processor e il DSP possono così scambiare dati sia attraverso la memoria interna del DSP, sia attraverso la memoria montata sulla board. La connessione tra l'host e lo spazio di memoria del DSP è assicurata da un meccanismo DMA. Interrupts Quattro interrupt non mascherabili ed uno mascherabile permettono ai dispositivi della scheda o ad eventuali periferiche esterne di interrompere il programma corrente del DSP e saltare ad una routine di servizio dedicata all'interruzione. A queste risorse fisse vanno aggiunte dei moduli inseribili dall'utente che contengono elementi di elaborazione vari: memorie RAM, FIFO (First-In First-Out), FPGA, DSP (Digital Signal Processor). Nallatech Ballynuey2 Il connettore PCI si interfaccia dal lato interno della scheda con un FPGA Xilinx 4000XLA, preprogrammato tramite una memoria PROM; questo FPGA, detto PCI FPGA, ha il compito principale di controllore per il connettore PCI. I dati scambiati con il PC host vengono trasferiti dal PCI FPGA ad un'altro FPGA detto User FPGA o On Board FPGA. Lo User FPGA presente sulla scheda in dotazione è uno Xilinx Virtex-E XCV600. Il Backplate IO connector può essere usato per collegare la scheda ad altri dispositivi hardware esterni; il connettore è del tipo a 68 piedini. Il clock della memoria ZBT viene fornito dallo User FPGA, e deriva da uno dei tre clock della scheda entranti nell' On Board FPGA. Moduli DIME e struttura dei Bus I moduli DIME (DSP and Image Processing Module for Enhanced FPGA), sono i principali elementi di elaborazione a disposizione della Ballynuey. Il SYS Bus è adibito al trasporto esclusivo di segnali di dato, non può essere usato ad esempio per portare segnali di clock da un punto all'altro del sistema. Generalmente questo Bus viene diviso in due bus a 32 bit: Il bus SYSVIN (System Video In) e il bus SYSVOUT (System Video Out). Il GEN IO Bus (Generic Input Output Bus) ha caratteristiche molto simili al SYS Bus. Il bus ADJ (Adjacent bus) connette ogni modulo DIME con gli altri due moduli DIME adiacenti. Si divide in due bus, entrambi con parallelismo 32, detti ADJVIN (Adjacent Video In Bus) e ADJVOUT (Adjacent Video Out Bus). Il Bus ADJVIN di un modulo DIME corrisponde al bus ADJVOUT del modulo DIME precedente; ovviamente il bus ADJVOUT di un modulo DIME corrisponde al bus ADJVIN del modulo DIME successivo. La scheda Ballynuey2 è dotata di tre diverse reti di clock, chiamate SYS CLK, PIX CLK e DSP CLK. La programmazione della frequenza avviene tramite il DIME Configuration Software GUI oppure tramite la funzione DIME Set-Oscillator-Frequency della DIME Software Library. Le reti di reset sono comandate a livello hardware dal PCI FPGA, mentre a livello software dal DIME Configuration Software oppure da funzioni apposite della DIME Software Library. Il modulo BallySharc2 Modulo BallySharc2. Sono presenti tre memorie RAM di dimensioni medio-alte, collegate come periferiche ai DSP e all'FPGA. I DSP ricevono il clock dalla rete del DSP CLK, oppure da un oscillatore al quarzo. Oltre i due bus sopraccitati gli Sharc hanno ognuno sei canali di comunicazione di tipo parallelo a 10 bit, detti Link Port, e due canali di tipo seriale a 6 bit. Un primo canale parallelo si connette ad un header , consentendo la comunicazione fra gli Sharc e dispositivi hardware esterni alla scheda. Il Link Port sul DIME bus del DSP0 si connette allo User FPGA, mentre quello del DSP1 ad un altro modulo DIME. Dei collegamenti seriali, uno connette i DSP fra loro, mentre l'altro è diretto alla DIME FPGA. Il reset agli Sharc arriva direttamente dal CPLD e come si può notare è distinto dal segnale di reset della DIME FPGA, collegato al system reset della scheda, e comandabile via software. Alcuni segnali di controllo dei DSP sono connessi direttamente al BallySharc FPGA. Il primo metodo sfrutta la catena JTAG dei DSP; i segnali μP TDI (Test Data In) e μP TDO (Test Data Out) sono infatti connessi al μP JTAG Connector della scheda Ballynuey2. La DIME FPGA si interfaccia al resto del sistema: oltre il SYS BUS verso lo User FPGA, i bus ADJVIN e ADJVOUT ad altri moduli DIME si hanno 2 SLink, uno diretto allo User FPGA(SLink0) e uno ad un modulo DIME(SLink1), e altri due PLink, diretti a due moduli DIME diversi. La DIME FPGA può connettersi ad un dispositivo esterno tramite il J1 I/O Header. La memoria, divisa in due banchi, è comandata esclusivamente dalla DIME FPGA. Il modulo BallyBlue Oltre il modulo BallySharc sulla scheda Ballynuey2 sono presenti due moduli DIME BallyBlue. Come si può notare solo uno degli FPGA ha accesso ai DIME bus, questo FPGA viene pertanto definito DIME FPGA o primary FPGA, mentre l'altro è detto secondary FPGA. I bus cui ha accesso il DIME FPGA sono quelli più volte citati : SYS BUS, ADJ BUS, GEN IO BUS, 4 PLink e 2 SLink. Diversamente dal modulo BallySharc, tutti i 20 bit del GEN IO BUS sono disponibili per applicazioni utente. I due FPGA sono connessi tramite un bus a 101 bit, completamente programmabile. Il modulo BallyBlue fornisce un segnale di clock indipendente ad entrambe le SDRAM, tramite il secondary FPGA, tuttavia non è conveniente usare regimi di clock diversi, soprattutto ad alte frequenze. Il secondary FPGA può scambiare dati con dispositivi esterni alla scheda tramite un connettore a 49 bit; il collegamento è completamente programmabile dall'utente. La configurazione e la gestione della scheda Ballynuey2 avviene tramite l'uso di pacchetti software eseguiti dal PC host, il quale dialoga con la scheda tramite l'interfaccia PCI. ORUGA Scheda Oruga. La scheda possiede un set molto completo di periferiche per una veloce integrazione del sistema compresi ingressi e uscite digitali, porte dati esterne e sincronismi per più schede. Una modalità di decimazione supporta anche 2 stream concorrenti, uno a bassa velocità e l'altro ad alta velocità per un utilizzo ottimizzato del bus e della banda del CPU così come della CPU host. Oruga è una scheda a 64 bit/33MHz PCI che supporta operazioni burst da 254 Mbyte/s da e per la memoria del PC host, ed è anche compatibile con un bus PCI a 32 bit. La scheda presenta anche numerose caratteristiche per una facile integrazione del sistema: 64 bit di ingresso e uscita digitale d'uso generale, una porta veloce e bidirezionale FIFO esterna per i dati e una porta SyncLink/ClockLink per una facile sincronizzazione di più schede o hardware esterno. Il controllore DMA pilota 16 canali indipendenti che alleggeriscono il carico dati della CPU. Sul chip sono presenti inoltre 2 timer da 32 bit. Le risorse sulla scheda includono una Sdram a 32 Mbyte, 3 timer a 24 bit, una DDS base dei tempi da 0 a 25 MHz, un'interfaccia PCI a 33 MHz con buffer FIFO. Un chip logico della Xilinx controlla i convertitori analogici, i segnali di trigger start-stop e i 32 bit di ingresso-uscita digitali. Il firmware include il buffering FIFO dei dati A/D, la correzione digitale del guadagno e dell'offset e la decimazione dei canali a bassa velocità. Un secondo dispositivo Xilinx pilota l'interfaccia PCI, la matrice di selezione della base dei tempi, l'interfaccia della porta FIFO e gli altri 32 bit di I/O digitali. Per i dati ad alta velocità i segnali di trigger per la base dei tempi possono essere scelti fra molte sorgenti di clock: DDS su scheda, i timer del DSP, i timer logici, clock esterno, un pin SyncLink/ClockLink o da comando software. Il campionamento dei dati è definito con segnali di start e stop che di base applicano una maschera o una finestra sul segnale di clock della base dei tempi. Scheda MVE. L'architettura della scheda è costituita da vari moduli: DSP, FPGA, Memoria, Video input, Video output, I/O analogico, Periferiche. Il DSP è il componente su cui si basa la scheda. Oltre ad una ragguardevole potenza di calcolo, il TMS320C6415 possiede anche abbondanti risorse per l'interfacciamento fra cui: un bus a 64 bit, un bus a 16 bit, un bus PCI a 32 bit, tre seriali sincrone multicanale. Per ultimo, un evoluto controllore DMA a 64 canali permette una complessa gestione del flusso dei dati. Un banco da 4MB, 64-bit, 133MHz di memoria SBSRAM. Un banco da 512MB, 64-bit, 133MHz, di memoria SDRAM, costituita da un modulo DIMM opzionale. Il dispositivo permette inoltre di interfacciare la scheda ad un modulo di pre-processing. Entrambi i buffer sono collocati nella memoria interna del DSP. Infine, i dati sono spostati nel buffer di playback sul processore grafico attraverso il bus PCI. Scheda Quadia. Le altre risorse on chip includono un'interfaccia PCI a 32 bit, due porte McBSP, 64 canali DMA, 3 timer e la porta HPI. Ogni DSP ha una propria SDRAM da 133 Mhz 64 Mb mappata sul bus a 64 bit EMIF-A. Questo ampio bus è la scelta migliore per l'utilizzo della memoria dedicata e per ottimizzare l'andamento dei task. La maggiore innovazione della architettura della Quadia risiede nell'alta connettività fra i DSP, gli FPGA, l'host e l'hardware esterno. DMDK Il nuovo DSP DM642 della Texas Instruments appartiene alla famiglia DigitalMedia che è basata sul potente C64. Si nota al centro della scheda il DSP TMS320DM642 della Texas Instruments con frequenza 600 MHz Una Sdram da 32 Mb con frequenza di lavoro di 133 MHz affiancata a una flash da 4 Mb. Interfaccia seriale per i dati: McASP, I2C. DMCK La scheda DMCK è una scheda completa che usa sia l' FPGA che il DSP, per una vasta gamma di applicazioni, incluse, quelle nel campo video e audio, e applicazioni a banda larga, radiodiffusione, video-sicurezza, campo medico, militare,del trasporto, industriale, ecc. La scheda sfrutta un DSP della Texas Instruments, il DM642, che lavora a 600 MHz, con 32 Mb di Sdram e 4 Mb di memoria Flash. La piattaforma hardware include delle entrate e uscite audio e video, connesse sia al DSP che all'FPGA, così il trattamento dei dati può essere sviluppato su DSP e successivamente portati su FPGA. Quixote. Quixote è una scheda a 64 bit per rilevare, generare e coprocessare segnali; combina un DSP