La svolta che accompagna il passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale è comunemente interpretata come il semplice spostamento da un tipo di medium a un altro, sottolineando ora la continuità ora la rottura tra i due differenti processi. Una differente e più efficace chiave interpretativa potrebbe essere quella di considerare tale movimento come l'esemplare e paradigmatico processo di democratizzazione della fotografia: scattiamo più fotografie perché ne abbiamo la possibilità. Una riflessione e una pratica fondamentale per la comprensione di questa situazione è stata quella di Joachim Schmid, un fotografo che ha smesso di fotografare preso atto della infinita disponibilità di immagini che la contemporaneità offre: si tratta dunque di rimediare le immagini sfruttando a pieno le peculiarità del medium digitale, riutilizzarle in un'epoca e con modalità differenti da quelle in cui esse sono state prodotte per farle nuovamente significare e renderle capaci di comprendere la nostra epoca. Che fare dunque delle fotografie accidentalmente trovate o delle infinite fotografie caricate on line? Come è possibile archiviarle, organizzarle, connetterle per dar loro ancora valore e senso? Preso atto della sterminata produzione di immagini fotografiche digitali che produce la nostra contemporaneità; preso atto che tale situazione supera definitivamente la distinzione tra immagini artistiche e immagini che non lo sono; fatta sua la lezione della parte più importante dell'arte del Novecento – dai ready made di Duchamp a Andy Warhol per fare solo due esempi – Schmid si interroga sul senso generale delle immagini tecnicamente prodotte, diffuse, modificate, condivise. In un'epoca in cui quindi chiunque è fotografo e distributore delle proprie immagini è necessario un metodo capace di ripensare la logica che crea i nessi di significato tra le immagini: bisogna dunque evidenziare che dalla relazione tra le immagini nasce il loro senso e tale significato varia al variare dei nessi che si creano tra le immagini. Di conseguenza l'intento classificatorio e di organizzazione che guida l'opera di Schmid, confrontandosi con le dinamiche odierne di produzione e distribuzione delle fotografie digitali, evidenzia che l'immagine tecnicamente prodotta è emblema della nuova modalità con cui la fotografia trova oggi i suoi spazi vitali e manifesta la sua capacità di rappresentare la contemporaneità.
L'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre è stato un evento che ha segnato tutto il mondo ma in modo particolare i cittadini di New York, colpiti in prima persona in uno dei simboli della città. La mostra Here is New York. A Democracy of Photographs è stata una delle risposte per superare il trauma causato da questo evento, per prenderne coscienza senza rimozione ma affermando la volontà di tutti gli abitanti di New York di non cedere al terrore: la mostra collettiva delle immagini fotografiche dell'11 settembre è stato il rito collettivo della città, l'affermazione della solidarietà e della capacità non soccombere all'attacco.
Il ritratto fotografico, i suoi usi e i suoi valori sono di fondamentale utilità per comprendere le funzioni della fotografia e il suo rapporto con il reale e per evidenziare l'evoluzione che, dalla pretesa di oggettività dell'immagine fotografica, ha condotto al ribaltamento di questa prospettiva. Gli usi e le pratiche che prendono le mosse da Bertillon e Lombroso – in sintonia con la nascita ottocentesca della fotografia e il suo primo sviluppo – non sono altro che il riconoscimento del potere della fotografia: l'analisi del volto e delle sue immagini è una pratica per ricondurre all'ordine e dunque esercitare una strategia di controllo che tuteli il potere costituito. Tale azione diventa maggiormente efficace se esercitata per mezzo di uno strumento tecnico, dotato della certezza e della forza della scienza: la fotografia, celebrata per il rapporto diretto con il reale, era dunque lo strumento perfetto per esercitare questo tipo di controllo e fondare una microfisica del potere. Ma a ben guardare la fotografia si è sottratta a questo destino: il volto e la sua immagine con la loro mutevolezza scardinano queste certezze e danno la possibilità di raccontare un'altra storia. È la storia del ritratto fotografico come via privilegiata che il volto assume per raggiungere il senso e irridere il potere. Il contributo analizzerà il ruolo di garante dell'ordine e del potere che nell'Ottocento la fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria ha assunto, partendo dalla (errata) pretesa che sia possibile rappresentare il volto in maniera oggettiva in una immagine, per svelarne il ribaltamento: la valenza politica e la forza di sovversione della fotografia risiede nella dialettica tra noto e ignoto a cui il volto fotografato dà luogo. La fotografia del volto non è dunque pratica mimetica bensì costitutiva di realtà e anche di rivolta e opposizione all'ordine costituito e ai suoi imperativi che cercano di annientare caos e differenze. ; Mugshots' uses and practices—from Bertillon to Lombroso—show the photograph's power: face and its photographic image are a form of control for protecting the establishment. However political value and subversive force of photography lies in the dialectic between known and unknown that the image of the photographed face produces. Photographic portrait produces new, previously unknown relationships if it isn't only used for purposes of reproduction: so it is able to be in opposition to the established order and its imperatives that want to eliminate chaos and differences.
