La procedura dell'adlectio ― intesa nella particolare accezione di iscrizione di un nuovo senatore, per lo più proveniente dall'ordine equestre, nei ranghi dell'amplissimus ordo attraverso l'inserimento in un determinato rango al di sopra della magistratura d'entrata dalla quale si trova così dispensato ― non esisteva precedentemente all'imperatore Claudio, di cui è, in un certo senso, una creazione, e non comparve, secondo le fonti a nostra disposizione, prima della lectio senatus del 48 d.C. quando l'imperatore la introdusse mentre era investito dei poteri censorii insieme al collega e tre volte console L. Vitellio. Fu dunque il primo imperatore a immettere nei ranghi del Senato individui che non appartenevano ancora all'ordo senatorius, senza che essi avessero rivestito precedentemente alcuna delle magistrature repubblicane: allo stato attuale delle conoscenze, Claudio fece un uso piuttosto moderato della adlectio introduttiva in Senato, senza dubbio perché il numero dei membri dell'assemblea non doveva discostarsi troppo da quello prescritto di seicento, e comunque la sua scelta dovette essere effettuata esclusivamente tra gli italici e i provinciali che disponevano del ius honorum; non si conoscono, secondo la documentazione disponibile, che quattro adlecti di questo imperatore. Fu Vespasiano che, a partire dal 69 d.C., utilizzò questa procedura di accesso al Senato nel modo più esteso; va considerato a questo proposito che il numero dei senatori, in seguito alle persecuzioni e ai processi de maiestate di Nerone e, successivamente, alla guerra civile del 68 – 69 d.C., si era vistosamente ridotto lasciando un vuoto che doveva essere colmato nel più breve tempo possibile. Vespasiano quindi procedette immediatamente, subito dopo la sua acclamazione da parte delle truppe il 1 Luglio del 69, secondo quanto testimonia Tacito ( Hist. II, 82, 2 ), a delle nomine, effettuate quando non deteneva ufficialmente la censoria potestas, mentre si trovava ancora in Oriente, per ricompensare un certo numero di suoi partigiani. J. Devrecker ne conta sette, forse otto, cui dovrebbe essere aggiunto secondo A. Chastagnol anche M. Annius Messala: personalmente ritengo che, sicuramente, si possa parlare solo di due nomine antecedenti la censura del 73/74, in quanto testimoniate direttamente dalle fonti, e cioè di Plotius Grypus, adlectus inter tribunicios, e Sex. Lucilius Bassus, adlectus inter praetorios. In ogni caso in numero più consistente di adlectiones venne attuato durante la censura del 73/74 d.C., anche se non siamo in grado di stabilire con precisione quanto vasto sia stato il fenomeno finalizzato al riempimento delle depauperate file del Senato: noi verosimilmente conosciamo soltanto una frazione del numero reale di nuovi senatori che vennero ammessi tra gli ex questori, tribuni, edili e pretori ( i più dotti studi in materia ne enumerano 21/22, cfr. le opere fondamentali di W. Eck, G. W. Houston, J. Devreker, A. Chastagnol ), ma è necessario presupporre che vi fu un gruppo piuttosto vasto di adlecti che fecero il loro ingresso nella Curia. Durante la censura congiunta con Tito nell' Apr. – Mag. 73 / Apr. – Mag. 74 d.C. Vespasiano accordò inoltre anche un certo numero di adlectiones "interne"; si tratta di un significato aggiuntivo che il termine adlectio viene ad assumere almeno a partire dal principato di Vespasiano: esso può indicare anche il passaggio ad una classe di rango superiore di un personaggio già appartenente alla Curia, ad esempio un senatore di rango questorio che attraverso una adlectio inter tribunicios può essere messo in grado di ricoprire la pretura, oppure attraverso una adlectio inter praetorios può immediatamente ricoprire incarichi di rango pretorio e concorrere per il consolato ( si veda ad esempio il caso di L. Flavius Silva Nonius Bassus ). Va comunque tenuto presente che l'adlectio, intesa nel senso di promozione di individui di origine non senatoria direttamente in una classe di ex magistrati ( i quaestorii, i tribunicii, gli aedilicii e i praetorii ) che consentiva l'accesso diretto alla Curia, per quanto abbia rappresentato una delle cause più rilevanti nei mutamenti della composizione del Senato a partire dal principato di Vespasiano in poi, non costituiva la procedura tradizionale di rinnovamento dei ranghi della massima assemblea in periodi di stabilità politica: molto più praticata era la collazione del laticlavio, vale a dire l'adlectio in amplissimum ordinem, grazie alla quale giovani membri dell'ordine equestre venivano ammessi nel massimo ordine, non ottenendo però l'ingresso vero e proprio in Senato. Il rinnovamento nella composizione del Senato ebbe come portato fondamentale anche la modificazione e diversificazione della base regionale di origine dei suoi membri. Già durante il principato di Nerone, anche se la Curia era prevalentemente costituita da elementi romano – italici, alcuni homines novi provinciali, tra cui spiccano gli originari della Spagna e della Gallia Narbonensis ( in misura minore possiamo citare anche gli Orientali che beneficiarono del filellenismo di Nerone ) fecero il loro ingresso in Senato. Fu sotto il principato di Vespasiano, comunque, che il numero dei provinciali presenti in Senato aumentò drasticamente, tanto che si è giunti a quantificarli in circa un terzo dei membri dell'amplissimus ordo; l'apporto più significativo venne proprio dalle aree altamente romanizzate della Spagna meridionale e della Gallia meridionale, non che dalle province orientali di lingua greca. La particolarità che emerge dall'analisi della provenienza geografica dei tre adlecti che vennero immessi nei ranghi del Senato durante il principato di Domiziano, e dei tre incerti collocabili tra Domiziano e Traiano, è che cinque di essi provengono dalle province orientali. Si tratta di M. Arruntius Claudianus ( Xanthos, Lycia ), Ti. Claudius Sacerdos Iulianus ( Asia Minore ) – adlecti di Domiziano - C. Iulius Alexander ( figlio del re Tigrane V di Armenia ), C. Caristanius Iulianus ( Antiochia, Pisidia ), C. Claudius Severus ( Pompeiopolis, Paphlagonia ) - incerti - . Il terzo cooptato in Senato da Domiziano, L. Iulius Ursus, mi ha portato a presupporre che la sua l'adlectio sarebbe potuta avvenire, anzi, è piuttosto probabile che sia avvenuta, già nell'83, quando Domiziano non disponeva ancora dei poteri censorii: come già era avvenuto con le adlectiones di Vespasiano del 69 e del 70 d.C., non era strettamente necessario che l'imperatore detenesse la censoria potestas per immettere nuovi membri in una classe di ex magistrati, anche se ufficialmente la nomina di nuovi membri dell'ordo, l'elevazione di un certo numero di famiglie al patriziato e la revisione dell'albo rimanevano formalmente connessi con l'esercizio della censura. Quando poi Domiziano assunse il titolo di censor perpetuus, la censura si trasformò in una sorta di diritto permanente dell'imperatore, e dopo il regno di Domiziano perse anche le caratteristiche specifiche del potere censorio: da quel momento in poi gli imperatori ebbero la prerogativa di elevare homines novi nei ranghi dell'amplissimus ordo in qualunque momento e per qualsiasi motivo sembrasse loro opportuno. L'unico adlectus sicuramente attribuibile a Nerva è T. Mustius Hostilius Fabricius Medulla Augurinus, cooptato tra gli ex tribuni, mentre sicuramente attribuibili a Traiano sono quattro nuovi senatori, tra cui vale la pena di segnalare Lusius Quietus, il princeps Maurorum comandante dello squadrone di cavalieri Mauri symmacharii che partecipò alle Guerre Daciche e alla Guerra Partica di Traiano; in seguito al successo riportato nel sedare l'insurrezione giudaica in Mesopotamia, che alcune fonti descrivono come una vera e propria strage ( EUS., Chr.,II, 196 e; OROS., Hist. adv. pag. VII, 12, 7 ) Quietus nel 116 o nel 117 d.C. venne adlectus inter praetorios. Durante il principato di Adriano, per quanto consentono di determinare le fonti di cui disponiamo, il numero di homines novi immessi in Senato attraverso la procedura dell'adlectio più che limitato, come sotto il suo successore Antonino Pio, è prevalentemente orientato alla cooptazione in classi di rango inferiori, vale a dire tra i tribunicii o gli aedilicii ( 6 casi ), volta all'immissione nella Curia di nuovi e più giovani senatori ad uno stadio meno avanzato della carriera. Sia le cooptazioni nell'amplissimus ordo in classi di rango più precoci da un lato, sia il numero limitato di adlectiones dall'altro stanno a significare, sostanzialmente, che non vi era necessità immediata di praetorii per colmare, ad esempio, i vuoti creatisi tra i legati legionis dovuti al protrarsi di conflitti bellici come accadrà sotto Marco Aurelio, e, dall'altro, che il numero dei senatori rimase stabile e non subì delle variazioni significative