C6416 con un Virtex 2 FPGA, utilizzando il meglio dei due mondi nella tecnologia del processamento del segnale per avere un'estrema flessibilità e efficienza. Quixote 1 è dotato del nuovo DSP TMS320C6416 della Texas Instruments che utilizza l'ultima architettura a virgola fissa a 32 bit nel C6000 series. Lavorando a 1 GHz, questo DSP offre un processamento del segnale a 8000 MIPS. L'interfaccia a 32 bit sul chip PCI è interfacciata all'host bus tramite un ponte PCI e connesso allo SPARTAN 2 e al PMC. L'FPGA è caricato con tutte le funzioni che controllano le sue interfacce come il set up della conversione della base dei tempi, la regolazione digitale del guadagno e dell'offset, l'interpolazione dei dati, il controllo delle FIFO, il controllo della base dei tempi PLL, e il controllo del trigger. Il range della frequenza di uscita è 50-105 MHz. La scheda monta un DSP TMS320C6713 che lavora a 225MHz appoggiato da una memoria di 32 Mb a 100Mhz. Il DSP comunica con un FPGA XC2V3000. La scheda monta un DSP della Texas Instruments, il TMS320C6701, che lavora a 150 MHz arrivando a 1 GFlops. L'FPGA è un VirtexII della Xilinx, con connettore Jtag e 16 Mb di memoria Sdram. CAPITOLO 3 Analisi sistemi ibridi Dsp-Fpga Tutte le schede, descritte si sono dimostrate uno strumento flessibile e potente per la realizzazione di sistemi di elaborazione per applicazioni sia di tipo intrachip che di tipo SoC (System On a Chip), che utilizzano dispositivi DSP e FPGA. Fra le caratteristiche positive delle schede si possono citare: Il numero elevato di risorse di elaborazione programmabili, sia hardware che software. Il numero elevato di risorse di comunicazione (bus) fra i vari dispositivi di tipo FPGA e DSP e la loro disposizione funzionale entro la scheda. La possibilità di trasferire i dati su bus ad elevate frequenze e utilizzando dei protocolli di comunicazione sincroni. La disponibilità di reti di clock indipendenti e programmabili in vari modi, sia per la sorgente del segnale di clock, sia per la frequenza di tale segnale, specialmente nella Nallatech Ballynuey2. La possibilità di gestire le schede da PC host tramite un'ampia libreria di funzioni software. La disponibilità di un ampio numero di connettori su scheda, per l'interfacciamento con dispositivi esterni. Un aspetto negativo che bisogna considerare per quasi tutte le schede è la banda ridotta sul canale di comunicazione fra PC host e scheda (User FPGA), a causa dell'interfaccia PCI a 33 MHz DSP-FPGA L'approccio DSP e quello FPGA si differenziano fortemente; il DSP è un processore specializzato programmato tipicamente in C ma viene usato talvolta anche l'Assembler, specialmente quando non vengono soddisfatte le specifiche di real time. Si adatta molto bene a compiti estremamente complessi ma è limitato nelle prestazioni dalla frequenza di clock e dal numero di operazioni utili che può svolgere ad ogni clock. Come esempio si può prendere in considerazione un TMS320C6201, che ha due moltiplicatori e una frequenza di funzionamento di 200 MHz, così si possono raggiungere 400M moltiplicazioni al secondo. Al contrario un FPGA è un "sea of gates", che viene programmato connettendo i vari gates tra loro per formare multiplexer, registri, sommatori ecc… Tutto questo è svolto a livello di diagramma a blocchi, e molti di questi possono essere di alto livello, si parte da un singolo gate fino ad arrivare a un FIR o FFT. Le prestazioni in questo caso sono limitate dal numero di gates che possiede ciascun FPGA e dalla frequenza di clock, così, per esempio un 200K gate della Virtex con una frequenza di 200 MHz può implementare dieci moltiplicatori da 16 bit. Quando si hanno alte frequenze di campionamento, oltre qualche MHz, un DSP può eseguire solo operazioni molto semplici sui dati mentre un FPGA non ha nessun problema. Con basse frequenze di campionamento la situazione si inverte, il DSP può implementare in maniera massiccia programmi complessi che sarebbero difficili da far eseguire all'FPGA. Infatti a basse frequenze il DSP risulta essere più funzionale, può mettere in coda i vari dati, assicurando che tutti quanti vengano elaborati, anche se sarebbero presenti delle latenze prima di venire trattati. Al contrario l'FPGA non può gestire così tanti dati, ciascuno di essi deve avere un hardware a lui dedicato anche se ogni singolo dato può essere trattato allo stesso tempo degli altri. Se è richiesto un "context swith" il DSP può implementarlo diramandolo a una nuova parte del programma, mentre un FPGA ha bisogno di costruire risorse dedicate per ciascuna configurazione. Se le configurazioni sono piccole allora possono coesistere allo stesso tempo nello stesso FPGA. Configurazioni più grandi fanno sì che l'FPGA abbia bisogno di essere riconfigurato, processo che necessita di molto tempo. Un DSP può prendere un programma standard in C ed eseguirlo. Questo codice C può avere un alto livello di complessità, cosa invece difficile da implementare con un FPGA. Infine un FPGA è programmato come diagrammi a blocchi, dove il flusso dei dati è facilmente osservabile. Un DSP invece è programmato con un flusso sequenziale di istruzioni. Molti sistemi di "signal processing" infatti nascono come diagramma a blocchi. Attualmente riportando il diagramma a blocchi ad un FPGA può risultare più semplice che convertirlo in codice C per il DSP. Quindi quando si deve compiere una scelta fra DSP e FPGA la prima cosa da chiedersi è la frequenza di campionamento della parte del sistema interessata. Se è maggiore di qualche MHz l'FPGA è la scelta naturale. Si analizza se il sistema è già in codice C. Se così è un DSP può implementarlo direttamente; certo non sarà la soluzione con prestazioni migliori ma sarà molto più veloce a svilupparsi. Un'altra cosa importante prima di effettuare una scelta è vedere la frequenza dei dati del sistema. Se è maggiore di 20-30 Mbyte per secondo allora l'FPGA sarà in grado di trattarli nel migliore dei modi. Un aspetto importante che rende bene l'idea della differenza tra i due dispositivi è la presenza o meno di operazioni condizionate. Se non è presente nessuna di queste operazioni allora l'FPGA risulta perfetto. Se invece se ne riscontrano parecchie di queste operazioni un'implementazione software può essere l'ideale. L'FPGA quindi viene usato quando abbiamo di fronte algoritmi ripetitivi mentre algoritmi più irregolari e meno standard vengono trattati con il DSP. Un ulteriore analisi può essere fatta a seconda che il sistema usi o meno floating point. Infatti se così è questo fattore gioca in favore al DSP, nessun "core" della Xilinx ad esempio supporta floating point al giorno d'oggi, sebbene possa essere progettato personalmente. Molti componenti complessi potrebbero non essere disponibili; sia i DSP che gli FPGA offrono librerie con blocchi base a disposizione come blocchi FIR e FFT,e questo può influenzare la decisione su un approccio anziché su un altro. In realtà molti sistemi sono composti da tanti blocchi e, alcuni di questi sono meglio implementati nell'FPGA altri nel DSP. CAPITOLO 4 Tendenze FPGA per applicazioni DSP Un paio d'anni fa era stato scritto che gli FPGA sarebbero entrati prepotentemente nelle applicazioni DSP. Infatti al giorno d'oggi si possono trovare blocchi DSP embedded negli FPGA , ad esempio Stratix di prima generazione dell'Altera. Ora gli FPGA sono divenuti i protagonisti del mercato DSP. Al posto di una matrice di processori DSP, vengono utilizzati in misura sempre maggiore un singolo DSP con un coprocessore FPGA per realizzare le applicazioni di elaborazione del segnale più impegnative. [1] La tendenza appena descritta trova una conferma tangibile nei recenti seminari relativi a Code: DSP focalizzati sui coprocessori basati su FPGA per applicazioni di elaborazione dell'immagine e dei segnali video. DSP Builder, infine, mette a disposizione dei progettisti DSP un flusso di progetto semplice e intuitivo che permette di risolvere i problemi di integrazione e ridurre il time to market.
2008/2009 ; Quella del consulente finanziario indipendente (Capitolo 1) è una figura professionale di elevato standing sviluppatasi a partire dagli anni '70 negli Stati Uniti, paese in cui l'attività è correntemente svolta da decine di migliaia di persone fisiche, iscritte ad associazioni di categoria, provviste di certificazioni anche di notevole spessore, come quella del Certified Financial Planner (CFP). Tale modello di consulenza in assenza di conflitto d'interessi è detto anche "fee-only" in virtù del suo principale tratto distintivo, ovvero che la remunerazione del professionista avviene esclusivamente a cura del cliente-investitore e non dalle società da cui sono promossi i prodotti e servizi finanziari consigliati. Rispetto al modello tradizionale di consulenza (consulenza strumentale alla vendita di prodotti finanziari: commission only), i professionisti del settore hanno dapprima iniziato ad applicare una parcella ai propri clienti (giustificata da un servizio di più ampio respiro: modello fee and commission), e successivamente a retrocedere al cliente le commissioni ricevute per il collocamento dei prodotti, secondo un maggior orientamento al cliente (modello fee offset); il modello fee only rappresenta il culmine del processo evolutivo con l'ampliamento dei contenuti del servizio offerto (da consulenza a pianificazione) e l'assunzione del carattere di piena indipendenza. Secondo l'approccio della MiFID, direttiva europea recepita in Italia nel tardo 2007, il modello fee-only è l'unica forma di consulenza in materia di investimenti che può essere condotta da persone fisiche, con particolari requisiti e secondo determinate regole (Delibera Consob n. 17130 del 12 gennaio 2010). Gli standard di qualità (ISO, 2008) tendono a definire i requisiti minimi nell'erogazione del servizio di pianificazione personale (indipendentemente dalla forma di remunerazione percepita). Questi approcci contribuiscono ad