Dottorato di ricerca in Diritto dei contratti pubblici e privati ; La persistente inefficienza nell'utilizzo delle risorse umane nel settore del lavoro pubblico impone l'attenzione sul come la pubblica amministrazione stia tentando di rispondere alle nuove complesse problematiche poste a livello nazionale, internazionale e globale. In un mercato del lavoro in rapido sviluppo il settore del lavoro pubblico mostra una scarsa dinamicità ed una certa resistenza ad accettare soluzioni innovative. Si parla da molto tempo della necessità di innovare il rapporto di lavoro nel settore pubblico "privatizzato" e la pubblica amministrazione in generale, ma solo da ultimo il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ha conosciuto uno stimolo all'uso dei fattori premiali e flessibili grazie all'introduzione della valutazione della performance. Innovare attraverso lo strumento della flessibilità contrattuale nel settore del lavoro pubblico significa raggiungere l'obiettivo dell'efficienza. Per questo bisogna indagare se il problema della mancata efficienza sia di carattere giuridico "contrattuale" o le ragioni vadano indagate anche rispetto ad una complessità progettuale che tenga conto della cultura e dei processi sociali. L'indagine, in questa sede, è finalizzata allo studio dell'adattabilità delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile, utilizzabili per l'organizzazione e la gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. L'uso di tali tipologie è divenuto, combinato con la necessità di produttività ed efficienza, fondamentale per la politica di sviluppo delle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto indispensabile per l'attuazione delle politiche di contenimento della spesa, (così dette di spending review), per il personale che, in modo particolare a partire dalla fine degli anni novanta, ha raggiunto un livello rilevante. Ciò ha generato una serie di provvedimenti limitativi tendenti a bloccare le nuove assunzioni nel tentativo di raggiungere nello stesso momento un contenimento dei costi ed una riduzione del personale ritenuto, non sempre a ragione, eccedente il fabbisogno, il tutto, ovviamente nel tentativo di incrementare l'efficienza dei servizi erogati. Per tipologie contrattuali flessibili di lavoro si intendono tutte quelle che differiscono dal contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, disciplinato dall'art. 2094 cod. civ. e definito contratto di lavoro standard. Partendo dalle linee guida tracciate dalla legge n. 15 del 4 marzo 2009, di riforma del pubblico impiego, sono state analizzate le misure che disciplinano le modalità attraverso le quali le pubbliche amministrazioni possono avvalersi delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile. Per meglio inquadrare l'attuale riforma del lavoro nel settore pubblico privatizzato (in questo studio indicata come Terza Riforma) è necessaria la ricostruzione storica della disciplina normativa del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, prendendo le mosse in un'ottica efficientistica e passando attraverso l'evoluzione dei modelli contrattuali che l'hanno caratterizzata, partendo dal modello unilaterale e autoritativo fino ad arrivare al modello contrattuale pattizio e paritario. Attraverso questa ricostruzione è possibile individuare i principi fondamentali, quali l'efficienza dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, l'intangibilità dell'organizzazione e del potere datoriale e la relativa responsabilità dirigenziale, la specialità dell'accesso agli uffici pubblici (anche in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza contenuto nell'art. 3 e dell'imposizione della stessa Costituzione all'art. 97, co. 3, del concorso pubblico, salvo i casi di deroga stabiliti dalla legge, quale forma di reclutamento a garanzia dell'imparzialità della pubblica amministrazione), che sono il presupposto essenziale posto alla base del possibile utilizzo per le pubbliche amministrazioni sia dei contratti di lavoro standard sia dei contratti di lavoro flessibile. L'uso dei contratti di lavoro flessibile rappresenta uno strumento idoneo, quando inserito tra i vari strumenti ed obiettivi primari delle pubbliche amministrazioni, a garantire la migliore organizzazione degli uffici se finalizzato a perseguire il buon andamento della pubblica amministrazione, così come previsto dall'art. 97 della Costituzione. Grazie ad un opportuno utilizzo delle risorse umane diviene possibile raggiungere anche l'ulteriore obiettivo, primario per le pubbliche amministrazioni, del controllo delle risorse finanziarie. Una conoscenza approfondita della gestione delle risorse umane (dipendenti con contratto di lavoro standard e non) ed una attenta analisi del contesto di riferimento possono favorire una efficiente razionalizzazione delle risorse, non solo in merito all'organizzazione degli uffici e del lavoro, ma anche sul piano politico, economico e sociale, piani con cui fino ad oggi si è dovuto scontrare il datore di lavoro pubblico nell'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile inserite nella gestione del personale e delle risorse delle pubbliche amministrazioni. Non a caso l'art. 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001, Testo Unico del Pubblico Impiego, ed in particolare il comma 3, così come da ultimo modificato dall'art. 17, comma 26, del decreto legge n. 78 del 2009, ha evidenziato che un sistema che preveda l'uso delle predette tipologie contrattuali come strumento di gestione per le pubbliche amministrazioni deve essere finalizzato a combattere gli abusi derivanti dal suo uso distorto. L'abuso e l'uso distorto delle tipologie contrattuali flessibili ha dato vita ad un intenso precariato, sanato ciclicamente dalle norme dette di "stabilizzazione" (norme che sono state oggetto di valutazione di legittimità costituzionale). Attraverso una attenta analisi dell'attuale contenuto dell'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 è possibile individuare, tenendo a mente la disciplina che regola il rapporto di lavoro nel settore privato, da una parte gli aspetti critici dell'impianto regolativo che consentono di verificare la distanza tracciata tra le discipline che permettono l'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile da applicarsi al datore di lavoro privato con quelle riservate al datore di lavoro pubblico, e dall'altra individuare quanto sia ancora presente nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni del modello unilaterale ed autoritativo che caratterizzava il rapporto di pubblico impiego prima della privatizzazione del rapporto di lavoro. Partendo dalla prima versione contenuta nel decreto legislativo n. 29 del 1993, dei primi due commi del citato art. 36, è possibile individuare il campo di applicazione dei rapporti giuridici derivanti dalla stipulazione dei contratti di lavoro flessibile ivi elencati. Sono così messe in risalto le diversità esistenti tra la disciplina prevista per i rapporti di lavoro alle dipendenze del privato datore di lavoro e la disciplina prevista per il pubblico impiego privatizzato. Grazie alla comparazione tra il contenuto delle norme che disciplinano ciascuna tipologia contrattuale flessibile inclusa nel contenuto dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001 ed il suo valore precettivo è stato possibile verificare la specialità che caratterizza il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l'uso delle tipologie contrattuali flessibili. Il rinvio inserito nel secondo comma dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 al contenuto dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che hanno il compito di disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, del lavoro accessorio e dei lavoratori socialmente utili, mette in luce la possibilità per l'autonomia collettiva di regolare ed integrare i singoli schemi contrattuali, realizzando, se così fosse, lo schema del modello contrattuale pattizio, ed evidenziando, in realtà, il limite costituito dall'essere circoscritta alla sola individuazione dei contingenti di personale da utilizzare. Una piccola parte dell'indagine è dedicata al lavoro a tempo parziale ed agli incarichi dirigenziali del personale inquadrato con contratto standard che, seppur inseriti nel contesto del rapporto a tempo indeterminato, sono anch'essi espressione di flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni considerati nell'ottica efficientistica dell'organizzazione amministrativa. Gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa e gli incarichi dirigenziali a tempo determinato conferiti a dipendenti sia interni sia esterni all'amministrazione che pubblica il bando presentano degli aspetti critici che hanno avuto spazio per un breve sviluppo. L'analisi del comma 5, dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, ha permesso di sviluppare il tema della violazione delle disposizioni imperative; ipotesi che nel passato ha trovato scarsa applicazione ma oggi, grazie alla recente versione introdotta dalla legge n. 102 del 2009, ribadisce, con più forza, la misura disciplinare che prevede il recupero nei confronti dei responsabili dirigenti inosservanti delle somme erogate dall'Amministrazione per l'impiego di lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile illegittimi. Interessante, considerata l'abrogazione della conciliazione obbligatoria in materia lavoro, anche per gli esigui risultati ottenuti, risulta la possibile applicazione al settore pubblico privatizzato delle forme irrituali di deflazione del contenzioso quali l'arbitrato e la conciliazione alla luce delle recenti innovazioni introdotte con la legge n. 183 del 2010, cd. Collegato Lavoro e dalla disciplina emanata, da ultimo, in materia di mediazione con il D.Lgs. n. 28 del 2010 e il D.M. n. 180 del 2010, così come modificato ed integrato dal D.M. n. 145 del 2011. Ulteriori considerazioni giungono dalla previsione obbligatoria, per tutte le amministrazioni, di redigere ogni anno un rapporto informativo da trasmettere ai nuclei di valutazione nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate relativamente alla quantità numerica ed alla spesa relativa per tipologia. Tale rapporto informativo è uno strumento avente duplice finalità: la prima è quella di permettere di individuare il dirigente responsabile dell'irregolare utilizzo delle tipologie contrattuali non standard, attraverso la verifica degli atti gestionali posti in essere; la seconda si avvale della possibilità, offerta da una rapida conoscenza del fenomeno, di adottare misure mirate a migliorare sia l'aspetto normativo, sia quello organizzativo che di controllo della gestione delle risorse umane e finanziarie. Aspetti che rilevano la necessità di insediare in maniera