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La Corte africana condanna il Ruanda nel caso Ingabire: violati il diritto alla difesa e la libertà di esprimersi sul genocidio del 1994
Commento alla sentenza della Corte africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, emessa in data 24 novembre 2017, che ha deciso sul ricorso presentato dalla leader ruandese delle opposizioni, Victoire Ingabire Umuhoza, condannando lo stato del Ruanda per violazione del diritto alla difesa dell'attivista politica e per la concussione della libertà di esprimersi sul genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994 prevalentemente ai danni della popolazione Tutsi.
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Droits de l'homme et juridictions pénales internationales: séminaires italo-tunisiens (Tunis - Rome), mai - novembre 2009
In: Pubblicazioni del Dipartimento di Teoria dello Stato dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza
In: Biblioteca di Diritto Internazionale Tomaso Perassi 28
Lo sguardo oltre le mille colline: testimonianze dal genocidio in Rwanda
In: I saggi 251
Hutu-Tutsi: alle radici del genocidio rwandese
In: Saggi
In: Storia filosofia e scienze sociali
Il ruolo della mediazione nel genocidio ruandese
Per genocidio s'intende l'insieme di atti di violenza fisica e psicologica compiuti con l'intento di eliminare un gruppo, un'etnia, una razza o una confessione religiosa anche solo in parte. I fatti accaduti in Ruanda tra l'aprile e il luglio 1994 sono stati identificati come "atti di genocidio" in quanto riconoscere la presenza di un genocidio avrebbe imposto l'intervento delle Nazioni Unite ma le principali potenze, non riconoscendo la gravità di ciò che stava accadendo, hanno permesso uno dei più grandi massacri della storia per il numero di vittime in proporzione alla durata. Nonostante ciò in Ruanda si è trattato di genocidio perché quella che molti hanno chiamato "guerra civile" in realtà è stato un eccidio con lo scopo di eliminare l'etnia dei Tutsi ruandesi. Il genocidio ruandese ha lasciato il Paese profondamente ferito, le famiglie delle vittime, i rifugiati e i carnefici hanno dovuto ricostruire se stessi e la nazione per poter sopravvivere. In questo contesto la mediazione, attraverso processi di peacebuilding, ha dato supporto al paese per uscire dalle conseguenze di questo conflitto che in soli 100 giorni ha visto 800 000 vittime e 2 000 000 di rifugiati. I processi di ricostruzione post genocidio hanno ridotto la violenza, dato protezione alle persone e alle istituzioni chiave, promuovendo i processi politici che avrebbero portato una migliore stabilità e preparando politiche a lungo termine di non violenza e di sviluppo. La prima tappa del percorso di riconciliazione sono stati indubbiamente i tribunali Gacaca, tribunali popolari che hanno permesso alle vittime di conoscere la verità dei fatti, di spogliarsi del peso che portavano come perseguitati, di riconoscere i colpevoli e concedere loro il perdono alla base della convivenza pacifica di cui adesso gode il Paese. In Ruanda la riconciliazione ha assunto propriamente le vesti di uno sviluppo post-genocidio, che ha visto l'intera popolazione cambiare al punto da non ricordare più le differenze al centro del conflitto. Passi decisivi sono stati anche la creazione di partecipazione politica e il coinvolgimento degli ex militari nell'esercito nazionale. La situazione in cui versava la nazione ruandese dopo il genocidio era alla stregua dell'anarchia, con gravi problemi economici e sociali per le infrastrutture di riferimento che erano collassare, inoltre in alcune parti del paese le atrocità perpetrate durante il genocidio andavano avanti ed il numero di orfani e persone mutilate, oltre a quello delle persone con gravi traumi psicologici, era inestimabile. La riconciliazione del popolo ruandese mostra nel dettaglio come ogni processo di ricostruzione nasca già durante il conflitto, dimensione da esplorare, analizzare e mantenere sempre presente anche dopo la sua conclusione ma mostra sopratutto che questo processo è un processo di crescita interno al Paese che può seguire modelli e teorie pur non avendo mai un percorso o una durata predefinita. Perché il processo di ricostruzione abbia successo è fondamentale la presenza di una volontà politica di guidare il Paese fuori dal conflitto e durante il processo di peacebuilding bisogna continuamente confrontarsi con la dimensione psicologica dei numerosi attori in gioco. La riconciliazione ha restituito dignità alle persone e dato una nuova forma al Ruanda che oggi conosce la pace e uno sviluppo economico e sociale inconcepibile dopo il genocidio.