Qual è la differenza tra figura e immagine? E in cosa distinguere questi due termini può aiutarci a capire alcune manifestazioni dell'arte come la fotografia e il cinema o il modo che gli esseri umani hanno di percepire? Partendo dalla chiarificazione proposta da Emilio Garroni in "Linguaggio Immagine Figura" (2005), questo articolo affronta il problema della percezione e del suo rapporto con il linguaggio da un punto di vista, per così dire, artistico. Alcune opere, meglio di altre, riescono a restituire, infatti, la processualità intrinseca alla percezione umana e arrivano a mettere in moto dei processi di creazione di orizzonti del possibile che, se letti in chiave politica, mostrano come il soggetto si emancipi grazie ad essi e prenda posizione rispetto al mondo.
La tesi generale da cui sono partita è che la danza non deve essere considerata solo come un'attività ristretta ad uno specifico ambito professionale, ma che alcuni suoi tratti riguardino ogni essere umano: movimento, gesto, spazio, tempo, ritmo e peso sono chiavi di lettura dell'esperienza del nostro modo di sentire la vita, del nostro poter ricevere impressioni, apprendere il mondo circostante, subire e produrre mutamenti. È l'idea, per usare un'espressione che evidenzi la sua dimensione fondante, della danza come "pratica non speciale": essa ci mostra in modo intensificato e amplificato alcuni aspetti del nostro essere ed avere un corpo in movimento. Non considero la danza come oggetto di studio, così come non considero il corpo un oggetto di conoscenza. Mi sono domandata, in primo luogo, come fare per comprendere il corpo senza correre il rischio di convertirlo in oggetto (di studio, di disprezzo o di culto) o strumento (dell'azione, della manipolazione socio-politica, di una tecnica coreutica astratta) e ho trovato una prima pista nella domanda "cosa ci mostra la danza della nostra corporeità?". Nel 1° Capitolo, intitolato "La "piccola danza" quotidiana. L'esperienza del corpo", dopo aver riassunto brevemente il processo di riflessione interna ad alcune discipline (psicologia cognitiva, fisiologia e neurologia) che ha portato gli stessi studiosi da un approccio alla consapevolezza corporea vista come rappresentazione "oggettiva" ad un progressivo riconoscimento dell'impossibilità di oggettivare quel qualcosa che noi chiamiamo "esperienza del corpo", ho indagato la dimensione del sentire ed essere consapevoli del proprio corpo, che comprende i vari aspetti della propriocezione, dello schema corporeo, della memoria somatica, dell'intelligenza senso-motoria e tutti i tipi di consapevolezza non intellettuale dell'esperienza di essere umani. In particolare ho parlato del già citato concetto di "cinestesia", il "sentire di muoversi", cioè la capacità di sentire i movimenti del proprio corpo nei muscoli, nelle articolazioni, nell'apparato scheletrico, a volte persino nei nervi e negli organi interni. La capacità, in breve, di comprendere e gestire l'esperienza motoria del nostro corpo. Oltre agli spunti tratti dalle discipline citate, e quelli provenienti da studi specifici delle neuroscienze e della recente psicologia cognitiva su aspetti cinestetici e sull'inconscio corporeo, le riflessioni della psicoanalisi eterodossa di Wilhelm Reich e Alexander Lowen, in questo percorso del primo capitolo è stato fondamentale l'approccio alla corporeità, al movimento e alla spazialità di Merleau-Ponty e di Michel Bernard, la prospettiva transizionale/paradossale di Donald Winnicott, gli studi sull'improvvisazione e le riflessioni di Steve Paxton. Altro aspetto importante che ho cercato di far emergere è l'importanza dell'imitazione cinestesica, intesa non come "scimmiottamento" superficiale di gesti e forme esteriori, ma come complesso processo di apprendimento e trasmissione di un sapere corporeo, che è condizione ontogenetica di possibilità di ogni ulteriore apprendimento di natura linguistica o intellettuale, nonché di ogni agire in vista di uno scopo, e che viene esperito, espresso ed esibito in modo intensificato quando si danza. La mímesis cinestetica, così intesa, è un altro filo conduttore trasversale di tutti i capitoli. La danza ci mostra, in prima istanza, che il nostro corpo quando è in movimento è capace di produrre senso e anche significati, non linguistici, che dunque il corpo è capace di pensiero, è intelligente, di una intelligenza prevalentemente senso-motoria/cinestetica. Un primo risultato di questo lavoro è, dunque, che, grazie