efficace la cultura della buona amministrazione della cosa pubblica. Questa linea di condotta rappresenta la migliore politica per realizzare i principi di trasparenza ed imparzialità propri delle pubbliche amministrazioni. Principi idonei ad evitare che l'uso dei contratti di lavoro non standard degenerino in forme di precariato o realizzino una alternativa modalità di accesso ai ruoli professionali delle pubbliche amministrazioni, elusiva, grazie al collaudato ricorso a norme che introducono le procedure di stabilizzazione, dei previsti concorsi pubblici di accesso all'impiego pubblico per contratti di lavoro a tempo indeterminato. Alla luce dei recentissimi interventi normativi e giurisprudenziali, merita una trattazione il "caso" rappresentato dai rapporti di lavoro flessibili utilizzati dal Ministero della Pubblica istruzione, sia per il personale docente sia per il personale amministrativo definito ATA. Prendendo spunto dai testi normativi (legge n. 124 del 1999 e D.P.R. n. 430 del 2000), la ricerca ha evidenziato alcuni aspetti critici rispetto all'applicabilità della direttiva comunitaria in tema di contratti a termine. Nelle conclusioni vengono messi in luce i caratteri del modello contrattuale neo-autoritatio, attualmente utilizzato, nella Terza Riforma, dalle pubbliche amministrazioni. Ulteriori considerazioni finali sono orientate ad indagare gli effetti che la imminente riforma del mercato del lavoro, attualmente in discussione in Parlamento, avrà anche nel settore pubblico "privatizzato" ed in particolar modo quali novità introdurrà rispetto all'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile; e quali di queste saranno sviluppate nel tentativo di fornire una soluzione circa l'opportunità che la pubblica amministrazione utilizzi - ancora una volta - uno schema negoziale previsto nel settore privato ma "riadattato" alle esigenze di specialità, insite nel rapporto di lavoro del settore pubblico, comunque insuperabili. ; The persistent inefficiency in human resources management in the public sector draws our attention on how the public administration is currently trying to face the new, complex issues raised on a national, international and global level. In a fast-developing labour market, the public sector is showing a scarce dynamism and a certain resistance to accepting innovative solutions. The discussion about the need to innovate the "privatised" working relationship and the public administration in general has been going on for quite some time; still, only recently performance evaluation has been introduced for "privatised" jobs within public administrations. Contractual flexibility in the public sector is an innovation that typically equals to more efficiency. That is why it seems necessary to us to investigate the reasons behind the lack of efficiency: is it only due to contractual issues or are there more complex causes, linked to cultural and social processes? Our study aims to investigate the adaptability of flexible employment contracts – that could be used to handle the organisation and management of personnel in public administrations – within the neo-authoritative contract model's framework. The use of these types of contracts, together with the need for improved productivity and efficiency, has become fundamental to the development policy of public administrations. It is also essential for the implementation of cost containment policies - the so-called spending review – for the personnel who, starting from the late 1990s, reached high levels in the organization. Control measures have been previously taken: aiming at improving the efficiency of the services provided, by containing costs and reducing personnel – wrongly deemed redundant –, new employments were blocked. By flexible employment contracts we mean all those types of contracts which are different from a full-time, permanent contract of employment, disciplined by the Article 2094 of the Italian civil code and defined as standard employment contract. Starting from the guidelines outlined in law n.15 of 4th March 2009 – which reformed public employment – we analyse the measures which discipline the way public administrations can avail themselves of flexible work contracts. To better understand the third reform of labour in the privatised public sector, it is necessary to examine the historical reconstruction of the normative discipline that regulates the working relationship within the public administrations: starting from the assumption of performance improvement, through the evolution of contract types which characterised it, from the unilateral and authoritative model to the pactional and equal one. Thanks to this reconstruction it is possible to identify the fundamental principles which are the basis of a possible use, by public administrations, of both standard employment contracts and flexible ones. This principles are "the efficiency of public administrations' organizations", "the intangibility of the organization, of the employer's power and its relative managerial responsibility", "the access to public offices" (relating to the application of the constitutional principle of equality, included in art.3, and to the imposition with the art.97 co.3 of the Constitution of public competitive examinations as the hiring method, except for dispensations stated by the law, in order to guarantee the public administration's impartiality). When included among the several instruments and primary objectives of public administrations, the use of flexible employment contracts represents a suitable tool to guarantee an improved organization of the offices, especially if it is aimed at pursuing the overall public administration's good performance (according to art.97 of the Constitution). Thanks to an appropriate management of human resources, it also becomes possible to reach a further target of primary importance for public administrations: the control of financial resources. An in-depth knowledge of human resources management (be them either employed through a standard contract or a flexible one), combined with a detailed analysis of the relevant context could support an efficient rationalisation of resources, not only on an organizational level but also on a political, economical and social one. The latter ones being so far the most complicated to deal with when managers tried to use flexible types of contracts within public administrations. It is not a coincidence that art. 36 of legislative decree n.165 of 2001 (Testo Unico per il Pubblico Impiego) and especially paragraph 3, eventually modified by art. 17 paragraph 6 of legislative decree n.78 of 2009, highlights that a system which foresees the use of the above-mentioned types of contracts as a management instrument for public administrations must be aiming at fighting the abuse deriving from its own distorted use. The abuse and distorted use of flexible employment contracts generated a large number of temporary employees, who are being cyclically helped by the so-called "stabilization norms" (norms which themselves have been under scrutiny for their legal validity). Through a detailed analysis of article 36 of legislative decree n.165 of 2001, and bearing in mind the norms that regulate the working relationship within the private sector, it is possible to pinpoint all the critical aspects of the legislative apparatus, thus verifying the separation between disciplines which allow the application of flexible employment contracts by private employers and public ones. This analysis also shows that the "unilateral and authoritative model", which regulated the working relationship within public administration before its privatisation, is still very much applied in that context. Starting from the first revision of the first two paragraphs of the already mentioned article 36, included in legislative decree n.29 of 1993, we can determine the field of application of legal relationships deriving from the stipulation of flexible employment contracts here listed. All the discrepancies between the discipline that regulates the working relationship with a private employer and the one with a privatised public administration are easily highlighted. By comparing the contents of the norms which regulate every single type of flexible contract, included in article 36 of legislative decree n. 165/2001, and its perceptive value, it is possible to verify the specification that characterizes the working relationship within public administrations and how flexible contracts are there applied. The cross-reference - included in the second paragraph of article 36 of legislative decree n. 165/2001 - to the content of the National collective labour agreements, which regulate temporary contracts, "paid apprenticeships" (contratti di formazione e lavoro), other vocational training and supply contracts (altri rapporti formativi e somministrazione del lavoro), ancillary casual labour (lavoro accessorio) and socially useful workers (lavoratori socialmente utili), highlights the possibility for the "collective autonomy" to regulate and integrate single contractual schemes thus realizing the scheme of the pactional contract model and at the same time emphasizing its limit in indicating only the categories of employees to whom that can be applied. A small part of this analysis is dedicated to part-time jobs and managerial assignments for personnel employed through standard contracts which, although falling under the category of permanent jobs, are nevertheless an expression of a certain labour flexibility within public administration on the basis of improved performance and administrative organization. The analysis of article 36, paragraph 5 of the legislative degree n. 165/2001 develops the topic of violation of imperative provisions: rarely applied in the past, a new revision has been re introduced with law n. 102/2009 and now strongly reasserts the application of disciplinary measures against non compliant managers in order to recover funds used to hire employees through illegal types of flexible contracts. Further considerations come from the mandatory requirement, for all public administrations, to present every year to their relevant evaluation board and to the Presidenza del Consiglio dei Ministri an informative report on all the types of flexible employment contracts applied in relation to the number of personnel and the relevant expenditure per type. This informative report has a double purpose: on one side it allows the board to easily locate the manager responsible for misusing non-standard contract types, by checking the managerial decisions taken; on the other side - and on a more general level - it offers the opportunity to adopt measures aimed at improving the legislative