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La rinascita della guerra giusta
Il concetto di "guerra giusta" figura in una serie di riflessioni nel diritto internazionale e viene riferita all'uso legittimo della forza militare, così come è previsto nella Carta delle Nazioni Unite. Rinasce dalle sfide della storia contemporanea e possiamo coglierne i significati soltanto analizzando alcuni contesti storici nei quali ricorre e svelando, a partire da questi, le ragioni e i limiti della sua reviviscenza. Sebbene la guerra sia stata messa al bando dopo la seconda guerra mondiale, se escludiamo la guerra del Vietnam, non possiamo dimenticare orrori recenti per cui le forze occidentali sono dovute intervenire: massacri e pulizia etnica in Bosnia e Kosovo, Ruanda, Sudan, Sierra Leone, Congo, Liberia etc. All'interno di questo lavoro sono tre gli avvenimenti che sono presi in considerazione per comprendere una rinascita del concetto di guerra giusta nell'età contemporanea: la guerra del Golfo del 1991, la guerra del Kosovo del 1999 e la guerra in Afghanistan nel 2001. Soprattutto dopo l'11 settembre è evidente come siamo condannati a continuare le discussioni sulla guerra. Con quelle che vengono definite "nuove guerre", ormai non si parla più in termini di guerra giusta, ma di interventi umanitari contro le pulizie etniche, di missioni di pace etc. Nella realtà in questi interventi stiamo assistendo a un ritorno o a un trionfo della guerra giusta, chiamata sotto altri nomi.
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Cavalieri di Malta : una leggenda verso il futuro
Quasi mille anni di storia. Dieci secoli al servizio dell'umanità. Fondato a Gerusalemme all'inizio del Medioevo è ancor oggi attivo e vitale ed è universalmente conosciuto come Sovrano Militare Ordine diMalta. Fedele alle sue tradizioni, ha saputo rendere sempre attuali le ragioni della propria esistenza tanto da approdare alle soglie del 2000 con nuove strategie e ampi programmi per l'avvenire. Dall'epopea in Palestina alle audaci scorrerie nel Mediterraneo, dagli assedi in terraferma alle battaglie sul mare, i suoi Cavalieri hanno scritto memorabili pagine di storia in difesa della Cristianitá. Per secoli furono irriducibili difensori della Fede ma, quando il valore e il coraggio del soldato non furono piú necessari seppero ritrovare l'antica e mai trascurata missione. Dall'ospedale di Gerusalemme alle infermerie di Rodi e di Malta, sui treni che trasportarono migliaia di feriti durante le due guerre mondiali, tra le vittime delle calamità naturali, da Messina al Friuli, dal Polesine all'Irpinia, fin nelle insanguinate giungle del Vietnam ed ora in Ruanda, ovunque esseri umani abbiano sofferto, essi sono accorsi. Come un tempo nella mitica casa della Cittá Santa, ancor oggi, nei Paesi dilaniati dalla guerra, negli ospedali, nei lebbrosari, nei laboratori per la lotta al diabete, nei centri di assistenza per anziani, tra le schiere sempre piú numerose di pellegrini e malati sospinti dalla devozione e dalla speranza verso i santuairi di ogni parte del mondo, gli uomini della «Sacra Milizia» svolgono la loro opera in ossequio alla Regola che li volle, fin dall'XI secolo, «Servi dei Signori malati». Gente del nostro tempo e non residui superati e improbabili di un mondo anacronistico e inutile. Al rispetto per un leggendario passato uniscono impegno e presenze attuali e la loro Croce costituisce il simbolo dell'altruismo e della carità cristiana. ; N/A
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Dai tribunali ad hoc alla Corte Penale Internazionale,sviluppi della giurisdizione internazionale