all'intensificazione che la consapevolezza corporeo-cinestetica subisce nella danza, ci rendiamo conto che il corpo non è puro esecutore di "ordini" mentali, ma è esso stesso un dispositivo organizzante-interpretante, e il suo organizzare il sensibile è una forma di pensiero, non verbale e non direttamente verbalizzabile, ed è correlato ad una apertura di senso. Questa dimensione di apertura di uno spazio di senso della corporeità, caratterizzato da una reversibilità tra dentro e fuori, tra la realtà interna e quella esterna, tra percipiente e percepito, tra agire e patire, è legata a quella dei fenomeni e degli oggetti transizionali, studiati da Winnicott, in particolare, al concetto di "spazio potenziale", che separa e unisce allo stesso tempo, lo spazio della "prima illusione", che dà il via alla vita immaginativa ed espressiva dell'infante e poi dell'adulto. La sapienza corporeo/cinestesica, in questo senso, è una delle condizioni di possibilità dell'entrare in una dimensione creativa. Lo spazio transizionale è, infatti, allo stesso tempo, lo spazio del "giocare", di un'esperienza cioè priva di particolari scopi e che rende possibile il "rilassarsi", quello stato di riposo (di parziale non controllo o controllo flessibile) da cui può scaturire un atteggiamento creativo. Ho descritto poi come nel processo creativo della danza, in particolare nell'improvvisazione, sia proprio il recupero, la riattivazione e riconfigurazione della memoria corporea e dell'imitazione cinestetica a permettere il sorgere del nuovo, della sorpresa, del gesto inaspettato. Nel corso delle ricerche incluse in questo capitolo è avvenuto, per me, lo spostamento dal cercare di comprendere, attraverso la danza, il processo creativo, peraltro molto studiato in generale, all'evidenza della creatività sorgiva della natura umana, creatività che è nel e del corpo sensibile e consapevole e che è esibita dalla danza. Altro modo di comprendere l'esemplarità della danza e altra chiave di lettura di questo lavoro è pertanto che la danza ci mostra non solo che la nostra corporeità è intelligente, ma che il suo muoversi e sentire di muoversi è all'origine di ogni intelligenza e che questa intelligenza è creatività. E tutto questo ha richiesto un approfondimento filogenetico delle "origini" (con tutte le cautele che l'uso di questo termine necessita) della danza. Nel 2° capitolo, dal titolo "Danza e risonanza. L'esperienza mimetica del corpo che danza", ho pertanto rivolto lo sguardo a cosa significava la danza in quelle civiltà in cui essa possedeva una funzione vitale e riconosciuta dall'intera comunità, con lo scopo di individuare quali aspetti dell'esperienza umana e comunitaria essa incarnava. In questo mi sono avvalsa dell'apporto di diverse discipline che studiano le "origini", come l'etnologia, l'antropologia, la paleontologia, la storia delle religioni, in particolare orientali, la storia della danza, ma anche della riflessione di Platone, di Marcel Jousse, di Marcel Mauss, di Walter Benjamin, di Rudolf von Laban, di Irmgard Bartenieff, di Judith Kestemberg, della psicologia della Gestalt, di Daniel Stern, di Mary Stark Whitehouse. Proprio la capacità amplia di imitazione cinestesica, di "rendersi simili a", di cui ho parlato nel 1° Capitolo, di cui oggi forse sperimentiamo una forma diminuita, addormentata, o forse trasformata e parzialmente migrata altrove, sembra essere alla base della fioritura precoce della danza in ogni civiltà e dell'importanza e centralità che essa aveva. E la sua trasformazione e/o migrazione sembra essere all'origine della precoce perdita di esemplarità della danza, rispetto alle altre arti. La danza, notano infatti etnomusicologi, antropologi e storici della danza, fiorisce precocemente in tutte le civiltà. Alle origini essa è una delle attività più serie ed importanti, ma in seguito viene gradualmente relegata ad un ambito più ristretto, fino a perdere quasi del tutto il suo carattere di attività donatrice di senso. Nelle civiltà che precedettero l'affermarsi della scrittura come mezzo di acquisizione, elaborazione e trasmissione del sapere la danza rappresentava un'esperienza determinante nella vita della comunità. In un lento processo storico, che non riguarda solo la danza, ma coinvolge tutte quelle attività che oggi chiamiamo "arte", in occidente la danza è diventata ciò che possiamo chiamare "danza teatrale occidentale", attività altamente specializzata concepita e strutturata per essere rappresentata di