and organizational management of human resources and finances. As if to say, it is essential to effectively promote a culture that encourages a good management of the res publica. This trend represents, in our opinion, the best strategy to fulfill the principles of transparency and impartiality peculiar to public administrations. These principles will help avoiding that the implementation of non-standard employment contracts either degenerates into new forms of temporary employment or creates a new, elusive method to access professional jobs within public administrations thanks to the proven resort to the so-called "stabilization norms" and public competitive examinations for permanent positions. In light of the recent regulatory and jurisprudential interventions, we will separately analyze the case of flexible employment contracts applied by the Ministry of Education both for teachers and administrative personnel (called ATA). Starting from law n.124/1999 and D.P.R. n.430/2000, this section highlights the relationship between school employees and the applicability of the EU directive concerning temporary contracts. In the conclusions, we will describe the main characteristics of the neo-authoritative contract model, now used in public administrations. Further final reflections consider the effects that the imminent reform of the labour market, currently being discussed in Parliament, will produce also in the privatised public sector and especially what innovations will introduce in the flexible contractual typologies, in the attempt to provide a solution about whether or not the public administration should or could once again use a contractual scheme different from the one implemented in the private sector.
La presente ricerca ha avuto ad oggetto l'analisi della criminalità culturale di matrice immigratoria nel contesto europeo contemporaneo. Tradizionalmente con il termine reato culturalmente orientato o motivato si intende quel comportamento realizzato dal membro di una cultura minoritaria che è considerato reato dall'ordinamento giuridico della cultura dominante, ma che viene accettato, condonato, o addirittura incoraggiato all'interno del gruppo culturale del soggetto agente. Dedicare la ricerca esclusivamente alla criminalità culturale di matrice immigratoria significa restringere il campo dell'analisi ai reati culturali commessi da immigrati, escludendo i reati culturali commessi da minoranze autoctone. Esulano, tra l'altro, dall'analisi i reati riconducibili all'immigrazione clandestina e le forme di terrorismo transnazionale di matrice ideologica. Il particolare tipo di reato culturale di cui si è occupata la presente ricerca può dunque essere definito come il comportamento che l'immigrato pone in essere in quanto normale, approvato, o incoraggiato dalla propria cultura e che, invece, è considerato reato nello Stato di residenza. Alla nozione di reato culturale e di cultural defence, nonché alla delimitazione dell'ambito di indagine è dedicato il primo capitolo della tesi, nell'ambito del quale vengono spiegate le difficoltà che si incontrano nel definire il concetto di cultura e di pratica culturale. La ricerca è volta a valutare la possibile rilevanza penale da riconoscere al condizionamento esercitato sul reo dall'appartenenza a una determinata cultura, ossia al c.d. fattore culturale. La definizione di reato culturale è tale da comprendere situazioni molto diverse tra loro, rispetto alle quali è necessario trovare un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritto – o, meglio, diritti – alla specificità. Vengono alla mente pratiche riconducibili alle tradizioni di determinati gruppi etnici, quali la mutilazione degli organi genitali femminili, lo stupro che precede il matrimonio, l'impiego di minori nell'accattonaggio, o i matrimoni poligamici. Con ogni evidenza, si tratta di comportamenti che – ammesso e non concesso che siano (ancora) legittimamente praticati nei Paesi di provenienza dell'immigrato – rappresentano un problema nel momento in cui vengono posti in essere in uno Stato ospitante che ne riconosce la rilevanza penale. I flussi migratori che negli anni hanno accompagnato il processo di integrazione europea ed internazionale hanno messo in contatto persone portatrici di tradizioni culturali estremamente distanti tra loro, facendo della c.d. criminalità culturale uno dei temi più complessi, discussi e controversi del panorama giuridico contemporaneo. Dal punto di vista comunitario, tra l'altro, la nascita dell'area Schengen e il progressivo enlargement europeo hanno incrementato il fenomeno migratorio, imponendo anche a Paesi che non avevano vissuto in passato esperienze immigratorie di confrontarsi con le sfide del multiculturalismo. Spesso si pensa all'immigrazione e alla società multiculturale come una sfida per il diritto penale statale. L'area penale è, infatti, la più resistente alla sottrazione della sovranità che il processo di integrazione europea ed internazionale comporta perché rappresenta uno degli ambiti in cui maggiormente si riflette l'identità costituzionale degli Stati. La norma penale è una delle più alte manifestazioni dei valori prevalenti in una determinata area culturale. Da un lato, questo significa che l'ordinamento nazionale si riserva gelosamente la potestà di decidere quali comportamenti costituiscono reato all'interno del proprio territorio. Dall'altro lato, proprio per questo suo essere espressione della cultura di appartenenza di un determinato soggetto, la norma penale fa parte del bagaglio del migrante: l'individuo percepisce come reato ciò che per la propria cultura è reato e potrebbe non comprendere, e magari neanche percepire, le fattispecie vigenti nel territorio in cui emigra. Sullo sfondo dei reati culturali vi è una forma di conflitto culturale tra Paese ospitante e individuo ospite, che porta con sé la necessità di stabilire come devono essere giudicate le condotte poste in essere da chi appartiene a culture diverse da quella ritenuta dominante. Nell'ambito della ricerca che ha portato alla presente tesi è stato analizzato il trattamento dei culturally motivated crimes con particolare riferimento al sistema italiano e a quello del Regno Unito. L'Italia, alla quale è dedicato il secondo capitolo della tesi, storicamente è stata il punto di partenza dei migranti; soltanto nell'ultimo trentennio è divenuta una meta per gli immigrati e si è dovuta confrontare con la criminalità culturale di matrice immigratoria. Il modello italiano di gestione della diversità culturale, oltre ad essere particolarmente giovane, è considerato di stampo assimilazionista. La legislazione italiana non chiarisce la rilevanza penale da attribuire al fattore culturale, né tantomeno codifica una qualche forma di cultural defence. La strategia che, soprattutto negli ultimi anni, il nostro legislatore penale sembra portare avanti è quella di introdurre alcuni singoli reati culturalmente orientati, spesso con interventi caratterizzati da una decisa reazione sanzionatoria. In questo senso dal punto di vista legislativo vengono in particolare in rilievo due recenti interventi normativi: la legge n. 7 del 2006, con la quale è stato introdotto il delitto di mutilazioni genitali femminili e la legge n. 94 del 2009, con la quale è stato innalzata a delitto la contravvenzione di impiego dei minori nell'accattonaggio. Dal punto di vista giurisprudenziale in Italia si registra una mancanza di coerenza nelle decisioni che hanno ad oggetto i reati culturali. Per quanto attiene il sistema italiano vengono inoltre analizzate le sentenze pronunciate da tribunali esteri nell'ambito di procedimenti che hanno riguardato italiani accusati di reati culturalmente motivati. Si tratta di un'ottica molto interessante perché permette di superare l'atteggiamento paternalista mascherato da tolleranza che spesso accompagna il tema della diversità culturale. Il Regno Unito è stato scelto come secondo modello di riferimento e gli viene dedicato il terzo capitolo della tesi. Oltre ad aver vissuto un'esperienza immigratoria precedente rispetto all'Italia, la Gran Bretagna nel contesto europeo è considerata portatrice del modello c.d. multiculturalista di gestione della diversità culturale, che si contrappone al modello c.d. assimilazionista, al quale è invece riconducibile il sistema italiano. L'approccio multiculturalista è ispirato da una logica di uguaglianza sostanziale e tradizionalmente si caratterizza per il riconoscimento delle diversità culturali e l'elaborazione di politiche volte alla loro tutela. Nel Regno Unito l'appartenenza a una determinata minoranza culturale giustifica un diverso trattamento giuridico: si pensi al Road Traffic Act e all'Employment Act, che esonerano gli indiani sikh dall'uso del casco nei cantieri di lavoro e in moto, consentendo loro di indossare il tradizionale turbante. Espressione del multiculturalismo all'inglese sono anche gli Sharia Councils, pseudo-Corti formate da membri autorevoli della comunità islamica alle quali può rivolgersi la popolazione britannica musulmana affinché determinate controversie vengano risolte in applicazione della shari'a, la legge islamica. Lo studio degli Sharia Councils è stato una parte fondamentale del percorso di ricerca, svolto anche grazie alla partecipazione all'attività del Council di Londra. Questi organismi operano nell'alveo dell'Arbitration Act e sono oggi al centro di un fervente dibattito per due principali motivi. Prima di tutto nel Regno Unito si discute molto di parallel legal systems, ossia della possibilità di istituire per soggetti culturalmente diversi degli ordinamenti paralleli. Alcuni Autori ritengono che gli Sharia Councils esercitino una vera e propria competenza di carattere giurisdizionale. Assumendo questa tesi - invero minoritaria - il multiculturalismo all'inglese raggiungerebbe il cuore dell'ordinamento, all'interno del quale creerebbe una vera e propria spaccatura: ogni cittadino avrebbe la "sua" legge e il "suo" tribunale. Un altro problema fondamentale è quello dell'esercizio da parte dei Councils di una competenza di carattere penale: l'accusa rivolta a queste istituzioni è, infatti, quella di essersi arrogate una competenza in tema di violenza domestica forzando le maglie delle decisioni in tema di divorzio. Accanto all'analisi dedicata al sistema italiano e a quello inglese, per la ricerca si sono rivelate fondamentali anche le esperienze di Francia, Stati Uniti e Canada. Il sistema francese è considerato nel panorama europeo il principale modello assimilazionista: a questo proposito si parla di processo di francesizzazione degli immigrati, o anche cittadinizzazione senza integrazione. Gli Stati Uniti, spesso considerati la società multiculturale per eccellenza, sono la