Il lavoro di tesi consiste nel misurare la capacità di accoglienza della città di Roma, verificando il superamento di una o più capacità di carico (sociale, ambientale, fisica). La prima parte del lavoro è incentrata sullo studio del framework teorico sulla capacità di accoglienza urbana, sulle diverse capacità di carico e sul ciclo turistico. L'analisi della letteratura teorica ha permesso di scegliere il modello teorica di riferimento per l'analisi empirica. La seconda parte del lavoro verte sulla rassegna del framework empirico, al fine di individuare il modello matematico-statistico più appropriato per la misurazione della capacità di accoglienza. La terza parte della tesi è finalizzata alla misurazione della capacità di accoglienza urbana della città di Roma. Il modello utilizzato per tale analisi è un modello matematico di ottimizzazione vincolata e più in particolare di programmazione lineare, già usato in letteratura per identificare il numero ottimo dei tre tipi di visitatori (city users, turisti alberghieri e turisti non alberghieri) compatibile con i vincoli imposti. La funzione da massimizzare è la funzione di reddito generato dai visitatori a Roma sotto vincoli fisici come, ad esempio, il numero di parcheggi, di posti letto, di posti nei servizi di ristorazione e sotto vincoli sociali, determinati attraverso la stima di due funzioni di utilità: dei residenti che vivono di turismo e dei residenti che non vivono di turismo. A tale fine, è stato necessario inserire nei vincoli un parametro la cui variazione indica la maggiore o minore utilità dei due gruppi sociali. I risultati dell'analisi empirica sono i seguenti: il numero ottimo di turisti alberghieri ed extralberghieri, risulta superiore a quello effettivo mentre il numero di city users inferiore; inoltre il fatturato giornaliero ottimo è superiore a quello effettivo, registrando quindi un mancato guadagno per la città. Tale analisi ha inoltre permesso di mostrare i vincoli più stringenti, quelli più vicini a essere superati, i quali necessitano pertanto di maggiore attenzione da parte della politica economica.
Nella letteratura specializzata il concetto di crisi risulta variamente definito. Alcuni autori utilizzano tale termine come sinonimo di insolvenza, considerando un'impresa in stato di crisi solo nel caso in cui la stessa non fosse in grado di poter fronteggiare le proprie obbligazioni, altri definiscono la crisi come momento puntuale e conclusivo di un ciclo gestionale negativo, identificandola nella mancanza di profitti o nella perdita del capitale; altri ancora, con orientamento giuridico, considerano un'impresa in crisi, quando questa giunge al fallimento o approda ad un'altra procedura concorsuale. In ogni caso quale che sia la definizione di crisi adottata, ciò che appare rilevante è il fatto che quest'ultima sia generalmente considerata come un fenomeno patologico, che si manifesta comunque con pesanti squilibri di natura economica, patrimoniale e finanziaria. Più di trent'anni fa, in un articolo intitolato "La crisi d'impresa e suo risanamento" pubblicato sulla rivista "Banche e Banchieri", Pellegrino Capaldo individuava le cause tipiche della crisi: crisi finanziaria: quando l'azienda non ha la possibilità di procurarsi i mezzi finanziari adeguati per quantità e qualità alle esigenze di una gestione che altrimenti sarebbe economicamente equilibrata; crisi economica: quando vi è una scarsa domanda di beni e servizi oggetto della produzione dell'impresa, oppure in presenza di costi di produzione più alti della concorrenza; crisi economico-finanziaria: si verifica quando le caratteristiche del dissesto non permettono di ricondurla in particolare a nessuna delle due casistiche precedenti. Ci si trova di fronte ad uno squilibrio economico imputabile a un soverchiante carico di oneri finanziari dovuto a pesante indebitamento su investimenti che non si sono rivelati produttivi e che hanno portato a perdite negli esercizi precedenti. Le modalità di superamento della crisi assumono caratteristiche diverse a seconda delle cause che la generano ed a seconda che si parli di impresa privata o pubblica. Tralasciando le modalità di risanamento dell'impresa pubblica poiché intervengono ragioni di diverso ordine: politico, sociale, strategico-economico, giuridico, e tralasciando altresì, le norme di legge volte a facilitare il superamento delle difficoltà di imprese in crisi, nell'impresa privata il risanamento è possibile quando vi siano i presupposti per suscitare l'interesse di un nuovo capitale che intervenga in quanto percepisce la convenienza a prendere in carico la crisi poiché si intravede la possibilità di una gestione efficiente, sia dal punto di vista economico che finanziario. In presenza di una crisi finanziaria, nell'impresa privata, il risanamento appare conveniente se l'impresa è in grado di remunerare, ai saggi di mercato, il capitale occorrente per riequilibrare la struttura finanziaria o per realizzare alcuni investimenti; chiaramente questa situazione comporterà modifiche dell'assetto proprietario dell'azienda, in quanto chi si dà carico del risanamento vuole essere in condizione di controllare l'impresa e spesso accade, infatti, che l'attuale gruppo di controllo si apra in varie forme ad altri portatori di capitale, oppure rinunci al controllo (ponendosi in posizione di minoranza) o ceda addirittura l'impresa a chi è in grado di trarla dalla crisi. Nell'ipotesi di crisi economico-finanziaria, il superamento richiede che i creditori rinuncino in tutto o in parte ai loro crediti o alla prestabilita remunerazione, tali crediti infatti sono da ritenersi già interamente o in parte perduti e quindi non recuperabili. Di norma la rinuncia dei creditori risulta essere la strada più vantaggiosa perché consente sia un maggiore recupero del credito, sia l'avvio di proficui rapporti di fornitura una volta che l'impresa sia stata risanata. Nel caso di crisi economica, infine, i presupposti per il risanamento ricorrono quando, anche attraverso forme di integrazione con altre imprese, si ritiene soddisfatta una condizione minima e cioè che il risanamento consenta di recuperare, sugli investimenti in essere, più di quanto sarebbe possibile mediante lo scioglimento dell'impresa. All'interno delle diverse forme di integrazione tra imprese, una che assume una certa rilevanza ai fini del risanamento di una situazione di crisi è sicuramente quella dell'appartenenza ad un gruppo, dove con la parola gruppo si fa riferimento ad un complesso di due o più aziende esercitate da distinte società, aventi, quindi, ognuna un proprio soggetto giuridico, ma controllate tutte dallo stesso soggetto economico, ovvero vi è la presenza di una persona o di un gruppo di persone che hanno il potere di determinare l'indirizzo di gestione su più imprese che si presentano autonome sotto il profilo giuridico. In questi casi l'economicità aziendale, cioè la capacità dell'impresa a remunerare congruamente i fattori della produzione (condizione indispensabile per durare nel tempo), non va più vista in riferimento alla singola impresa, ma va considerata in relazione al contributo che essa da e/o riceve in un contesto economico più ampio ma economicamente unitario. Non sono rari i casi in cui imprese precedentemente in perdita vengono mantenute in vita per i vantaggi che esse arrecano al gruppo cui appartengono o che, isolatamente considerate, non sono economiche e invece lo diventano entrando a far parte di un gruppo per i vantaggi che ne traggono. In dottrina si esprime questo concetto parlando di: economicità in seno al gruppo; economicità in funzione del gruppo; economicità collettiva o macroeconomicità. Con la prima espressione si intende fare riferimento a quelle imprese che fuori dal gruppo non sono economiche (e quindi sarebbero destinate alla liquidazione o, peggio, al fallimento) e diventano economiche entrando a far parte di un gruppo di imprese con le quali creare sinergie operative, o altri vantaggi gestionali ed organizzativi, con risparmio di risorse e miglioramento dei risultati. Le imprese del secondo tipo, invece, sono imprese che, nonostante i vantaggi, neanche dentro il gruppo riescono ad essere economiche ma vengono ugualmente mantenute in vita per i vantaggi che esse creano alle altre aziende del gruppo e l'eventuale loro anticipata liquidazione creerebbe al gruppo maggiori danni della perdita da essa periodicamente sofferta. In questi casi è conveniente per il gruppo accollarsi ogni anno la perdita di detta impresa compensata dalle utilità che ne traggono dal suo mantenimento in vita. Analogo ragionamento può essere fatto riguardo all'economicità collettiva o macroeconomicità. Qui ci troviamo di fronte analogamente ad imprese non economiche ma che vengono mantenute in vita, o addirittura costituite, in virtù delle utilità arrecate alla collettività di una determinata zona, di una regione o dell'intero paese. Si parla, a tale proposito, di economie esterne all'impresa o all'azienda valutata ed evidenziata dall'Ente pubblico (Stato, Regione, Comune.) che le controlla e che contribuisce a mantenerle in vita. Con l'analisi effettuata sull'andamento del Gruppo Fiat nel periodo compreso tra il 1998 ed il 2006 si è studiata la situazione di un gruppo che nel periodo oggetto di studio si è trovato ad affrontare tematiche del tipo delineato e si è voluto dimostrare come il Gruppo sia riuscito a porre fine ad uno dei periodi più neri della sua storia pur trovandosi in uno stato di profonda crisi al termine degli anni novanta, culminata poi con le perdite rilevate negli anni tra il 2001 ed il 2004 a causa della mancata sostituzione di prodotti ormai obsoleti e dell'incalzante competitività dei concorrenti giapponesi; tuttavia il Gruppo è riuscito a tornare all'utile nel 2005, proseguendo il trend positivo negli anni successivi fino al 2009, anno negativo per tutto il settore auto. Dall'analisi del bilancio di Fiat Auto S.p.A., società capogruppo, è emerso come l'andamento economico/finanziario della holding abbia ricalcato quello complessivo di gruppo. Il risultato positivo ottenuto da Fiat Auto S.p.A. nel 2005 non è frutto dell'attività industriale (tanto che l'utile operativo è risultato ancora negativo anche se migliore degli anni precedenti) ma è dovuto principalmente a fattori straordinari, come, accordi presi dal management negli anni precedenti; è sufficiente ricordare il mancato esercizio dell'opzione Put con la quale Fiat avrebbe potuto vendere a General Motors la residua partecipazione in Fiat Auto Holdings BV e che invece ha reso alla casa torinese un indennizzo di 1.550 milioni di euro. Ciò nonostante, Fiat Auto S.p.A. è stata mantenuta in vita per le sinergie con le altre aziende del gruppo e per i vantaggi d'immagine per l'intero gruppo di appartenenza, al punto che è notizia di questi giorni che il 2010 per Fiat è stato l'anno del ritorno all'utile ed ha superato tutti i target e le previsioni degli analisti. Il consiglio di amministrazione del gruppo ha annunciato che gli utili netti si sono attestati a 600 mln. di euro contro gli 848 persi nel 2009, mentre i ricavi sono saliti del 12,35% a 56,3 miliardi. Netta riduzione, quasi un dimezzamento, per l'indebitamento: da 4,4 a 2,4 miliardi. La casa torinese, inoltre, ha confermato gli obiettivi finanziari previsti nel piano 2010 – 2014 che erano stati anticipati in aprile. Il consiglio di amministrazione proporrà all'assemblea degli azionisti il pagamento di un dividendo complessivo pari a 155,1 mln. di euro. Nel 2010, per quanto riguarda il settore auto, sono stati conseguiti ricavi per 27,9 miliardi, in crescita del 6%. L'effetto della contrazione dei volumi delle vetture è stato compensato dall'incremento delle vendite dei veicoli commerciali leggeri (+27%). Complessivamente sono state 2.081.800 le auto ed i veicoli commerciali leggeri consegnati, con un calo del 3,2%. Le consegne 2010 includono circa 13.500 unità di prodotti Chrysler, Jeep e Dodge: l'avvio dell'attività di distribuzione di questi marchi attraverso la rete commerciale europea del gruppo è stato completato. Nel quarto trimestre il mercato dell'auto ha proseguito la riduzione in Europa (-8,9%) e in Italia (-23,8%) rispetto al 2009. In particolare la quota del gruppo è stata in Italia del 28,5% (-3%) e in Europa del 6,8% (-1,5%). A dimostrazione che il risultato ottenuto è frutto esclusivamente dell'attività industriale, l'amministratore delegato ha sottolineato che Fiat non sta lavorando a cessioni di asset, ma non esclude operazioni del genere in futuro.