fronte ad un pubblico spettatore passivo, il quale, se proprio desidera "divertirsi", può andare a ballare il sabato sera. Essa ha dunque perso quel ruolo privilegiato che aveva nelle civiltà basate sull'oralità, di costituire il modo primario per esprimere tutto ciò che contava. La tesi generale che sostengo in questo capitolo, in continuità con quanto detto nel precedente, è che l'imitazione cinestetica non è da intendersi come una specifica capacità di imitazione esteriore di gesti e movimenti, ma come il modo primario, non concettuale, mimetico, appunto, in cui ci rapportiamo all'altro, inteso sia come ambiente naturale sia come collettività umana. E che essa sia dunque un aspetto, forse il principale, sicuramente il più originario, di quella capacità mimetica o mímesis, principio filosofico-antropologico dell'esperire e agire umani, descritto da Platone ed Aristotele, e che ricorre in tutta la storia della filosofia, ampiamente usato in numerose altre discipline con significati e sfumature così ampi che è impossibile fare a tale proposito un discorso generale. Detto in altri termini, la tesi è che la mímesis all'origine (ontogenetica e filogenetica) sia cinestetica ed che sia dunque un altro nome, o la categoria più ampia, di quella che nel primo capitolo è stato denominato schema corporeo, praktognosia, spazio corporeo, intelligenza corporea, corpo-pensiero, thinking body. Sostengo, poi, che tale dono della nostra corporeità, sia di scorgere/sentire le somiglianze in natura, sia di produrle, abbia, allo stesso tempo, una dimensione di trascendenza rispetto ai limiti di ciò che di solito chiamiamo "io". Si tratta di quella che viene definita "corporeità estatica". La corporeità, come si è già affermato nel 1° capitolo e come si vedrà ancora in seguito, nella sua essenza, è sempre estatica. La dimensione estatica o di trascendenza, sempre parziale, rispetto ai confini dell'ego è descrivibile come risonanza cinestetica, come empatia, come mímesis, capacità di mimare la natura mediante il proprio corpo, di produrre in esso e con esso somiglianze. Le riflessioni sul contesto, sul ruolo e sulle modalità della danza delle origini faranno anche emergere lo stretto collegamento tra la dimensione cinestetico/mimetica e l'archetipo femminile, presente in tutti gli esseri umani, ma oggi in occidente rimosso o degradato, magistralmente descritto soprattutto da Marjia Gimbutas, ma anche, secondo diverse prospettive, da Carl Gustav Jung, Johann J. Bachofen, Erich Neumann, Riane Eisler, Heidi Goettner-Abendroth, Luciana Percovich, solo per citarne alcuni. E, spero, apparirà chiaro, in seguito alle riflessioni sulla danza dei primordi, che la dimensione ecologica (sentirsi parte della natura), politica (sentirsi parte di una collettività) ed estatica (sentirsi parte di un "tutto"), presentavano alle origini un legame strettissimo, immanente alla corporeità. E che l'aver rimosso o degradato, nella civiltà occidentale, ormai estesa quasi all'intero mondo, la corporeità, la danza (nel senso profondo di esperienza antropologica originaria), il femminile, va di pari passo con una coscienza unilaterale ed egoica e con i disastri ecologici, le guerre, il razzismo, la discriminazione di genere e di età (infanti e vecchi), che mette a repentaglio la vita stessa della nostra e di molte altre specie viventi. Oggetto del 3° capitolo, il cui titolo è "Movimento immagine danza. La dimensione simbolica del corpo che danza" è, grazie alle riflessioni di Susanne Langer, Rudolf von Laban, Aby Warburg, Daniel Stern e Maxene Sheets-Johnstone, in generale, lo stretto legame tra il movimento consapevole, la memoria e le immagini interne, non solo visive, ma amodali o transmodali, come è già emerso dai diversi esempi presi in esame e dalle riflessioni condotte nei capitoli precedenti. E che sia questa stessa cooriginarietà a far emergere la dimensione simbolica della danza. Sembrerebbe, infatti, che al solo rivolgere l'attenzione o l'ascolto ad una parte del corpo, o al corpo intero (per chi ci riesce, dopo un lungo allenamento), accada qualcosa, un cambiamento dello stato di coscienza, che evoca e allo stesso tempo riconfigura l'archivio somatico-sensibile. La disciplina e la pratica dell'attenzione e dell'ascolto cinestetico aprono la strada della presenza, delle immagini interne, dell'integrazione tra sentire e pensare, tra dentro e fuori, tra io e mondo. È come se l'ascolto del corpo e del respiro risvegliasse le energie dormienti in