patria del dibattito sulla cultural defence, la strategia difensiva fondata sul fattore culturale come causa di giustificazione o come causa di diminuzione della pena. Il Canada, infine, è il portatore nel contesto internazionale del modello multiculturalista inglese: il multiculturalismo è espressamente previsto come principio nella Carta dei diritti e delle libertà, a partire dall'inizio degli anni novanta è stato reintrodotto per gli Inuit il circle sentencing, grazie al quale le decisioni, anche in materia penale, vengono adottate da una sorta di collegio composto dal giudice e da membri delle comunità interessate. Tra l'altro, è stata la Corte costituzionale canadese a formalizzare per la prima volta il c.d. test culturale, negli anni novanta. L'analisi del modello italiano, giovane e di stampo assimilazionista, e di quello multiculturalista inglese consente, anche grazie ai continui riferimenti ai sistemi adottati negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, di assumere un punto di vista più generale sul trattamento dei reati culturali. I processi che riguardano vicende di criminalità culturale testimoniano spesso una difficoltà di integrazione degli immigrati che non è solo culturale, ma prima di tutto sociale. Sotto questo punto di vista ciò che accade nelle aule dei tribunali diventa il metro di valutazione della politica legislativa statale in tema di immigrazione. Obiettivo della ricerca è stato quello di identificare gli strumenti per gestire la criminalità culturale, individuando le strade che si possono concretamente percorrere per superare le tensioni tra società multiculturale e sistema penale, alla ricerca di un equilibrio tra tutela dei diritti fondamentali e diritti alla diversità che non metta in discussione principi cardine dell'ordinamento penale quali quello di eguaglianza e quello di proporzionalità della pena. Preso atto della complessità del problema, la prima conclusione cui si giunge all'esito della ricerca è l'impossibilità di conferire una rilevanza penale generale al fattore culturale. Non è possibile introdurre nella parte generale del Codice penale una causa di giustificazione culturale, così come non è possibile codificare una circostanza attraverso la quale dare un rilievo sanzionatorio predefinito e generale alla componente culturale che porta il reo a delinquere. Più volte tra le pagine del lavoro si sottolinea che rientrano nella nozione di reato culturale condotte che non sono neanche lontanamente paragonabili dal punto di vista del disvalore sociale che le connota e rispetto alle quali non è possibile fare un discorso di carattere generale. Così come non è possibile lavorare sulla parte generale del Codice penale, anche la scelta di introdurre fattispecie di reato create ad hoc per incriminare specifiche pratiche culturali non è condivisibile. Ed infatti, da un lato identificare e tipizzare una pratica culturale è spesso realmente difficile – e nel codice penale non c'è spazio per l'indeterminatezza – e dall'altro le esperienze italiana e inglese rivelano che l'operazione è alquanto inutile. A livello legislativo l'unica strada valutabile sembra essere quella di prevedere delle specifiche cause di non punibilità che permettano di dare una rilevanza – in maniera controllata – al fattore culturale in determinate ipotesi. Questa opzione consente di prendere in considerazione determinate pratiche culturali e di cucire su di esse la non punibilità, senza che questo implichi una scelta ordinamentale di carattere generale. Sembra, tuttavia, che sia una strada difficilmente praticabile: tra l'altro, un tema delicato come quello della criminalità culturale potrebbe non trovare facilmente una maggioranza parlamentare tale da consentire di legiferare e, comunque, ciò potrebbe avvenire in tempi decisamente lunghi. Ebbene, allo stato la chiave della questione è nel trattamento delle singole e concrete vicende di criminalità culturale e, dunque, nel ruolo del giudice. Anche in questo caso sorgono dei problemi: basti pensare che nel momento in cui il legislatore penale si astiene dal prevedere in via generale una forma di cultural defence, il fattore culturale potrebbe anche essere preso in considerazione contra reum, ad esempio a fini deterrenti, per chiarire inequivocabilmente l'intollerabilità di un determinato comportamento, o per prevenire una vendetta da parte del gruppo di appartenenza culturale della vittima. Il dato è preoccupante perché, come sottolineano gli Autori che si occupano di criminalità culturale, in presenza di un reato culturalmente orientato o motivato il grado di rimproverabilità dell'autore si attenua in conseguenza di una minore esigibilità della conformazione al precetto penale. Per arginare il rischio che il fattore culturale venga preso in considerazione per aggravare il giudizio di responsabilità del reo è dunque indispensabile sensibilizzare i giudici e munirli degli strumenti adatti per gestire la diversità culturale. In tale ottica la ricerca presenta l'analisi di alcuni strumenti che vengono utilizzati nei Paesi analizzati e dai quali è possibile prendere spunto: vengono così in rilievo l'Equal Treatment Bench Book inglese, il circle sentencing canadese, e la possibilità, sul modello francese, di integrare l'organo chiamato a giudicare un reato culturale. Di queste strade quella concretamente più praticabile è l'Equal Treatment Bench Book, un vademecum destinato agli operatori giudiziari nell'ambito del quale si rinvengono linee guida per la gestione pratica delle diversità culturali. Si tratta di un prodotto non immediatamente importabile, poiché non sarebbe sufficiente tradurlo per applicarlo, ad esempio, in Italia. È dunque necessario che i singoli Paesi adottino il proprio Bench Book; in quest'ottica la ricerca presenta alcune indicazioni da prendere in considerazione sia per quanto attiene chi potrebbe essere chiamato a scrivere il vademecum, sia per quanto attiene il contenuto del documento. In conclusione va richiamata una riflessione di carattere più generale: il modo corretto di affrontare la criminalità culturale di matrice immigratoria si basa sulla consapevolezza che prevenire è meglio che reprimere. Sicuramente, l'attenzione al ruolo del giudice e agli strumenti di concreta gestione della diversità culturale sono molto importanti, ma lo sono ancor di più le politiche per l'integrazione della società multiculturale, nella quale si assiste a un processo di scambio e di fusione culturale che si rivela il momento privilegiato per determinare l'equilibrio tra valori indiscutibili e diritti alla diversità. ; The research focuses on culturally motivated crimes related to migratory flows in the European area. A cultural offence is defined as an act by a member of a minority culture, which is considered an offence by the legal system of the dominant culture; that same act is nevertheless, within the cultural group of the offender, condoned, accepted as normal behaviour and approved or even endorsed and promoted in the given situation. The specific focus on immigration means that the research does not analyse crimes committed by native minorities. Moreover, crimes related to illegal immigration and transnational terrorism are not part of the dissertation. Thus, the specific type of cultural offences analysed in the research can be defined as the immigrant's behaviours that is normal, approved or promoted in his/her culture, but is considered offences in the State where he/she lives. The first chapter of the thesis is devoted to defining the notion of cultural crimes and cultural defence, and to outline the research analysis. This chapter acknowledges the difficulties encountered in defining the concepts of culture and cultural custom. The purpose of the research is to evaluate to what extent the fact that the defendant based his/her actions on a cultural norm can be taken into account in determining his/her responsibility within the criminal legal system of the country where the action takes place. Many different behaviours can be linked to cultural crimes and in all these circumstances there is the need to find a balance between fundamental rights protected by the domestic legal system and the specificity rights of minority groups. Consider the case of female genital mutilations, rape before wedding, or polygamy. These acts – even if they are (still) permitted in the country of the immigrant – may be considered offences in the country where the immigrant lives. Due to the immigration phenomenon related to the process of European and international integration, people coming from really different cultural backgrounds live together and nowadays the cultural crime rate has become one of the most problematic and debated legal issues. Furthermore with the gradual European enlargement more and more countries have had to face with problems related to multiculturalism. Immigration and multicultural society are often considered as a challenge for the criminal law, which is one of the more resistant areas of the whole legal system and opposes the process of European and international integration. This happens because the criminal law mirrors the essential nature of a country through the choice of the acts that are considered offences in the national territory. This choice is deeply influenced by the cultural background of the country and the criminal law is part of the cultural baggage of the immigrant. When people immigrate they bring with themselves the awareness that a behaviour is considered an offence in their country and they may not know or understand what is considered an offence in the country where they decide to live. Culturally motivated crimes stem from a conflict between the immigrant and the legal system of the country where he/she decides to live, between a cultural norm and a legal standard. With this regard, Van Broeck noted that the cultural offence has to be caused directly by the fact that the minority group the offender is a member of uses a different set of moral norms when dealing with the situation in which the offender was placed when he committed the offence: the conflict of divergent legal cultures has to be the direct cause of the offence. The research analyses how legislator and judges deal with cultural offences in Italy (Chapter II) and in the United Kingdom (Chapter III). For a long time Italy has been the starting point for immigrants and only in the last thirty years it has become their destination. For this reason the problem of determining the relevance of the cultural factor on the structure of an offence is more recent in Italy than in the United Kingdom, where the multicultural society is the result of the long story of the colonialism and the Commonwealth of Nations. Furthermore, the