tali da dover colmare velocemente i ranghi dell'ordo, come era accaduto all'inizio del principato di Vespasiano. Tutto ciò viene a confermare l'impressione che l'adlectio vera e propria, e soprattutto quella inter praetorios, mantenga la sua caratteristica di provvedimento "straordinario" da parte dell'imperatore, rimanendo connessa a momenti di instabilità politico – militare che causano perdite nel numero dei senatori non colmabili attraverso i canali regolari. Nel corso del regno di Antonino Pio ( 138 – 161 d.C. ) l'esiguo numero di adlectiones di cui abbiamo testimonianza ( secondo le fonti disponibili soltanto due casi ) potrebbe essere indicativo della stabilità politico – militare lo caratterizzò, tale da non richiedere interventi straordinari da parte dell'imperatore per integrare lacune nella Curia. Un cambiamento significativo nella tipologia degli adlecti e nelle motivazioni alla base della loro cooptazione si verifica a partire dal regno di Marco Aurelio. Quello che è possibile constatare ad una prima analisi è che, a partire dal regno di questo imperatore, si assiste ad un utilizzo della adlectio inter praetorios funzionale all'acquisizione in tempi rapidi di militari fidati e di provata esperienza provenienti dall'ordine equestre, da impiegare in funzioni tradizionalmente riservate ai senatori, sui vari teatri di scontri militari per fare fronte alle perdite che erano state causate dalla peste e dai conflitti sia a oriente che sul fronte danubiano. Antecedentemente, come abbiamo osservato, gli imperatori elevano homines novi alla dignità senatoria tra gli ex magistrati come ricompensa per incarichi svolti o nell'amministrazione civile o nell'esercito ( in alcuni casi l'adlectio riguarda personaggi già membri dell'amplissimus ordo e rappresenta un avanzamento di classe di rango ), oppure come premio per i propri sostenitori al momento di un avvicendamento al trono, o ancora come mezzo per soddisfare le ambizioni di ascesa sociale delle élites municipali e per espandere la base di reclutamento dell'ordo. E' solo a partire da Marco Aurelio che assistiamo a delle cooptazioni tra gli ex pretori di esperti e leali viri militares che in tal modo divenivano immediatamente utilizzabili negli scenari militari ove si erano avute delle perdite di comandanti, come ad esempio P. Helvius Pertinax e M. Macrinus Avitus Catonius Vindex. Una seconda tipologia di adlecti caratteristica del regno di Marco Aurelio è rappresentata da personaggi che svolsero carriere equestri pressoché complete, giungendone quasi all'apice, e vennero poi cooptati in Senato tardivamente, come ricompensa dopo un lungo servizio nell'entourage imperiale ( L. Volusius Maecianus, T. Varius Clemens etc. ). Durante il regno di Commodo vale la pena di segnalare il primo caso di adlectio inter consulares: ne fu oggetto P. Taruttienus Paternus, che venne attraverso questa cooptazione tra gli ex consoli allontanato dalla prefettura del pretorio. Un considerevole segno di rottura con il passato e con le pratiche in uso presso gli imperatori precedenti fu rappresentato dal trattamento che Settimio Severo riservò al suo prefetto del pretorio C. Fulvius Plautianus: probabilmente già nel 197 d.C. venne insignito degli ornamenta consularia e, rimasto in carica dal 200 circa unico prefetto del pretorio, nel 203 d.C. ricoprì il secondo consolato ordinario ( forse antecedentemente a questo evento si potrebbe presupporre una sua adlectio inter praetorios ). Il consolato di Plautianus si pone come un infrangimento delle convenzioni dal momento che egli, dopo aver ottenuto la dignità senatoria, rimase in carica come prefetto del pretorio. Inoltre il suo secondo consolato, prestigiosamente ordinario e non semplicemente suffecto, presuppone una equiparazione degli ornamenta consularia all'aver ricoperto effettivamente la magistratura. Che l'equiparazione degli ornamenta al consolato effettivamente ricoperto fosse una notevole deviazione dalla prassi può essere dimostrato anche dalla successiva condotta di Macrino, come ci viene narrata da Cassio Dione ( LXXVIII, 13, 1 -2 ): infatti quest'ultimo avrebbe rifiutato di farsi chiamare console per la seconda volta quando ottenne il consolato per l'anno successivo ( 218 d.C. ), per far sì che gli ornamenta da lui precedentemente ottenuti non venissero conteggiati come un consolato effettivo. La pratica dell'iterazione del consolato successiva al solo ottenimento degli ornamenta consularia dopo la tragica fine e la damnatio memoriae di Plauziano non cadde in disuso, anzi, venne ulteriormente praticata dal dal successore di Settimio, suo figlio Caracalla. Egli infatti, pur evitando di ripetere l'errore del padre, e cioè di conferire la dignità senatoria ad un prefetto del pretorio ancora in carica, promosse due ex appartenenti all'ordine equestre insigniti degli ornamenta consularia ( o adlecti inter consulares ) al secondo consolato ordinario: Q. Maecius Laetus e T. Messius Extricatus. Dopo la caduta di Macrino nel 218 d.C., Cassio Dione ( LXXIX, 4, 1 – 2 ) ci narra anche che Elagabalo ricolmò di onori il suo ex prefetto del pretorio e praefectus urbi in carica P. Valerius Comazon, conferendogli gli ornamenta consularia e facendolo due volte console ( sulla base dei precedenti ornamenta ); l'ascesa sensazionale di Comazon, fino alla concessione del secondo consolato ordinario del 220, può essere intesa soltanto se collocata nell'ambito delle vicissitudini politiche dell'usurpazione e della guerra civile. Tuttavia la rapida la carriera di Comazon non rappresenta una frattura nell'usuale protocollo come quella di Plautianus. Né Caracalla né Elagabalo nominarono ufficiali equestri in carica a posizioni senatorie: Laetus ed Extricatus si erano già ritirati dal servizio equestre prima dei loro secondi consolati ordinari del 215 e del 217 d.C. Quindi non ci sarebbero molte prove documentarie a supportare la dubbiosa testimonienza della Historia Augusta riguardo al regno di Elagabalo, che avrebbe cooptato in Senato chiunque senza distinzione di età, status o genere: HA, Heliog., VI, 2 in senatum legit sine discrimine aetatis, census, generis pecuniae merito. L' Historia Augusta, Alex., XXI, 3 – 5, riferisce anche riguardo alla politica adottata da Severo Alessandro in merito alla concessione della dignità senatoria ai suoi prefetti del pretorio, descrivendo da una prospettiva senatoria di tardo IV secolo il quadro del comportamento di un imperatore modello. Il passo riferisce che Alessandro Praefectis praetorii suis senatoriam addidit dignitatem, cioè conferì la dignità senatoria ai suoi prefetti del pretorio così che entrambi potessero di fatto essere ed essere dichiarati viri clarissimi, il che in precedenza era stato fatto di rado o non fatto del tutto, tanto che se un imperatore aveva in animo di nominare un successore del prefetto del pretorio, inviava a quest'ultimo una tunica laticlavia attraverso un suo liberto, fatto più volte sottolineato in molte biografie da Marius Maximus. Il biografo di Severo Alessandro, in modo confuso e contraddittorio, presuppone erroneamente, come risulta dal resoconto, che in precedenza i prefetti del pretorio fossero stati solo raramente clarissimi, implicando una infondata equivalenza tra gli ornamenta e l'appartenenza al Senato a pieno titolo: la presunta "riforma"di Severo Alessandro sarebbe quindi una creazione dell'immaginazione del biografo, come concorda la maggioranza degli studiosi. Un'altra categoria di personaggi che vennero adlecti inter consulares ( sempre nel periodo compreso tra Settimio Severo ed Elagabalo ) è rappresentata da coloro che vennero insigniti di tali onorificenze dopo incarichi civili nell'amministrazione - Aelius Antipater, ab epistulis graecis, Marcius Claudius Agrippa, a cognitionibus/ab epistulis – o dopo incarichi militari – Aelius Triccianus, praefectus della legio II Parthica, Claudius Aelius Pollio, ex centurione -.