Nel presente lavoro si fornisce un riferimento teorico al tema della migrazione nel capabilities approach di A. Sen e si studia la qualità di vita dei migranti sotto un approccio multidimensionale in grado di percepirne i vari aspetti. L'obiettivo della ricerca è duplice: 1. misurare la variazione del benessere degli immigrati prima e dopo la migrazione; 2. studiare quali determinanti implicano una migliore (o peggiore) performance in termini di benessere del migrante. Per studiare l'incremento del benessere e le determinanti di questo si sviluppa una ricerca empirica basata sulla somministrazione di questionari agli immigrati ecuadoriani residenti a Roma ed a New York. Dopo un'attenta revisione della letteratura si utilizzerà il capabilities approach tanto nell'interpretazione del fenomeno migratorio, come nella concezione del well-being, come nella giustificazione dell'interesse per la migrazione nell'ambito dell'economia dello sviluppo. Il suddetto approccio ci guiderà, pertanto, nella stesura delle conclusioni a proposito dell'incremento del benessere del migrante ecuadoriano nelle due città ospitanti, e nell'individuazione delle determinanti che influiscono nel suddetto benessere. La domanda aperta era: la qualità di vita del migrante ecuadoriano, nelle due città, effettivamente migliora?
L'Università e la ricerca sono una ricchezza fondamentale per la società. Per tornare ad essere uno strumento davvero efficace di crescita e di promozione sociale e personale in un Paese avanzato, l'Università deve cogliere con coraggio la richiesta di rinnovarsi, rendersi trasparente nella condotta e nei risultati, dimostrare con la forza dei fatti di saper progettare un futuro ambizioso. È per questo che il sistema universitario italiano è stato ed è tuttora oggetto di un radicale processo di riforma, che ha condotto all'autonomia decisionale e finanziaria dei singoli Atenei. Parallelamente al processo di autonomia concessa, il Governo ha percepito la necessità di inserire nuovi sistemi di controllo e governance all'interno del sistema universitario. L'introduzione di questi sistemi ha una duplice giustificazione: in primo luogo il Governo vuole comprendere in che modo vengono impiegate le risorse pubbliche. Il secondo motivo è valutare, anche in modo comparativo, l'operato delle singole Università, che non sempre hanno mostrato un uso efficiente ed efficace delle risorse loro assegnate. Scopo del presente lavoro consiste proprio nel comprendere il rapporto tra valutazione e controllo di gestione delle Università e il sistema universitario italiano e proporre un modello di valutazione e controllo adatto alla realtà italiana. La legge Gelmini in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio, recentemente approvata, ha riaperto il dibattito sull'Università e in particolare sull'importanza della valutazione e del controllo in ambito universitario. Negli ultimi anni l'uso dei termini valutazione e controllo è indubbiamente cresciuto in modo esponenziale nella Pubblica Amministrazione, ma di contro va notato che ad essi non si è accompagnata una effettiva crescita dell'utilizzo degli stessi, come strumento di conoscenza e di sostegno per le attività della P.A. Ciò è avvenuto anche a dispetto delle normative vigenti che impongono strumenti di analisi e valutazione degli impatti a sostegno di ogni attività legislativa o di regolamentazione. Ancora una volta ci si rende conto che in Italia la cultura della valutazione e del controllo è poco radicata. Purtroppo, soprattutto nel sistema universitario, il quale è inevitabilmente molto complesso e, conseguentemente, difficilmente valutabile, vi è l'assenza di procedure di lavoro, ben sperimentate in altri Paesi, che prevedano il ricorso diffuso ad analisi quantitative degli impatti nel breve e medio periodo, basate anche sulla consultazione e sulla partecipazione degli interessati. Se venisse adottato questo approccio, si potrebbero rendere più consapevoli e razionali le decisioni e si potrebbero anche accrescere l'efficacia e l'efficienza del sistema universitario italiano aumentandone, al contempo, la trasparenza e la democrazia. La presente riflessione sul significato e sullo stato dell'arte della valutazione e del controllo del sistema universitario e delle sue componenti è gradualmente affrontata e sviluppata nel corso dei quattro capitoli in cui il presente lavoro è suddiviso secondo la sequenza di seguito schematizzata. Nel primo capitolo si ripercorre l'evoluzione più recente della legislazione in materia universitaria, rivolgendo particolare attenzione a tutte quelle norme riguardanti l'autonomia, la valutazione e la programmazione delle attività che incidono notevolmente sui fabbisogni informativi degli Atenei che il sistema di controllo di gestione potrebbe soddisfare. Si passa poi alla descrizione dell'attuale sistema universitario italiano alla luce della riforma degli ordinamenti didattici, iniziata con il D.M. n. 509 del 1999 e portata a compimento con il D.M. n. 270 del 2004, che ha introdotto una nuova articolazione dei corsi di studio (il cosiddetto 3+2), e della più recente legge 30 dicembre 2010, n. 240, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 14 gennaio 2011, meglio conosciuta come legge Gelmini. Il secondo capitolo è dedicato all'analisi e allo studio della valutazione e dell'insieme di pratiche ad essa riconducibili, partendo dal suo rapporto con gli organi di governo universitari. A conclusione di tale capitolo, alla luce dei più interessanti contributi scientifici in materia di effetti prodotti dalla valutazione in ambito accademico internazionale, si perviene ad uno schema per l'identificazione e l'analisi dell'impatto della procedura valutativa nelle Università. In appendice al paragrafo finale, si riporta un'interessante intervista realizzata dalla redazione di 'Finanza in Chiaro' al prof. Max Beber, Director of studies in Economics presso il Sidney Sussex College di Cambridge, nonché Affiliated Lecturer presso il centro di studi internazionali sempre all'Università di Cambridge. In tale intervista, pubblicata in rete il 5 gennaio 2009, il prof. Beber spiega i motivi che, a suo giudizio, rendono il sistema universitario inglese un esempio di eccellenza per tutto il mondo accademico, compreso quello italiano. Nel terzo capitolo, una volta tracciato un quadro di sintesi delle fonti normative che disciplinano la gestione contabile degli Atenei e delineati i principali aspetti che differenziano la contabilità finanziaria da quella economico-patrimoniale, viene proposto il superamento dei tradizionali sistemi di contabilità basati sulle attività (Activity Based Costing e Activity Based Management) da parte del metodo dell'Activity Based Budgeting. Con esso, infatti, il processo di determinazione dei costi di Ateneo viene innescato partendo dalle caratteristiche distintive dei prodotti e dei servizi offerti, e attraverso il collegamento con le attività che ne garantiscono la realizzazione si giunge alla definizione degli impegni di budget. Questa diversa impostazione dovrebbe facilitare l'integrazione fra i diversi momenti della formulazione della strategia, della determinazione del costo del prodotto, della gestione operativa dei costi. Il quarto capitolo viene sviluppato a partire da una considerazione di fondo: non è ancora del tutto compreso il contributo che i sistemi di programmazione e controllo possono fornire al miglioramento dell'attività quotidiana svolta nelle Università. Troppo spesso, infatti, il controllo di gestione è confuso con l'attività svolta dai Nuclei interni di valutazione, il cui compito è verificare il corretto utilizzo dei fondi pubblici assegnati, effettuando al riguardo anche comparazioni di costi e rendimenti. In questo capitolo, invece, il controllo di gestione viene inteso come meccanismo operativo a supporto dell'azione di governo accademico attraverso un insieme di indicatori di monitoraggio sistematico dei risultati globali e parziali di Ateneo (facoltà, dipartimenti, centri di ricerca e di formazione, corsi di laurea, progetti di ricerca, ecc…). Infine, vengono descritte le principali funzionalità del software Contabilità Integrata di Ateneo (CIA) elaborato da CINECA. Esso dà evidenza empirica della possibilità fino ad oggi considerata solo teorica di introdurre in organizzazioni non-profit i principi gestionali alla base del decentramento delle responsabilità economiche tipici delle aziende private senza mettere in ombra, anzi valorizzando, il ruolo sociale di queste importanti istituzioni per il nostro Paese. In particolare, attraverso la descrizione delle specificità tecnico-contabili del sistema integrato, si intende testimoniare la possibilità concreta di introdurre innovazioni fondamentali dal punto di vista gestionale anche in aree così burocratizzate e rigide come quelle connesse al funzionamento delle procedure amministrative. La disponibilità di informazioni economiche a diverso grado di analiticità che il sistema integrato consente di elaborare rappresenta, infatti, il prerequisito contabile indispensabile per diffondere una cultura dell'accountability a diversi livelli organizzativi e creare le condizioni per la conduzione di processi di sviluppo dell'intero sistema universitario che poggia sulla consapevolezza economica delle scelte prese a livello di singolo Ateneo.