Italian system of handling cultural diversity is basically considered an example of assimilationism while the English one is considered an example of multiculturalism. This means that in the United Kingdom, more than in Italy, the legislation aims at preserving minority customs. In addition to the analysis of the Italian and the English systems, also the experience of France, of the United States and of Canada has been essential for the research. In the European context the French system is considered the best example of assimilationism. The law banning the wearing of a niqab or full-face veil in public is the clearest instance of this approach to different cultures which is usually regarded as gallicization of immigrants. The United States, often considered the multicultural society par excellence, are the birthplace of the debate about the cultural defence. In the international context Canada is considered an example of a multicultural system: multiculturalism is mentioned in the Canadian Charter of Rights and Freedoms of 1982 and since the 90's the circle sentencing can be used to solve disputes in the Inuit group with the participation of members of the community in addition to the judges. Furthermore, in the same period the Canadian court formalized for the first time the distinctive cultural test. The comparison between the Italian and the English systems in handling cultural differences deriving from immigration and all the references to the American, Canadian and French systems allow the research to adopt a more general point of view in analysing cultural crimes. Trials concerning culturally motivated crimes often give evidence of a difficulty in immigrants' integration; an issue that is not only a cultural problem, but primarily a social dilemma. From this point of view what happens in courtrooms becomes a device to evaluate a state immigration policy. The purpose of the research is to identify useful tools to manage cultural offences, finding a balance between victims' fundamental rights and the cultural specificity of a minority group. The first conclusion reached in the dissertation regards the impossibility to provide a general relevance to the cultural factor in the criminal system, so that it is not possible to introduce a cultural defence. Many different behaviours can be considered cultural offences and it is not possible to treat as homogeneous a broad range of acts. At the same time, also the introduction of type of offences to criminalize a specific cultural practice is not the right way to solve the problem of the cultural factor in the structure of the offence. First of all there would be many problems in identifying a cultural practice, because it is really hard to recognize which behaviour can be related to the cultural background of the minority group of the defendant. Moreover, as can be noticed when problems concerning the criminalization of the female genital mutilation in Italy and the United Kingdom are analysed, this way seems almost useless. A good option is to adopt methods which do not impose a penalty to the defendant, taking into account his/her cultural background in certain circumstances. This can be done using the absolute discharge of the English legal system or the category of the cause di non punibilità of the Italian one. In this case the chance not to impose a penalty to an immigrant defendant can be achieved without any consequence on the nature of offence of the behaviour in the legal system of the country where he/she decides to live. In a similar way in the Italian system it could be difficult to find the parliamentary majority to approve a legislation introducing the specific causa di non punibilità. Thus, the more practicable solution concerns the judges' activity. In this case, there is the need to avoid that the cultural factor is used contra reum worsening, for instance, the penalty. This modus operandi would not be fair because in the case of actions determined by a cultural norm commonly accepted by a minority group, the degree of reproach of these behaviours should be alleviated. In order to avoid that the cultural factor could be taken into account contra reum the first thing to do is to sensitize judges to the problems of the criminal law in a multicultural society. With this regard, the research analyses some tools used in the analised systems: in particular, the English Equal Treatment Bench Book, the Canadian system of the circle sentencing and the possibility, as in the French legislation, to integrate the judging body with lay judges in trials concerning cultural offences. The most workable solution is the Equal Treatment Bench Book, a guide for judges, magistrates, and all other judicial office-holders to handle cultural differences in trials. This English vademecum is not immediately importable in other European countries. In fact, it is not enough to translate it to solve the problem of sensitizing judges in so different legal systems. Thus, it is necessary to adopt a document like the English Bench Book in every country where immigration puts cultural offences on the agenda. From this point of view the research gives some hints about the drawing up of this vademecum. In conclusion it is possible to affirm that the correct way to approach cultural offences committed by immigrants is to understand that prevention is better than cure. Surely, it is important to pay attention to the role of judges and to the tools they can use in handling criminal offences. It is even truer that all the policies for the integration of the multicultural society are the most important instrument to determine the balance between fundamental rights and specificity rights of minority groups, that is also the key to handle cultural crimes.
1.Introduzione Nel 2014, nell'ambito dell'Agenzia Europea Frontex, prese avvio l'operazione Triton, coordinata dall'Italia. Da quel momento e fino al 2018, tutte le persone soccorse in mare dovevano essere portate in salvo sulle coste italiane. Una volta arrivate sul territorio, queste persone dovevano essere messe nella condizione di potere avanzare una richiesta di asilo o di protezione internazionale. Il già esistente sistema di accoglienza dedicato alle persone richiedenti asilo (SPRAR) si basava sulla disponibilità volontaria degli enti locali e non era in grado di gestire l'elevato numero di persone in arrivo. Furono per questa ragione istituiti (art. 11 Dlgs. n.142/2015) i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sotto la diretta gestione degli Uffici Territoriali del Governo (Prefetture). I CAS erano quindi pensati come strutture temporanee ed emergenziali. Le azioni messe in atto dai CAS dovevano, innanzitutto, rispondere ai bisogni primari delle persone accolte, in termini di vitto, alloggio e assistenza sanitaria. Ma, a dispetto del loro carattere temporaneo, e alla stregua dello SPRAR, i CAS avevano l'obbligo di svolgere attività (apprendimento della lingua italiana, istruzione, formazione, inserimento nel mondo del lavoro e nel territorio, assistenza legale e psicosociale) finalizzate all'acquisizione di strumenti di base per favorire i migranti accolti nei processi di integrazione, di autonomia e di acquisizione di una cittadinanza consapevole. 1.1 I richiedenti asilo: L'accoglienza in Italia e una possibile traiettoria resiliente La maggior parte dei richiedenti asilo proveniva dall'Africa subsahariana o dall'Asia Meridionale (Afghanistan e Bangladesh e Pakistan) e aveva alle spalle un lungo viaggio di cui la traversata mortifera via mare o attraverso i Balcani o il Caucaso era solo l'ultima tappa. La durata media del viaggio dal paese di origine era di venti mesi, che si svolgevano quasi sempre al limite della soglia di sopravvivenza. È ormai ben documentato il fatto che la privazione di cibo, di ripari, l'affaticamento estremo, il senso di minaccia, i maltrattamenti ripetuti, i lutti dovuti alla perdita di persone care durante gli spostamenti sono condizioni che accomunavano tutti questi percorsi migratori. A queste, si aggiungeva, per la maggior parte di loro, un periodo di reclusione, che poteva superare l'anno, nei centri di detenzione della Libia dove le condizioni disumane, la pratica sistematica della tortura e della violenza sessuale sono state rese note e denunciate dalle principali organizzazioni internazionali, come Medici Senza Frontiere e Amnesty International (Fondazione Migrantes, 2018). Inoltre, l'alto potenziale traumatico di queste esperienze si aggiunge a vissuti altrettanto tragici legati alle circostanze di vita nel paese di partenza che aumentano la vulnerabilità dei migranti. Infatti, questi sono il più delle volte costretti a scappare da condizioni di instabilità politica, di gravi conflitti interni civili e di estrema povertà. È per quanto fin qui descritto che si può affermare che le persone in arrivo nei CAS sono portatrici di storie potenzialmente traumatiche e ad alta complessità psicosociale che richiedono un'attenzione particolare. Le pratiche d'accoglienza che vengono messe in atto nei centri devono tenere conto di tale complessità nel rispondere ai bisogni di ogni persona, sia nella dimensione psicologica sia in quella sociale. In questo modo, nel cercare di raggiungere l'obiettivo ultimo dell'integrazione dei richiedenti accolti, i progetti d'accoglienza potrebbero favorire la definizione di un loro processo di resilienza che li porti a vivere una condizione socialmente accettabile e di benessere. Il concetto di resilienza ha suscitato molto interesse in letteratura negli ultimi decenni. Un primo dato storico nell'evoluzione della teorizzazione di questo concetto (Cicchetti & Garmezy,1993) è lo spostamento dell'interesse dalla patologia e dalla vulnerabilità alla resilienza, che si può ricondurre alla diffusione di una prospettiva positiva e salutogena nella ricerca e nella pratica clinica e psicosociale (Bonanno & Diminitch, 2013; Bonanno, Westphal, & Mancini, 2011; Cicchetti, 2013; Cyrulnik & Malaguti,2015; Walsh, 2016). Negli anni il concetto di resilienza è stato indagato a partire da diversi approcci. Da alcuni autori (Costa & McRae, 1980) è stato studiato come un tratto di personalità, stabile e fisso, da altri (Wagnild & Young, 1993) come l'abilità di fronteggiare e adattarsi positivamente a eventi stressanti o avversivi. Cicchetti (2013), concettualizzando la resilienza come un processo, ha concentrato l'attenzione sui fattori che lo determinano, con particolare interesse a quelli genetici e neurali. Bonanno e Diminitch (2013) si sono, invece, concentrati su quei fattori di rischio o quelle condizioni esistenziali potenzialmente vulnerabili che possono determinare il processo e che gli autori (Bonanno et al., 2011) definiscono come eventi