integrare a quelli emersi spontaneamente nella prassi (Sestina, 2000; Kapoor et al., 2004; Armellini et al., 2008) per quanto riguarda le competenze necessarie allo svolgimento dell'attività (tecniche, analitiche, relazionali) e la definizione delle fasi fondamentali del processo di pianificazione finanziaria personale, che in un'ottica integrata prevede: - Una prima fase riguardante gli aspetti preliminari e generali (illustrazione delle informazioni sul consulente e sui servizi offerti; definizione della relazione professionale); - Un'ampia fase relativa all'acquisizione delle informazioni dal cliente, alla verifica delle sue conoscenze ed esperienze in materia di investimenti, e alla definizione dei suoi obiettivi finanziari; l'analisi della situazione economico-finanziaria del cliente va attuata anche attraverso l'utilizzo di prospetti consuntivi e prospettici adattati al contesto (Banca d'Italia, 2009; Cannari et al., 2008; ECB, 2003); la definizione degli obiettivi e della tolleranza al rischio deve tener conto degli aspetti psicologici e di finanza comportamentale (Legrenzi, 2006; Rubaltelli, 2006; Shefrin e Statman, 2000; Motterlini, 2006; 2008); - Una terza fase relativa alla definizione tecnica del piano in un'ottica integrata (combinando vari aspetti di tipo previdenziale, assicurativo e legale), che preveda anche la formulazione dei "consigli" al cliente e la valutazione dell' "adeguatezza" degli strumenti finanziari, richiesta in particolare dalle norme di legge; - Una quarta fase relativa all'illustrazione e all'implementazione del piano, in cui il consulente affiancherà il cliente (senza, ovviamente, assumere deleghe né detenere somme di denaro); - Una quinta fase di monitoraggio che prevede degli obblighi di rendicontazione nei confronti dei clienti e la ricorsività dell'intero processo di pianificazione sulla base delle esigenze individuate. Non esistono ancora per l'Italia dati ufficiali sul numero di consulenti fee only attualmente in attività, però la crescita dell'interesse verso la professione è testimoniata dalla nascita di alcune associazioni di categoria, che contano su qualche centinaio di iscritti. Alla luce di questi dati l'impatto della consulenza indipendente nelle scelte di investimento delle famiglie italiane può considerarsi comunque molto limitato. Le statistiche per il 2008 (Banca d'Italia, 2009) confermano invece alcune caratteristiche tipiche del sistema finanziario italiano (Capitolo 2): - Oltre il 17% delle attività finanziarie detenute dalle famiglie risultano costituite da investimenti non intermediati in attività produttive, in forma di capitale di rischio, mentre la quota riferita ai mercati azionari risulta vicina al 4%; - Tra le attività a basso profilo di rischio privilegiate dai risparmiatori vi sono quelle destinate alla raccolta degli intermediari (depositi bancari e postali, obbligazioni bancarie); l'investimento in titoli pubblici risulta limitato rispetto al passato; - La "crisi" dei fondi comuni di investimento è evidente per il fatto che le quote detenute non superano il 5% del totale delle attività finanziarie. Nel complesso, l'esposizione delle famiglie verso le attività rischiose risulta limitata e caratterizzata da elevata rischiosità per effetto del modesto ricorso alla delega/diversificazione, come osservato da Barucci (2007). Tale caratteristica è confermata anche dal confronto con l'estero e si può spiegare anche attraverso la mancanza di fiducia nei mercati azionari, che può derivare sia da componenti "oggettive" che da altre "soggettive" (basate su fattori culturali), come osservato anche da Guiso et al. (2007). In generale, in senso dinamico, si rileva una forte influenza delle politiche di offerta delle banche, oltre che dell'andamento dei mercati e dei tassi di interesse, sulle scelte di investimento dei risparmiatori. Se il crollo dei rendimenti dei titoli di stato e l'andamento positivo nei mercati hanno certamente contribuito alla sottoscrizione di quote di fondi comuni nel periodo 1995-1999, in quelli successivi (2000-2005; 2005-2008) si nota un'evidente correlazione negativa tra queste e le riserve tecniche del ramo vita, nonché delle obbligazioni bancarie e di altri depositi, come osservato in (Spaventa, 2008; Banca d'Italia, 2009). Tra il 1999 ed il 2008 il peso dei fondi è sceso dal 16% a meno del 5% con una diminuzione quantificabile in oltre 300 miliardi di euro correnti, dei quali oltre la metà riferibili a flussi di riscatto secondo i dati di Assogestioni (2009). Il deflusso di capitali dai fondi comuni può essere ricondotto ad aspetti specifici quali: - La realizzazione di performance complessivamente negative a fronte di elevati costi di gestione (evidente anche negli studi di Barber et al., 2003; Jain e Wu, 2000; Nanda et al., 2004); nel periodo 1998-2008 l'extra-performance media dei fondi azionari italiani (indici Fideuram) è negativa di oltre 27 punti percentuali, al lordo degli effetti fiscali, rispetto ad un benchmark di azioni dell'Eurozona, mentre i fondi monetari ed obbligazionari cedono circa il 10% ed il 30% rispetto ai relativi benchmark; a risultati simili giungono anche Banca d'Italia (2009), Mediobanca (2009) e Armellini et al. (2008); la media dei Total Expense Ratio oscilla inoltre tra lo 0,74% dei fondi liquidità ed il 2,33% dei fondi azionari, e l'incidenza delle retrocessioni alle reti distributive sul TER è stabile nel tempo e superiore al 70%: viene dunque remunerata l'attività di vendita più che quella di effettiva gestione del patrimonio; - La concentrazione tra attività di asset management e di distribuzione, derivante dal fatto che in Italia le banche, oltre a collocare i prodotti del risparmio gestito, sono proprietarie delle SGR di riferimento: la quota di mercato attribuibile alle SGR indipendenti risulta pari a circa il 6,5% nel 2007, in diminuzione rispetto a quanto osservato tre anni prima; si tratta di un problema riconosciuto dalla stessa Assogestioni (Messori, 2008), e più volte richiamato dal Governatore della Banca d'Italia (Draghi, 2007; 2008); - Il "problema cognitivo", legato al comportamento non razionale degli investitori, eventualmente non supportati da un servizio di consulenza adeguato (Gualtieri e Petrella, 2006; Spaventa, 2008; Calvet et al., 2007; Legrenzi, 2005; 2006), e che determinerebbe, a livello soggettivo, l'accentuarsi delle performance negative a sfavore degli stessi. Dal punto di vista della consulenza indipendente, nell'analisi dei prodotti del risparmio gestito acquisisce notevole importanza il legame esistente tra commissioni applicate e performance netta (Cesarini e Gualtieri, 2005; Armellini et al., 2008), poiché i costi della gestione dovrebbero in larga parte remunerare il valore aggiunto conferito dagli asset manager, in una filosofia di gestione "attiva", ovvero che non si limiti alla mera replica di un paniere di attività finanziarie scambiate in un determinato settore/mercato di riferimento (Liera e Beltratti, 2005). Dal momento che ciò molto spesso non avviene, stanno acquisendo sempre maggiore interesse gli Exchange Traded Funds (Capitolo 3), fondi comuni a gestione "passiva" che presentano costi di gestione limitati rispetto a quelli dei fondi, e che sono quotati su mercati regolamentati (Tse, 2008; Lazzara, 2003). Essi rappresentano l'evoluzione degli strumenti di portfolio trading nati alla fine degli anni '70 nell'America del Nord (Gastineau, 2001). In Italia, le quote di ETF sono state ammesse alla negoziazione nel corso dell'ultimo decennio, in un apposito segmento dedicato di Borsa Italiana (il segmento ETFPlus). Al novembre 2009 risultavano quotati 336 ETF per un patrimonio superiore ai 10 miliardi di euro. Gli ETF sono negoziati in larga parte da investitori al dettaglio poiché il controvalore medio dei contratti risulta vicino a € 25.000 (dati Borsa Italiana). L'offerta di ETF in Italia risulta ampia e diversificata, con il 75% degli ETF di natura azionaria, il 19% di natura obbligazionaria, e la restante parte suddivisa tra liquidità ed indici di commodities. Inoltre, sono presenti anche ETF di tipo "strutturato", ovvero quelli che, in conformità con la direttiva UCITS III, realizzano strategie di investimento diverse dalla semplice replica passiva di un indice (ad esempio investimento con leva, replica inversa e strategie con opzioni). L'investimento in ETF presenta sostanziali differenze rispetto a quello in fondi comuni al riguardo di una serie di aspetti, e risulta particolarmente interessante dal punto di vista della consulenza indipendente, anche perché nel modello di business degli ETF non è previsto il collocamento diretto dei prodotti, per cui gli investitori normalmente non ricevono alcun tipo di consulenza al riguardo, al di fuori delle attività di comunicazione e di education (comunque non personalizzate) messe in atto direttamente dalle società di gestione. Il compito del consulente, nell'approccio integrato di pianificazione personale, può essere sintetizzato nella risoluzione di un problema di ottimizzazione di portafoglio, tenuto conto delle caratteristiche del cliente soprattutto in termini di capacità e di tolleranza al rischio, nonché dell'orizzonte temporale dell'investimento, nel pieno rispetto del principio di "adeguatezza" introdotto dal legislatore. Le fondamenta teoriche della moderna gestione di portafoglio (Capitolo 4) si devono al modello di ottimizzazione parametrica di Markowitz (1952), modello uniperiodale in cui il rendimento atteso di un portafoglio (così come di una qualunque attività) è definito dalla media della distribuzione dei rendimenti a scadenza dello stesso, ed il rischio è misurato dalla loro varianza. L'evoluzione della teoria del portafoglio e i numerosi contributi provenienti dalla letteratura (non solamente dalle discipline strettamente legate alla finanza dei mercati) hanno messo tuttavia in discussione il concetto di rischio "simmetrico" espresso