noi, e, proprio come avviene quando i fisici, osservando l'elettrone, ne modificano la posizione, nel momento stesso in cui focalizziamo la nostra attenzione sul corpo, qualcosa cambia, le forze si allineano in maniera diversa. Questo tipo di attenzione non è dunque di tipo "oggettivo", qualsiasi cosa ciò possa significare, ma è essa stessa parte del gioco. Questo accesso al corpo come campo di memoria e di immagini è comune a diverse discipline, ma nella danza, si potrebbe dire, è anche il modo in cui questo grande archivio cinestetico è rigiocato cinesteticamente in una "forma" e non tradotto in altri "codici". In altre parole, se un movimento rivela sempre qualcosa di chi lo compie attraverso il "come" lo compie, è proprio questo stesso "come" a permettere la mímesis, che colloca il gesto in quello spazio potenziale in cui il gioco tra unione e separazione, tra identità e differenza si apre alla possibilità dell'immaginazione, del simbolo, della dimensione culturale stessa. E questo avviene "per la prima volta" ontogeneticamente e filogeneticamente in modo cinestetico, nella fase transizionale per l'infante, nella fase "primitiva" per l'umanità, come Daniel Stern, Susanne Langer e Aby Warburg, in modi diversi, molto efficacemente spiegano. Quando la danza diventa arte performativa, per coinvolgere il sentire dello spettatore passivo bisogna enfatizzare la figura modalmente, cioè canalizzare la sua forma rivolgendosi a sensi diversi, soprattutto alla vista e all'udito, e la figura si stacca dallo sfondo indifferenziato, fino, a volte e molto tempo dopo, a occultarlo del tutto, a presentarsi come pura figura. Il momento di passaggio si può cogliere, in modo embrionale, già nella fase della "magia", cioè quando nelle danze rituali si separa l'attività di danzare dai suoi "effetti", per esempio "curativi", quando la danza non è più solo puramente estatica, di comunione della comunità con la natura/Grande Madre, ma si concepisce una sorta di nesso di causalità, una separazione tra mezzi e fini, che, anche se molto diverso da quello della scienza moderna, introduce comunque un principio di causa-effetto e di temporalità lineare, un prima e un dopo. La dimensione simbolica non è dunque solo presente nella danza, e già questo sarebbe una conquista rispetto alle diffuse teorie che vedono la danza solo come autoespressione, ma nasce in essa e con essa. La riflessione sulla danza nelle civiltà orali ci mostra che la dimensione simbolica da essa inaugurata è il modo in cui l'umanità si orientava nel suo passaggio da un mondo "magico", come lo definisce Warburg, ad uno "logico", in un processo di progressivo allontanamento dalla fisicità del simbolo, verso l'astrazione e la separazione, in parallelo alla tragica rottura con la natura che l'essere umano ha operato nella modernità. Se riflettiamo sul passaggio dalla danza danzata dalla comunità intera a quella danzata da pochi e vista da altri, emergono almeno due questioni: quella della progressiva separazione tra la dimensione cinestetica e quella visiva, che condurrà poi alla prepotenza dello sguardo centrale, alla postura del controllo e del potere e quella, strettamente collegata, dell'incapacità di questo stesso sguardo solo visivo e centrale di vedere/sentire la dimensione temporale della danza, visto che, dopo un lungo processo, la danza è diventata un'arte rivolta prevalentemente alla vista. Se, invece di fermarci alla considerazione della dimensione visivo/spaziale, consideriamo la danza da un punto di vista anche temporale ed energetico, il movimento viene apprezzato nei sui aspetti dinamici o "qualitativi", la cui individuazione e definizione, sulla base di un filo rosso che lega Laban, Langer, Stern e Sheets-Johnstone, è un altro dei temi trasversali di questo lavoro. Nel 4° capitolo, intitolato "Anti-corpi, altri corpi. La danza come esempio di esercizio critico della corporeità", ho inteso porre la questione, di importanza vitale, di cosa ci mostri la danza oggi e di come quello che ci mostra appartenga a tutti noi e possiamo farne uso, che è uno dei motivi principali per cui ho voluto mettere per iscritto queste riflessioni. La danza ci mostra innanzi tutto che tutte/i abbiamo un corpo, e non è una cosa da poco, se intendiamo il corpo non come esecutore di ordini mentali ma come thinking body, come intelligenza corporea. Il valore di questa riflessione sull'esperienza del corpo che danza sta, in primo luogo, nella "scoperta" che ascoltare/sentire la