potenzialmente traumatici (EPT). Rutter (2012), da parte sua, ha teorizzato la resilienza come un concetto dinamico dato dalla continua interazione tra i fattori protettivi e di rischio, portando all'attenzione l'influenza ambientale. Tuttavia, sebbene l'autore (Rutter, 2012) abbia messo in luce la funzione dell'ambiente nel processo di resilienza, sono gli approcci più ecologici e sociali (Anaut, 2005; Cyrulnik, 2001; Cyrulnik & Malaguti, 2015; Malaguti, 2012; Walsh, 2016) che hanno enfatizzato e dato maggiore importanza ai fattori contestuali, sociali, familiari e relazionali nella definizione del processo di resilienza. In particolare, secondo Cyrulnik (2001), posti i fattori di protezione, il processo non può avvenire che nell'ambito di relazioni significative. Nello specifico, l'autore distingue tre elementi fondamentali che rendono conto, nell'insieme, del processo: 1- le esperienze pregresse nell'infanzia e nella storia personale dell'individuo, la qualità dei legami di attaccamento e la capacità di mentalizzazione; 2- il trauma e le sue caratteristiche (strutturali, contingenti ed emotive e sociali); 3- la possibilità di risignificare la tragedia avvenuta attraverso il sostegno affettivo e la relazione d'aiuto, descritta, genericamente come l'incontro con l'Altro. Secondo l'autore, la persona costruisce nel proprio passato, in particolar modo durante l'infanzia, attraverso il legame di attaccamento sufficientemente sicuro, le risorse e la capacità di mentalizzazione utili per affrontare e risignificare il trauma. È in questo spazio relazionale quindi che la persona forma una rappresentazione di Sé come persona amabile, capace di affidarsi e di costruire relazioni forti e significative anche in futuro. La capacità e la possibilità di costruire queste relazioni sono viste come le condizioni che possono aiutare la persona a riconoscere le risorse da attivare per superare la profonda ferita incisa dall'esperienza traumatica e per ristabilire un equilibrio nella propria esistenza. Nell'ultima fase della sua teoria l'autore specifica l'importanza di una figura che chiama tutore di sviluppo o di resilienza, le cui caratteristiche e funzioni sono approfonditamente delineate nella pubblicazione di Lighezzolo, Marchal, & Theis (2003). Secondo gli autori, il tutore di resilienza deve favorire un processo di autonomia e ri-strutturazione del sé, trasmettere sapere, fornire esempi e modelli che permettano e legittimino l'errore; non deve quindi ricoprire un ruolo insostituibile e onnipotente. Il tutore di resilienza, sia esso una persona adulta informale o una figura istituzionalizzata nel sistema di cura e presa in carico della persona, è una risorsa esterna che coadiuva nel processo di resilienza. In questo ultimo caso, la formazione e la definizione del ruolo dell'operatore nel processo di presa in carico contribuiranno alla costruzione di un efficace intervento sociale e clinico per la promozione della resilienza nell'assistito (Manciaux, 2001). Negli ultimi anni, una serie di rassegne internazionali (Agaibi & Wilson, 2005; Siriwardhana, Ali, Roberts, & Stewart, 2014; Sleijpen, Boeije, Kleber, & Mooren. 2016) e in Italia (Tessitore & Margherita, 2017), hanno tentato di sistematizzare i risultati degli studi sul processo di resilienza nell'esperienza potenzialmente pluritraumatica della migrazione, con particolare attenzione alla condizione esistenziale di rifugiato. I risultati evidenziano e si concentrano, soprattutto, sui principali fattori di rischio e quelli protettivi che possono intervenire nel processo di resilienza a seguito di queste esperienze pluritraumatiche. In questi lavori emerge, tuttavia, la necessità per la ricerca di individuare strategie e procedure per interventi e pratiche mirati ed efficaci a promuovere il processo di resilienza nei contesti dell'accoglienza. In particolare, rispetto al contesto italiano si riscontra che sono stati svolti pochi studi sul tema, ancora da approfondire (Tessitore & Margherita, 2017). L'analisi approfondita delle pratiche costruite e messe in atto nell'ambito dell'accoglienza negli ultimi anni in Italia risulta rilevante per una sistematizzazione di conoscenze e competenze e utili per la progettazione di interventi psicosociali efficaci. La presente ricerca si poneva l'obiettivo di studiare, se e in che misura, le pratiche dell'accoglienza e le strategie di intervento messe in atto nel sistema CAS di Parma e Provincia abbiano favorito un processo di resilienza nei richiedenti asilo accolti. Inoltre, si poneva l'obiettivo di comprendere se e in che modo l'operatore dell'accoglienza potesse svolgere una funzione di tutore di resilienza. Poiché basandosi sulla teorizzazione di Cyrulnik (2001), l'esito del processo di resilienza è dato dall'interazione dei fattori protettivi individuali, dalla qualità/intensità del trauma e/o comunque delle situazioni avverse e dall'incontro con i possibili tutori di resilienza, il progetto si è sviluppato in due fasi e ha tenuto conto sia dell'esperienza dei richiedenti asilo sia di quella degli operatori. Rispettivamente, nella prima fase l'obiettivo della ricerca si proponeva di individuare le risorse/vincoli personali presenti nella biografia dei richiedenti asilo, i vissuti emotivi e la qualità dei legami stabiliti nel passato, di individuare le risorse/vincoli messe in gioco durante il viaggio e, infine, di individuare le risorse/vincoli con funzione protettiva dal momento dell'arrivo in Italia e in particolare nel CAS di residenza e nella relazione con gli operatori. Nella seconda fase, la ricerca mirava a individuare le risorse e le competenze, rintracciabili nelle biografie degli operatori dei CAS messe in gioco nella pratica professionale e di conoscere le loro motivazioni alla base della scelta professionale, e a comprendere il significato e l'uso consapevole della relazione con i richiedenti asilo nella loro pratica professionale e, infine, a valutare la qualità della loro vita professionale tenendo conto del forte carico emotivo dovuto alla relazione con i richiedenti asilo e il loro vissuti traumatici. 2. Migrazione ed Europa: Una revisione sistematica sulla promozione della resilienza dei richiedenti asilo negli Stati membri dell'Unione Europea. La migrazione è un fenomeno complesso determinato dall'interazione di fattori di espulsione e di attrazione. L'Europa ha sempre svolto un ruolo di attrazione nei flussi migratori. Negli ultimi anni, le direttive per gli Stati membri hanno mirato a promuovere il benessere dei richiedenti asilo. È importante sviluppare la resilienza per raggiungere il benessere delle persone. L'obiettivo della revisione sistematica è stato quello di esplorare come viene studiata la resilienza nei richiedenti asilo nei paesi dell'UE. Sono stati consultati i database internazionali PsycINFO, PubMed, Web of science, Scopus, MEDLINE, Psychology e behavioural collection. Gli articoli sono stati analizzati secondo i criteri PRISMA. Sono stati ottenuti 12 articoli. Dall'analisi qualitativa sono emersi tre approcci principali e quattro principi teorici fondamentali che potrebbero guidare lo studio della resilienza in contesti migratori. Lo studio della resilienza può essere orientato verso un approccio clinico, clinico e sociale o psicosociale. Inoltre, la ricerca ha tenuto conto della necessità di costruire una nuova narrazione di sé e della propria storia nei richiedenti asilo, di restituire agency ai richiedenti asilo, di valorizzare il proprio contesto culturale e quello del paese ospitante e di promuovere una democratizzazione del sistema istituzionale di accoglienza. Si suggeriscono implicazioni per le politiche degli Stati membri dell'UE coinvolti in prima linea nella gestione dell'accoglienza in Europa. Data la limitata letteratura sull'argomento, questa rassegna suggerisce una nuova e originale visione di presa in carico dei richiedenti asilo attraverso una maggiore implementazione di interventi focalizzati sull'individuo e sulle sue risorse. 3. Promozione della salute psicosociale nei migranti: una revisione sistematica della ricerca e degli interventi sulla resilienza nei contesti migratori. La resilienza è identificata come una capacità chiave per prosperare di fronte a esperienze avverse e dolorose e raggiungere un buono stato di salute psicosociale equilibrato. Questa revisione mirava ad indagare come la resilienza è intesa nel contesto della ricerca sul benessere dei migranti e come gli interventi psicosociali sono progettati per migliorare la resilienza dei migranti. Le domande della ricerca hanno riguardato la concettualizzazione della resilienza, le conseguenti scelte metodologiche e quali programmi di intervento sono stati indirizzati ai migranti. Nei 63 articoli inclusi, è emersa una classica dicotomia tra la resilienza concettualizzata come capacità individuale o come risultato di un processo dinamico. È anche emerso che l'importanza delle diverse esperienze migratorie non è adeguatamente considerata nella selezione dei partecipanti. Gli interventi hanno descritto la procedura ma meno la misura della loro efficacia. 4. Il sistema d'accoglienza straordinaria di Parma e provincia: soddisfazione e benessere percepito dai migranti accolti. I servizi e le progettualità messi in atto nei CAS mirano a favorire integrazione, autonomia e benessere. Questi obiettivi si strutturano sull'attivazione e promozione di risorse dei richiedenti asilo. Nello specifico, vanno ad innestarsi sulle loro abilità, sulle conoscenze, sulle competenze, sulla loro agency e sulla capacità di proiettarsi verso un futuro. Poiché i richiedenti asilo sono i principali attori e fruitori di questi servizi, la valutazione di efficacia e di raggiungimento degli obiettivi preposti deve tenere conto necessariamente del loro punto di vista. I richiedenti asilo che hanno partecipato allo studio erano circa il 20% della popolazione dei richiedenti asilo adulti presenti nel territorio di Parma e provincia. Per la stratificazione del campione si è tenuto conto della variabile del paese di origine, della collocazione sul territorio provinciale (distretto) e il tempo di permanenza nel sistema CAS. È stato costruito un questionario ad hoc che mirava ad indagare la percezione di autonomia, di benessere personale, di soddisfazione verso sé stesso, la percezione di essere rispettato nelle proprie tradizioni culturali e la soddisfazione verso il servizio. Il questionario constava di una parte introduttiva, che forniva una breve descrizione al partecipante delle finalità d'indagine, e di diverse sezioni, che indagavano e approfondivano specifiche aree (temi) di interesse. Le prime due aree hanno rilevato i dati socio-anagrafici e il viaggio dei richiedenti asilo. La terza e la quarta area hanno indagato