Il pesante condizionamento imposto allo studio della storia degli ultimi 20 anni del I secolo dal "revisionismo" d'età traianea ha per molto tempo reso assai difficoltoso comprendere gli equilibri e le dinamiche politiche che caratterizzarono il regno di Domiziano e quello di Nerva. Ancor oggi, molti pregiudizi permangono, e se la figura e l'operato dell'ultimo flavio sono parzialmente stati rivalutati da più di mezzo secolo di storiografia, resiste piuttosto tenacemente la vulgata di una sostanziale discontinuità politica tra il regno del figlio di Vespasiano e il principato di Nerva, spesso ancora interpretato nell'ottica piuttosto ideologica di un progresso verso il raggiungimento del virtuoso equilibrio tra imperatore e Senato, che si realizzerà pienamente sotto l'Optimus Princeps e i suoi successori. Il presente lavoro naturalmente cerca di porsi come ennesimo contributo alla demolizione di un'impostazione ormai clamorosamente sconfessata dai fatti. E' anzi proprio in ragione della manifesta continuità politica e amministrativa tra le due esperienze che ho voluto allargare il campo d'indagine relativo alla lotta per il potere in età domizianea anche al biennio di Nerva. Se quest'ultimo rappresenta l'occasione di emersione di conflitti e alleanze altrimenti difficilmente individuabili in una fase di cui R. Syme lamentava la pressoché assoluta inintelligibilità, allo stesso tempo tali fenomeni trovano le loro radici proprio in età flavia. Il medesimo processo osmotico si ravvisa nella stretta interrelazione tra gli esordi della dinastia fondata da Vespasiano e l'età neroniana. Dall'analisi di entrambe queste "propaggini" storiche emergono importanti informazioni sulla composizione di gruppi, e sull'estrazione di personaggi che animarono la politica imperiale per circa un trentennio, e che gettarono le basi per l'affermazione della dinastia antonina. A rischio di privilegiare un'ottica teleologica, va sottolineato che i principati di Domiziano e Nerva sono accomunati proprio dal fatto di aver costituito le fasi di incubazione e di emersione del network su cui si sarebbe retto il potere imperiale per più di un secolo. Come abbiamo visto, è probabile che l'evoluzione e l'estensione delle sue ramificazioni e della sua influenza abbiano determinato conseguenze importanti sull'andamento delle vicende politiche di quegli anni, e inciso in maniera spesso decisiva su alcuni passaggi chiave. La crisi dinastica che sembra caratterizzare l'intero corso del principato domizianeo, viene risolta in via definitiva solo con l'adozione di Traiano, a conclusione della reggenza di Nerva. Il personale politico che gestisce il brusco passaggio del settembre 96, è lo stesso che poco più di un anno dopo vedrà nell'adozione del consolare di Italica il coronamento dei propri sforzi. Non è escluso, poi, che dietro ai due rapidi avvicendamenti ai vertici del governo imperiale si possa ravvisare una continuità di strategie, come immaginò, qualche anno fa, R. Syme , attraverso una suggestiva analogia tra l'alacre attività diplomatica degli alleati di Traiano e le trame del prefetto del pretorio Aemilius Laetus, poco meno di un secolo dopo: quest'ultimo, regista della congiura contro Commodo, fu abile a nominare rapidamente un candidato plausibile e popolare, non inviso al Senato, Pertinace (allora Praefectus Urbi), mentre, nello stesso tempo, il suo candidato reale, Settimio Severo, veniva assegnato a un comando chiave, quello della Pannonia; forte del supporto decisivo delle legioni danubiane, il generale africano conquistò poi il potere. E' forte la tentazione di individuare simili sviluppi per il biennio 96 – 98. Infine, le correnti di opposizione filosofica al dispotismo di Domiziano, che avevano riacquisito vigore negli ultimi anni dell'età flavia, ebbero un ruolo non trascurabile nei conflitti che dilaniarono il Senato nel corso del principato di Nerva, arrivando anche a presentare un proprio candidato alla successione: se il biennio nerviano risulta argomento così articolato e complesso, e apparentemente contraddittorio, ciò si deve in parte anche all'interferenza, nella lotta per l'imperium, di questo "terzo polo". Sulla base di queste premesse, è chiaro che l'interpretazione della storia politica del regno di Domiziano non possa fare a meno di quella che ne è, a tutti gli effetti, un'appendice, ma che, per la sua natura di momento storico non soggetto a una forza egemone, e, di conseguenza, non completamente banalizzato da un "pensiero unico", offre spiragli e "corsie alternative" all'indagine. Uno degli effetti più sgradevoli, benché necessari, della vulgata antidomizianea trasmessa dalla tradizione ai moderni consiste proprio nella naturale reazione che questa suscitò nei ricercatori che si dedicarono al principato dell'ultimo flavio. In pratica, ancora in tempi recenti, la finalità principale di molte ricerche è stata quella di rivalutare l'operato di Domiziano, confutando, punto per punto, l'opera consapevole di denigrazione postuma messa in atto da intellettuali e storiografi dell'antichità. Ciò ha prodotto indubitabilmente degli effetti positivi, riequilibrando il giudizio storico su Domiziano, e sottolineando la sostanziale continuità di pratiche e di scelte strategiche, in ambito politico e amministrativo, con i sovrani successivi. Contemporaneamente, nel tentativo di render giustizia a una figura storica oggetto di una secolare campagna di diffamazione, tale impostazione ha, in taluni casi, ecceduto in senso opposto, non riuscendo a riconoscere le ragioni di un fatto che resta comunque incontestabile, ovvero la sua caduta, o addirittura trasformando Domiziano stesso in una vittima del conservatorismo senatoriale . Mi sono dunque chiesto quale (o quali) fattore potesse aver contribuito in maniera sensibile alla rovina dell'ultimo flavio; in età moderna non sono mancate le suggestioni in questo senso: dall'ormai esausto e meccanico schema del conflitto tra tirannide liberticida e senato, all'intervento di una componente di matrice giudaica; dalle reazioni delle classi elevate alla rapacitas di Domiziano, all'opposizione ai tentativi di riforma in senso dirigista ed efficientista dell'amministrazione e del governo dell'Impero. Ciascuna di queste proposte manca però di un adeguato supporto documentario, oppure tende a generalizzare un fenomeno di cui restano scarsi indizi, che non autorizzano l'elaborazione di teorie sistematiche . Piuttosto negletto dalla ricerca moderna, perlomeno in relazione all'ultimo flavio, mi è parso invece un aspetto, che abitualmente riveste una certa importanza nella biografia di ogni imperatore, ovvero quello rappresentato dalla questione dinastica e dalle prospettive di successione. Certo, manca a un'indagine di questo genere l'essenziale supporto di un'opera storica dello spessore e dell'intelligenza politica degli Annales, che ha fornito un contributo essenziale alla comprensione delle altrimenti inesplicabili dinamiche di corte del principato giulio – claudio. Eppure, indizi dell'attenzione e delle aspettative che Domiziano e la sua corte nutrivano verso la nascita di un erede maschio, e di una successione in domo, non mancano: non soltanto nelle evidenze numismatiche ed epigrafiche d'inizio regno, ma anche nelle oscillazioni della relazione con la moglie Domitia Longina, e nei riflessi che tali oscillazioni ebbero sull'armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Non è impossibile che sia stato proprio questo elemento ad avvelenare il clima politico sin dagli esordi. Era d'altronde un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte ai suoi due figli l'opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo. Il padre di Domiziano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare (almeno per qualche tempo) all'interno dell'influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale (che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti), produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l'estensione e la ramificazione del proprio network familiare , proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. La dimensione e la gravità dell'errore emerge dal confronto con la politica dinastica di Augusto, il quale però poteva vantare la discendenza da una delle famiglie più nobili della Roma repubblicana: sin dal principio, il fondatore dell'Impero aveva proceduto alla più ampia cooptazione di gentes patrizie (reintegrando anche i discendenti del suo storico rivale, Marco Antonio), avvicinandole il più possibile, attraverso alleanze matrimoniali, alla Domus Augusta, al duplice scopo di garantire la ricomposizione politica, e di alimentare il ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano. Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all'assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l'intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. E' intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Ad aggravare questa situazione, contribuì un secondo fattore di considerevole rilevanza, ovvero l'imponente dote di relazioni "eccellenti" e influenti (nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell'opposizione stoica), che Domitia Longina ereditò dal padre Domitius Corbulo, e che non mancò di condizionare sistematicamente gli equilibri interni alla corte e interferire nelle strategie di orientamento dinastico dell'imperatore. Abbiamo visto come il matrimonio tra Domiziano e Domitia Longina avesse suggellato un'alleanza politica, che aveva portato all'affermazione delle Partes Flavianae, alla conquista del potere per Vespasiano e i suoi figli, e garantito considerevoli vantaggi in termini d'immagine, di governabilità, e di durata della nuova compagine. Essa però imponeva probabilmente anche seri condizionamenti all'arbitrio dei regnanti: uno di essi poteva essere proprio il rispetto, a tutti i costi, del vincolo nuziale stesso, e del suo fine precipuo, ovvero la nascita di un erede maschio, nel quale confluissero le linee dinastiche di entrambe le famiglie (Flavi e Domitii), insieme alle rispettive clientele. Proprio il "fallimento" di tali aspettative, almeno in due casi (il primo, con la morte di Flavius Caesar, all'inizio del regno; il secondo, meno documentato, intorno all'anno 90, in seguito a un aborto di Longina), scatenò altrettante crisi; la prima di esse, che vide probabilmente la contrapposizione a corte di un "partito" di Domitia Longina e di un'opzione interna alla casata flavia (che individuava in Iulia la sposa ideale per l'imperatore e che spingeva per l'unificazione della linea dinastica), e che si risolse con la reintegrazione dell'Augusta, suggerisce una duplice riflessione: innanzitutto essa rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintelligibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo; tuttavia, va comunque constatato che le dicerie che fornirono l'alimento all'opera di diffamazione dell'ultimo flavio scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d'essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già (in forma diversa probabilmente) durante il principato di Domiziano. Non è dunque, a mio giudizio, un esercizio completamente inutile lo sforzo esegetico compiuto su certo genere di fonti: i rumores riportati, in sostanza, testimoniano l'esistenza di un piano occulto, probabile scenario di un conflitto tra forze contrastanti, miranti ciascuna a esercitare pressione sul princeps e a condizionarne le scelte. Questo ci conduce al secondo punto: la vittoria diplomatica conseguita da Domitia Longina con la sua reintegrazione, e i fatti che l'accompagnarono, rivelano il peso e l'influenza degli alleati dell'Augusta; tra essi, emergono T. Aurelius Fulvus e Q. Iulius Cordinus Rutilius Gallicus, luogotenenti del padre di Longina in Oriente, componenti, assieme a Sex. Iulius Frontinus, di quel "gruppo corbuloniano", che si fece garante dell'alleanza che generò le Partes Flavianae; e L. Iulius Ursus, all'epoca ancora prefetto del pretorio e probabile adfinis della dinastia regnante. Questo sodalizio, formato da uomini di provata esperienza, appartenenti alla generazione precedente a quella di Domiziano, e che quindi non dovevano la loro ascesa sociale al princeps, rappresenterà (con la sola eccezione di Rutilius Gallicus, morto probabilmente nel 91) il nerbo della diplomazia politica che gestirà il duplice avvicendamento ai vertici del governo imperiale tra il 96 e il 97. E' significativo notare, a questo proposito, che l'imponente network di amicitiae e di relazioni familiari al vertice del quale questi personaggi si trovavano e che, come abbiamo visto, gravitava attorno ad alcune familiae novae emergenti di origine per lo più provinciale (ispano – narbonense, dovremmo dire), ovvero gli Aelii, gli Ulpii, gli Annii, i Calvisii Rusones, e i ricchissimi Curvii fratres, aveva visto rinsaldare i suoi nodi, per il tramite di eclatanti alleanze matrimoniali, ben prima della caduta di Domiziano. Ciò implica che, al momento della seconda fase di crisi dinastica del principato, successiva al 90, questa rete di relazioni doveva già essere attiva, e poteva dunque aver influito sul processo di deterioramento dei rapporti tra il princeps e la classe dirigente. La probabile emarginazione di Domitia Longina infatti, all'indomani del fallimentare esito della maternità cui fa cenno Marziale , alienò definitivamente a Domiziano l'appoggio del cospicuo blocco di potere che spalleggiava l'Augusta; l'isolamento dinastico dell'imperatore è peraltro confermato indirettamente dall'analisi della lista dei consolari che congiurarono contro di lui e che furono quindi giustiziati : dei 14 condannati a morte, di cui 13 consolari, 8 erano sicuramente patrizi. Quindi capaces imperii, secondo l'abituale metro di valutazione degli antichi. Lo erano in misura maggiore dal momento che, all'interno di questo gruppo, almeno 6 personaggi potevano vantare relazioni di parentela o di stretta amicizia con i Flavi (Flavius Sabinus, Arrecinus Clemens, M'. Acilius Glabrio, Aelius Lamia, Flavius Clemens, C. Vettulenus Civica Cerialis), uno, ovvero Salvius Otho, era nipote di un ex imperatore, e l'ultimo, Salvidienus Orfitus, era imparentato con l'imperatrice. E' ragionevole supporre che la maggior parte di costoro sia stata coinvolta all'interno di piani cospiratori allo scopo di garantire una credibile candidatura alla porpora. Inoltre, fatta eccezione per Arrecinus Clemens e Flavius Sabinus, ed escludendo i due eversori militari, tutte le altre vittime delle rappresaglie domizianee si concentrano dopo il 90/91 d.C. A mio avviso, ancora una volta il comune denominatore della maggior parte di queste calamitates potrebbe farsi risalire al problema della successione. La presenza di tanti capaces imperii non si spiega in altro modo se non alla luce della ridotta disponibilità di plausibili successori all'interno della casata flavia; e un sovrano senza successori era esposto a un costante rischio di cospirazioni. Alla luce di questi elementi è assai agevole comprendere la chiosa di Svetonio alla notizia della esecuzione dell'ultimo adfinis, e potenziale erede, di Domiziano, ovvero Flavius Clemens, giustiziato nel 95 dopo aver appena deposto i fasces : quo maxime facto (scil. Domitianus) maturavit sibi exitium. A questo punto è forte la tentazione di individuare una stretta relazione tra il progressivo estinguersi delle opzioni dinastiche di Domiziano e la ricomparsa sulla ribalta dell'alta politica, all'indomani della morte del despota, e dopo qualche anno di salutare ritiro, di Sex. Iulius Frontinus, Iulius Ursus, Domitius Tullus, T. Aurelius Fulvus. Questi politici navigati, esperti diplomatici, influenti uomini di potere, erano attratti dalla prospettiva di inserire il network di interessi che rappresentavano nel vuoto lasciato dai Flavi. Non è anzi escluso che essi abbiano cercato di accelerare la caduta di Domiziano , o comunque che non abbiano ostacolato la creazione di una fronda antitirannica, di una coalizione di forze attorno ai circoli di opposizione e, soprattutto, attorno a Domitia Longina, l'imperatrice ripudiata, erede della dote morale del padre, Domitius Corbulo, martire egli stesso del dispotismo. Emerge ancora una volta la centralità dell'Augusta, come soggetto politico di considerevole influenza, e, almeno nella fase finale del principato domizianeo, come punto di riferimento dell'opposizione al marito. Una certa tradizione letteraria, da Dione a Procopio, e una considerevole serie di documenti epigrafici e archeologici, conferma l'ottima reputazione, se non addirittura la venerazione di cui godette la donna dopo la morte di Domiziano, sorprendenti ove si pensi che quest'ultimo fu oggetto della più implacabile abolitio memoriae che la storia imperiale ricordi . La fine di Domiziano, al pari di quella di Nerone, fu dunque il risultato di una convergenza di interessi e soggetti molto differenti tra loro, temporaneamente coalizzati dall'obiettivo della rimozione di un nemico comune. Non casualmente, H. Castritius ha associato il ruolo di Domitia Longina, quale catalizzatore del dissenso, a quello della figura e poi della memoria di Ottavia . La composita alleanza tra epigoni dei martiri stoici, elementi del patriziato, componenti del gruppo corbuloniano, ebbe breve durata: sin dal principio, la reggenza di Nerva è caratterizzata da una estesa conflittualità all'interno del Senato e della classe dirigente. Il princeps è peraltro in una posizione di estrema debolezza: il suo ruolo di garante istituzionale, frutto di un faticoso compromesso, lo condanna ad un'equidistanza molto facilmente assimilabile all'isolamento; d'altronde la precarietà del suo mandato, la sua condizione di reggitore dell'Impero ad interim, era talmente palese da indurlo addirittura a pronunciarsi su di essa . In verità Nerva era un uomo piuttosto compromesso con Domiziano, e questo non mancò di essergli rinfacciato . Un sovrano tanto delegittimato non può che far presupporre che alle sue spalle infuri la battaglia per la successione. In tal senso, uno degli scopi di questo lavoro è consistito nell'individuare tracce o indizi di una continuità di strategie da parte del medesimo gruppo di potere in occasione dei due avvicendamenti ai vertici del governo imperiale tra il settembre 96 e l'ottobre 97. Ben poco è possibile dedurre dagli scarni resoconti delle fonti circa l'assassinio di Domiziano (né avremmo mai sperato di ricavare da essi molto più che banali aneddoti); assai