This dissertation is devoted to the discussion of the role of traceability system in improving food safety and compares the legislations and regulatory practices between EU and China. . It also adopts a law and economics perspective, which contributes to our understanding of the reasons why traceability functions and how the laws should be drafted to facilitate such functions. The dissertation consists of six chapters and is arranged as follows. Chapter 1 is the introduction, focusing on recent government intervention on food safety issues in China. Chapter 2 reviews the literature on the traceability system focusing on its relationship with the food safety. Chapter 3 focuses on the legislations and regulations on food safety and traceability in E.U. Chapter 4 gives a detailed discussion on the Food Safety Law (FSL) and related regulatory reform in China. Chapter 5 is concerned with the traceability system, both the traceability system along the supply chain and the GIs. It presents a case study of the Longjing Tea and provides a vivid picture about how the traceability system functions in China. Chapter 6 concludes the dissertation. The main finding of the dissertation is that China has been learning from and catching up with the European food safety regulation, there is still significant improvements that could be made. It should at least increase the enforcement of laws and regulations and unify the segmented and multiple governmental regulations. The creation of a national traceability system will become a good opportunity for China to improve its food safety, as it will provide precious information needed by regulators, producers and consumers.
Punto di partenza dell'intera disciplina era, nell'ottica del legislatore comunitario del 2000, l'abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, laddove, tuttavia, nelle intenzioni del legislatore, alla base dell'intervento normativo non poteva certo ravvisarsi un intento limitativo della libertà contrattuale, bensì un mero intento sanzionatorio dell'abuso. Una limitazione tout court della libertà contrattuale si porrebbe in contrasto, infatti, con il nostro sistema di diritto, laddove la Costituzione sancisce, da un lato, all'art. 41, la libertà di iniziativa economica, mentre il codice civile fonda l'intero sistema contrattuale sul principio dell'autonomia delle parti, statuendo all'art. 1322 c.c. che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Ci si riferisce al problema dell'abuso nel contratto, e dunque alla forma storicamente nuova che ha assunto l'esercizio abusivo della libertà contrattuale. Le recenti discipline sul divieto di abuso di posizione dominante, sulle clausole abusive nei contratti con il consumatore, sul divieto di abuso di dipendenza economica e, quella qui trattata, sull'abuso negli accordi sui pagamenti, testimoniano l'attenzione riservata dal legislatore al fenomeno dell'esercizio abusivo della libertà contrattuale. In queste discipline non viene in considerazione il contratto in sé considerato, ma l'esercizio della libertà contrattuale (manifestata nella imposizione unilaterale del regolamento d'interessi). In tutte queste figure, infatti, si registra una evoluzione del paradigma contrattuale, non più fondato sulla negoziazione e sull'accordo, ma sulla adesione (nel senso della accettazione e della legittimazione) di una parte alle condizioni contrattuali imposte dall'altra. Nell'ottica della direttiva comunitaria, poi, la libertà contrattuale incontrava più ampie limitazioni, sanzionandosi, con norme imperative e vincolanti, ogni accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardo che fosse gravemente iniquo per il creditore. In sede di recepimento della direttiva 2000/35/CE, avvenuta con l'emanazione del d.lgs. n. 231/2002, l'ambito della nullità veniva ulteriormente ampliato, scomparendo ogni riferimento ai motivi che potrebbero aver soggettivamente indotto il debitore ad ottenere termini più lunghi per il pagamento o conseguenze meno gravi in caso di ritardo, e venendo meno anche ogni riferimento al concetto di abuso della libertà contrattuale. In ogni caso, perché l'accordo derogatorio rispetto alla data del pagamento o alle conseguenze del ritardato pagamento potesse considerarsi giuridicamente rilevante, doveva risultare gravemente iniquo per il creditore, sulla base di una valutazione rimessa al giudice, e propedeutica alla dichiarazione di nullità. Ed è proprio attorno al concetto di grave iniquità e alle sue conseguenze giuridiche che è incentrato il presente lavoro. Non può non sottolinearsi, infatti, come si tratti di un concetto piuttosto inusuale nel nostro ordinamento, e ancor più inusuale risulta la comminatoria della nullità per una clausola gravemente iniqua. 2 Proprio al fine di coordinare tale concetto con quelli che sono i principi alla base del nostro ordinamento, si è tentato di equiparare la grave iniquità al concetto di abuso; tale equiparazione appare in realtà percorribile solo considerando il termine abuso nella sua accezione più moderna, priva del riferimento allo stato soggettivo dei contraenti. La grave iniquità si configura come il primo elemento costitutivo dell'art. 7 d. lgs. 231/2002, accanto alla posizione di debolezza di una delle parti contrattuali, rispetto alla quale si assiste ad una inversione dell'onere della prova: spetta al contraente presuntivamente forte (che nel caso della normativa in commento è il debitore) dimostrare l'assenza di una condizione di debolezza in capo alla controparte. Un aspetto controverso attiene alla rilevanza, nella struttura dell'art. 7, anche dello stato soggettivo della parte presuntivamente forte, ovvero il debitore. Sulla base di una interpretazione più conforme al nostro ordinamento, anche alla luce di altre normative speciali quale quelle in materia di tutela dei consumatori, di subfornitura e di tutela della concorrenza, sembra doversi ritenere che la ratio della norma sia quella di sanzionare e correggere uno squilibrio che attiene al contenuto del contratto, a prescindere dai comportamenti concretamente posti in essere dai contraenti all'atto della conclusione del medesimo, e in un'ottica di garanzia dell'ordinato svolgimento dei traffici commerciali. Tale interpretazione della clausola generale di cui all'art. 7 pare essere in linea con quella che è la tradizione giuridica italiana, la quale accoglie ormai anche un diverso concetto di abuso del diritto, avulso da ogni indagine sugli stati soggettivi dei contraenti, ma preordinato invece ad una valutazione in termini di ragionevolezza, ancorata a criteri meramente oggettivi. Deve, di conseguenza, ritenersi ormai superata quella diversa interpretazione che attribuisce rilievo allo stato soggettivo, inteso come contrarietà alla buona fede oggettiva, facendolo assurgere a presupposto dell'abuso di autonomia contrattuale. La ratio dell'intervento legislativo, identificabile nell'intento di riequilibrare le posizioni contrattuali accordando una tutela specifica al contraente «debole», ha portato a sussumere la nullità di cui all'art. 7 nel novero delle c.d. nullità di protezione; le correlative norme di protezione introducono un regime speciale di favore per categorie di soggetti deboli, i quali risulterebbero pregiudicati dall'applicazione della disciplina generale a causa degli aspetti che li rendono sostanzialmente «diseguali» rispetto agli altri contraenti. Tale esigenza di riequilibrare in concreto le posizioni dei singoli operatori di mercato trova riscontro anche nell'ambito dello stesso diritto interno: a livello costituzionale, in particolare, la protezione delle categorie di contraenti deboli si pone come funzionale, da un lato, al corretto funzionamento del mercato, secondo il precetto di cui all'art. 41, 1º comma Cost., dall'altro, alla realizzazione, sul piano contrattuale, dell'uguaglianza sostanziale dei consociati, ai sensi dell'art. 3, comma secondo Cost. Anche nel codice civile viene attribuito autonomo rilievo alla posizione di inferiorità in cui possa trovarsi uno dei contraenti, laddove l'art. 1341, 2º comma, c.c. fornisce apposita tutela al contraente che aderisca ad un regolamento contrattuale predisposto unilateralmente da controparte, statuendo che non hanno effetto le condizioni generali di contratto elencate dalla norma, qualora le relative clausole non siano state specificamente sottoscritte per approvazione dell'aderente. Dall'analisi dell'art. 7, posto a confronto anche con la normativa in materia di tutela dei consumatori e di subfornitura, emerge come l'intervento del giudice volto a realizzare l'equilibrio 3 contrattuale si configuri come un intervento di carattere equitativo, in quanto preordinato a rimuovere lo squilibrio causato dalla posizione di debolezza di un contraente rispetto all'altro. Ed è soprattutto la legislazione speciale che ha fatto emergere rilevanti novità nell'ambito della disciplina della nullità, novità da ricercare non tanto sul terreno delle nullità non dichiarate (cioè delle «nullità virtuali»), ma piuttosto nell'ambito delle nullità espressamente previste dal legislatore, e cioè delle nullità testuali. Sia la legislazione a tutela dei consumatori che quella sui ritardi di pagamento, in particolare, hanno comportato il ricorso sempre più frequente all'uso della nullità in contesti caratterizzati: a) dalla circostanza che il rimedio invalidatorio sia utilizzato allo scopo di fornire «protezione» in via diretta e immediata all'interesse di uno dei contraenti, prima ancora e a parte la tutela assicurata anche a interessi di carattere generale; elemento, questo, che sul piano della disciplina si traduce nella «riserva della legittimazione» (a far valere la nullità) in capo al solo contraente protetto; b) dalla circostanza che la nullità si presenti non tanto come nullità del contratto nella sua interezza (non essendo, per lo più, interessati gli elementi essenziali dell'atto: e cioè l'oggetto, la causa, l'accordo, la forma), quanto piuttosto come nullità di singole clausole; c) dalla circostanza che nel caso in cui, appunto, venga (inizialmente) in gioco la nullità di singole clausole e non dell'intero contratto la sanzione della nullità venga limitata alle singole clausole, prevedendosi la sua non estensione all'intero contratto (c.d. «nullità parziale necessaria»): regola strettamente legata a quella della legittimazione riservata al contraente protetto. La qualificazione di tale nullità come nullità di protezione rende necessario analizzare il suo rapporto con la più generale categoria di nullità contemplata dall'ordinamento. Essa si configura, assieme alla annullabilità, come una species del più ampio genus dell'invalidità, in contrapposizione all'inefficacia: mentre quest'ultima attiene al profilo della produzione degli effetti giuridici, la prima concerne la regolarità del contratto. È noto come, tradizionalmente, nell'ambito del sistema di diritto privato italiano la nullità sia predisposta a tutela di interessi generali che trascendono il singolo interesse individuale, e di ciò ne è chiara conferma la previsione della legittimazione a farla valere in capo a chiunque ne abbia interesse. Nell'ambito della normativa comunitaria in tema di ritardi di pagamento, invece, la nullità è predisposta a tutela del creditore, considerato il contraente debole in quanto pregiudicato dallo squilibrio del contratto. Se tale previsione può, ad un primo tempo, apparire anomala, soccorre a dare coerenza al sistema la presenza nel nostro ordinamento della categoria della nullità relativa, in cui la violazione del c.d. ordine pubblico di protezione assurge a causa stessa di nullità, tale da giustificare la previsione di casi di invalidità relativa a tutela degli interessi particolari del contraente in posizione di debolezza. Prima dell'intervento riformatore del 2012, la riformulazione della clausola negoziale nulla e quindi la sua riconduzione ad equità si configurava come una delle due alternative