nostra corporeità è già un esercizio critico. Anzi, è l'esercizio più profondamente critico, perché arriva laddove la parola e il pensiero, i principali strumenti critici della nostra civiltà, non arrivano. Il rifiuto teorico del concetto tradizionale di corpo, possibile grazie al guardare attraverso la danza, e tutti gli spostamenti filosofici che esso comporta, costituisce una sorta di protezione immunitaria contro la visione (solo visiva) dicotomica, un vero "anticorpo", come dice Michel Bernard, nel doppio senso della parola, ai condizionamenti. E che sono possibili, grazie alla pratica e alla fruizione della danza, o meglio, del movimento consapevole e creativo, altri corpi. Uno dei temi del quarto capitolo è proprio quello degli "anticorpi" o altri corpi, pensati e agiti attraverso la danza e la pratica del gesto consapevole. Se, infatti, i condizionamenti sociali e culturali che passano attraverso la parola e le immagini sono stati oggetto di riflessione e, rispetto ad essi, sono stati elaborati strumenti critici, quelli che sono operati nei confronti dei corpi, per esempio attraverso le tecniche del corpo, sono più profondi, molto precoci, non verbali e non verbalizzabili, per cui più difficili da individuare in una cultura che concepisce l'esercizio critico soprattutto attraverso la parola. Per comprendere questi aspetti e altri limitrofi ho preso spunto da Michel Bernard, da Marcel Mauss, dalla biopolitica, da Ugo Volli, da Eugenio Barba. Da un punto di vista più strettamente filosofico, la riflessione segue, in questo capitolo, soprattutto alcuni testi di Alain Badiou e di Giorgio Agamben, Aby Warburg e Maxene Sheets-Johnstone, ma anche le pratiche del gesto di Virgilio Sieni, di Jérôme Bel, di Trisha Brown. Prendendo spunto dalle riflessioni di Alain Badiou, ho cercato di mostrare come la danza, che abbiamo visto essere il modo in cui ogni capacità simbolica nasce, possa riportarci ad una dimensione sorgiva in cui il corpo e il pensiero di cui è portatore sono inaugurali, quando i nomi non sono ancora assegnati e in cui è possibile darne di nuovi. Badiou considera, infatti, la danza come "evento prima del nome", come arresto provvisorio dei "nomi" che diamo alle cose e quindi come possibilità di attribuirgliene altri. La danza è dunque molto distante dalla parola, non tanto perché esprime una dimensione istintuale e pre-linguistica del corpo, ma soprattutto perché ci mostra, in maniera radicale, come la dimensione linguistica configuri e strutturi la nostra realtà, spesso senza che ne siamo consapevoli. Abbiamo così i "corpi disobbedienti" della danza, che sottolineano la natura sottrattiva della danza, e del corpo che danza, un corpo, "anonimo" (letteralmente, prima di avere un nome), o meglio il corpo che nasce come corpo nell'istante in cui danza. Anche i "gesti sospesi", che disattivano o rendono inoperosi i dualismi, sono un altro modo di vedere la possibilità che la danza sia una pratica critica, proposto di Giorgio Agamben, la cui riflessione sul gesto è accompagnata dall'incontro con la danza, grazie alla collaborazione con Virgilio Sieni. Emerge così, in questo capitolo, in maniera più esplicita, ma è comunque uno dei livelli di lettura trasversali di questo lavoro, la dimensione politica della corporeità. Ho cercato di mostrare, anche grazie a qualche esempio concreto (Jérôme Bel, Trisha Brown, Virgilio Sieni) come sia possibile una pratica della consapevolezza dei corpi e degli spazi, in contesti comunitari, in relazione a dimensioni territoriali specifiche, in particolare in contesti urbani, quasi sempre fuori dall'ambito dello spettacolo (inteso qui come organizzazione industriale e commerciale delle rappresentazioni), ma comunque in una dimensione che possiamo in qualche modo definire estetica. Ho inoltre cercato di far emergere anche l'altra faccia della valenza "immunitaria" della danza, quella della possibilità di dare luogo ad altri corpi, sia dal punto di vista della danza performativa che, a partire dal secolo scorso ci ha mostrato una molteplicità di corpi possibili, sia, in senso più profondo, per mostrare come l'esercizio critico della pratica del corpo pensante, in tanto in quanto decodifica i condizionamenti, ci mostra la creatività sorgiva della natura (corporea) umana. La creatività, quindi, non è da vedersi solo come uno stile o una competenza che possiamo acquisire grazie ad una tecnica, ma come l'essenza stessa del nostro modo (cin-)estetico di stare al mondo.