più significativa l'invadente presenza dei futuri artefici dell'adozione di Traiano in ogni iniziativa del neoinsediato governo di Nerva: Sex. Iulius Frontinus divenne curator aquarum nel 97, e contemporaneamente, insieme a L. Iulius Ursus, presiedette la commissione finanziaria istituita dall'anziano princeps. La notizia è tanto più sorprendente ove si consideri che tale attivismo faceva da contraltare alla totale inerzia politica durante gli ultimi anni di regno di Domiziano. T. Aurelius Fulvus, se ancora vivo, doveva avere sovrinteso alla Praefectura Urbi nei giorni del complotto contro l'ultimo flavio, e molto probabilmente deteneva ancora la carica. Ritengo poi che i consolati iterum del 98 siano in buona parte stati decisi da Nerva: se così fosse, il grande onore tributato a Frontinus, Ursus, e Domitius Tullus, si spiegherebbe a fatica se non in relazione a meriti particolari nell'insediamento al potere del senatore di Narni, e in tutto ciò che lo precedette. Infine, nell'eventualità, molto probabile, a giudizio di molti, che Traiano fosse stato assegnato alla Germania Superiore nell'autunno del 96, si avrebbe un'importante conferma del fatto che i suoi alleati, sin dall'inizio del principato di Nerva si avvantaggiassero di una considerevole supremazia strategica sui possibili concorrenti. Questo naturalmente non poteva spiegarsi che con un primato in termini di potere, influenza, ricchezza. Il cosiddetto "circolo di Traiano" rappresentava, come abbiamo visto, il vertice di una rete di relazioni e interessi imponente; essa sarà la base della futura dinastia antonina. Artefici o meno della caduta di Domiziano, saranno i componenti più anziani di questo network, ben insediati a capo delle catene di comando del principato di Nerva, a sovrintendere al passaggio di consegne tra l'anziano princeps e il legato della Germania Superiore, operando i necessari avvicendamenti in alcuni officia strategici del Reno, e, per un altro verso, vigilando nella capitale , affinché tutto procedesse secondo i piani. Componeva questa task force diplomatica, oltre ai già citati Frontinus, Ursus, T. Aurelius Fulvus, Cn. Domitius Tullus, anche, con tutta probabilità, L. Licinius Sura, del quale si sono cercate di mettere in luce in particolare le virtù "civili": amante della mondanità, infaticabile tessitore di relazioni, fine politico, il braccio destro di Traiano sembra assai più facilmente assimilabile a un Mecenate che a un Agrippa. Per questa ragione, ritengo che il suo decisivo contributo al senatore di Italica debba essere collocato nel contesto di febbrile attivismo diplomatico che ebbe come scenario Roma, e non la provincia . A trarre profitto da questa operazione sarebbero poi stati i membri più giovani di questo blocco di potere, appartenenti alla generazione di Traiano (e di Domiziano), o di poco più anziani: Q. Glitius Atilius Agricola, Q. Sosius Senecio, L. Iulius Ursus Servianus, Sex. Attius Suburanus, A. Cornelius Palma Frontonianus, per citare i più importanti. Naturalmente, questa operazione di "insediamento" al potere non avvenne senza contrasti. Il principale ostacolo all'affermazione di Traiano e dei suoi alleati, era costituito dai politici più legati al passato regime, la cui influenza si era conservata pressoché intatta: lo dimostra ad esempio il fatto che la scelta del successore di Domiziano fosse ricaduta su Nerva, uomo dalle evidenti inclinazioni filodomizianee. Il presidio dei vertici del governo imperiale rappresentava un presupposto fondamentale per esercitare il patronato e attivare canali di promozione e di cooptazione clientelare: era evidente che tale posizione di privilegio non poteva essere amichevolmente condivisa. Inoltre, la factio filodomizianea poteva contare sulla rivalutazione della memoria dell'imperatore ucciso, aspetto che sin dall'inizio incontrò il favore dei soldati, legionari e pretoriani. Coerente con tali premesse, la candidatura di un vir militaris, di un uomo che aveva condiviso, sul campo, trionfi e rovesci di Domiziano, conosciuto e rispettato dalle truppe, ovvero M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus. Come ha ben evidenziato K.H. Schwarte , è in questo "bipolarismo" di fondo che trova la sua ragion d'essere l'offensiva, politica e giudiziaria, contro delatori veri o presunti di Domiziano e uomini compromessi con il passato regime; tra i protagonisti di questa campagna lo stesso Plinio, e, ovviamente, i componenti delle correnti di opposizione alla tirannia di ritorno dall'esilio (Iunius Mauricus in primis). Risulta chiaro, dunque, come i processi politici e gli attacchi agli uomini compromessi con il regime domizianeo durante il regno di Nerva avessero una mera utilità politica: quella cioè di legittimare un "passaggio di consegne", una "successione" altrimenti priva di fondamento giuridico o dinastico; questo è tanto più vero ove si consideri che tale istanza veniva avanzata in diretta e contemporanea concorrenza con un'altra rivendicazione, a suo modo uguale e contraria: quella cui si accennava in precedenza, assai ben descritta dallo Schwarte, fatta propria dai politici e dai viri militares più legati e più compromessi con il passato domizianeo. Ambedue gli schieramenti, in breve, sostenevano una propria "candidatura" al sommo potere. In tale prospettiva, sia detto per inciso, va dunque forse interpretata la successiva campagna "revisionista", che ebbe in Plinio il suo primo interprete e che determinò una consistente mistificazione della realtà storica di quel biennio: essa ebbe origine proprio dalla necessità politica contingente alla lotta per la successione, nacque nella sua forma proprio come rivendicazione politica della legittimità di una candidatura su un'altra, non fu il risultato meccanico di una rilettura inventata di sana pianta post eventum; e peraltro l'elaborazione di una versione addomesticata degli avvenimenti rappresentava una necessità avvertita anche da quanti avevano sostenuto il candidato sbagliato, o si erano mantenuti neutrali; tutti accomunati dall'unica esigenza di dimenticare in fretta e rimanere comunque sul carro dei vincitori. Tali considerazioni mi consentono una breve, ma essenziale, divagazione: è in questo contesto di conflitto politico che va collocata l'emarginazione, o la rimozione, di alcuni personaggi, sin troppo compromessi con il passato regime. L'analisi prosopografica di politici e viri militares vicini a Domiziano ha messo in evidenza, per alcuni di essi, questa circostanza . Ciò naturalmente non presuppone in alcun modo una generale strategia di ricambio nel governo dell'Impero; il principio di continuità amministrativa e di personale tra i regni di Domiziano e Traiano proposto da Waters rimane ancora validissimo. Ciò premesso, affermare che l'avvicendamento ai vertici dell'establishment, avvenuto a cavallo del regno di Nerva, non abbia prodotto delle vittime (in senso metaforico, s'intende), significa misconoscere le più basilari regole del realismo politico. K. Ströbel ha opportunamente parlato, a questo proposito, di "Entdomitianisierung", con esplicito riferimento a ben noti, e analoghi, fenomeni moderni: porre il problema della maggiore o minore compromissione con il tiranno in termini prosopografici non ha alcun senso, dal momento che risulterà evidente che, in tale prospettiva, tutti risultano compromessi, in quanto tutti debitori all'imperatore della propria ascesa sociale. Secondo le "regole d'avanzamento" universalmente accettate, ciascun senatore era in grado di comprendere, in linea di massima, fino a dove avrebbe potuto arrivare; e in generale l'intervento del princeps era rivolto a promuovere degli avanzamenti, assai di rado ad ostacolarli. In questo senso, molti dei componenti della classe politica che si affermerà con Traiano, a partire dall'imperatore, potevano tranquillamente dire di non aver goduto del particolare favore di Domiziano; medesime rivendicazioni potevano venire dai diplomatici di lungo corso, rimasti ai margini dell'alta politica negli ultimi anni di regno del figlio di Vespasiano. Peraltro, il confronto tra la composizione del consilium principis d'età domizianea con quello di Traiano, dimostra che una certa discontinuità (dipendente, va riconosciuto, anche da cause naturali) in effetti vi fu. Tornando all'analisi delle vicende dell'anno 97, si è poi evidenziata l'esistenza di un "terzo polo", oltre a quelli testé descritti. Esso prende le mosse dai circoli d'opposizione filosofica, che, negli anni della svolta autoritaria di Domiziano, avevano riacquisito vigore, e che, dopo l'assassinio del despota, vivevano in senato un'ultima stagione di grande attivismo politico e di accresciuta popolarità; l'offensiva politica e giudiziaria contro gli uomini più compromessi con il passato regime, non fece che