l'accoglienza nel centro e la struttura in cui risiedeva il beneficiario. Le altre aree si sono concentrate sui servizi primari (beni e servizi di prima necessità, assistenza medica) e servizi secondari (assistenza legale, lingua italiana, sostegno psicosociale, lavoro, mediazione culturale, orientamento al territorio e tempo libero) che gli venivano offerti. Le ultime sezioni si focalizzavano sul rapporto con gli operatori, sul progetto individualizzato e sui propri piani futuri. Alla fine del questionario vi era una breve sezione che mirava ad indagare la soddisfazione generale verso l'intero processo di accoglienza in Italia e la specifica esperienza nel territorio di Parma e provincia. Sono state effettuate delle analisi ed elaborazioni statistiche descrittive tramite il software SPSS. Dal questionario è emerso un quadro complessivo dei servizi offerti e una mappatura delle pratiche messe in atto all'interno delle strutture a partire dal punto di vista dei richiedenti asilo. Questi hanno espresso una generale soddisfazione del sistema accoglienza in Italia e in particolare di quella ricevuta a Parma. Hanno riportato un senso di protezione e sicurezza e una generale percezione di capacità e autonomia raggiunta in molti dei servizi e ambiti della quotidianità. Le aree più critiche sono risultate essere l'assistenza legale, l'avviamento lavorativo, la creazione di relazioni sociali con italiani nel tempo libero, la progettazione individualizzata e in particolare il sostegno psicosociale e, infine, la progettazione futura. In queste aree i richiedenti asilo hanno espresso una bassa soddisfazione verso il servizio di sostegno ricevuto, una scarsa consapevolezza di sé e delle proprie capacità e una bassa percezione di un'autonomia conquistata dal singolo servizio e, più in generale, dalla struttura d'accoglienza. 5. Vissuti, fattori di protezione e fattori di rischio nelle biografie dei richiedenti asilo: la definizione di traiettorie di resilienza nei Centri d'Accoglienza Straordinaria. I richiedenti asilo sono portatori di storie potenzialmente traumatiche a seguito delle quali possono vivere distress psicologico e PTSD nel paese d'accoglienza. Qui vengono inseriti in programmi che mirano a favorire benessere psicologico e integrazione. Tale processo è definito resilienza, La resilienza è un processo che vede le persone impegnate a guarire da esperienze dolorose, a prendersi cura della propria vita per continuare a svilupparsi positivamente in modo socialmente accettabile. Il presente studio mira a comprendere i fattori di protezione e le risorse personali e sociali che possono favorire il superamento dei traumi e un processo di resilienza nei richiedenti asilo. Sono stati somministrati 29 test CORE-10 e questionari costruiti ad hoc per il sostegno sociale percepito e condotte altrettante interviste in profondità. Con risultati moderati e gravi di distress psicologico nei partecipanti, sono emersi fattori protettivi e risorse già nella fase pre-migratoria. I legami di accudimento sembrano svolgere una funzione protettiva anche durante l'accoglienza, favorendo la costruzione di rapporti di fiducia. Il supporto sociale della comunità d'accoglienza e quello degli operatori nei centri possono influenzare la definizione di traiettorie resilienti. Lo studio solleva implicazioni di tipo clinico e sociale. Nei suoi limiti lo studio vuole essere un'apertura a nuovi approfondimenti di ricerca. 6. La qualità della vita professionale di chi lavora con i richiedenti asilo: Compassion Staisfaction, Burnout e Secondary Traumatic Stress negli operatori dell'accoglienza In Italia negli ultimi anni sono stati strutturati Centri di Accoglienza Straordinaria per rispondere ai bisogni primari e secondari dei richiedenti asilo approdati sulle coste mediterranee. A seguito dell'apertura dei CAS, sul territorio nazionale si è formato un nuovo corpo professionale, i professionisti dell'accoglienza. Poiché inizialmente non è stata richiesta una formazione specifica in base al contesto e agli obiettivi posti, il loro profilo professionale derivava tendenzialmente dai diversi percorsi formativi e lavorativi precedenti. Considerando il mandato istituzionale del loro lavoro, quale favorire l'accoglienza e una completa presa in carico dei richiedenti asilo, i professionisti dell'accoglienza sono quotidianamente coinvolti nella relazione con gli accolti ed esposti ai racconti traumatici o ai sintomi agiti di questi. Infatti, i richiedenti asilo sono persone spesso profondamente traumatizzate dalle esperienze passate, dal viaggio, ma anche disorientate e impreparate per la complessa esperienza dell'accoglienza e dell'integrazione. Questo aspetto del lavoro con i richiedenti asilo può influenzare il clima e la qualità della vita professionale dei professionisti dell'accoglienza. Infatti, come nelle altre professioni d'aiuto continuamente esposte a eventi stressanti o traumatici, anche nel lavoro di cura e accoglienza dei richiedenti asilo è alto il rischio di sviluppare i sintomi negativi associati al burnout e al trauma vicario. Sebbene, negli ultimi venti anni, la qualità della vita professionale sia stata ampiamente approfondita in diversi settori, non risultano studi che esplorino questo tema tra i professionisti del settore dell'accoglienza. In questo studio è stato sottoposto il questionario ProQOL 5 ai professionisti dell'accoglienza dei Centri di Accoglienza Straordinaria di Parma e provincia, attivamente coinvolti nella relazione d'aiuto con i richiedenti asilo, con lo scopo di definire lo stato di benessere psicosociale rispetto alla loro qualità di vita professionale. Anche se si è dimostrato che mediamente i professionisti dell'accoglienza riportano una buona soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, sono emersi tre profili. Il primo gruppo sembra esprimere soprattutto Burnout, il secondo gruppo una maggiore Compassion Satisfaction e il terzo gruppo un malessere evidente sia per il Burnout che per il Secondary Traumatic Stress. I dati ottenuti permettono di colmare parzialmente un vuoto nella letteratura di settore. Inoltre, la rilevanza dei dati spinge alla riflessione sulla possibilità di incoraggiare interventi efficaci di prevenzione e management delle organizzazioni, al fine di favorire il benessere psicosociale di questo corpo professionale emergente. 7. Essere professionisti dell'accoglienza: l'importanza di un uso consapevole del Se' nella relazione d'aiuto e la funzione del tutore di resilienza. All'interno dei CAS sono stati impiegati professionisti di differenti background formativi ed esperienziali. Appannaggio degli operatori è l'attivazione dei servizi interni ed esterni e il monitoraggio di tutte le fasi del progetto di accoglienza. La presa in carico si configurerebbe come una relazione d'aiuto possibile attraverso la compresenza di diversi aspetti di Sé. Chi lavora con i richiedenti asilo deve affrontare e gestire vissuti potenzialmente traumatici che influenzano il buon esito dell'intervento clinico-sociale. Nel favorire benessere psicologico nei beneficiari, gli operatori svolgono funzioni che richiamano quelle del tutore di resilienza. In questo studio si è esplorata la rappresentazione dei professionisti dell'accoglienza e la consapevolezza di Sé a partire dal loro punto di vista. Sono stati condotti tre focus group e le trascrizioni verbatim sono state analizzate secondo l'approccio IPA. Sono emersi tre aspetti del Sé (Sé personale, Sé professionale e Sé burocrate). Il Tempo e il Contesto sociale sono risultate possibili variabili che influenzano la relazione d'aiuto. Lo studio propone implicazioni di ricerche future e di policy. 8. Conclusioni Negli anni il sistema italiano dell'accoglienza si era ormai rodato e formalizzato su due principali dispositivi: il sistema SPRAR e i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Tuttavia, negli ultimi due anni, con il cosiddetto decreto Salvini (D.lg. 4/19/2018 n° 113), si è assistito ad un graduale ridimensionamento dei numeri degli accolti e ad una conseguente chiusura di strutture del sistema CAS. Pertanto, assume rilevanza e importanza capitalizzare le esperienze di accoglienza e comprenderne maggiormente le potenzialità e i limiti. Con la presente ricerca e le analisi delle pratiche d'accoglienza e delle progettualità messe in atto all'interno del sistema CAS sono emersi due risultati principali. Il primo risultato emerso è che i richiedenti asilo accolti abbiano consapevolezza delle risorse e dei fattori protettivi che hanno acquisito nell'arco di vita. Inoltre, si è evidenziata una forte e imprescindibile interdipendenza tra i vissuti psicologici, i bisogni e le risorse dei richiedenti asilo e la funzione relazionale dell'operatore dell'accoglienza. Dalla ricerca è emerso che il valore di tale interdipendenza, non essendo riconosciuto formalmente e quindi esplicitamente richiamato nelle norme e regolamentazioni, era dipeso da un reciproco riconoscimento dei richiedenti asilo accolti e degli operatori. Tuttavia, questa relazione, se opportunamente strutturata e formalizzata, può favorire la definizione di traiettorie di resilienza e il raggiungimento degli obiettivi di integrazione, autonomia e benessere psicosociale. Al momento in cui è stata condotta la ricerca, questi obiettivi erano parzialmente raggiunti. Infatti, sebbene nel sistema d'accoglienza i richiedenti asilo abbiano percepito di essere in un luogo sicuro e protetto e fossero generalmente soddisfatti dei servizi offerti, hanno riportato livelli medio-alti di disagio psicologico. Il valore traumatico delle loro esperienze di vita è stato esplorato e compreso nella sua diacronicità, in quanto i vissuti traumatici sono rintracciabili non solo durante il viaggio ma già nelle esperienze pre-migratorie. Le biografie dei richiedenti asilo sono segnate da profonde ferite, che spesso risalgono a perdite, lutti o tradimenti da parte delle figure significative dell'infanzia o della comunità allargata, fino a sentirsi espulsi dalle politiche disattente degli Stati d'appartenenza. Anche l'arrivo in Italia e l'inserimento nel sistema d'accoglienza comportano sfide esistenziali, che in alcuni casi arrivano a reiterare esperienze traumatiche passate. Nonostante questo, i richiedenti asilo hanno mostrato consapevolezza delle proprie risorse e dei fattori di protezione acquisiti già durante l'infanzia, attraverso le relazioni significative e di accudimento. Queste risorse hanno svolto una funzione di protezione e sostegno nel loro sforzo psicologico di fronteggiare e sopravvivere alle avversità incontrate in tutto l'arco di vita. Nonostante la loro consapevolezza e tenuto conto della permanenza relativamente lunga nel sistema d'accoglienza, è risultato che le esperienze traumatiche