dalla varianza, che considera alla pari sia i "pericoli" associati ad un investimento, che le "opportunità" che ne derivano. Sulla base del concetto di "downside risk", strettamente legato alla parte negativa di una distribuzione dei rendimenti, e di maggior intensità emotiva per gli investitori come dimostrato nella teoria del prospetto di Kahnemann e Tversky (1979), si sono proposte misure di rischio specifiche, tese a catturare taluni aspetti associati, ed utilizzabili anche in problemi di ottimizzazione (Chekhlov et al., 2003; Karatzas e Shreve, 1997; Magon-Ismail et al., 2004; Pritsker, 1997; Lucas e Klaasen, 1998). Per la verifica ex-post dell'efficienza dei portafogli attraverso l'analisi delle serie storiche vengono inoltre utilizzati particolari indicatori, detti di risk-adjusted performance (Sharpe, 1966; Treynor, 1965; Sortino e Price, 1994; Jensen, 1969; Modigliani, 1997; Keating e Shadwick, 2002), che sintetizzano in un unico indice una misura di rendimento ed una di rischiosità. Tali misure sono utilizzate in particolar modo nella valutazione dei fondi comuni (Caparrelli e Camerini, 2004; CFS Rating, 2009; Lipper, 2009) ed in generale delle gestioni patrimoniali, e si differenziano l'una dall'altra in particolare per la misura di rischio considerata (Eling e Schuhmacher, 2007; Pedersen e Rudholm-Alfvin, 2003). In generale, ci si aspetta che un qualunque indice di risk-adjusted performance, calcolato per qualunque coppia di portafogli distinti, assuma un valore maggiore per quello che tra i due risulta preferibile. Il modello di Markowitz, oltre che sul concetto di rischio "simmetrico", si fonda su alcune rilevanti semplificazioni del problema come quella che gli investitori non sostengono dei costi nel momento in cui essi debbono concludere le transazioni di acquisto e di vendita delle attività incluse nel portafoglio. Nel problema specifico introdotto in questa ricerca, la presenza dei costi di transazione di vario genere (Capitolo 5) può influire negativamente sull'efficienza gestionale del portafoglio, producendo effetti indesiderati e determinando la potenziale irrazionalità delle soluzioni. In particolare, all'investimento in ETF si devono associare i costi di negoziazione degli ordini (nella pratica spesso variabili con dei limiti minimi e massimi) e gli spread denaro/lettera (costi lineari rispetto al controvalore negoziato), che come per tutti i titoli quotati variano sia nello "spazio" (da ETF ad ETF) che nel "tempo" (in funzione soprattutto della volatilità degli indici sottostanti). Il problema si complica ulteriormente (Maringer, 2005) con l'introduzione di alcuni vincoli, per esempio sulla cardinalità e sulla composizione del portafoglio, tesi primariamente a riflettere le esigenze specifiche dell'investitore. A questo punto l'ottimizzazione del portafoglio non può essere risolta dalle tecniche tradizionali (basate ad esempio sull'MPT di Markowitz), ed è necessario ricorrere a metodi alternativi (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005; Satchell e Scowcroft, 2003). Nel corso degli ultimi decenni si sono sviluppate ed hanno assunto sempre maggior rilevanza le tecniche di ottimizzazione euristica, metodi di ricerca (con scopi generali) che derivano le soluzioni ricercando iterativamente e testando le soluzioni migliorate, finché non viene soddisfatto un determinato criterio di convergenza. Gli algoritmi di ottimizzazione euristica si differenziano per una determinata serie di aspetti (Maringer, 2005; Silver, 2002; Winker e Gilli, 2004), ma un tratto comune frequentemente riscontrato è che essi traggono ispirazione da processi riscontrabili in natura, legati ad esempio alla fisica ed alla biologia (in particolare all'evoluzione degli esseri viventi, oppure al comportamento di gruppi di animali alla ricerca di nutrizione). In questa tesi si è scelto di fare particolare riferimento al metodo Particle Swarm Optimization (Kennedy ed Eberhart, 1995; Hernandez et al., 2007; Brits et al., 2002), tecnica basata sulle popolazioni largamente utilizzata, che si ispira al comportamento degli stormi di uccelli o dei banchi di pesci. Questi gruppi di animali rappresentano organizzazioni sociali il cui comportamento complessivo si fonda su una sorta di comunicazione e di cooperazione tra i propri membri. La scelta del PSO è stata effettuata anche in base al fatto che in letteratura l'applicazione di questa tecnica ai problemi di ottimizzazione del portafoglio è limitata a pochi contributi di recente divulgazione (Fischer e Roerhl, 2005; Kendall e Su, 2005; Thomaidis et al., 2008; Cura, 2009), pur essendo stata applicata con successo ad una serie di problemi finanziari (Gao et al., 2006; Nemortaite, 2007; Nemortaite et al., 2004; 2005) Sulla base delle considerazioni espresse finora e nell'obiettivo principale di verificare la concreta possibilità di sviluppo di un metodo efficace e coerente di ottimizzazione di portafogli di ETF, specifico per l'attività di consulenza indipendente, si è proceduto (Capitolo 6) adattando un algoritmo euristico basato sul Particle Swarm (Kaucic, 2010), con l'introduzione di: - Vincoli di cardinalità (minima e massima) del portafoglio e di peso (minimo e massimo) definiti per ciascun asset (generalizzando gli approcci di Gilli et al., 2006; Cura, 2009); - Una soglia di downside risk definita da una misura di Value-at-Risk coerente con l'orizzonte temporale di investimento, per rappresentare i vincoli di capacità ed attitudine al rischio (direttiva MiFID, UNI ISO, 2009); - Funzione obiettivo basata sulla massimizzazione di una misura di risk-adjusted performance basata sull'Expected Shortfall (similmente a Krink e Paterlini, 2009; in parte anche a Bertelli e Linguanti, 2008); - Considerazione di tutti i costi di transazione legati all'investimento in ETF (costi fissi e costi proporzionali diversi per ogni asset), adattando l'approccio di (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005). I test si sono eseguiti con l'utilizzo di serie storiche e parametri realistici (incluse le statistiche sui bid/ask spread pubblicate da Borsa Italiana ed i TER minimi riscontrabili sul mercato) riferiti ad 89 ETF effettivamente negoziabili sul segmento di Borsa dedicato, con l'obiettivo di valutare: - la coerenza delle soluzioni rispetto alle condizioni poste; - l'impatto dei costi di transazione ed il trade-off con la frequenza di revisione del portafoglio; - la performance ex-post corretta per il rischio (in particolar modo al confronto di investimenti alternativi); - l'applicabilità a portafogli di dimensioni ridotte e con vincoli stringenti; - la coerenza rispetto alla soglia di rischiosità e all'orizzonte temporale definiti. Nel primo test si è simulata la gestione di un portafoglio di € 100.000 nel periodo di tre anni tra dicembre 2006 e dicembre 2009 per un investitore con elevata propensione al rischio ed orizzonte temporale pari al termine del periodo di gestione, restringendo la cardinalità del portafoglio ad un minimo di 5 ed un massimo di 10 asset. La strategia prevedeva una revisione mensile con progressiva riduzione sia della tolleranza al rischio che dell'orizzonte temporale dell'investimento. All'approssimarsi della "scadenza" dell'investimento l'algoritmo di ottimizzazione, in modo coerente rispetto alle ipotesi, ha privilegiato maggiormente gli ETF di tipo obbligazionario ed ha man mano ridotto le attività di effettivo intervento (negoziazione di titoli) per via della conseguente maggiore incidenza dei costi di transazione sui rendimenti attesi. Ciononostante, la performance ex-post della strategia è risultata non soddisfacente, primariamente a causa di un elevato expense ratio annuo (ulteriore rispetto ai TER degli ETF selezionati), superiore al 4% (oltre il 6,5% solo nel primo anno), dovuto all'elevata frequenza di revisione. Il test è stato ricondotto una seconda volta riducendo la frequenza di revisione a trimestrale, con conseguente riduzione dell'expense ratio di circa il 2,5% annuo. Il trade-off tra periodicità di revisione e costi di transazione ha migliorato in questo caso la performance ex-post ad eccezione dei momenti di particolare "turbolenza" dei mercati, quando cioè i benefici della revisione del portafoglio risultano con maggiore probabilità superiori ai costi che ne derivano. Sulla base delle stesse ipotesi, nella strategia si è introdotta pertanto un'ulteriore variante basata su un indice di volatilità implicita, ai fini di intensificare la revisione del portafoglio nei periodi di maggior "stress" dei mercati, riducendo nel contempo la soglia di rischio accettabile. La strategia così modificata si è rivelata in questo caso preferibile anche nei momenti di accentuata volatilità, migliorando ulteriormente la performance a termine di quasi 6 punti percentuali. Risultati migliori si sono riscontrati riducendo ulteriormente la frequenza di revisione programmata, mantenendo nel contempo il meccanismo di "controllo" introdotto in precedenza (nel tentativo cioè di limitare gli interventi al necessario). Per rendere inoltre comparabile la strategia proposta con altre alternative di investimento (quali ETF basati su indici globali e l'indice Fideuram della media dei fondi comuni italiani azionari) si è infine condotto nuovamente il test sulla base delle ipotesi precedenti, ad eccezione di quelle riguardanti orizzonte temporale e livello di rischio tollerato, mantenute costanti per tutto il periodo di osservazione, peraltro ampliato a 4,5 anni (giugno 2005-dicembre 2009). Dal punto di vista della performance, il test produce un extra-rendimento netto medio annuo dell'1% rispetto all'ETF MSCI World e del 3,2% rispetto alla media dei fondi azionari. La volatilità annualizzata, inoltre, risulta notevolmente inferiore a quella dell'ETF azionario globale, ed inferiore, seppur di poco, a quella della media dei fondi. Gli indicatori di downside risk confermano nel complesso la minore