rimesse al discrezionale apprezzamento del giudice, accanto alla applicazione delle previsioni legali. L'alternativa (applicazione dei termini legali/reductio ad equitatem) aveva consentito di rilevare la natura necessariamente parziale della nullità in commento, oltreché una sottile similitudine tra questa 4 nullità speciale e il rimedio della rescissione per lesione ex art. 1447 c.c., che anche rinviene il suo fondamento nello squilibrio delle prestazioni dedotte in contratto. Con la riforma del 2012 il legislatore ha eliminato gli ampi poteri del giudice di rimodulare gli accordi gravemente iniqui, attribuendo valenza esclusiva al meccanismo della sostituzione automatica di clausole, facendo un espresso rinvio agli articoli 1339 e 1419, secondo comma del codice civile. Il meccanismo sostitutivo presenta peculiarità rispetto allo schema del combinato disposto degli artt. 1419 e 1339 c.c., poiché le clausole nulle ex art. 7 sono sostituite di diritto dalle norme del d. lgs. n. 231/2002, le quali non (sempre) sono imperative, come pretenderebbe lo schema codicistico. Nel nuovo tessuto normativo del d. lgs. n. 231/2002 invero – accanto alla stragrande maggioranza di norme dispositive rinforzate, che sono quindi derogabili salvo il limite della grave iniquità – vi sono anche norme imperative. In tali ipotesi, la violazione della norma imperativa determinerebbe la nullità della clausola quale ipotesi di nullità virtuale ex art. 1418 c.c. e il regime applicabile sarebbe quindi quello di diritto comune ex art. 1419, 1 comma, c.c., con la rilevante conseguenza che la validità dell'intero contratto potrebbe essere travolta nel caso di ritenuta essenzialità della clausola nulla. È peraltro percorribile un'altra via ed estendere anche a tali fattispecie di nullità virtuali il regime previsto dall'art. 7, comma 1, D. lgs. n. 231/2002. Tutto ciò è possibile solo se si ritiene che le nullità di protezione oltre che testuali siano anche virtuali1. Sarà così possibile ritenere applicabile il regime della nullità parziale necessaria ex art. 7 d. lgs. 231/2002, pur se nel caso di specie la nullità derivi non dall'esito di un giudizio di grave iniquità della clausola, ma dal contrasto della singola clausola con un divieto previsto da una norma imperativa del d. lgs. n. 231/2002. Le argomentazioni a favore di tale ipotesi si fondano sulla possibilità di applicare analogicamente il regime delle c.d. nullità speciali (sul presupposto che non si tratterebbe più di ipotesi da considerare eccezionali)2. La Direttiva n. 7/2011/UE, di cui il d. lgs. 192/2012 di riforma della normativa del 2002 costituisce attuazione, aveva stabilito che la grave iniquità della clausola doveva sfociare alternativamente nell'adozione di due rimedi: la nullità della clausola ovvero il risarcimento del danno. L'art. 7, par. 1, direttiva n. 7/2011/UE così disponeva: "Gli Stati membri dispongono che una clausola contrattuale o una prassi relativa alla data o al periodo di pagamento, al tasso dell'interesse di mora o al risarcimento per i costi di recupero non possa esser fatta valere oppure dia diritto a un risarcimento del danno qualora risulti gravemente iniqua per il creditore". Premesso che l'impossibilità di far valere la clausola o la prassi iniqua è pacificamente interpretato come nullità, l'alternativa del rimedio risarcitorio è stata tuttavia ignorata dal legislatore delegato che ha sancito la nullità testuale della clausola gravemente iniqua e – soltanto con la l. 30 ottobre 2014, n. 161 – ha chiarito che il rimedio risarcitorio, previsto dalla direttiva, si applicasse nei soli casi in cui fossero poste in essere delle "prassi gravemente inique". In realtà, la dicotomia risarcimento/nullità non è chiara poiché in genere il danno provocato da un atto nullo è eliminato mediante la dichiarazione di 1 Così D'amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità) , in I Contratti, 2009, 7, 732-744 2 In tal senso v., ad es., Passagnoli G., Nullità speciali, Milano, 1995, 173 5 nullità, così come un atto nullo può astrattamente attribuire il diritto al risarcimento del danno, purché vengano integrati gli estremi dell'illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c.3 Per effetto dell'intervento della Legge Europea 2013- bis è stato innanzitutto modificato il comma secondo dell'art. 4 d. lgs. 231/2002 che attualmente prevede che fatti salvi i commi terzo quarto e quinto del medesimo articolo, in cui è concesso alle parti concordare un termine di pagamento superiore a quanto previsto dal comma secondo, il periodo di cui dispone il debitore per corrispondere il pagamento non potrà essere superiore ai consueti termini stabiliti dal decreto 231, e cioè: - trenta giorni dalla data di ricevimento della fattura da parte del debitore o di una richiesta di pagamento dal contenuto equivalente; - trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento; - trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi; - trenta giorni dalla data dell'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data. La modifica ha dunque lo scopo di rafforzare il carattere imperativo dei termini di pagamento fissati dalla legge, a maggior protezione dei creditori. La Legge europea 2013-bis modifica, in secondo luogo, la disciplina delle transazioni commerciali in cui debitore sia una pubblica amministrazione (comma 4), introducendo limiti più stringenti alla derogabilità dei termini di pagamento. In particolare, fino ad oggi le parti potevano concordemente derogare ai termini indicati nel comma 2 dell'articolo 4 quando la loro pattuizione era giustificata dalla natura o dall'oggetto del contratto oppure dalle circostanze esistenti al momento della conclusione dello stesso. La nuova previsione restringe i casi nei quali la concorde volontà delle parti può intervenire: la pattuizione relativa ad un termine di pagamento superiore ai consueti termini previsti al comma 2 deve essere oggettivamente giustificata dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche. Restano invece invariati sia l'obbligo delle parti che vogliano derogare ai termini di cui al comma 2 di pattuirlo espressamente per iscritto, sia il divieto di incrementare i termini oltre i sessanta giorni. 3 Sui rapporti tra invalidità e illiceità si rinvia a M. Franzoni, Libro IV, artt. 2043-2059: fatti illeciti, Bologna 2009, in Commentario Scialoja-Branca 6 La sottile modifica introdotta dal legislatore conferma ulteriormente come ad assumere rilievo siano in ogni caso circostanze oggettive, giustificate unicamente dalla natura del contratto. Ulteriore novità introdotta dalla Legge europea 2013-bis è rappresentata dall'art. 7-bis, riguardante le prassi praticate nel commercio in riferimento ai termini di pagamento, al saggio degli interessi moratori e al risarcimento per i costi di recupero. Tali prassi, ai sensi del disposto della norma di nuova introduzione, non devono essere gravemente inique per il creditore. Ove lo siano, quest'ultimo ha diritto al risarcimento del danno. Ai fini dell'accertamento della grave iniquità delle prassi sopra elencate, il giudice ricorre ai criteri già previsti dall'articolo 7, comma 2, in tema di nullità delle clausole contrattuali. Ai sensi di tale ultima disposizione, pertanto, il giudice dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso, come il grave scostamento dalla prassi commerciale che determini una violazione dei principi di buona fede e correttezza; la natura della merce o del servizio oggetto del contratto; l'esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ove le parti vi abbiano derogato, ai termini di pagamento, all'importo forfetario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero. Anche in tal caso, pertanto, il giudice è tenuto a compiere una valutazione caso per caso. Come sopra anticipato, il rimedio risarcitorio viene riferito alle sole prassi gravemente inique, figura che è stata in un primo momento ignorata dal legislatore del 2012, tanto da suggerire l'intervento correttivo compiuto con la legge 30 ottobre 2014, n. 161. A fronte, infatti, dell'alternativa prevista dalla direttiva n. 7/2011/UE in presenza di una clausola contrattuale o di una prassi relativa alla data o al periodo di pagamento, al tasso dell'interesse di mora o al risarcimento per i costi di recupero, il legislatore del 2012 ha accolto unicamente la previsione relativa alla nullità della clausola e non anche quella del rimedio risarcitorio. Peraltro, ancor prima di tale intervento correttivo, era forse possibile ritenere che le prassi gravemente inique sarebbero state comunque incapaci di penetrare nel regolamento contrattuale, poiché infatti gli articoli 1340 e 1374 c.c. impediscono che un uso negoziale – nel quale si sostanzia una prassi gravemente iniqua – possa derogare ad una norma inderogabile quale è appunto l'art. 7 d. lgs. 231/2002, che sancisce la nullità delle clausole gravemente inique. Il nuovo articolo descrive poi due casi di prassi che si presumono gravemente inique. La prima è l'esclusione dell'applicazione degli interessi di mora, che priverebbe di qualsiasi tutela il creditore in caso di ritardo nel pagamento. A tal proposito, non è ammesso provare che la clausola non sia iniqua, trattandosi di una presunzione assoluta. La seconda presunzione di grave iniquità riguarda la prassi che esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui all'articolo 6 del decreto 231, che riconosce al creditore il quale, ai fini del recupero delle somme spettanti e non corrisposte, abbia dovuto sostenerne le spese, il diritto al rimborso di queste ultime da parte del debitore. Dunque, qualora le parti nel contratto escludano tale risarcimento, tale clausola si presume gravemente iniqua. 7 Tale disciplina delle prassi inique, ponendosi come rafforzamento della prescrizione di cui all'art. 7 del d. lgs. 231/2002, si pone anch'essa in un'ottica di tutela del creditore. Tuttavia, in tal caso, il rimedio apprestato è rappresentato dalla tutela risarcitoria, trattandosi di prassi e non di clausole contrattuali. La centralità della normativa sui ritardi di pagamento viene ad essere ribadita alla luce della modifica apportata all'art. 1284 c.c., disciplinante il tasso di interesse dovuto dal debitore, ad opera del Decreto Legge n. 132 del 2014. Con il D.L. 12.9.2014, n. 132 il legislatore ha stabilito che, in mancanza di una determinazione delle parti, si applica il saggio di interessi previsto dal d. lgs. 9.10.2002, n. 231 da quando inizia il procedimento di cognizione ordinario ovvero la causa sia deferita agli arbitri. Occorre però precisare che questa nuova disposizione non è applicabile ai giudizi già in corso e si applica, ai sensi dell'articolo 17 del Decreto Legge 12 settembre 2014, n. 132, come modificato dalla Legge 10 novembre 2014, n. 162 (Legge di conversione), ai procedimenti azionati a partire dall'11 dicembre 2014, cioè dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione. Pertanto, per effetto di tale modifica, la regola del tasso moratorio prevista dal decreto 231 viene ad essere estesa a qualsiasi debito, anche se non derivante da transazione commerciale e anche se una delle parti sia un privato e non rivesta le qualifiche soggettive di cui alla normativa comunitaria. Tale previsione è sintomatica del fatto che la disciplina speciale di cui al d. lgs. 231 del 2002 si innesti pienamente nel sistema del diritto privato italiano laddove è lo stesso legislatore a prevederne la applicazione qualora le parti non abbiano determinato la misura degli interessi. Ciò rappresenta un ulteriore tentativo di repressione, a largo raggio, dei ritardi di pagamento nonché, soprattutto, una ulteriore conferma della centralità assunta da tale normativa la quale, sulla base di una fattispecie circoscritta alle transazioni commerciali e ispirata dall'esigenza di apprestare tutela ad una categoria di soggetti determinati, è giunta ad elaborare principi suscettibili di un'applicazione generalizzata.