La presente tesi si propone di analizzare le fasi che hanno portato alla creazione della Corte Penale Internazionale. Il primo capitolo è dedicato all'istituzione di due Tribunali militari speciali: il Tribunale Internazionale Militare di Norimberga, stabilito nell'Accordo di Londra del 1945 e il Tribunale Militare per l'Estremo Oriente (tribunale di Tokyo) istituito, attraverso una decisione unilaterale, il 19 gennaio del 1946. Attraverso questi Tribunali si esplica un esercizio di un potere fondato sulla base della resa incondizionata delle potenze sconfitte. La trattazione prosegue, nel secondo capitolo, con la costituzione del Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993 e chiamato a giudicare i colpevoli dei crimini commessi nei diversi conflitti di natura etnico-religiosa che si sono sviluppati sul territorio dell'ex Jugoslavia. Ulteriore Tribunale internazionale ad hoc venne istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1994: il Tribunale internazionale per il Ruanda istituito per giudicare i responsabili delle gravi violazioni commesse in tale territorio. Attraverso la giurisprudenza di questi Tribunali si è costituito un importante laboratorio per la futura costituzione della Corte Penale Internazionale. Nel terzo capitolo ci si avvia verso la costituzione della Corte Penale Internazionale. Il punto di partenza è segnato dalla Conferenza tenutasi a Roma il 17 luglio del 1998 che si concluse con la firma di un Trattato da parte di centoventi Stati. Lo Statuto di Roma è entrato in vigore il primo luglio del 2002, e da allora è operante. Si analizzano le varie posizioni: quella degli Stati Uniti, dell'UE e quella dell'Italia. Nel quarto capitolo si procede con l'analisi della Corte Penale Internazionale, analizzando i profili fondamentali e più importanti. Infine nel quinto capitolo la trattazione si conclude con il processo.
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La giurisdizione della Corte penale internazionale sul crimine di aggressione
Questo elaborato ha lo scopo di tracciare un'analisi del crimine di aggressione, il più recente crimine di competenza della Corte penale internazionale, che va ad aggiungersi ai c.d. core crimes, ossia i crimini di genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra, tutti e tre già da tempo rientranti nella giurisdizione della CPI. Rispetto a questi ultimi, la definizione del regime giuridico del crimine di aggressione è stata particolarmente lunga e travagliata tanto da essere tutt'oggi uno dei temi più controversi di Diritto Internazionale.Il presente lavoro inizia nel primo capitolo con un breve excursus storico riguardo quelli che furono i momenti chiave dell'evoluzione del concetto di aggressione a partire dalle storiche sentenze dei Tribunali militari di Norimberga e Tokyo che sancirono la possibilità di attribuire agli individui-organi dello Stato una responsabilità giuridica per la commissione di tale crimine. Passando poi per la Risoluzione 3314 dell'Onu riguardo l'aggressione e i Tribunali ad hoc per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda, fino ai lavori preparatori che hanno portato all'approvazione dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale, nel 1998. Nel secondo capitolo si evidenzia come lo Special Working Group on the Crime of Aggression, dopo un lavoro di ben 5 anni, arrivò nel 2009 a redigere un ampio progetto sul crimine di aggressione che comprendeva i punti di accordo raggiunti dalle diverse delegazioni partecipanti, ma anche quei punti in cui un consenso non si era potuto trovare, in particolare con riguardo al ruolo che avrebbe dovuto svolgere il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell'ambito della determinazione dell'esistenza di un atto di aggressione commesso da uno Stato.Infine, questa analisi si conclude con l'esame della ratifica da parte dell'Onu degli emendamenti di Kampala, ufficializzata a New York a fine 2017 dall'Assemblea plenaria degli Stati Parte dello Statuto di Roma, che ha comportato l'attivazione della giurisdizione della CPI sul crimine di aggressione rappresentando il punto di arrivo finale di questo lungo percorso evolutivo dell'istituto.