I reportage di Robert Frank e Stephen Shore, e i rispettivi viaggi di cui sono testimonianza, documentano una identità degli Stati Uniti differente dai modelli più affermati, che tendono a raccontare un Paese di successo, capace di imporre al resto del mondo il proprio modello sociale, economico, politico ed estetico. I reportage di Frank e Shore invece rappresentano un'altra America, lontana dagli stereotipi e piena di insanabili contraddizioni: i luoghi dell'esperienza comune (quasi non-luoghi), i personaggi disillusi e frustrati dall'American dream, l'apparente banalità e insignificanza delle situazioni rappresentate, il quotidiano, dimostrano che accanto a un immaginario vincente (per ultimo quello rappresentato da Trump ma anche da Pete Souza, fotografo ufficiale dell'epopea presidenziale di Barak Obama) ne esiste un altro, quello degli sconfitti, più rispondente alla realtà dell'America.
The essay proposes an itinerary into the political root of beauty. From Plato, the idea of beauty is not only metaphysical, but also aesthetic and always manifests its political root. The article considers the beauty's public space in Vitruvius and Alberti, passing through three models of the city, namely Humanistic, Baconian and Baudlerian. Hence, the idea of beauty is a constant variation on the theme and a general noun of a project path. Beauty manifests its qualitative dialectic, without synthesis, in which its dialogicity can be saved as long as Modernity does not lose its memory and tradition. Following some Valéry's remarks, the article exhorts to find the idea of classicality in Modernity: remembering the platonic idea of kosmos, it means to make beauty not only abstractly philosophical, but also political.
Art and Ideas Francisco de Hollanda and Sixteenth-Century Aesthetics The historians of aesthetics who have studied the problem of ideas in art theory (from Panofsky to Baeumler and Tatarkiewicz) have overlooked Da pintura antiga, by Portuguese artist and theoretician Francisco de Hollanda (1517-1584), a text where the Platonic notion of idea enters a treatise on art for the first time. The present volume aims to fill such gap by shedding light on an author who has long been overshadowed by the great Michelangelo (whom Hollanda met during his stay in Rome in the years 1538-1540), as well as by advancing an analysis of the aesthetic concepts that emerge not only from Da pintura antiga, but from the entire body of Hollanda's works. The most significant element is that in Hollanda's approach art theory appropriates connotations previosuly reserved for poetic creativity. In fact, poetry had borrowed from Platonic philosophy the notion of "divine frenzy" to describe the inspired poet. According to Hollanda, on the contrary, it is the artist who, possessed by such frenzy, is able to rise to the world of ideas. Artistic creativity thus acquires a sacred dimension: "ancient painting" is seen as a sort of "prisca pictura" that, like Ermete Tremegisto's "prisca theologia", reveals the most hidden truths. The "melancholic" artist, who possesses an inspired and bizarre imagination, as best exemplified by "grottesche", is the only one capable of grasping the idea and fixing it with uncommon rapidity in a sketch. This is a complex and not always immediately successful procedure. Thus, Hollanda considers blindness as a privileged factor to grasp the kind of beauty that the artist, like the prophet, can see only with his "inner eyes", eyes that are not dimmed by sensible perceptions. Consequently, "drawing" becomes a key element of Hollanda's thought. Drawing emerges as the basis not only of painting, sculpture, and architecture, but of all the arts that are connected with images: from martial strategy to civil and military engineering; from maps to the design of insignia, livery, clothes, and ornaments. Hollanda moves beyond the distinction between major and minor arts, and his approach emerges as more modern than the one that Vasary will articulate a few years later in his famous definition of the "arts of drawing".
This contribution aims to shed light on the specific mechanism of migrant categorization implemented by the so-called «Hotspot approach», which was launched by the EU Agenda on Migration in May 2015. This approach is here envisaged as a response to the current changes in the composition of migration towards Europe. Provisions contained in EU and Italian policy documents are compared with concrete practices enacted on the ground by investigating two case studies: the initial opening of the Hotspot at Milo, in Trapani, and the first months of functioning of the Hotspot on Lampedusa. The empirical research covers the period between the last months of 2015 and the beginning of 2016. The short-term consequences of the hotspot system have been the creation of thousands of irregularized migrants within the Italian territory, and a massive violation of the principles grounding the right to asylum. These consequences were so blatant to oblige Italian authorities to interrupt some of these practices. Yet, in the long term, this experimental phase can be regarded as a laboratory for the subsequent development of EU policies on migration and asylum.