Il tema della seguente ricerca è lo studio dell'efficienza della spesa pubblica a seguito del processo di federalismo fiscale che ha interessato e sta interessando l'Italia. L'analisi è condotta a livello regionale per mezzo delle cosiddette metodologie di frontiera, utilizzando le informazioni elaborate all'interno del progetto della banca dati dei Conti Pubblici Territoriali. La prima parte del progetto riguarda la spesa per la fornitura di alcune importanti public utilities, la cui efficienza è stata valutata con l'approccio Data Envelopment Analysis (DEA). La restante parte del lavoro si focalizza invece, sulla spesa per l'istruzione scolastica. In particolare, dopo averne illustrato la dinamica e la sua articolazione economica a livello regionale, il ricorso alla metodologia della Stochastic Frontier Analysis (SFA) ha consentito di stimare la frontiera di costo minimo per l'istruzione in Italia.
Il presente lavoro è dedicato ad indagare il nesso di causalità che lega ciclo economico e trend di crescita, proponendo il punto di vista di due approcci che adottano un'analisi strettamente integrata di breve e lungo periodo: quello delle teorie del ciclo reale e quello delle teorie della domanda. Tali approcci sono stati scelti in quanto ritenuti emblematici di come il contrasto tra impianti teorici di partenza si rifletta in un analogo conflitto sull'interpretazione dell'operare del sistema economico – nei suoi andamenti di breve e lungo periodo – e della relazione che unisce tali andamenti, con le conseguenti implicazioni di politica economica. In particolare, l'approccio RBC – fondato sui principali postulati neoclassici – offre una definizione di ciclo economico completamente subordinata a quella di trend, essendo il primo spiegato come la deviazione delle variabili reali da un sentiero prefissato di lungo periodo. In questo senso, il ciclo è concepito come un prodotto dell'andamento di fondo del sistema economico, e si arriva ad affermare che il trend esercita un'influenza dominante sul ciclo. Al contrario, l'approccio "demand side" sostiene che il ciclo sia in grado di incidere sul sentiero di crescita sperimentato dal sistema economico. Queste conclusioni sono rese possibili da una base teorica che assegna un ruolo, di breve come di lungo periodo, ai fattori di domanda. Viene mostrato, inoltre, come la peculiare interpretazione della relazione ciclo-trend induca, nel caso in cui si ragioni in termini di domanda, ad assegnare alle politiche macroeconomiche un ruolo di notevole rilievo, laddove, nel caso opposto di focus sui fattori di offerta, a ritenerle del tutto prive di senso. In particolare, nella misura in cui la crescita è ritenuta dipendente dalle realizzazioni di breve periodo, intervenire sul ciclo tramite politiche di stabilizzazione equivale alla possibilità di determinare il sentiero di sviluppo del sistema economico. Al contrario, laddove le fluttuazioni cicliche siano concepite come un mero attributo del trend, viene meno qualsiasi facoltà di incidere sia sugli andamenti di breve termine, sia sulle tendenze di fondo del sistema economico, le quali si troveranno piuttosto posizionate su un sentiero predefinito, verso cui l'economia gravita in modo automatico.
Il lavoro oggetto della presente ricerca dottorale si propone di analizzare, nei cinque capitoli di cui si compone, le forme di tutela spettanti all'investitore "tradito" in conseguenza dell'inosservanza, da parte degli intermediari finanziari, degli obblighi informativi su di loro incombenti nella prestazione dei servizi di investimento. Nel primo capitolo, ci si sofferma, preliminarmente, sulla disciplina speciale del mercato mobiliare, sempre avendo a riguardo il tema dell'informativa: infatti, prendendo le mosse dalla prima disciplina organica dell'intermediazione mobiliare (legge 2 gennaio 1991, n. 1), l'analisi normativa esamina i vari istituti tesi alla riduzione del "gap" informativo esistente tra le parti contrattuali. Seguendo tale filo conduttore, si valutano, poi, le innovazioni apportate dagli interventi legislativi successivi, come ad esempio il decreto "Eurosim", e si procede alla rilevazione dei profili critici della materia in esame, così come consolidata, dapprima, dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF), e, poi, dalla disciplina MiFID, finanche trattando i temi della nuova normativa comunitaria di riforma mediante il sistema di prossima introduzione della direttiva MiFID II e del regolamento Mifir. Dopo aver esaminato il quadro normativo di riferimento, la trattazione prosegue con l'analisi dei rimedi esperibili dall'investitore in caso di violazione dei doveri informativi, suddivisa appositamente in due capitoli, ove le tutele sono prese in considerazione a seconda degli effetti che comportano: restitutori, trattati nel secondo capitolo, ovvero risarcitori, trattati, invece, nel terzo. La ricerca, in tale fase, tiene conto anche degli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni, analizzando, in particolar modo, le autorevoli sentenze "gemelle" delle Sezioni Unite del 2007, che hanno comportato un processo di adesione, pressoché unanime, da parte delle decisioni a queste successive. Nel 2 quarto capitolo, invece, seguendo una linea di continuità con i primi tre, si analizza la tenuta giuridica degli orientamenti assunti dalle Sezioni Unite, soprattutto con riguardo alle forme finanziarie evolute, invalse nei tempi recenti, quali, ad esempio, i contratti derivati. L'ultima parte del lavoro – quale sintesi conclusiva delle argomentazioni sviluppate durante tutta la ricerca – tenta di far emergere il punto focale della disciplina di tutela dell'investitore in tema di informativa: il passaggio dalla trasparenza all'educazione finanziaria. In tale contesto, si esaminano i programmi di educazione finora posti in essere a livello nazionale, europeo e internazionale, analizzandone, congiuntamente, la loro rilevanza ed efficacia, in uno con un esame critico dei relativi profili problematici, nonché delle prospettive finali, giungendo fino a prospettare un auspicio de jure condendo in punto di tutela dell'investitore.