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Applied Theatre as a craft of Conflict Transformation and Peacebuilding in War-Torn Communities
La presente tesi verte sul ruolo del teatro sociale come strumento di mediazione e trasformazione dei conflitti nei contesti di post-guerra. A tal fine il primo passo (Capitolo 1) è stato costruire un quadro interpretativo interdisciplinare, con cui analizzare le caratteristiche ricorrenti e le differenze nelle esperienze già esistenti in questo ambito, e da cui poter trarre indicazioni circa il disegno progettuale. Per il raggiungimento di questi obiettivi, sono stati esaminati criticamente i lavori sul campo e le osservazioni teoriche di Hannah Reich, Guglielmo Schininà e John Paul Lederach, unitamente alle teorie di Johan Galtung e Pat Patfoort. Il secondo passo (Capitolo 2) è stato individuare alcuni casi di studio che consentissero di validare il modello interpretativo elaborato. Ho dunque innanzitutto censito le esperienze già realizzate recentemente o in corso d'opera, per poi applicare ad esse dei criteri di selezione desunti dall'analisi teorica, specie dal lavoro di Hannah Reich. Tali criteri si sono rivelati molto restrittivi al punto che ho potuto selezionare solo due dei molti casi di studio individuati, il progetto Let's see… Let's choose… Let's change… della armena ONG Peace Dialogue e il progetto di teatro partecipativo promosso dalla americana ONG Search for Common Ground. I due casi di studio (Capitolo 3) sono stati analizzati criticamente al fine di verificare e di proporre un'ipotesi di concezione, pianificazione e implementazione sul medio/lungo periodo di progetti di teatro sociale con sessioni di formazione in mediazione e trasformazione dei conflitti in processi di peacebuilding. Il quadro teorico (Capitolo 1) comprende un ampio panorama che esamina non solo il peacebuilding e il teatro sociale, ma anche i cosiddetti approcci di peacebuilding basati sull'arte (art-based peacebuilding). Il concetto di peacebuilding viene presentato nella elaborazione data da Galtung negli anni '70 e nelle più recenti definizioni a cura delle Nazioni Unite. In particolare viene dato risalto al contributo del UN Secretary-General's Policy Committee del 2007 in comparazione con le Strategie Europee riguardo la 'Gestione del Ciclo del Progetto in Cooperazione e Sviluppo'. Infatti in entrambi i documenti, emerge il ruolo cruciale svolto - nel peacebuilding come nella cooperazione allo sviluppo – dalla partecipazione, intesa come appropriazione da parte delle comunità locali del processo di cambiamento, e dall'equità, intesa come parità di accesso ai diritti e imparzialità nella trasformazione dei conflitti. A seguire vengono esposte la teoria di trasformazione dei conflitti di Johan Galtung (2004) e quella sulla comunicazione nonviolenta di Pat Patfoort (2011). Successivamente si chiariscono la definizione e la genesi del teatro sociale. La terminologia anglosassone che si utilizza nella tesi, diversamente da quella italiana, lo definisce applied theatre. Grazie alle rivoluzioni teatrali del Novecento e al contributo della pedagogia contemporanea, si sviluppa una nuova forma di teatro, collocata fuori dal mainstream teatrale e dallo show business. Tra i pionieri e fondatori del teatro sociale, Augusto Boal è considerato uno dei maggiori esponenti. Il metodo inventato da Boal, Il Teatro dell'Oppresso, è un'organizzazione sistematica di tecniche e strumenti teatrali per comprendere e contrastare le oppressioni sociali ed economiche dell'individuo e della società. Infine, nell'ultima parte del capitolo, vengono riassunte le posizioni di John Paul Lederach, ideatore della Moral Imagination, di Hannah Reich e la sua teoria the Art of Seeing, e di Guglielmo Schininà con la sua proposta del Complex Circle. Il capitolo successivo (Capitolo 2) verte sull'approccio metodologico, basato sulla combinazione del contributo di Hannah Reich e del modello empirico di Guglielmo Schininà. Partendo dalla distinzione che Hannah Reich fa tra la struttura del 'Classic' Forum Theatre e del Forum Theatre for Conflict Transformation, e in particolare nelle diverse fasi – workshop phase, performance phase e follow-up phase - vengono utilizzati gli elementi che per la ricercatrice tedesca sono a fondamento del Forum Theatre for Conflict Transformation: prima e durante la workshop phase - la scelta consapevole e accurata dei partecipanti e dei luoghi in cui si svolgerà il training; - l'inserimento di moduli di gestione dei conflitti e spazi condivisi di tempo libero; - lo sviluppo di una attenta scrittura collettiva del copione - chiamata art of