rischiosità attribuibile alla strategia proposta, con risultati notevoli soprattutto in termini di Maximum Drawdown e di VaR 95% a 1 e a 10 giorni. Considerando il sottoperiodo di due anni tra il dicembre 2005 ed il dicembre 2007 al fine di garantire un'opportunità di confronto per indici classici di risk-adjusted performance (altrimenti impossibile per via degli extra-rendimenti negativi rispetto al free-risk), la strategia risulta ex-post preferibile (secondo l'indice di Sharpe) a quella di 77 alternative (ETF e media dei fondi) ma inferiore rispetto a quella di altri 13 ETF, risultando perciò non efficiente in senso "classico". Nella seconda serie di test la strategia proposta ha confermato i risultati soddisfacenti rispetto ai fondi comuni pur riducendo la ricchezza del portafoglio iniziale e limitando l'universo degli asset investibili così come la cardinalità di portafoglio. Infine, nella terza serie di test si è mantenuto stabile l'istante temporale dell'ottimizzazione, facendo variare nel contempo orizzonte temporale e soglia di rischiosità tollerata. Il risultato delle 28 elaborazioni, valutato in termini di asset allocation (ed in particolare del peso ottimo della componente obbligazionaria suggerito dall'algoritmo) mostra la coerenza dell'output rispetto alle condizioni iniziali fissate per ipotesi, considerata anche alla luce dei vincoli imposti. In definitiva, i risultati dei test empirici appaiono soddisfacenti, con la dovuta cautela, e pur rimandando a futuri approfondimenti l'analisi particolareggiata di taluni aspetti, si è osservato che: - L'algoritmo ha prodotto risultati coerenti con le ipotesi assunte, in particolare per quanto attiene alle soglie di tolleranza al rischio e all'orizzonte dell'investimento; - Le strategie formulate hanno prodotto delle performance ex-post elevate in termini di rischio/rendimento rispetto ad investimenti alternativi comparabili (nonostante non si siano introdotte particolari metodologie di previsione per le serie storiche); - Il risultato precedente è confermato anche in presenza di portafogli di dimensioni ridotte, con vincoli particolarmente ristretti sulla cardinalità del portafoglio e con ridotti interventi di riallocazione delle risorse. Il processo di formulazione delle ipotesi, ed in particolare dei parametri relativi ai vincoli, risulta facilmente adattabile alle esigenze specifiche del processo di consulenza. In generale, l'impostazione soddisfa da un lato i requisiti normativi individuati dal Regolamento Consob in tema di consulenza in materia di investimenti, nonché l'approccio proposto dagli standard di qualità, e si colloca facilmente nella fase di definizione tecnica del piano (di cui il consulente è responsabile). L'applicazione degli strumenti richiede in ogni caso la massima sensibilità ed expertise da parte del consulente stesso nell'adattare i parametri del problema alle diverse fattispecie. La congruenza della parte tecnica con il servizio di consulenza finanziaria si fonda anche sulle caratteristiche di: - Ridotta complessità delle attività di negoziazione titoli e di gestione del portafoglio che le strategie proposte implicano; - Vasta accessibilità degli asset considerati; - Scalabilità ed adattabilità delle soluzioni anche nei casi di portafogli di minori dimensioni; - Corretta e completa considerazione dei costi di negoziazione. Se gli opportuni approfondimenti e verifiche confermeranno i risultati empirici ottenuti nella presente ricerca, l'impianto potrà essere ulteriormente sviluppato e migliorato per esempio attraverso: - l'implementazione di un solido ed efficace metodo di previsioni sulle serie storiche; - l'introduzione di elementi di stress testing (ad esempio su variazioni nella correlazione tra gli asset); - l'introduzione di ulteriori vincoli per permettere di introdurre alcuni elementi di formulazione a priori dell'asset allocation strategica desiderata (approccio top-down); - la considerazione di attività finanziarie diverse dagli ETF, sia per perfezionare i rendimenti della parte "non rischiosa" che gli aspetti di natura fiscale, legati in particolar modo alla gestione del credito d'imposta. ; XXII Ciclo ; 1979
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell'Ottocento – l'autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l'ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, "una crisi mai superata" che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un'attitudine docile e disponibile all'obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l'arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l'esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l'uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un'esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell'oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se "la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia", allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello "spirito rivoluzionario", come dimostra nell'estate del 1797 l'esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d'un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà "nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione". Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L'ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che "l'orgoglio nazionale e l'opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia". Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l'esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all'asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un'esperienza di lavoro all'altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all'avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l'originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha "quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza". Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l'esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un "violento accesso di febbre contagiosa", destinato a scomparire "in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla". Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – "non riescono a far luce nei recessi oscuri dell'animo umano". Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l'ipoteca del ricorso alla forza contro l'insurrezione: c'è chi come l'ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c'è chi come Billy viene impiccato, c'è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell'autore di Common Sense e Rights of Man nell'aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all'altra dell'oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell'ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall'esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell'ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l'intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell'illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all'altra dell'Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l'influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l'influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L'obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l'hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l'americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l'unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell'ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell'esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l'interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un 'eccezionalismo' americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l'America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l'intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all'altra dell'oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell'oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell'arricchimento e dell'impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell'oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l'incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l'origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l'indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d'indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l'affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d'ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L'affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all'affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell'insieme di pratiche e discorsi che mirano all'incisiva trasformazione dell'esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l'intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell'Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l'hanno consegnato tout court all'elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d'indagine dal quale esce ridimensionata l'interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l'eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell'Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l'istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all'altra dell'Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell'interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l'assenza dell'antico ordine 'cetuale' europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall'esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l'attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell'indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l'indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l'immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l'uno contro l'altro per esercitare un'influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l'indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell'indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d'opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l'accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell'America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell'ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell'unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un'attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all'affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all'altra