1) Green financing at international level 2) CDM, ODA and EU ETS compared 3) Public and private investments for environmental protection: The case of livestock The global-level powerful threats to world nature caused by climate change make that environmental protection -in turn- can be maximized only if global-level policies are applied within the International Community. The financing of "green" projects aimed at reducing the environmental impacts of climate change and fostering emission reduction is an essential part of those global-level policies. However, very few data and rigorous analysis exist concerning the actual amount of financing flows for environmental projects across the world and across the years and their breakdown in terms of financing typologies and sectors. As a matter of fact, especially before "Kyoto's System", Scholars did not approach this issue correctly, generally "making generalizations based on only a few cases" (Hicks, Parks, Roberts and Tierney, 2008). Accordingly, this research aims to investigate the actual amount and the characteristics of green financing flows destined to environmental protection in the last decades and to split the financing according to the different typologies. A quantitative comparison among the different institutional systems underlying green financing is also provided, together with significant examples for two very important green sectors (i.e. the renewable energy sector and the livestock sector). The research is composed of three essays: 1) The first essay addresses the issue of quantifying the Aid Flows (Official Development Assistance framework, ODA) destined for developing and poor countries for the period 1980-2010. The focus of the essay is set on the estimation of actual Aid Flows financed for environmental protection, the definition of their historical trends and volatile fluctuations and the identification of the main actors in terms of Aid Donors and Aid Recipients. The quantitative analyses undertaken in the essay permit to better define the perimeter of Green Aid, its main international actors in absolute and normalized terms (both for Donors and for Recipients) and to define interesting "development paths" with respect to Agricultural Aid, Energy Aid and Fuel production. 2) The second essay approaches the interaction between ODA, CDM and EU ETS institutional frameworks both qualitatively and quantitatively. It provides an extensive outline of the existing Literature, that scarcely addresses the interaction between these institutional frameworks with holistic perspectives, and describes the innovative Research Design applied. An econometric regression is performed in order to assess if the introduction of CDM projects brought positive effects in the field of renewable projects for the period 2005- 2012 in terms of energy efficiency (dependent variable), with specific focus on renewable energy projects. Yet, a Difference in Differences analysis (DD) is presented in order to estimate the impact of the introduction of the second Phase of the EU ETS System (treatment), on CDM renewable projects (treated group) with respect to ODA renewable projects (control group). 3) The third essay provides a significant example of green financing applied to the livestock sector. The essay has the target of mapping the livestock investments and development strategies of the last decade and connecting them to sustainable outcomes. This target derives from the need to have a clear vision of the current status-quo of the livestock sector by means of assessing the main public and private players operating in it, the most important market trends, the geographical localization of investments and the financial flows connected. For all the three essays, specific policy recommendations have been defined, taking advantage of the analysis of the main findings and commenting similar recommendations provided by the Literature. GENERAL CONCLUSION TO THE THREE ESSAYS Interesting results emerge from the exercise of quantifying and determining the actual amount of financing flows for environmental projects across the world and across the years. With regard to the first essay, the review of Literature retrieved shows that previous Scholars systematically failed in correctly estimating the actual amount of green financing, mainly due to the use of incomplete/partial data, and that a general lack of quantitative indicators exists. Similarly, the Literature concerning ODA Flows does not deal with green sectors alone, but it generally considers all sectors as a whole, defining no causal relations specifically using green Aid as dependent (or independent) variable. Regarding renewable energy projects (essay 2), the findings retrieved permit to assess that the introduction of CDM projects (and Kyoto's Protocol) brought positive effects in the field of renewable projects for the period 2005-2012. Indeed, CDM projects were much less volatile, had much lower average cost ratio and definitely appeared more energy efficient with respect to similar ODA projects. From an econometric perspective, the regression results confirm the fact that the introduction of the Kyoto protocol has a very positive impact on the energy efficiency of renewable energy projects. Indeed, the dummy for CDM projects ( 3) shows a negative and statistically significant coefficient, contributing in reducing the dependent energy cost ratio ( ). The results of the DD Model applied show that the impact of Phase II is positive in terms of cost ratio reduction, but the DD coefficient is not statistically significant, implying that additional research is needed in this field. Concerning the green financing for the livestock sector (essay 3), the main quantitative findings of the essay reveal that the overall trade for meat and products of animal origin recorded significant growth rates during the period considered (2001 – 2010) and that meat trend seems to be totally aligned with general world trade. Yet, new players (with new strategies) are emerging for each livestock sub-sectors (such as China, Asia without India & China) while others are leaving world market shares. Regarding private investments, China is simultaneously the country hosting the bigger number of corporations and recording the higher overall livestock-product sales for 2013. The analysis of other investments shows that Livestock financing trend by multilateral Donors has not been constant during the period 2001-2011, while CDM livestock projects are mainly hosted by Brazil, China and Mexico. The specific policy recommendations deriving from a global interpretation of the three essays permit to conclude that: In the global context of financing environmental protection, Kyoto system has an important role to play, especially for the future generations and "Ecological debt" shall find a place within future world negotiations on climate change and debt relief. More important, these two paramount themes shall be treated simultaneously by the International Community in order to put on the same balance past, current and future credits and liabilities own both by developing countries and by developed ones. The reform of International Institutions towards a greater importance given to the protection of the environment (the so-called "Greening of Institutions") is another very important theme for any future policy structure aimed at increasing environmental protection worldwide. The interaction between ODA, CDM and EU ETS systems is very complex and the need to increase the Literature on this regard definitely arise. It is evident that EU ETS is going much faster in terms of market attitude than other similar Carbon markets and maybe even faster than Kyoto Protocol itself. Accordingly, a better coordination shall be enhanced between ODA, CDM and EU ETS systems, in order to avoid misalignment in terms of market attitude. Furthermore, the importance of no-market Carbon Funds for poor countries is vital for both ODA and Kyoto institutional systems and there is an urgent need to find consensus on the International Community with respect to the market orientation of post-Kyoto carbon markets and their accessibility for Developing and Poor countries.
This dissertation is concerned with the role of firms' Technological Capabilities (TCs). The focus is on how key firms' industrial patterns allow firms' to build TCs, export, and innovate in three Latin American countries: Argentina, Brazil, and Chile. The picture we present in this study highlights the constant need for investments in indigenous efforts to reach external markets or to innovate. The centre of the analysis differs from most of the seminal studies in capabilities, both in developed and developing countries. Those studies, Voss, 1988; Prahalad and Hamel 1990; Leonard-Barton 1992; Katz, 1997; Romijn, 1997; Pietrobelli, 1999; Wignaraja, 1998, 2002 and 2008; Figueiredo, 2002, 2003 and 2008, Iammarino et al., 2008, focused on case studies or single sector analysis. Indeed, this dissertation performs an empirical evaluation through firms' micro-data of whole industrial sectors, allowing a comparative overview of these countries. We find evidence that firms in these countries dedicate most of their technological efforts to building capabilities at basic levels. However, in some cases these firms reach foreign markets and are able to innovate, conditioned by their specific characteristics and their surrounding innovation system. In other less frequent cases, firms dedicate increasing efforts to realize the state of the art regarding their technological performance, becoming outstanding cases of industrial and economic success. Brazil is of special interest as a leading case of industrial development among emerging countries. Here, again, we witness heterogeneous industrial performance of firms, within specific sectors. Institutions (research centres , universities, etc.) and targeted government programs have been playing a crucial role in fostering industrial firms to export and to innovate. This dissertation aims to disentangle part of this complexity whilealso presenting some starting points for future research. In the following chapters, we will propose different theoretical approaches and empirical methodologies to encourage the reader to engage in critical thinking about Latin America industrial development reality and needs.
L'elaborato presentato a conclusione del corso dottorale in economia aziendale rappresenta il frutto di una ricerca tesa ad approfondire gli aspetti relativi alla rilevazione della componente intangibile del capitale di funzionamento. In un contesto economico nel quale i principali vantaggi competitivi vengono ricondotti in misura sempre maggiore alla gestione e valorizzazione delle risorse immateriali e delle relative informative interne ed esterne, si è voluto valutare se ed in quale modo gli sviluppi compiuti dalla ricerca in merito allo studio degli intangibili siano supportati da una parallela evoluzione degli strumenti di rendicontazione e reportistica tradizionali. Sempre in considerazione del variato quadro di riferimento e del ruolo di primo piano assunto dagli intangibili, si è cercato altresì di comprendere se il bilancio redatto sulla base dei vigenti principi e regole contabili venga ancora ritenuto capace di fornire una veritiera e corretta determinazione del patrimonio e del reddito d'impresa, oltre che consentire una efficace comunicazione nei confronti del management e degli stakeholders. E' stata pertanto condotta una ricerca di tipo qualitativo che, dopo una sintetica analisi, (i) dei principali concetti economico/aziendali di riferimento, (ii) delle norme e prassi contabili applicabili dalle imprese italiane per la redazione del bilancio di esercizio, (iii) e delle caratteristiche del mercato nazionale, è stata focalizzata sulle risorse immateriali e sulla loro massima espressione rinvenuta, da un punto di vista aziendalistico, nel capitale intellettuale (IC). In seguito all'approfondimento delle disposizioni dettate dai principi e dalle regole contabili vigenti in merito agli intangibles, si è proceduto a valutare la loro rilevazione nel bilancio d'esercizio, mettendone in risalto criticità e limiti. Si è così avuto conferma del contrasto tra la dinamicità caratterizzante gli studi teorici sulle risorse immateriali e la rigidità dei relativi aspetti contabili. Sulla base delle ricerche condotte, è stato confermato che gli importanti sviluppi compiuti dalla ricerca in merito allo studio degli intangibili non risultano supportati da una parallela evoluzione della disciplina contabile e dei tradizionali strumenti di rendicontazione e reportistica: gran parte degli elementi immateriali (ad esempio, gli intangibili "strutturali" o le singole componenti classicamente ricomprese nell'IC) di norma non sono rilevabili contabilmente o, nel caso, sono spesati direttamente a conto economico senza essere riconosciuti come attività, con importanti effetti di natura reddituale e patrimoniale. La rigidità del quadro contabile di riferimento nei confronti delle risorse immateriali vede contrapporsi pareri discordanti sui dettami relativi alla rilevazione della componente intangibile del capitale di funzionamento. Detta problematica non appare di facile soluzione in quanto richiede di trovare un delicato punto di equilibrio tra: a) il rispetto: - delle differenze concettuali e sostanziali tra capitale di funzionamento e capitale economico; - della natura del bilancio d'esercizio e della sua costruzione in funzione della determinazione di un reddito tendenzialmente distribuibile; - del principio di prudenza; - del criterio di rilevazione al costo storico e delle ragioni alla base del suo utilizzo; - della necessità di una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e reddituale della società; - del divieto di adottare politiche di bilancio tese a perseguire impropri accrescimenti del patrimonio d'impresa e del reddito; b) e l'opportunità di: - coadiuvare e rafforzare le informazioni sugli intangibili comunicabili attraverso strumenti extracontabili; infatti, la presenza nell'attivo dello Stato Patrimoniale di dati quantitativi relativi a risorse immateriali consente all'impresa di evidenziare sinteticamente ed immediatamente la diversa composizione delle proprie attività, fornendo agli stakeholders riferimenti numerici redatti sulla base di principi contabili universalmente riconosciuti (e, quindi, confrontabili) e assoggettabili al controllo di un revisore legale dei conti, cui aggiungere, attraverso altri strumenti di rendicontazione, tutti quei dettagli quantitativi e qualitativi non trasmessi per il tramite dei dati di bilancio; - evitare di sottostimare a causa di un eccesso di prudenza talune categorie di beni immateriali, provocando una distorsione delle risultanze di bilancio; - far pervenire ad una più corretta correlazione tra costi e ricavi, garantendo il rispetto della competenza economica e la giusta determinazione del reddito di esercizio e del capitale di funzionamento. In tale contesto, il ricorso a strumenti innovativi alternativi al bilancio potrebbe aiutare a gestire e veicolare le informazioni relative agli intangibili, ma risulta in ogni caso difficile immaginare che possa condurre di per sé alla risoluzione della problematica in oggetto, restando anche il fatto che il bilancio di esercizio, sebbene non rappresenti l'unico strumento al quale poter fare riferimento, dovrebbe comunque costituire l'elemento principe per illustrare le caratteristiche reddituali e patrimoniali d'azienda, ivi comprese (per quanto possibile) quelle legate alla sua sfera intangibile. Nelle considerazioni conclusive, sulla base di tutti gli elementi analizzati, sono proposti degli spunti di riflessione il cui sviluppo, da effettuarsi in concerto con i soggetti direttamente interessati ad una evoluzione pratica della questione, è ritenuto significativo al fine della risoluzione della problematica esaminata.