telling; per la performance phase - la scelta consapevole e accurata dei luoghi per le presentazioni pubbliche; - la competenza del joker nella trasformazione dei conflitti; per la follow-up phase - l'inserimento di altre attività che rendano sostenibili le relazioni tra i membri del gruppo. Sono questi elementi i principali fattori attraverso i quali è stata analizzata la struttura dei due casi di studio. Dal modello del Complex Circle di Schininà sono stati desunti i parametri per leggere criticamente l'implementazione dei progetti: interdisciplinarietà, gestione delle differenze nel rispetto delle stesse, prospettive multiple, sistema di comunicazione multilayer. Grazie al censimento dei progetti realizzati o in corso di teatro sociale con sessioni di gestione e trasformazione dei conflitti in contesti di post-guerra che coinvolgessero giovani/adulti su un periodo di medio/lungo termine (minimo di due anni), è stato costruito un database. Esso si trova in appendice alla tesi. Le fonti di reperimento dei casi sono state soprattutto i networks In place of war a cura della Manchester University (www.inplaceofwar.com) e Acting Together a cura della Brandeis University (www.actingtogether.org), oltre a vari journals di Applied Theatre e Peace & Conflict Studies, disponibili on line. Attraverso la consultazione puntuale dei siti web dei vari casi presenti in database, è stata verificata la possibilità di accedere a dati aggiornati e/o di contattare direttamente i referenti dei progetti. Attraverso questo lavoro, sono stati selezionati i due casi di studio della Peace Dialogue e Search for Common Ground utilizzando come framework critico il lavoro di Hannah Reich e quello di Guglielmo Schininà. Nel terzo capitolo, vengono presentati ed esaminati i due casi di studio. Essi sono: - il progetto Let's see… Let's choose… Let's change… della armena ONG Peace Dialogue, relativo alla situazione conflittuale del Nagorno-Karabakh, - il progetto di teatro partecipativo promosso dalla americana ONG Search for Common Ground, per affrontare la questione delle terre in Rwanda. Queste due esperienze, molto diverse tra loro, sono accomunate dal fatto che, in un ampio disegno di peacebuilding, il teatro sociale venga esplicitamente rafforzato da sessioni di formazione alla gestione e trasformazione dei conflitti, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali. Per ogni caso viene presentato un excursus storico mediante il quale si evidenziano il contesto in cui le esperienze si inseriscono e le caratteristiche specifiche dei conflitti in questione. Il conflitto in Nagorno-Karabakh, incancrenito sin dagli inizi del Novecento, è scoppiato prepotentemente dopo la disgregazione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, in una guerra che ufficialmente si è conclusa il 5 maggio del 1994 con la firma dell'armistizio di pace tra Azerbaijan e Armenia. Ma le questioni etniche e territoriali che colpiscono la regione del Nagorno-Karabakh sono ancora oggi motivo di tensioni tra i due paesi. La regione è fortemente militarizzata, e questo incide soprattutto sulla società civile e la popolazione più giovane che da sempre vive in questa condizione, senza aver conosciuto alternative. Il conflitto in Ruanda, invece, è legato alla riforma agraria (1999), promossa per affrontare la questione dei diritti di eredità delle terre da parte di donne e bambini. Tale riforma infatti, a detta di Sydney Smith e Elise Webb, ha incontrato una crescente resistenza dovuta ad un atteggiamento culturale contrario all'eredità femminile. Inoltre le leggi promulgate in tale direzione sono ignorate da gran parte della popolazione, che per di più è composta – dati World Bank 2011 - per il 43% da giovani sotto i quattordici anni. Il progetto di Search for Common Ground ha l'obiettivo di creare un dibattito costruttivo sulla questione dell'eredità delle terre, implementando anche un confronto diretto tra comunità e autorità locali. Segue poi l'analisi puntuale dei due progetti, con riferimento al framework metodologico ideato, e una analisi comparata degli stessi. La proposta che viene elaborata nella discussione dei risultati è articolata sui vari criteri di analisi suggeriti da Hannah Reich. Per quanto riguarda la scelta dei partecipanti, essa riflette le diversità intrinseche che i due casi presentano nelle caratteristiche stesse di conflitto: nel progetto della Peace Dialogue vengono coinvolti giovani provenienti da diverse regioni caucasiche per il ruolo chiave che essi potranno assumere nella costruzione della pace circa la questione del Nagorno-Karabakh; in Ruanda la Search for Common Ground coinvolge attori