The essay is a critical notice on John Ryder's book, "Knowledge, Art, and Power. An Outline of a Theory of Practice", published by Brill in 2020. Sharing Ryder's cultural naturalism as well as his relational ontology, the author considers some important issues at stake within the volume. A first claim is that Ryder's characterization of the aesthetic should be explicitly connected with affective, qualitative or "esthetic" significances as pervasive features of experienced situations, grounded in the bio-social dependence of human life on the environment. A second suggestion is integrating John Ryder's conception of the political as a basic feature of experience through an explicit emphasis on the Pragmatists' thesis of the essentially social character of human life. A final criticism regards Ryder's deflating strategy about the role played by language in human experiencence, denying it to be one of its structural dimensions together with the aesthetic, the cognitive, and the political.
L'ipotesi benjaminiana di una lingua adamitica e della possibilità di recuperare quell'originario linguistico attraverso la traduzione viene messa a confronto con la lettura di Derrida e di Zumthor, nel tentativo di leggere nell'episodio biblico di Babele l'espressione di un ethos comunitario recuperabile proprio attraverso il lento lavoro di traduzione. Il paradigma traduttivo diventa quindi la sfida della convivenza e la felicità della traduzione (Ricoeur)il motore di una politica dell'amicizia e dell'accoglienza (Derrida).
The crisis undergone by the United Europe betrays a deep fracture at the level of the values and ideals shared by the European collectivity, underlining the lack of a real political strategy, that is the lack of an ideal plan, conceived on the basis of present empirical conditions. Thus, it is all about projecting the future on a utopian level, according to the "principle of hope" (Bloch) and in the ontological category of the "not yet become". An analysis of the ancient myth of Europe belongs to the same ontological category, inasmuch as it concerns not the form of the past, but that of the future as a dream and prophecy. The fate of Europe as a Utopia envisages expansion and dissemination, openness to novelty and to evolution. It is in this sense that the United Europe closely resembles this myth, given its double nature, real and imaginary at the same time. The United Europe is a utopian space as well as heterotopian one. The challenge is then to realize a Europe that is real and imaginary at the same time, concretely united by a philosophy of hope for the future.
What we witness today is a widespread and sometimes uncritical tendency to read VR as an "empathy machine", an infallible prosocial tool that – importantly – has started being monetized. Most authors stress the medium's ability to strike the users in the very moment of the VR experience. However, if what is at stake is social and political change, what is most crucial is rather the medium's capacity to affect the users in the long term. On this grounding, my presentation first states that VR should be proved to promote not simply empathy, but long-term empathy. Based on this idea, the presentation touches the following points: 1. Defending this idea by deconstructing the usefulness of what I will call «flash-empathy» 2. Presenting and discussing existing evidence about VR and longer-term empathy 3. Drawing some conclusions as to how to further study this issue
Observing the phenomenon of cultural appropriation in a case of theatre: Kanata the controversial spectacle by the Québecois Robert Lepage raises issues of aesthetics. The specific cultural, political and social context, together with the singularity of theatre as an art form, makes this a unique case study shedding light on that phenomenon and causing us to rethink some long-standing principles of aesthetics.
According to Aristotle (Polit. 1253a) man is a "political animal" and his aim is to live in the community. Guided by this Aristotelian premise, I would like to dwell on the relevance of a relationship among individuals as the foundation of a civil society and the building of a political space. Following the Aristotelian perspective, the relationship among people acquires a political value in reference to the Greek word polis (city). Consequently, the adjective "political" indicates an idea wider than usually acknowledged and may refer to space, objects, and overall relationships among people. According to the natural model originally advocated by Aristotle, the urban space acquires a political value because it turns into a place for sharing and cooperation. When speaking about urban space, I'm not referring to measurable, physical space, but rather to a perceived, emotional space. Both natural and man-made environments can be said to lift or oppress people; they can be cold, bright, cheerful, or sober and convey a repelling or welcoming atmosphere. As Gernot Böhme has pointed out, the primary content of the sensed are not things and their properties (shape, colour, etc.), but rather the relationships between things themselves and with the perceiving subject. The German philosopher uses the words "atmospheric space" to express these relationships, and this idea is a fundamental element of a "new aesthetics," one which he has proposed in making reference to the etymological meaning of aisthesis (perception). Following both the perspectives of Aristotle and Böhme, I will bring forward the relevance of a relationship among individuals in a public space and show how relationships acquire a political and aesthetic value. To do this, I will use the notion of the gift, as since very early in history, political and commercial relationships among populations were set forth by the exchange of gifts. After pointing out the anthropological concept of the gift and its importance in everyday life, I will dwell on how relational art took over the concept of the gift to create a social environment in which people come together to participate in a shared activity. Finally, I will try to demonstrate how the concept of the gift becomes a key element of political aesthetics, here understood differently to that proposed by Crispin Sartwell.