dell'Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell'umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell'esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all'accumulazione non è quindi l'unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell'affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall'Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l'America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall'immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E' allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell'oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l'agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d'Anglas e John Quincy Adams – spostano l'attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall'affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all'affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell'oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l'agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d'attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell'approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un'ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell'oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall'orizzonte immediato della rivoluzione, nell'arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell'oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l'organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata "the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit". Non può però essere chiamata "the Age of Reason", perché è l'epoca di Paine: "whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine" -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine".
È necessario ricordare preliminarmente che sulle aziende e le amministrazioni del settore pubblico gravitano differenti tipi di controllo: -controlli esterni e controlli interni -controlli preventivi, concomitanti e successivi -controlli di legittimità e di merito Il processo riformatore dei controlli amministrativi ha inizio nella seconda metà dell'800 e si caratterizza per il passaggio attraverso più fasi, nel corso delle quali il controllo assume differenti forme e caratteristiche.Il Decreto Legislativo n. 286 del 31 Luglio 1999 rappresenta il primo vero e proprio intervento organico in materia di controlli interni.Nel rispetto dei criteri ispiratori dell'organizzazione delle aziende pubbliche e delle loro finalità istituzionali, viene delineato un nuovo sistema di controllo che si articola su ben quattro differenti tipologie: 1. Il controllo di Regolarità Amministrativa e Contabile, deputato a presidiare, con un monitoraggio in itinere, il grado di raggiungimento della conformità ad atti e regolamenti. 2. Il Controllo di Gestione,verifica le azioni correttive poste in essere dalle singole strutture operative. 3. Il Controllo della Dirigenza, riguarda una valutazione volta a giudicare le prestazioni dirigenziali in relazione alla misurazione degli obiettivi raggiunti e la competenza e capacità organizzativa dei dirigenti in relazione all'azione gestionale svolta e all'utilizzo e sviluppo delle risorse professionali, umane e tecnico-organizzative disponibili. 4. Controllo Strategico, costituisce il supporto del vertice politico per molteplici finalità: la realizzazione dei suoi compiti relativi all'individuazione e trattamento dei bisogni collettivi, il rendere coerente l'attività amministrativa con le mission delle istituzioni e dei risultati attesi delle politiche ed infine il rafforzamento della politica amministrativa delle istituzioni. La stessa impostazione viene estesa agli Enti Locali attraverso il Testo Unico degli Enti Locali nel 2000: 1) Il controllo di regolarità amministrativa e contabile resta finalizzato a garantire la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. 2 del D.lg. 286/99, in virtù del quale tale tipo di controllo è affidato agli organi appositamente previsti nei diversi comparti della Pubblica Amministrazione e, in particolare, gli organi di revisione ovvero gli uffici di ragioneria. Principio cardine del nuovo sistema resta comunque, anche per gli enti locali, la separazione tra le strutture addette al controllo di regolarità amministrativa e contabile da un lato, e dall'altro il controllo di gestione, il controllo strategico e la valutazione della dirigenza. 2) Il controllo di gestione diversamente dalle altre forme di controllo interno, viene compiutamente disciplinato nei suoi principi dagli articoli del T.U.E.L. relativamente alla sua funzione (art. 196), alle modalità applicative (art. 197) ed al contenuto del referto dell'intera attività (art. 198). Pertanto, particolare attenzione deve essere rivolta sia al contenuto della relazione revisionale e programmatica, sia a quello del P.E.G. attraverso il quale si procede ad un'ulteriore graduazione degli obiettivi. 3)Il controllo organizzativo del T.U.E.L, ovvero la valutazione dei dirigenti, ha per oggetto la valutazione della qualità delle risorse umane, ma non ovviamente con riferimento alle persone in quanto tali, bensì alle loro prestazioni e le loro capacità organizzative. 4)Tramite il Controllo strategico sarà possibile monitorare l'efficacia delle scelte politiche con progressivo approfondimento dei livelli di lettura, dal mero riscontro sulla concreta realizzazione delle scelte di indirizzo politico-amministrativo affidate agli assessori, alla determinazione dei costi e tempi di realizzazione dei progetti attuativi delle politiche pubbliche prioritarie in capo alle posizioni organizzative, fino all'analisi di dettaglio, da scheda PEG, sui profili di efficacia temporizzata dei dirigenti e responsabili dei servizi. L'utilità pratica di questo controllo consiste proprio nella facoltà di introdurre degli intereventi correttivi agli obiettivi programmati, rimodulando le scelte ed indirizzando la struttura politico - amministrativa verso questi stessi obiettivi, sulla base di quanto riportato dai reports del controllo di gestione. La ridefinizione delle competenze degli organismi addetti al controllo - i cosiddetti "controllers"- richiama dunque la necessità, per gli Enti Locali, di dotarsi di una rete apposita di strutture, ognuna investita di specifici compiti ed ambiti di intervento, evitando così di concentrare, a carico di un'unica struttura, funzioni concettualmente diverse, alcune di tipo più collaborativo (controllo di gestione, valutazione e controllo strategico), altre, invece, a carattere più adempimentale (controlli di regolarità amministrativa e contabile). L'intervento normativo più importante, che seguì all'emanazione del TUEL, fu la legge costituzionale n.3 del 18 Ottobre 2001, il cui ingresso ha determinato espressamente l'abrogazione delle previsioni costituzionali di controllo preventivo esterno sulla legittimità degli atti degli enti autonomi e in altre parole, ha completamente stravolto l'assetto dei controlli previsto dal testo unico, con la conseguenza che l'intero sistema locale risultasse ora privo di efficaci strumenti di monitoraggio e garanzia sullo svolgimento delle funzioni. Si può realizzare in questo modo un circuito di responsabilità che deve riuscire a legare il controllo "politico" degli elettori nei confronti dei loro rappresentanti, con meccanismi funzionali di autocontrollo della legittimità, del merito e dei risultati dell'azione amministrativa, in funzione anche di possibili misure autocorrettive.È da qui che ha origine l'emanazione della legge n. 131 del 2003, da parte del ministro La Loggia, attuativa della suddetta riforma costituzionale, non a caso intitolata Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 Ottobre 2001, n.3. Il fine era quello di promuovere una revisione dell'intero assetto delle funzioni amministrative e, in particolare, la previsione, nell'ambito della competenza legislativa dello Stato, di una revisione delle disposizioni in materia di enti locali per adeguarle alla legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001. La previsione della legge La Loggia di una definizione statutaria del regime dei controlli interni, valorizza l'autonomia dell'ente, anche ai fini di un arginamento del potere di controllo sostitutivo del governo previsto dall'art.120 della Costituzione. È chiaro che l'intervento dell'Ente nella definizione dei criteri e dei metodi di tutela della legalità attraverso il sistema dei controlli interni dovrà essere sempre rispettoso dei principi di separazione tra poteri di indirizzo e poteri gestionali, e quindi calibrato in modo tale che l'eventuale intervento dell'organo di governo sia strettamente correlato alla segnalazione dell'organo preposto al controllo interno. Da qui la spinta al quadro di adeguamento delineato dalla legge delega n.131 e la spinta a rivedere le disposizioni relative al controllo interno nell'ambito del TUEL anche per adeguarle al diverso sistema di riferimento. La revisione del TUEL tiene conto di questo nuovo assetto e tende, in una qualche misura, ad assecondare lo sviluppo del sistema dei controlli interni, tanto più che in questo quadro si inserirebbe un nuovo ruolo istituzionale della Corte dei Conti, come garante dell'equilibrio generale del sistema economico-finanziario e strumento di coesione e di collaborazione della democrazia locale. Questa sorta di rivoluzione, cha ha riportato l'amministrazione nella sua più propria dimensione non solo di oggetto, ma anche di soggetto del controllo ha, di recente, conosciuto un significativo sviluppo ad opera del d.l. n. 168 del 2004, convertito con l. n. 191/2004, recante "Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica", riportando, oltre che