professionisti che, attraverso le tecniche di teatro partecipativo, sono in grado di coinvolgere in modo neutro ed imparziale la comunità in scene che rispecchiano conflitti e questioni locali. Inoltre, gli obiettivi specifici dei due casi sono diversi. Nel caso del Ruanda, obiettivo specifico è ridurre l'incidenza di conflitti interpersonali intorno alla questione eredità terra, e aumentare il ricorso imparziale e super partes alle autorità locali, comprese le figure degli abunzi, mediatori tradizionali. Per Peace Dialogue obiettivo è incoraggiare il coinvolgimento dei giovani nella discussione di questioni civili e di formarli nella gestione nonviolenta dei conflitti. A partire dal confronto dei due casi e dalla letteratura disponibile sull'argomento, viene proposta una struttura di Forum Theatre for Conflict Transformation che coinvolga un team interdisciplinare di formatori, in grado di accompagnare il processo di apprendimento/insegnamento con una modalità interattiva e interdisciplinare. In questo modo si propone la costruzione di un framework misto che combini, allo stesso tempo e nella stessa sede formativa, gli strumenti di teatro sociale e di mediazione. Sulla stessa linea di pensiero si situa l'approccio dialogico suggerito da Guglielmo Schininà, e l'implementazione condivisa realizzata dalla Peace Dialogue in Armenia/Nagorno-Karabakh. I partecipanti infatti sono stati coinvolti in un processo partecipativo tra pari, che li ha portati a definire in itinere sia le tematiche da affrontare durante il progetto sia il processo di realizzazione, sotto la supervisione di un gruppo internazionale di facilitatori. Nelle conclusioni riassumo il lavoro svolto e avanzo alcune riflessioni, domande, dilemmi e prospettive per ulteriori ricerche in questo campo. Sinteticamente, i nodi più critici mi sembrano riguardare la valutazione e il ruolo degli esperti esterni. Quanto al primo aspetto occorre rilevare che il ruolo dei finanziatori del progetto ha il suo peso e la sua influenza. Come affrontare tale criticità quando il materiale a disposizione è affetto da uno stile propagandistico teso a sottolineare i punti di forza e i risultati positivi a scapito delle debolezze e delle difficoltà? Quanto al ruolo degli esterni, esso può incidere in maniera significativa sulle comunità locali. Che tipo di processi vengono attivati durante la pratica di apprendimento/insegnamento? Quali sono i punti di forza e di debolezza durante il trasferimento di competenze? Come misurare e valutare tale problematicità? Infine il ruolo degli abunzi (mediatori tradizionali locali del Ruanda) nella società ruandese dà lo spunto per riflettere sulle dinamiche di giustizia locale. Come conciliare, nel rispetto dei ruoli e delle culture, la mediazione "formale" con quella tradizionale senza cercare di imporre un approccio unidirezionale?
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Simulation von Konflikten und Kriegen: Anwendungen mit Simulink = Simulation of conflicts and wars = Simulazione di confliti e guerre
In: Strategie und Konfliktforschung
World Affairs Online
Il crimine individuale di aggressione nella riforma dello statuto della Corte Penale Internazionale
Il crimine di aggressione ha una storia complessa per quanto riguarda la formazione della sua fattispecie, a tal punto che la sua definizione è stata qualificata come uno dei temi più controversi nel diritto internazionale fin dal tempo della Società delle Nazioni. Le motivazioni si ricollegano al fatto che, nel diritto internazionale generale, fino alla Prima guerra mondiale, l'aggressione era considerata come uno strumento legittimo di risoluzione delle controversie tra gli Stati. Malgrado i cambiamenti storici, gli stermini del secondo conflitto mondiale e il conseguente ripudio della guerra e di ogni altro strumento di violenza da parte della comunità internazionale, la repressione del crimine di aggressione è rimasta in sospeso per un lungo periodo. Né la storica sentenza del Tribunale di Norimberga, che ha sancito la possibilità di attribuire all'individuo-organo una responsabilità per il crimine di aggressione, né la Risoluzione 3314 dell'ONU del 14 dicembre 1974 sull'aggressione degli Stati, hanno permesso di giungere ad una definizione generalmente condivisa del crimine che potesse permetterne la repressione. Le resistenze verso la codificazione di uno strumento che individuasse la fattispecie del crimine individuale di aggressione sono da individuare nel fatto che in questa maniera si andrebbe ad intaccare la sfera della sovranità degli Stati, che solo questi possono decidere di limitare mediante la stipulazione di