amplificarne ulteriormente le ambizioni. L'esito piuttosto insoddisfacente dei processi, e, allo stesso tempo, la percezione della finalità strategica di quest'operazione (la candidatura di un uomo meno compromesso con Domiziano), determinarono probabilmente la deriva "estremistica" di questo soggetto, che provò ad approfittare della debolezza di Nerva: questa, a mio giudizio, la sostanza politica della congiura di Calpurnius Crassus Frugi. E' questo un episodio abitualmente trascurato dagli studiosi, in quanto considerato marginale; recenti studi hanno però dimostrato che esso fu tutt'altro che sottovalutato da Traiano: la durezza delle sanzioni a carico del ribelle, stabilite a correzione della precedente, lieve pena, imposta da Nerva, è rivelatrice dell'entità della minaccia percepita dai nuovi signori di Roma. Prima di concludere, va infine chiarito un ultimo punto. La confutazione della tradizionale immagine dell'Optimus Princeps come vir militaris determina importanti conseguenze anche nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla sua adozione. Egli non può più essere considerato, con buona pace di R. Syme , come il naturale candidato dei comandi provinciali, l'espressione di un pacifico compromesso fra capi militari, l'adozione del quale placò di conseguenza ogni tumulto e sventò qualsiasi rischio di sollevazione. L'ascesa alla statio principis di Traiano dovette dunque essere assai più complicata e irta di ostacoli di quanto le fonti contemporanee ce la presentino; soprattutto, la storia di quei mesi deve essere interpretata rivalutando la dialettica dei rapporti di forza tra le aspirazioni dei legati provinciali, le istanze dei legionari, e la regia occulta delle diplomazie senatoriali attive nell'Urbe . In definitiva, il blocco di potere a sostegno di Traiano si avvaleva di una certa supremazia, in termini politici e strategici. Eppure non era egemone. La scarsa reputazione di Traiano presso le legioni; i malumori dei soldati, piuttosto facilmente riscontrabili in Mesia e sul Reno, probabili in Pannonia; i rumores provenienti da Oriente; le pericolose oscillazioni di Nerva verso la factio filodomizianea; la presenza di preoccupanti fattori di interferenza nella lotta per la successione, come la congiura di Calpurnius Crassus Frugi, che aveva anche pericolosamente evidenziato la debolezza di Nerva; tutti questi elementi convinsero gli alleati di Traiano che la posizione strategicamente favorevole di quest'ultimo poteva non essere più sufficiente. In questa logica, una forzatura, che mettesse una volta per tutte fine ad ogni dubbio, poteva essere una soluzione contemplabile. Ma un azzardo del genere poteva essere prerogativa solo di chi conservava il controllo del "gioco", e poteva permettersi di correre un rischio "calcolato". La sollevazione dei Pretoriani, sobillati da Casperius Aelianus, va letta, a mio giudizio, in quest'ottica: ovvero come una provocazione diretta a forzare Nerva all'adozione di Traiano. Un'interpretazione del genere, peraltro, delinea un quadro politico più coerente delle ipotesi finora proposte; chiarisce i dubbi circa la condotta successiva di Casperius Aelianus, di Nerva e di Traiano; motiva la freddezza dell'adottato verso l'adottante. In conclusione, quindi, la cosiddetta adozione, secondo questa del tutto ipotetica ricostruzione, sarebbe una vera e propria usurpazione "mascherata", messa in atto da un gruppo di potere ramificato e forte (i cui elementi più in vista si trovavano tutti a Roma in quel periodo), contrapposto a interessi non convergenti coi propri, ma non abbastanza importanti da scatenare una guerra civile, una volta vistisi minacciati: si potrebbe dire che la strategia dei diplomatici alleati di Traiano avesse messo in scacco tutti gli altri possibili concorrenti; ma una volta constatato poi il rischio che la situazione sfuggisse di mano, essi avevano finito con l'optare per una forzatura, che poteva avere senso solo a condizione di un controllo quasi totale della situazione. L'atto iniziale della dinastia antonina, che ha suggerito ad alcuni moderni l'enfatica definizione di "Adoptivkaiser", fu dunque, nella migliore delle ipotesi, una forma subdola di coercizione. Se tale ipotesi fosse attendibile, cadrebbe anche l'ultimo pilastro di una costruzione che ha ben poco di storico e molto di ideologico. Nella lunga storia dell'Impero romano, l'unico criterio di successione dotato di una qualche legittimità, e rispettato dalle forze che via via si contendevano il potere, fu quello dinastico. Domiziano pagò, a dispetto di ogni infingimento retorico o ideologico sul dispotismo, una fallimentare politica dinastica; i successori di Nerva, pur privi di eredi diretti, si trasmisero tutti il potere in ossequio alla consanguineità ; Marco Aurelio, unico ad avere figli, nominò disinvoltamente, seppur in condizioni di emergenza, il proprio figlio Commodo quale successore. Il nuovo gruppo dirigente che si raccolse attorno ai principes antonini, si dimostrò ben consapevole di questa imprescindibile condizione, e formò una rete compatta e estesa di relazioni e alleanze familiari, tale da garantire la successione all'interno di essa, fenomeno che è in parte fattore fisiologico di condotta delle famiglie romane, ma che poi diverrà anche una strategia consapevole da parte del potere (si pensi al complicato sistema di adozioni incrociate imposto da Adriano ad Antonino Pio), così come a suo tempo aveva cercato di fare Augusto, e che invece mancò completamente nei piani di successione dei Flavi. Ad essi d'altronde era ben nota l'unica, possibile alternativa, ovvero la conquista violenta del potere. Questa, sin dall'inizio, era stata la reale natura del principato: come ebbe a scrivere R. Syme , in fondo, "il principato nacque dall'usurpazione".
2008/2009 ; L'ecologia è una disciplina storica: i processi ecologici in corso sono il risultato di quello che è accaduto nel passato. Non conosciamo però quando e con che intensità l'uomo ha iniziato ad alterare l'ambiente marino, e non conosciamo lo stato "naturale" degli ecosistemi. L'ecologia storica ha come obiettivo lo studio degli ecosistemi e delle sue componenti a posteriori, attraverso il recupero e la meta-analisi di documenti del passato. La ricostruzione dello stato passato (historical baseline) degli ecosistemi è essenziale per la definizione di punti di riferimento (reference points) e direzioni di riferimento (reference directions) per valutare i cambiamenti e per stabilire obiettivi di ripristino. Basare gli studi di biomonitoraggio solo su dati recenti può, infatti, indurre la sindrome del "shifting baseline", ovvero uno spostamento di generazione in generazione del punto di riferimento cui confrontare i cambiamenti, con la conseguenza di sottostimare eventuali processi di degrado in atto. Inoltre, i processi ecologici agiscono su scale temporali diverse (da anni a decenni), e per capirne le dinamiche è quindi necessario considerare un'adeguata finestra temporale. Studiare le dinamiche a lungo termine delle comunità marine permette quindi di monitorare e valutare lo stato e i cambiamenti degli ecosistemi rispetto ad un adeguato riferimento, in cui le comunità marine sono usate come indicatori. La raccolta e lo studio di documentazione storica rappresentano, quindi, un'attività imprescindibile nell'ambito del monitoraggio ambientale. La pesca rappresenta uno dei principali fattori di alterazione negli ecosistemi marini, ed è considerata la principale causa di perdita di biodiversità e del collasso delle popolazioni. I suoi effetti, diretti e indiretti, costituiscono una fonte di disturbo ecologico in grado di modificare l'abbondanza delle specie, gli habitat, la rete trofica e quindi la struttura e il funzionamento degli ecosistemi stessi. Essa rappresenta una fonte "storica" di disturbo, essendo una delle prime attività antropiche di alterazione dell'ambiente marino. Inoltre, la sovra-pesca (overfishing) sembra essere un pre-requisito perché altre forme di alterazione, come l'eutrofizzazione o la diffusione di specie alloctone, si manifestino con effetti più pervicaci. La pesca rappresenta però anche una sorta di campionamento estensivo non standardizzato delle popolazioni marine. Dal momento che dati raccolti ad hoc per il monitoraggio delle risorse alieutiche (fishery-independent) sono disponibili solo dopo la seconda metà del 20° secolo, e in alcuni casi (come in Mediterraneo) solo per le ultime decadi, lo studio delle dinamiche a lungo termine richiede il recupero di informazioni che sostituiscono le osservazioni strumentali moderne e possono essere comunque considerati descrittori dei processi di interesse (proxy). La principale criticità nel ricostruire serie storiche a lungo termine nasce dall'eterogeneità dei dati storici e dalla necessità