La trattazione si compone di tre capitoli, dalla lettura dei quali emerge una indagine della tematica che ha preso le mosse dalla analisi del principio del consenso traslativo per approdare alla recente normativa di recepimento della direttiva 83/2011, passando per l'approfondimento della disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna e nelle altre normative interne in materia di contratti a distanza che si sono susseguite nel corso degli anni. Come si è appena detto il lavoro muove dalla disamina della normativa civilistica in materia di conclusione del contratto, retta dal principio del consenso traslativo espresso nell'art. 1376 c.c., norma che accoglie il c.d. "principio consensualistico", in virtù del quale la stessa manifestazione di volontà che costituisce il negozio è sufficiente non solo per far nascere l'obbligazione, ma anche per trasferire o costituire diritti in capo ad altri. Il consenso, dunque, anche senza la consegna e il pagamento del prezzo, è sufficiente per il passaggio della proprietà (o altro diritto) e a tale affermazione segue, quale corollario, la compenetrazione nel titulus del modus dell'acquisto, dal momento che il contratto, oltre al valore di regolamento di privati interessi diviene indice della circolazione dei beni, al posto dell'antica traditio. La sola manifestazione di volontà delle parti contraenti determina, dunque, contestualmente all'acquisto della proprietà, l'acquisto dello jus possidendi, in conseguenza della stipulazione. Nelle ipotesi in cui il contratto abbia ad oggetto uno dei diritti previsti nell'art. 2643 c.c. e negli altri casi in cui l'ordinamento prescrive la necessità della trascrizione, l'acquisto del diritto, da parte del compratore, si verifica erga omnes prima ancora del compimento delle formalità pubblicitarie legali, salva l'eventuale risoluzione, ex tunc, dell'acquisto stesso quale conseguenza della applicazione delle regole sulla pubblicità ed in particolare per l'effetto dichiarativo ad essa proprio. Si può, tuttavia, osservare che la regola del consenso traslativo ha, dunque, nel nostro 2 ordinamento, valenza generalizzata pur se sono rinvenibili diverse eccezioni che ne restringerebbero l'ambito di applicazione comportando, secondo alcuni, un "ridimensionamento" del principio stesso. La presenza di deroghe, tuttavia, non varrebbe ad intaccare la generalità del principio ben potendo con essa coesistere la scelta di politica legislativa secondo la quale relativamente a taluni diritti il trasferimento o la costituzione sia subordinato all'osservanza di particolari oneri formali. Il principio espresso nella disposizione citata, determina una macroclassificazione all'interno dei contratti di alienazione: si distinguono in contratti ad effetti reali, nei quali gli effetti reali sono immediati e contratti ad effetti obbligatori nei quali l'effetto reale è mediato dal sorgere di un vincolo obbligatorio. E' risultato necessario, a questo punto, effettuare una analisi degli effetti che il principio volontaristico reca con sé, operando un coordinamento tra la norma di cui all'art. 1376 c.c. e quella di cui all'art. 1465 c.c., dal momento che è proprio in relazione al momento in cui il trasferimento del diritto ha luogo che viene decisa, in via di principio, la questione relativa al soggetto sul quale incombe (secondo le norme dispositive in materia di vendita) il rischio del perimento della cosa per causa non imputabile al venditore. L'individuazione del momento in cui si produce l'effetto traslativo è rilevante, pertanto, anche ai fini della disciplina del passaggio dei rischi, avendo il nostro ordinamento adottato, di massima (facendo salve le eccezioni relative alle vendite di beni di consumo) il criterio della proprietà e non, come avviene in altri Paesi o in base alle convenzioni di vendita internazionale, quello della consegna e neppure quello del contratto. Di regola, perciò, il rischio contrattuale del perimento, del deterioramento della cosa o dei vizi giuridici sopravvenuti è in capo al compratore, a partire dal momento in cui si sia prodotto l'effetto traslativo e indipendentemente dalla consegna o dal pagamento del prezzo (obbligazione alla quale il compratore sarà tenuto dal momento del prodursi dell'effetto traslativo). Il legislatore del '42 considera, pertanto, assorbente il 3 trasferimento del diritto che eleva a criterio unico ed esclusivo di allocazione del rischio contrattuale (res perit domino); ciò con riferimento alle vendite non obbligatorie, giacchè in queste ultime il rischio continua a gravare sul venditore fino al verificarsi del trasferimento del diritto. Di conseguenza in esse, ove la cosa perisca per causa non imputabile ad alcuna delle parti, prima del verificarsi del trasferimento del diritto, il contratto si risolverà a norma dell'art. 1463 c.c. (salva la concentrazione sull'altro bene dedotto nella vendita alternativa e salvo l'ostacolo alla risolubilità nei casi di vendita di genere illimitato). Quanto detto fino a tale momento necessita di raffronto con il disposto dell'art. 1510 c.c. che si occupa del luogo della consegna nel caso di vendita di cose mobili precisando che nel caso di vendita con trasporto, "il venditore si libera dall'obbligo della consegna rimettendo la cosa al vettore o allo spedizioniere" (ove per rimessione si intende la concreta presa in consegna del bene da parte del vettore o dello spedizioniere). Nel caso in cui si tratti di vendita di cose generiche, la consegna suddetta equivarrà anche come atto di individuazione ai sensi dell'art. 1378 c.c. La formulazione letterale della norma ha indotto parte della giurisprudenza e della dottrina a ritenere che la consegna al vettore o allo spedizioniere possa essere equiparata alla consegna al compratore, così esaurendosi l'obbligo di consegna gravante sull'alienante. Tale conclusione non si è ritenuta, tuttavia, condivisibile giacchè all'affidamento del bene all'incaricato del trasporto non consegue l'acquisizione della disponibilità dello stesso da parte del compratore, la quale rimane, di regola, al venditore che conserva il potere di impartire direttive al vettore. Dopo aver compiuto una breve disamina del quadro normativo municipale si è passati all'analisi della disciplina dei contratti inter absentes, dal momento della formazione dell'accordo a quello del trapasso della proprietà dal venditore all'alienatario. Il secondo capitolo inizia con l'illustrazione del procedimento di formazione dei contratti fra persone non presenti contestualmente nel luogo di conclusione del contratto, attraverso una analisi della 4 evoluzione storica della dottrina e della giurisprudenza in materia con un approccio comparatistico. In seguito si passa alla esposizione della disciplina contenuta nella Convenzione dell'Aja del 1964 (LUVI) e, più approfonditamente della Convenzione di Vienna del 1980. Quest'ultima in tema di formazione del contratto individua nella disposizione di cui all'art. 14 quali siano i requisiti minimi affinchè una proposta di concludere un contratto possa configurarsi come proposta in senso tecnico. Pertanto, dopo aver genericamente indicato che la proposta contrattuale deve essere sufficientemente precisa e deve contenere la volontà del proponente di obbligarsi in caso di accettazione, individua i requisiti che debbono sussistere affinchè una proposta possa dirsi sufficientemente precisa. La norma poc'anzi citata, come si vedrà nel corso del lavoro, non ha un equivalente nel nostro diritto interno, che, infatti, difetta di una norma contenente requisiti specifici al ricorrere dei quali si possa rinvenire una proposta in grado di dispiegare effetti. Quanto al momento a partire dal quale la proposta produce effetti, la norma di cui all'art. 15, I° comma della Convenzione stabilisce che essa acquista efficacia solo quando è stata portata a conoscenza del destinatario e, sotto tale aspetto, la legge uniforme non introduce modifiche rispetto al quadro normativo di diritto interno. La soluzione prescelta presenta, tuttavia, delle peculiarità rispetto alla disposizione di cui all'art. 1335 cod. civ., in base alla quale tutte le manifestazioni di volontà si reputano conosciute nel momento in cui pervengono all'indirizzo del destinatario; tali differenze valgono a rendere la soluzione adottata in sede internazionale più idonea a garantire una maggiore certezza nei traffici giuridici. Punto centrale della analisi della disciplina contenuta nella Convenzione di Vienna attiene, tuttavia, al profilo relativo alla consegna dei beni e agli effetti da essa prodotti, in relazione al quale l'art. 31, pur non discostandosi significativamente dalla precedente normativa uniforme, introduce delle modifiche notevoli; essa, anzitutto si riferisce semplicemente alla consegna, senza però darne una definizione precisa lasciando così che il contratto ne determini il concreto contenuto. 5 Significativa è la circostanza che si prevede che quando la cosa venduta deve essere consegnata in un luogo determinato, il venditore si libera dall'obbligo di consegnarla non già con il trasferimento del possesso, ma semplicemente mettendo la cosa a disposizione del compratore in quel luogo. Tale regola, come meglio si vedrà in seguito, ha imposto un adattamento del regime riguardante il passaggio del rischio al compratore: mentre infatti è rimasto fermo il principio che, nella vendita con trasporto, il rischio passa al compratore con la consegna della cosa al vettore, nel caso in cui la consegna debba avvenire in un luogo determinato occorre non solo che il venditore abbia messo la cosa a disposizione del compratore, ma anche che questi non abbia adempiuto l'onere di ritirarla tempestivamente e che, nel caso in cui il luogo della consegna sia diverso dal domicilio del venditore, il compratore sappia che la cosa è stata messa a sua disposizione. Inoltre, sempre con riferimento alla consegna, deve segnalarsi che l'art. 53 della convenzione impone al compratore, accanto all'obbligazione di pagare il prezzo anche l'obbligo di prendere in consegna la merce che secondo una parte della dottrina, dovrebbe essere considerato come una obbligazione autonoma, la cui violazione sarebbe da configurarsi come inadempimento contrattuale. La Convenzione di Vienna muta radicalmente prospettiva abbandonando la pretesa di una definizione unitaria di consegna proponendo solo una descrizione analitica dei vari tipi con cui essa si attua nella realtà del commercio internazionale; conseguentemente ne risulta una disciplina profondamente diversa anche con riguardo al passaggio dei rischi e agli obblighi del venditore. Sotto tale ultimo aspetto la Convenzione esplicita gli atti che il venditore deve compiere per liberarsi dal suo obbligo e per i rischi si articolano varie ipotesi che disciplinano il momento in cui, malgrado la perdita o il deterioramento delle merci, il compratore deve corrispondere il prezzo convenuto. Con particolare riferimento alla tematica relativa al passaggio del rischio, da un'analisi complessiva del testo della Convenzione, emerge che l'affidamento della merce al 6 trasportatore non può considerarsi sufficiente affinchè il venditore possa considerarsi liberato dal rischio. Sempre nell'ambito del secondo capitolo si è proceduto alla illustrazione della disciplina dettata nella direttive comunitarie e nel codice del consumo relativamente ai contratti a distanza e, per quel che più interessa, alla tematica del passaggio del rischio. Quanto alle prime si può osservare che l'impianto e le soluzioni adottate dalla Convezione di Vienna, presa in esame nella precedente sezione, sono stati assunti a modello dal legislatore comunitario in sede di predisposizione della direttiva 99/44/CE. Con riferimento al codice del consumo, come è noto il D. Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24 ha dato attuazione alla Direttiva 1999/44/CE prevedendo l'inserimento della disciplina della vendita dei beni di consumo nel paragrafo 1 bis della sezione II del capo I del titolo III del libro VI del codice civile attraverso l'introduzione degli artt. da 1519 bis a 1519 nonies. In tal modo l'impianto codicistico fu integrato con un articolato di forte valenza consumeristica finalizzato ad adeguare alle esigenze del mercato, tutele, garanzie e responsabilità di determinati tipi di vendita. A tale novella legislativa conseguirono difficoltà circa il raccordo della stessa con la normativa sulla vendita di cose mobili, contenente una serie di rimedi, specifici per la natura delle cose vendute ed eccezionali rispetto ai principi generali in tema di contratto, ispirati alle esigenze di celerità delle risoluzioni delle controversie e di certezza delle contrattazioni. Sicchè si pose il problema dell'applicazione della specifica normativa del codice alle vendite dei beni di consumo, problema reso ancor più acuto dall'esistenza di una profonda lacuna nella direttiva de qua. Dall'impianto normativo delineato emergeva, dunque, che l'unica consegna giuridicamente rilevante fosse quella che procurava la materiale disponibilità della cosa al consumatore-destinatario (momento rilevante anche ai fini della responsabilità del venditore per "qualunque difetto di conformità esistente al momento della consegna" - art. 1519 quater cod. civ.). In tale variegato panorama normativo si poneva in discussione la 7 configurazione della condotta giuridicamente rilevante per la liberazione del venditore dall'obbligazione di consegna, nonchè il criterio di distribuzione dei rischi della complessiva operazione economica. Con lo scopo di creare una normativa di settore, volta ad armonizzare e riordinare le varie discipline e di fornire un'ampia tutela al consumatore, inteso quale soggetto debole del rapporto contrattuale, nel 2005 è stato emanato il decreto legislativo n. 206, che ha espunto dal codice civile gli artt. da 1519 bis a 1519 nonies, trasfondendoli negli artt. 128 ss. Vero motivo ispiratore prima dell'art. 1519 ter, I comma c.c. e del nuovo art. 129 cod. cons. è il concetto di "conformità al contratto" del bene oggetto di alienazione, individuandolo nell'idoneità all'uso al quale servono beni dello stesso tipo ovvero nella corrispondenza alla descrizione fatta dal venditore in sede di stipulazione del contratto. Sulla base del tenore letterale della norma appena citata si possono definire conformi al contratto anche quei beni che possiedono le qualità dei beni presentati dal venditore come modello o campione, ovvero presentano le qualità e le prestazioni abituali di beni dello stesso tipo; sono, altresì, conformi al contratto quei beni idonei all'uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato portato da quest'ultimo a conoscenza del venditore, il quale abbia accettato anche per fatti concludenti. La norma prosegue escludendo che vi sia difetto di conformità tutte le volte in cui il consumatore fosse a conoscenza del difetto e non potesse ignorarlo con l'ordinaria diligenza ovvero nel caso in cui tale difetto sia stato cagionato dal consumatore con istruzioni o materiali. Come si può agevolmente notare, il difetto di conformità era stato concepito dal legislatore italiano indipendentemente dalla presenza di vizio, colpa o dolo, che, invece, caratterizzavano le disposizioni a riguardo disposte dal codice civile. Operato il raffronto tra la normativa generale, quella comunitaria e quella di settore la trattazione prosegue attraverso l'analisi del corpo normativo della direttiva 2011/83/UE, cui è dedicato il terzo ed ultimo capitolo, relativamente all'aspetto inerente il momento del passaggio del 8 rischio nei contratti a distanza, normativa che ha introdotto una tutela più avanzata per i consumatori, aggiungendo un altro significativo tassello nella formazione di un diritto uniforme europeo dei contratti dei consumatori (considerando n. 7). La normativa appena citata, anzitutto, amplia in modo considerevole la nozione di contratto a distanza (come anche di contratto negoziato fuori dai locali commerciali), giungendo ad estenderla a qualunque "regime organizzato di vendita o prestazione di servizi a distanza, senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l'uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino al momento della conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso". Da tale definizione debbono rimanere esclusi i casi in cui i siti web offrono informazioni solo sul professionista, sui beni o servizi che presta e sui suoi dati di contatto e non anche sulle modalità di conclusione del contratto. Per l'aspetto che qui interessa, nel considerando n. 51 della suddetta direttiva si legge che particolarmente problematico e fonte di contenzioso è proprio il frangente attinente alla consegna dei beni, compresi quelli persi o danneggiati durante il trasporto, e la consegna parziale o tardiva. Intento palesato dal legislatore comunitario è proprio quello di armonizzare la normativa nazionale in ordine al momento in cui dovrebbe avvenire la consegna, facendo in modo, però, che le condizioni e il momento del trasferimento della proprietà dei beni rimangano assoggettati alla normativa nazionale. Con specifico riguardo all'ipotesi in cui i beni vengono spediti al consumatore dal professionista (nel caso di perdita o danneggiamento), la direttiva predispone una tutela più ampia e concreta nei riguardi del primo, stabilendo che egli debba essere tutelato contro ogni rischio di perdita o danneggiamento dei beni che avvenga prima che abbia preso fisicamente possesso dei beni medesimi. Con riguardo a tale momento di trasferimento del rischio, è opportuno considerare che può dirsi entrato in possesso di un bene, il consumatore che lo abbia materialmente ricevuto; quando, in altri termini, abbia acquisito un controllo su di esso, avendone accesso, anche tramite un terzo da lui 9 indicato, per utilizzarlo come proprietario. Viene però fatto salvo il caso in cui il consumatore abbia incaricato il vettore del trasporto dei beni, dal momento che, in tale ipotesi, il legislatore comunitario sposta il trasferimento del rischio della perdita o danneggiamento, in capo al consumatore, al momento della consegna dei beni al vettore. La medesima disciplina è applicabile nel caso in cui spetti al consumatore stesso prendere in consegna i beni, dal momento che in tale caso l'assunzione del rischio coinciderebbe con l'apprensione materiale del bene oggetto di contratto. Della consegna si occupa l'art. 18 della direttiva di cui si discorre, il quale, fatto salvo un diverso termine pattuito dalle parti, stabilisce che il professionista debba consegnare i beni "mediante il trasferimento del possesso o del controllo fisico" sugli stessi senza indebito ritardo e comunque non oltre trenta giorni dalla conclusione del contratto. Ove tale adempimento non venga compiuto dal professionista è riconosciuto al consumatore il diritto di sollecitare il primo ad effettuare la consegna entro un termine supplementare appropriato alle circostanze; ove la consegna non avvenga neppure entro tale termine, il consumatore ha diritto di risolvere il contratto. Nell'ipotesi in cui per la consegna sia stato fissato un termine e questo debba, tenuto conto delle circostanze, essere considerato essenziale, non trova applicazione il termine legale di trenta giorni e se il professionista omette di effettuare la consegna entro tale termine, il consumatore ha diritto alla risoluzione del contratto ipso iure. Al verificarsi di tale conseguenza, il professionista è tenuto al rimborso, senza ritardo, di tutti gli importi versati dal consumatore in esecuzione del contratto, fatti salvi, in ogni caso, gli ulteriori rimedi riconosciuti al consumatore dalla legislazione nazionale. L'attuazione della direttiva de qua è intervenuta a seguito del D. Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 il quale ha novellato, tra gli altri, gli artt. 60-61 e 63 del codice del consumo, dettati in tema di consegna dei beni e al passaggio del rischio di perdita o danneggiamento degli stessi, introducendo una regolamentazione più analitica delle conseguenze 10 dell'inadempimento anche sotto il profilo della responsabilità connessa alla consegna. Le disposizioni di cui agli artt.61 e 63 fanno esclusivo riferimento al contratto di vendita e vanno ad aggiungersi agli artt. 128-135 già presenti nel codice del consumo. La direttiva svincola il trasferimento dal conferimento del possesso, prevedendo che sia sufficiente che il consumatore abbia anche solo il "controllo fisico" sui beni acquistati; tale formulazione potrebbe rendere idonea quale prova dell'avvenuta consegna anche il conseguimento della semplice detenzione del bene, anche ad opera di un terzo incaricato dal consumatore stesso. Il momento della consegna (di cui si occupa l'art. 61, che recepisce quasi testualmente il disposto dell'art. 18 della direttiva) rappresenta un punto cruciale della fase esecutiva del contratto, fonte di numerose controversie generate dalla necessità tanto del legislatore comunitario, quanto di quello nazionale, di fornire una tutela effettiva al contraente più debole. In deroga a quanto disposto dal codice civile, ove il bene oggetto del contratto debba essere trasportato da un luogo all'altro (o essere spedito), non rileva il momento in cui il bene è affidato al vettore, ma il momento in cui esso giunge a destinazione, nelle mani dell'effettivo proprietario. Eccezione a tale regola si riscontra solo nel caso in cui il vettore sia stato scelto dal consumatore e tale scelta non sia stata proposta dal professionista, salvi naturalmente i diritti riconosciuti dal sistema codicistico al consumatore nei confronti del vettore. La finalità di tale recentissima novella legislativa, su impulso del legislatore comunitario, sembra riscontrabile nell'intento, da un lato, di allocare i rischi inerenti alla cosa in capo ad un soggetto che abbia consapevolmente acquisito fisicamente il possesso dei beni oggetto del contratto e dall'altro, di sollecitare il professionista nell'individuazione di un vettore effettivamente affidabile, in ossequio al principio di diligenza nell'adempimento delle obbligazioni.