trattati internazionali. Inoltre, la materia relativa all'aggressione ha la sua influenza anche nell'ambito delle competenze del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, attribuitegli dal capitolo VII della Carta relativo all'azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione. Questo è oggettivamente il punto più problematico delle discussioni che riguardano l'inclusione dello stesso nella giurisdizione della CPI. Quest'analisi inizia con il delineare la distinzione tra atto di aggressione come illecito dello Stato e crimine di aggressione commesso dall'individuo visti come due volti della stessa medaglia, analizzando la risoluzione 3314 (XXIX) del 1974 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, l'istituzione dei tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo e dei tribunali penali ad hoc per i crimini commessi nell'ex Jugoslavia e in Ruanda e l'art.16 del Progetto del codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell'umanità. All'interno dello stesso capitolo si tratterà dell'elaborazione della definizione del crimine di aggressione, prendendo in esame l'art.5 dello Statuto di Roma, in cui si stabiliva che la Corte penale potesse esercitare la sua giurisdizione sul crimine di aggressione soltanto dopo una futura decisione degli Stati Parti. A seguito della chiusura della Conferenza di Roma, gli sforzi nel cercare di trovare un accordo generalmente condiviso sulla definizione dell'aggressione e sulle condizioni di esercizio della giurisdizione sono stati compiuti, in un primo tempo, all'interno della Commissione preparatoria per l'attuazione dello Statuto di Roma. Questa, non riuscendo a pervenire a un risultato finale, decise di affidare i lavori ad una commissione tecnica specifica che aveva il solo scopo di vagliare le problematiche relative all'aggressione: lo Special Working Group on the Crime of Aggression. Tale gruppo, dopo un lavoro di ben cinque anni, è arrivato nel 2009 a redigere un ampio progetto sul crimine di aggressione che comprendeva i punti di accordo raggiunti dalle diverse delegazioni partecipanti, ma anche quei punti in cui un consenso non si era potuto trovare, in particolare con riguardo al ruolo che avrebbe dovuto svolgere il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nell'ambito della determinazione dell'esistenza di un atto di aggressione commesso da uno Stato. Lo Special Working Group ha lasciato il compito di sciogliere i nodi più delicati agli stessi Stati Parti che, a otto anni dall'entrata in vigore dello Statuto di Roma, si sono riuniti per la prima Conferenza di revisione a Kampala, in Uganda, dal 31 maggio all'11 giugno 2010. Il secondo capitolo tratta, infatti, del cammino verso Kampala, di questa Conferenza nell'ambito della quale lo Statuto è stato emendato a maggioranza, approvando tre nuovi articoli: l'art.8 bis, par 1 e 2, l'art.15 bis e 15 ter. Nel primo articolo si pone la distinzione tra paragrafo 1 in cui viene definito il crimine di aggressione imputabile all'individuo, e paragrafo 2 in cui viene definito l'atto di aggressione da parte dello Stato. Viene così a istituirsi tra i due piani una relazione biunivoca molto complessa. Nel terzo capitolo vengono poi esaminate le condizioni per l'esercizio della giurisdizione da parte della Corte penale internazionale, analizzando gli artt. 15 bis e 15 ter. In particolare il primo articolo si riferisce al rinvio (referral) di un caso alla Corte penale internazionale da parte degli Stati Parti e del Procuratore della Corte; invece il secondo articolo si riferisce alla questione controversa del rinvio da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. All'interno del medesimo capitolo viene posta l'attenzione anche sulla relazione intercorrente tra il Consiglio di Sicurezza e la Corte penale internazionale, sul lavoro della commissione preparatoria della Corte Penale Internazionale e sulla distinzione tra responsabilità statale e responsabilità individuale. In questo modo, il crimine di aggressione, dopo numerose difficoltà, è entrato a far parte dei crimini rientranti sotto la giurisdizione della Corte. L'unica nota negativa introdotta dagli emendamenti alla Conferenza sono state le due condizioni che hanno limitato l'importante traguardo raggiunto: da una parte è necessario che gli Stati accettino la giurisdizione della Corte sull'aggressione per essere indagati e, d'altra parte , i tempi di attesa sono molto lunghi in quanto l'effettiva giurisdizione sarà attuata subordinatamente ad una decisione che sarà presa soltanto nel 2017 dall'Assemblea degli Stati Parti.
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