l'introduzione di precise limitazioni di tipo sia economico che procedurale, anche nuovi adempimenti in tema di controlli amministrativi e contabili per Regioni, Province e Comuni sopra i 5000 abitanti.Si tratta però di verificare la compatibilità di tali nuove attribuzioni con il sistema dei controlli interni congegnato dal D.lgs. n. 286/99, con le competenze proprie acquisite dalle strutture e dagli organi preposti ai controlli interni, nonché la ratio che sta alla base della trasmissione del referto del controllo di gestione alla Corte dei Conti. Ciò che più risalta, nel disegno istituzionale delineato, è la configurazione di una nuova statualità, legata alla "Repubblica delle Autonomie", che rappresenta una precisa opzione del sistema italiano per un assetto policentrico delle istituzioni politico-territoriali, con un forte accento sul ruolo e sui poteri delle autonomie infrastatuali di diverso livello, che apre una via ad una sorta di "federalismo all'italiana", senza con ciò far ovviamente riferimento al modello tipico di stato federale.La chiara ridefinzione della disciplina in materia dovrebbe essere l'oggetto di un nuovo "Testo Unico" che proclami superato quello precedente del 2000 ( e che tra l'altro risulta ormai incompatibile con il nuovo quadro costituzionale di riferimento), in attuazione della delega contenuta all'art. 2 della l. n. 131/03 e ormai, tra l'altro, decaduta senza che il governo fosse riuscito a dare tempestivamente corso all'emanazione delle norme delegate.Proprio al fine di soddisfare le richieste in proposito, nel Gennaio 2007, è stata emanata la legge delega n. 389/07 che ha proprio lo scopo di ripristinare la decaduta delega al Governo in materia di enti locali , ovvero promulgare una Carta fondativa dei rapporti tra diversi livelli di Governo, coniugando l'attuazione del Titolo V della Costituzione con il nuovo Codice delle Autonomie . . In questo senso contiene: -La ridefinizione delle funzioni fondamentali degli enti locali per semplificare, ridurre i costi e consentire il controllo da parte dei cittadini ; -La riduzione o la razionalizzazione dei livelli di governo. Ad ogni modo, a questo punto, non resta che aspettare che il Governo colga la delega ed emani il "Codice delle Autonomie", in una versione che sia effettivamente in grado di regolarizzare il funzionamento degli enti, coordinando le varie funzioni individuate senza sovrapposizioni, senza sprechi di risorse e senza quelle incerte ed emblematiche disposizioni che da sempre caratterizzano l'approccio italiano all'internal auditing pubblico. Sebbene sia molto vasto il campo d'applicazione e le tipologie di azioni con le quali attuare i controlli interni, questi da soli non sono sufficienti per il corretto funzionamento di una qualsiasi amministrazione pubblica. Emerge infatti la necessità di un controllo successivo, esercitato da un organo ausiliario sia dello Stato, che delle Regioni e degli enti locali, e finalizzato esclusivamente ad un'attività di referto agli organi assembleari . La misura dell'attività di controllo è costituita dalle relazioni inoltrate agli organi rappresentativi della sovranità popolare. Quindi abbiamo ora e in prospettiva, un robusto sistema di controlli interni, ove si esplica l'autonomia dell'ente, e una tipologia di controllo esterno e successivo esercitato in chiave collaborativa e ausiliaria dalla Corte dei Conti. Uno dei momenti più significativi di tale indirizzo è stata l'emanazione della legge n. 20 del 14 Gennaio 1994 "Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti", finalizzata alla razionalizzazione del sistema dei controlli incentrati sulla Corte dei Conti ed in particolare su: -controlli preventivi di legittimità della Corte; -controllo successivo sulle amministrazioni pubbliche, regionali e locali; -composizione e funzionamento della Corte nell'esercizio delle attività di controllo. L'articolo principale del testo normativo ai fini della disciplina del controllo è stato l'art. 3, il quale ha dettagliatamente elencato quali sono gli ambiti che interessano la Corte, assegnandole l'incarico di svolgere un controllo di tipo preventivo e successivo. Con la pubblicazione della sentenza n. 29 del 1995 della Corte Costituzionale, il compito della Corte, grazie alla legge n. 20/94, diventa quello di svolgere un'attività a carattere eminentemente collaborativo e ausiliario, non atta a vincolare l'autonomia degli enti locali o di qualunque altra istituzione. La legge promuove infatti l'autocontrollo da parte dell'amministrazione pubblica, prevedendo che tutto ciò che dalla Corte verrà considerato irregolare e pertanto segnalato al Parlamento, ai consigli regionali e alla stessa amministrazione interessata, porterà alla formulazione di osservazioni volte a suggerire idee risolutive di miglioramento, lasciando poi all'amministrazione la libertà di decidere le azioni da intraprendere per muoversi nella giusta direzione . Si precisa pertanto che l'attività della Corte è, in questa sede, finalizzata esclusivamente alla redazione e consegna di un referto agli organi assembleari e non ha assolutamente carattere autoritario. La più importante riforma costituzionale mai operata dall'entrata in vigore della stessa Costituzione, tesa ad abrogare gli art. 125 e 130 attraverso la promulgazione della legge costituzionale n. 3 del 2001,sopprime automaticamente il regime legislativo ordinario dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali, nonché gli organi regionali di controllo. Si tratta altresì, di riuscire a realizzare sempre di più una sinergia tra controlli interni ed esterni, senza dimenticare che il sistema degli Enti Locali, non può fare a meno di un controllo della Corte dei Conti, che va inteso, non in senso classico come se la Corte stesse solo aspettando di cogliere l'errore nella gestione altrui, bensì come una forma di verifica sul funzionamento delle amministrazioni e dei loro servizi interni, in una logica di collaborazione e sinergia.A chiarire il complesso, confuso, approssimativo e, per certi versi contraddittorio scenario, ci pensa la legge n. 131/03, che nasce sostanzialmente allo scopo di soddisfare l'esigenza di dare attuazione al nuovo assetto dei poteri locali, derivante dalla riforma del titolo V contenuta nella legge costituzionale n. 3/01. In particolare, l'art. 2 contiene la delega per l'adeguamento della normativa statale alla Costituzione riformata, attribuendo "agli statuti dei comuni e delle province la potestà di individuare i sistemi di controllo interno, nonché i principi fondamentali dell'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali ai fini dell'attivazione degli interventi previsti dall'art 119 Cost." e si prevede inoltre che vengano mantenuti fermi "i sistemi di controllo sugli organi degli enti locali". In pratica, viene riconosciuta la centralità e la potestà statutaria, e quindi, il potere normativo degli enti locali, attestandosi sulla prevalente linea di tendenza che lascia che siano gli stessi enti ad organizzare e disporre le norme in merito ai controlli interni.Ciò che si evince dal susseguirsi delle disposizioni in merito ai compiti della Corte è sicuramente la compatibilità con il suo ruolo tradizionale di garante dell'Erario e organo ausiliario all'assunzione di consapevoli decisioni da parte degli enti rappresentativi delle comunità, pur marcando in maniera decisiva la relazione che necessariamente deve sussistere tra la sua funzione e l'autonomia degli enti, governata in primis da un rapporto di collaborazione.Tuttavia, l'insieme delle norme finora analizzato, pone una serie di problematiche in ordine alla compatibilità con il sistema delle autonomie locali, soprattutto alla luce delle recenti tesi federaliste che tendono ad equiordinare lo Stato alle Regioni e agli enti locali.il disegno normativo dei controlli della Corte per gli enti d'autonomia, s'è completato con la legge finanziaria per il 2006 , che ha posto a carico degli organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali e degli enti del servizio sanitario nazionale, l'obbligo di trasmettere alle Sezioni regionali di controllo relazioni sul bilancio preventivo e sul rendiconto, predisposte sulla base di criteri definiti unitariamente dalla Corte e rivolte a dar conto, non solo del rispetto degli obiettivi posti dal patto di stabilità e del limite costituzionale al ricorso dell'indebitamento, ma anche di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria in ordine alla quale l'amministrazione non abbia adottato gli interventi correttivi segnalati dall'organo interno di revisione.La direzione verso la quale ci si muove con questo provvedimento è quella di dare concretezza ad un compito che già l'art. 7 della legge La Loggia attribuiva alla Corte dei Conti. Questo tipo di controllo risponde dunque a una duplice esigenza: - i bilanci ed i rendiconti devono essere redatti secondo il rispetto sostanziale, non solo formale, dell'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali e secondo i principi contabili emanati dall'Osservatorio; - deve essere salvaguardato il rispetto delle norme di finanza pubblica concernenti il patto di stabilità, i vincoli dell'indebitamento e gli equilibri di bilancio. Tuttavia, Come se la situazione e la disciplina della Corte dei Conti in merito ai controlli esterni non fosse gia sufficientemente ricca di incongruenze e lacune, ecco che con la legge finanziaria statale per il 2007 si introduce, nello scenario dei controlli sugli enti locali, un nuovo istituto, appunto denominato "Unità di Monitoraggio".Le competenze spettanti alla nuova unità, riguarderanno: -la valutazione della ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento delle misure premiali previste dalla normativa vigente per gli enti locali; -la verifica delle dimensioni organizzative ottimali degli enti locali medesimi. Sono evidenti a questo punto, tanto le sovrapposizioni tra le