di elaborare metodologie per l'analisi e l'integrazione dei dati qualitativi o semi-quantitativi del passato con i dati moderni. A seconda del periodo considerato e dell'ampiezza della finestra temporale di studio, quindi, è necessario applicare diverse metodologie d'analisi. La gestione sostenibile dello sfruttamento delle risorse alieutiche è un tema sempre più rilevante nel contesto della pesca mondiale, come conseguenza del progressivo aumento della capacità e dell'efficenza di pesca stimolati dal progresso tecnologico. Ciò ha portato all'impoverimento delle risorse ittiche determinando effetti negativi sia in termini ecologici che socio-economici. Tradizionalmente la gestione della pesca si è basata sulla massimizzazione delle catture di singole specie bersaglio, ignorando gli effetti sugli habitat, sulle interazioni trofiche tra le specie sfruttate e le specie non bersaglio, e su altre componenti dell'ecosistema. Questo ha portato al depauperamento delle risorse e all'alterazione della struttura e funzionamento degli ecosistemi, rendendo le misure gestionali spesso inefficaci. Per questo motivo è necessario applicare una gestione della pesca basata sull'ecosistema (Ecosystem-based fishery management), che ha come obiettivi: prevenire o contenere l'alterazione indotta dalla pesca sull' ecosistema, valutata mediante l'applicazione di indicatori; tenere in considerazione gli effetti indiretti del prelievo sull'insieme delle componenti dell'ecosistema e non solo sulle specie bersaglio (cascading effect); proteggere habitat essenziali per il completamento del ciclo vitale di diverse specie; tutelare importanti componenti dell'ecosistema (keystone species) da pratiche di pesca distruttive; monitorare affinchè le attività antropiche non compromettano le caratteristiche di struttura delle comunità biotiche, per preservare caratteristiche funzionali quali la resilienza e la resistenza dell'ecosistema, prevenendo cambiamenti che potrebbero essere irreversibili (regime-shifts). A tale scopo è necessario essere in possesso di adeguate conoscenze relative alle caratteristiche ecologiche ed allo stato degli stock sfruttati, monitorandone le dinamiche e consentendo l'applicazione di modalità gestionali adeguate. L'approccio ecosistemico alla gestione della pesca prevede l'applicazione di indicatori che siano in grado di descrivere lo stato degli ecosistemi marini, le pressioni antropiche esercitate su di essi e gli effetti di eventuali politiche gestionali sull'ambiente marino e sulla società. Nell'ambito dell'ecologia storica l'Alto Adriatico rappresenta un caso di studio interessante, sia per la disponibilità di fonti storiche, sia perché è un ecosistema che nei secoli ha subito diversi impatti ed alterazioni. La presente tesi di dottorato si inserisce nell'ambito del progetto internazionale History of Marine Animal Populations (HMAP), la componente storica del Census of Marine Life (CoML), uno studio decennale (che si concluderà nel 2010) per valutare e spiegare i cambiamenti della diversità, della distribuzione e dell'abbondanza della vita negli oceani nel passato, nel presente e nel futuro. HMAP è un progetto multidisciplinare che, attraverso una lettura in chiave ecologica delle interazioni storiche tra uomo e ambiente, ha come obiettivo la ricostruzione delle dinamiche a lungo termine degli ecosistemi marini e delle forzanti (sia naturali che antropiche) che li hanno influenzati. Tale ricostruzione permette di migliorare la nostra comprensione dei processi ecologici, di ridefinire i punti di riferimento sullo stato dell'ecosistema (historical baseline), e di valutare la variabilità naturale su ampia scala temporale (historical range of variation). Gli obiettivi del presente progetto di dottorato sono: i) descrivere le attività di pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli, quale principale forzante che ha agito sull'ecosistema; ii) analizzare i cambiamenti a lungo termine della struttura della comunità marina; iii) valutare ed interpretare i cambiamenti intercorsi mediante applicazione di indicatori. Allo scopo è stata condotta un'estensiva ricerca bibliografica nei principali archivi storici e biblioteche di Venezia, Chioggia, Trieste, Roma e Spalato al fine di individuare, catalogare e acquisire informazioni e dati sulle popolazioni marine e le attività di pesca nell'Alto Adriatico nel 19° e 20° secolo. La tipologia delle fonti raccolte include documenti storici e archivistici, cataloghi di specie, fonti statistiche come i dati di sbarcato dei mercati ittici e informazioni sulla consistenza delle flotte e gli attrezzi da pesca utilizzati. Si rileva come la ricerca d'archivio abbia evidenziato un'ampia disponibilità di documenti storici, inerenti sia le popolazioni marine che le attività di pesca. La tesi è organizzata in tre capitoli. Il primo è parzialmente tratto dal libro "T. Fortibuoni, O. Giovanardi, e S. Raicevich, 2009. Un altro mare. Edizioni Associazione Tegnue di Chioggia – onlus, 221 pp." e ricostruisce la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli; il secondo rappresenta una versione estesa del manoscritto "T. Fortibuoni, S. Libralato, S. Raicevich, O. Giovanardi e C. Solidoro. Coding early naturalists' accounts into historical fish community changes" (attualmente sottomesso presso rivista internazionale ISI), e ricostruisce, attraverso l'intercalibrazione ed integrazione di fonti qualitative e quantitative, i cambiamenti della struttura della comunità ittica avvenuti tra il 1800 e il 2000; il terzo capitolo analizza, mediante l'applicazione di indicatori, i cambiamenti qualitativi e quantitativi della produzione alieutica dell'Alto Adriatico dal secondo dopoguerra ad oggi (1945-2008), inferendo informazioni sui cambiamenti cui è stata sottoposta la comunità marina alla luce di diverse forzanti (manoscritto in preparazione). L'obiettivo del primo capitolo è descrivere l'evoluzione della capacità di pesca, principale forzante che storicamente ha interagito con l'ecosistema marino, in Alto Adriatico dal 1800 ad oggi. La diversificazione, sia per varietà di attrezzi utilizzati che per la molteplicità delle specie sfruttate, delle attività di pesca storicamente condotte in Alto Adriatico è un tratto caratteristico di tale area. Le differenze morfologiche e biologiche delle due sponde, occidentale e orientale, e le diverse vicende storiche e politiche, hanno portato infatti ad uno sviluppo delle attività di pesca nettamente diversificato. Sulla sponda orientale la pesca ha rappresentato, almeno fino all'inizio del 20° secolo, un'attività di sussistenza. Era praticata quasi esclusivamente nelle acque costiere, con un'ampia varietà di attrezzi artigianali e mono-specifici, concepiti cioè per lo sfruttamento di poche specie e adattati a particolari ambienti. Al contrario, lungo la costa occidentale operavano flotte ben sviluppate, come quella di Chioggia, che si dedicavano alla pesca in mare su entrambe le sponde adriatiche con attrezzi a strascico, compiendo migrazioni stagionali tra le due sponde per seguire le migrazioni del pesce. La capacità di pesca in Alto Adriatico è aumentata a partire dalla seconda metà del 19° secolo, periodo in cui si è osservato uno sviluppo sia in termini di numero di imbarcazioni che di addetti, grazie ad una congiuntura economica, sociale e storica favorevole. Fino alla I Guerra Mondiale, però, le tecniche di pesca sono rimaste pressoché invariate, e le attività erano condotte con barche a vela o a remi. Già all'inizio del 20° secolo l'Alto Adriatico era sottoposto ad un'intensa attività di pesca che, compatibilmente con le tecnologie disponibili all'epoca, riguardava principalmente le aree costiere, mentre l'attività era più moderata in alto mare. Durante la II Guerra Mondiale si è assistito al fermo quasi totale della pesca, con conseguente disarmo della maggior parte dei pescherecci. Nell'immediato dopoguerra il numero di imbarcazioni è aumentato molto velocemente, e sono state introdotte alcune innovazioni che in breve tempo hanno cambiato radicalmente le attività di pesca tradizionali (industrializzazione della pesca). Innanzitutto l'introduzione del motore, con conseguente espansione delle aree di pesca ed aumento delle giornate in mare, grazie all'indipendenza della navigazione dalle condizioni di vento. Il motore ha anche permesso l'introduzione di nuovi attrezzi da pesca, più efficienti ma al contempo più impattanti, che richiedono un'elevata potenza per essere manovrati (ad esempio il rapido e la draga idraulica). Altre innovazioni hanno determinato un miglioramento delle condizioni dei pescatori e un aumento consistente delle catture. Analizzando la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli si possono quindi distinguere principalmente due periodi diversi: pre-1950, quando aveva notevole importanza su entrambe le coste la pesca strettamente costiera, praticata con attrezzi artigianali e mono-specifici, mentre la pesca a strascico in mare aperto era prerogativa delle flotte italiane (ed in particolare di Chioggia) ed era praticata con barche a vela; il periodo successivo al 1950, che ha visto l'introduzione del motore, un aumento esponenziale del tonnellaggio e del numero di barche e la sostituzione graduale di attrezzi artigianali mono-specifici con attrezzi multi-specifici ad elevato impatto. Se nel primo periodo la pesca si basava sulle conoscenze ecologiche del pescatore, che adattava le proprie tecniche in funzione della stagione, dell'habitat e degli spostamenti delle specie, nel secondo si è visto un maggior investimento nella tecnologia e nell'utilizzo di attrezzi multi-specifici. Negli ultimi vent'anni la capacità di pesca delle principali flotte italiane operanti in Alto Adriatico si è stabilizzata su valori elevati, e in alcune marinerie all'inizio del 21° secolo è iniziata una lieve diminuzione, in linea con i dettami della Politica Comune della Pesca dell'Unione Europea. A tutt'oggi comunque lo sforzo di pesca in questo ecosistema è molto elevato; ad esempio, alcuni fondali possono essere disturbati dalla pesca a strascico con intensità superiori a dieci volte in un anno, determinando un disturbo cronico su habitat e biota. Il secondo capitolo presenta una nuova metodologia per intercalibrare ed integrare informazioni qualitative e quantitative sull'abbondanza delle specie, per ottenere una descrizione semi-quantitativa della comunità ittica su ampia scala temporale. La disponibilità di dati quantitativi sulle popolazioni marine dell'Alto Adriatico prima della seconda metà del 20° secolo è, infatti, scarsa, e la ricostruzione di cambiamenti a lungo termine richiede l'integrazione e l'analisi di dati provenienti da altre tipologie di fonti (proxy), tra cui i cataloghi dei naturalisti e le statistiche di sbarcato dei mercati ittici. Le opere dei naturalisti rappresentano la principale e più completa fonte d'informazione sulle popolazioni ittiche dell'Alto Adriatico nel 19° secolo e almeno fino alla seconda metà del 20° secolo. Consistono in cataloghi di specie in cui ne vengono descritte l'abbondanza (in termini qualitativi: ad esempio raro, comune, molto comune), le aree di distribuzione, la taglia, gli aspetti riproduttivi e altre informazioni ancillari. Sono stati raccolti trentasei cataloghi di specie per il periodo 1818-1956, in cui sono descritte un totale di 255 specie ittiche. I dati di sbarcato costituiscono l'unica fonte quantitativa per un elevato numero di specie disponibile per l'Alto Adriatico a partire dalla fine del 19° secolo. I dati utilizzati nel presente lavoro sono riferiti ai principali mercati e aree di pesca dell'Alto Adriatico e coprono il periodo 1874-2000, e sono espressi come peso umido di specie o gruppi di specie commerciate in un anno (kg/anno). Poiché i naturalisti basavano le proprie valutazioni sull'abbondanza delle specie su osservazioni fatte presso mercati ittici, porti e interviste a pescatori, è stato possibile sviluppare una metodologia per intercalibrare ed integrare le due fonti di dati, permettendo un'analisi di lungo periodo dei cambiamenti della comunità ittica. L'intercalibrazione e l'integrazione dei due datasets ha infatti permesso di descrivere, con una scala semi-quantitativa, l'abbondanza di circa 90 taxa nell'arco di due secoli (1800-2000). Mediante l'applicazione di indicatori basati sulle caratteristiche ecologiche dei taxon è stato così possibile analizzare cambiamenti a lungo termine della comunità ittica. Sono stati evidenziati segnali di cambiamento che precedono l'industrializzazione della pesca, con una diminuzione significativa dell'abbondanza relativa dei predatori apicali (pesci cartilaginei e specie di taglia elevata) e delle specie più vulnerabili (specie che raggiungono la maturità sessuale tardi). Questo lavoro rappresenta uno dei pochi casi in cui è stato studiato il cambiamento della struttura di un'intera comunità ittica su un'ampia scala temporale (due secoli), e presenta una nuova metodologia per l'intercalibrazione ed integrazione di dati qualitativi e quantitativi. In particolare le testimonianze dirette dei naturalisti – considerate per molto tempo dai biologi della pesca "aneddoti" e non "scienza" – si sono rilevate un'ottima fonte per ricostruire cambiamenti a lungo termine delle comunità marine. La metodologia elaborata in questo lavoro può essere estesa ad altri casi-studio in cui è necessario integrare informazioni qualitative e quantitative, permettendo di estrarre nuove informazioni da vecchie – e talvolta sottovalutate – fonti, e riscoprire l'importanza delle testimonianze di naturalisti, viaggiatori e storici. Il terzo capitolo affronta un'analisi quantitativa dei cambiamenti ecologici dell'Alto Adriatico, condotta mediante analisi dello sbarcato del Mercato Ittico di Chioggia tra il 1945 e il 2008 e l'applicazione di indicatori. È stato scelto questo mercato per la disponibilità di dati per un ampio periodo storico (circa 60 anni), che ha permesso di valutare i cambiamenti avvenuti in un arco di tempo in cui si è assistito all'industrializzazione, ad una rapida ascesa e al successivo declino della pesca. Chioggia rappresenta il principale mercato ittico dell'Alto Adriatico rifornito dalla più consistente flotta peschereccia dell'area, che sfrutta sia zone costiere che di mare aperto. Oltre ad un'analisi dell'andamento temporale dello sbarcato totale, sono stati applicati alcuni indicatori trofodinamici (livello trofico medio, Fishing-in-Balance, Relative Price Index e rapporto Pelagici/Demersali) e indicatori basati sulle caratteristiche di life-history delle specie (lunghezza media della comunità ittica e rapporto Elasmobranchi/Teleostei). L'utilizzo complementare di più indicatori, sensibili in misura diversa alle fonti di disturbo ecologico e riferite a diverse proprietà emergenti dell'ecosistema e delle relative caratteristiche strutturali, ha permesso di descrivere i cambiamenti avvenuti dal secondo dopoguerra ad oggi e identificare le potenziali forzanti che hanno agito sull'ecosistema. Ad una rapida espansione della pesca, cui è conseguito un aumento significativo delle catture (che hanno raggiunto il massimo negli anni '80), è seguita una fase di acuta crisi ambientale. L'effetto sinergico di diverse forzanti (pesca, eutrofizzazione, crisi anossiche, fioriture di mucillaggini) ha modificato la struttura e la composizione della comunità biologica, inducendo una graduale semplificazione della rete trofica. Fino agli anni '80 l'aumento della produttività legato all'incremento di apporto di nutrienti ha sostenuto l'elevata e crescente pressione di pesca, malgrado progressivi cambiamenti strutturali della comunità (regime-shifts), rendendo l'Adriatico il più pescoso mare italiano. Successivamente il sistema sembra essere entrato in una situazione di instabilità, manifestatasi con un drastico calo della produzione alieutica, bloom di meduse (soprattutto Pelagia noctiluca), maree rosse (fioriture di dinoflagellati potenzialmente tossici), crisi anossiche e conseguenti mortalità di massa, regressione di alcune specie importanti per la pesca come la vongola (Chamelea gallina), e fioriture sempre più frequenti di mucillaggini. L'analisi conferma che la sovra-pesca ha agito da pre-requisito perché altre forme di alterazione si manifestassero, e attualmente non sono evidenti segnali di recupero, probabilmente a causa sia di una diminuzione della produttività primaria che della pressione cronica e tuttora crescente indotta dalla pesca. L'approccio di ecologia storica utilizzato ha permesso di ricostruire la storia della pesca in Alto Adriatico, evidenziandone le dinamiche di sviluppo, i cambiamenti tecnologici, strutturali e di pressione ambientale. L'insieme delle analisi e delle fonti raccolte ha permesso di ricostruire - in termini semi-quantitativi - le attività di pesca in Alto Adriatico dal 19° secolo a oggi, analizzare i cambiamenti della comunità ittica nell'arco di due secoli, e infine approfondire le analisi per gli ultimi sessanta anni attraverso l'applicazione di indicatori quantitativi. Da questo studio emerge come già all'inizio del 20° secolo la pesca fosse pienamente sviluppata nell'area, causando cambiamenti strutturali nella comunità ittica, ben prima dell'industrializzazione. Dal secondo dopoguerra si è verificato un rapido incremento dell'intensità delle diverse forzanti antropiche, il cui effetto sinergico ha alterato profondamente l'ecosistema portandolo ad uno stato di inabilità, culminato in gravi crisi ambientali e un netto calo della produzione alieutica. ; XXII Ciclo ; 1979