funzioni di controllo della Corte e quelle dell'Unità di Monitoraggio, tanto le future problematiche che scaturiranno da una disposizione di questo tipo sul sistema delle autonomie locali, soprattutto dal punto di vista dei controlli esterni. Nello scenario Europeo, il primo passo è senz'altro determinato dall'emanazione del "Libro Bianco: La Riforma della Commissione", un documento emanato allo scopo di rivedere l'assetto organizzativo della stessa Commissione Europea, alla luce della necessità di un'organizzazione moderna che consenta il raggiungimento degli obiettivi prefissati attraverso i vari trattati.L'idea che s'intende portare avanti con la riforma, è quella di decentrare nelle DG le attività di controllo che al momento sono assegnate al controllore finanziario della Commissione, in modo che siano i direttori generali gli unici responsabili dell'esecuzione dei controlli interni nei loro servizi e i dirigenti lo siano a loro volta, delle decisioni finanziarie adottate.Altro presupposto è poi dato dalla redazione di un rapporto annuale da parte del direttore generale nel quale si attesti che i controlli interni siano stati posti in essere in maniera adeguata e che pertanto le risorse siano state impiegate in maniera strumentale al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Le norme, le procedure finanziarie e le norme minime relative ai controlli interni nelle DG, saranno emanate da un Servizio Finanziario Centrale, che avrà inoltre l'obbligo di fornire consulenza sulla loro applicazione ai servizi operativi della Commissione.Accanto a questo nuovo servizio, verrà inoltre adottato un Servizio di Audit Interno, che faciliti la gestione della riforma all'interno della Commissione.Ma la semplice adozione di un sistema di auditing interno non è sufficiente per assicurarne il corretto funzionamento, e viene perciò previsto un Comitato di Vigilanza per l'Audit, che si occupi di sorvegliare: 1)Lo svolgimento dei controlli alla Commissione sulla base dei risultati degli audit presentati dal Servizio di Audit Interno e dalla Corte dei Conti. 2)L'attuazione delle raccomandazioni emerse dagli audit. 3)La qualità delle operazioni di audit. La prima parte del Libro Bianco mette in evidenza obiettivi e linee guida da seguire per adottare la riforma, la seconda parte invece definisce nel concretole azioni da porre in essere. in particolare prevede sette sottosezioni: 1.Poteri e responsabilità degli ordinatori e dei dirigenti 2.Creazione di un servizio centrale di audit interno 3.Creazione di un Servizio Finanziario Centrale 4.Gestione e controllo finanziario all'interno delle direzioni generali 5.La fase transitoria 6.Risorse umane e formazione 7.Protezione degli interessi finanziari della Comunità. Pochi mesi dopo la pubblicazione del Libro Bianco sulla Riforma della Commissione, ci si rese conto che fosse necessaria una nuova comunicazione che rendesse più chiari alcuni degli aspetti cruciali della riforma, soprattutto in merito alla previsione della nuova funzione di internal auditing, molto più conosciuta a livello privatistico e adesso, per la prima volta, inserita nello scenario di un'istituzione pubblica. A tal fine venne emanata la comunicazione dal titolo Conditions for the provision of an internal audit capability in each Commission service , con la quale si posero le condizioni ai fini dell'attuazione dell'az. 81 del Libro Bianco in merito alla costituzione di una Funzione di Internal Auditing . Ne è prevista la costituzione in tutte le DG della Commissione , specificandone gli obiettivi, cosi schematicamente rappresentabili: 1)Assistere il direttore generale all'interno del DG in materia di controllo dei rischi e monitoraggio dell'adesione; 2)Fornire un'opinione indipendente e obiettiva sulla qualità della direzione e del sistema di controllo interno; 3)Fare delle raccomandazioni riguardo l'aumento dell'efficacia e dell'efficienza delle operazioni ed assicurare l'economicità nell'uso delle risorse della DG. La portata innovativa del concetto di internal audit, sta nel fatto che esso non debba essere visto come una mera attività di controllo, così come tradizionalmente recepito, bensì come uno strumento attraverso il quale sia possibile proporre soluzioni che aiutino a fronteggiare i cambiamenti, ad armonizzare l'Istituzione e a renderla al contempo più efficiente. Una volta definite con sufficiente chiarezza condizioni, obiettivi e strumenti con i quali implementare la Funzione di Internal Audit, resta da chiarire l'ambito delle responsabilità dei vari attori chiave del controllo interno e dell'internal audit, a livello globale ma anche a livello di singola Direzione Generale. Nel Gennaio del 2003 venne emanata infatti, una nuova comunicazione dal titolo Clarification of the responsabilities of the key actors in the domain of internal audit and internal control in the Commission , allo scopo di chiarire i ruoli dei vari soggetti coinvolti nell'ambito del controllo interno e dell'internal audit, tenuto conto di quelli che sono gli orientamenti di base dati dal Libro Bianco: Riformare la Commissione, e le nuove disposizioni dettate dal Financial Regulation , di più recente emanazione(art. 85,86 e 87). Alla luce dell'orientamento che aveva preso l'evoluzione dei controlli interni a livello comunitario, nel 2004 si è pronunciata la Corte dei Conti delle Comunità Europee che, ha espresso un suo parere in merito ai risultati conseguiti dall'Unione al termine dell'anno 2003.I contenuti di tale documento possono essere sintetizzati in termini di una valutazione complessivamente positiva, tuttavia, sono state mosse al contempo delle critiche in merito ad alcuni aspetti dei quadri di controllo esistenti nei vari settori del Bilancio. Gli aspetti negativi fanno riferimento a: -Obiettivi -Mancanza di coordinamento -Mancanza di informazione sui costi e sui benefici -Applicazione incoerente Secondo il parere della Corte, è evidente che la Commissione debba intervenire nuovamente per creare un quadro di controllo interno unitario, che riguardi tutta la Comunità, e che sviluppi i sistemi di controllo interni esistenti e ne crei al contempo dei nuovi, basandosi su concetti comuni e finalizzandoli a un impiego trasparente e ottimale delle risorse.Tale valutazione viene riportata all'interno di una nuova comunicazione pubblicata nel Giugno del 2005, dal titolo < , i cui contenuti si basano essenzialmente, sull'analisi svolta dalla Commissione in merito all'individuazione dei punti deboli nella situazione attuale e le relative proposte di miglioramento, insieme alle azioni richieste per attuare un quadro di controllo adeguato, nell'ambito delle norme in vigore. Ciò che ci si aspetta dagli Stati membri è comunque molto di più di una semplice collaborazione: ciascuno Stato dovrebbe preoccuparsi di revisionare il proprio sistema di controllo finanziario per mettere fine alle carenze in esso riscontrate. Un sistema come quello attuale, che verta solo su una corretta impostazione dei controlli all'interno della Commissione, non risolve le problematiche alla loro origine, nell'ambito delle attività che sono svolte dai singoli Stati membri e le responsabilità per le decisioni che non spettano alla Commissione. Nel Gennaio del 2006 viene pubblicata dalla Commissione una nuova Comunicazione, che include un piano d'azione verso un quadro di controllo interno integrato . Se con la prima comunicazione, infatti, si erano delineate le proposte finalizzate ad ottenere un controllo intergrato tra i vari sistemi, con questa, che è la più recente, si vogliono raggiungere molteplici finalità: - Riferire in merito alle azioni adottate sulla base degli obiettivi fissati nella comunicazione di Giugno; - Esaminare le principali carenze individuate grazie anche alla relazione annuale della Corte dei Conti del 2004; - Individuare le principali azioni concrete da attuare e il ruolo che il Consiglio, gli Stati membri e il Parlamento europeo dovrebbero svolgere per conseguire un quadro di controllo interno integrato affidabile e funzionante, che dia affidabilità alla Commissione e, da ultima alla Corte dei Conti. Lo scenario così configurato a livello europeo, riguarda un ordinamento normativo destinato alle Istituzioni dell'Unione, in particolare alla Commissione, lasciando a ciascun Stato membro la discrezione necessaria per la sua riforma interna, che sia in linea con le aspettative e le previsioni contenute nelle norme europee. uno degli interventi più importanti posti in essere è stato quello di predisporre degli standard minimi di controllo interno, che fossero validi in tutte le DG della Commissione e che dessero vita ad un contesto uniforme di principi in materia di controllo interno, vista la scelta di non imporre una struttura organizzativa dei controlli uguale per tutti. La prima versione è stata pubblicata nel 2000 e, al suo interno, si fa riferimento a 5 elementi chiave, che diventano gli ambiti entro i quali svilupare i relativi standard: 1.Ambiente di controllo 2.Prestazioni e gestione del rischio 3.Informazione e comunicazione 4.Attività di controllo 5.Revisione e valutazione Per il 2001 fu dunque prevista l'applicazione di questi principi, riservandosi la possibilità dopo un anno di rivedere ciascuno di questi e, nel caso, modificarli. E cosi fu fatto di anno in anno, modificando di volta in volta gli aspetti meritevoli di maggiori chiarificazioni alla luce dei risultati ottenuti attraverso il monitoraggio che segue l'adozione degli standard. A questo punto, la loro disposizione sembra sia stata utile a creare un sistema solido ed efficiente, che sia in grado di dare il suo contributo ad una sana gestione della Commissione e nel complesso, di tutta la comunità. Tuttavia, non dimentichiamo la necessità di una collaborazione tra tutti i componenti della stessa Comunità, non solo a livello di singola unità strutturale, ma in senso più esteso con riferimento agli Stati membri.