non trovano uno spazio adeguato di ascolto e di ri-significazione una volta inseriti nei progetti di accoglienza. Le caratteristiche strutturali e organizzative del sistema non sembrano favorire quell'incontro con l'Altro che può garantire la rielaborazione delle esperienze passate e riattribuire senso e agency alla propria vita, anche nella quotidianità. Al contrario, i richiedenti asilo sono consapevoli di ritrovarsi in una posizione di svantaggio rispetto al potere decisionale sui loro progetti di vita. Non sono coinvolti nelle scelte progettuali e non percepiscono una crescita personale nelle competenze e nelle capacità necessarie per rendersi autonomi. Tuttavia, i richiedenti asilo riconoscono negli operatori degli interlocutori diretti che svolgono un ruolo di congiunzione con la società ospitante. Nello svolgimento del proprio ruolo, gli operatori possono aprirsi ad un ascolto attivo di tutte le parti della biografia dei richiedenti asilo per costruire un rapporto di fiducia. Al fine di favorire la costruzione di tale rapporto, è importante che gli operatori nella loro pratica quotidiana mirino a riattribuire agency ai richiedenti asilo, coinvolgendoli nella progettazione individualizzata. Ciò favorirebbe la valorizzazione e l'attivazione delle risorse dei richiedenti asilo, l'instaurarsi di relazioni di fiducia che consentano la ricostruzione di significato delle proprie esperienze traumatiche di vita e la restituzione di una rappresentazione di Sé attiva e agente. In generale, si otterrebbe una maggiore adesione al progetto d'accoglienza. Inoltre, la valorizzazione della funzione relazionale degli operatori dell'accoglienza favorirebbe una maggiore qualità di vita professionale. I professionisti avrebbero così la possibilità di riconoscere e far riconoscere il proprio ruolo, che è stato profondamente messo in discussione dalla comunità e dalle politiche degli ultimi anni. Quindi, l'ascolto attivo, la riattribuzione di agency e l'esempio nella quotidianità da parte degli operatori favorirebbero il riconoscimento del loro ruolo come tutori di resilienza e promuoverebbero la definizione di traiettorie di resilienza. In questo modo si faciliterebbe il raggiungimento di uno stato di salute psicosociale nei richiedenti asilo. La legittimazione del ruolo funzionale della relazione tra i richiedenti asilo e gli operatori dell'accoglienza da parte del contesto sociale e istituzionale diventa un fattore necessario allo sviluppo di buone pratiche d'accoglienza e alla promozione di traiettorie di resilienza. 9. Riferimenti bibliografici Agaibi, E. C., & Wilson, J.P. (2005). Trauma, PSTD and resilience. A Review of the Literature. Trauma, Violence & Abuse, 6(3), 195-216. doi:10.1177/1524838005277438 Anaut, M. (2005). Le concept de résilience et ses applications cliniques. Recherche en soins infirmiers, 82(3), 4-11. doi.org/10.3917/rsi.082.0004 Berkham, M., Bewick, B., Mullin, T., Gilbody, S., Connell, J., Cahill, J., …Evans, C. (2013). The CORE-10: A short measure of psychological distress for routine use in the psychological therapies. Counselling and Psychotherapy Research, 13(1), 3-13. doi.org/10.1080/14733145.2012.729069 Bonanno, G., & Diminich, E. D. (2013). Annual Research Review. Positive adjustment to adversity – trajectories of minimal- impact resilience and emergent resilience. Journal of child psychology and psychiatry, 54(4), 378-401. doi:10.1111/jcpp.12021 Bonanno, A. G., Westphal, M., & Mancini, A. D. (2011). Resilience to loss and potential trauma. 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Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: Società, politica e istituzioni(XIX-XX Secolo) ; Una curiosa espressione di Jacques Delors, più volte utilizzata nel corso della sua carriera, definì le istituzioni comunitarie come un "O.P.N.I., oggetto politico non identificato". L'affermazione di Delors appare come un compromesso tra l'interesse a tutela dei diritti degli Stati e la necessità di attribuire al processo di integrazione europea istituzioni stabili e soprattutto autonome. In realtà, i caratteri di profonda instabilità mostrati dal modello di Comunità ne fecero scaturire due orientamenti interpretativi differenti. Il primo considerò il raggiungimento dell'obiettivo prefissato nella realizzazione di una unione politica; come sostiene Riccardo Perissich, "Ai limitati trasferimenti di sovranità già decisi, altri ne sarebbero seguiti, anche se sempre in modo graduale. Coerentemente con questo approccio, le istituzioni avrebbero dovuto evolvere verso un modello classico. La Commissione si sarebbe trasformata in un esecutivo federale; il Consiglio dei ministri in un "Senato degli Stati"; l'Assemblea parlamentare in un vero Parlamento federale"1. Il secondo orientamento si basò sull'idea che il principio di sovranità non potesse essere frammentato e che il conferimento di potere previsto dai Trattati fosse più di carattere tecnico che politico. Questa seconda interpretazione aumentò i dubbi e la diffidenza nei confronti della Commissione e ancor più del Parlamento. C'è da dire inoltre, che gli Stati firmatari dei Trattati si riconobbero più nella prima lettura del modello, con un necessario distinguo per la Francia che, all'epoca dell'entrata in vigore era presieduta dal generale Charles De Gaulle, fortemente contrario, come noto, all'idea di una qualsiasi minima cessione di potere a livello sovranazionale. A seguito della fusione di CECA, CEE ed EURATOM una sola Commissione unificò l'apparato amministrativo mentre al Parlamento europeo venne assegnato unicamente il compito di esercitare il potere in materia di bilancio, oltre ad una funzione meramente consultiva; l'elezione diretta del Parlamento fu contemplata nell'articolo n.138 del Trattato istitutivo della Comunità europea nel quale, oltre ad essere indicato il sistema di elezione dei parlamentari europei delegati come provvisorio, 1R. Perissich, L'Unione Europea una storia non ufficiale, Milano, Longanesi, 2008, p.54. venne previsto che il Parlamento avrebbe elaborato progetti volti alla realizzazione di una procedura di elezione uniforme per tutti gli Stati membri. Di fatto, negli anni che intercorsero tra il 1951 e il 1976, furono presentate numerose proposte orientate all'istituzione della procedura di elezione a suffragio universale diretto che, dopo molte difficoltà, trovarono soltanto nel 1979 la loro attuazione; questo risultato rappresentò l'inizio di una nuova era in cui l'importanza della comunicazione politico-istituzionale giocò un ruolo fondamentale per creare il necessario contatto con i cittadini, in previsione della loro partecipazione al voto europeo. Ricordiamo come nel 1974, al vertice francese presieduto da Valéry Giscard D'Estaing, venne adottata la decisione di istituire il Consiglio europeo e l'elezione diretta del Parlamento. L'evento avrebbe esercitato una notevole influenza nella dinamica istituzionale europea; nonostante il suo assetto di Assemblea diversa da quelle nazionali, il Parlamento europeo direttamente eletto avrebbe preteso un aumento della propria influenza politica così come del proprio peso istituzionale. Attraverso le elezioni, i cittadini europei avrebbero potuto accrescere progressivamente il loro interesse nei confronti dei temi comunitari riuscendo a percepire meglio l'esistenza di un'istituzione fino ad allora poco conosciuta. Su questo aspetto federalisti e "gradualisti" si collocarono su posizioni discordanti, in quanto i primi da sempre consideravano il Parlamento eletto come "Congresso del popolo europeo" e quindi come il potere costituente della futura Federazione europea. Personalità di spicco sui singoli piani nazionali, costantemente impegnate nella causa dell'integrazione europea (solo per citare alcuni nomi si ricordano Altiero Spinelli, Simone Veil, Helmut Kohl, Jacques Chirac), oltre ad esponenti politici ed intellettuali che interpretarono un ruolo di forte influenza all'interno dei loro partiti riguardo alla scelta europeista (per l'Italia ricordiamo Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Mauro Ferri, Gaetano Arfè), si impegnarono con l'intento di legittimarne il ruolo rispetto alle altre istituzioni, in particolar modo la Commissione. I parlamentari eletti nel primo suffragio universale diretto si trovarono quindi ad affrontare temi che andavano dalla questione dei paesi comunisti ai rapporti con il Terzo mondo, alla progettazione di una televisione europea fino alla necessità di redigere una prima bozza di Costituzione europea. Il ricorso alle candidature di personalità politiche ben note all'opinione pubblica quali Enrico Berlinguer, Simone Veil, Willy Brandt, si pensò potesse offrire un maggiore potenziale all'organizzazione della propaganda. La campagna elettorale del giugno 1979, così come le altre due successive, fu tuttavia caratterizzata, soprattutto in Italia e Francia, da argomenti troppo spesso collegati alla dialettica politica della propria nazione. In ogni caso l'informazione data ai cittadini europei fu in grado di suscitare un inevitabile interessamento ai problemi comunitari, ma soprattutto alla realtà sovranazionale. L'affluenza al voto fu comunque inferiore rispetto alle elezioni nazionali. Nei motivi della scarsa partecipazione al voto, oltre l'assenza di dibattito propriamente europeo vi fu anche il fatto che le strategie dei partiti tesero ad una sorta di strumentalizzazione delle elezioni europee, puntando attraverso le campagne elettorali al perseguimento di obiettivi nazionali. Il primo scrutinio diretto fu in grado comunque di dare una ventata di novità al concetto di democrazia europea. La nuova legittimità consentì al Parlamento di consolidare nel tempo i propri poteri e di interpretare un ruolo all'interno del processo decisionale comunitario che all'epoca poteva dirsi quanto meno "nebuloso". Una volta fissato il periodo di svolgimento delle prime elezioni, le forze politiche nazionali dovettero sostenere una sfida che le avrebbe costrette a rimettersi in gioco, cercando di rinnovare gli argomenti e i temi individuati per le campagne elettorali nazionali. Una maggiore consapevolezza riguardo alla necessità di allargare l'orizzonte, senza trascurare tuttavia il contatto con i propri elettori e cercando le possibili somiglianze con gli altri partiti europei, avrebbe consentito di conciliare la propria ideologia in un contesto più ampio. Occorre tener presente come tra il 1975 e il 1979 si fossero create all'interno dell'Assemblea parlamentare non eletta, formazioni politiche rappresentative di partiti accomunati da un orientamento affine a quello nazionale. La diversità di ideologie, tuttavia rendeva queste coalizioni molto deboli, soprattutto per via della tanto difficile integrazione ostacolata dalla predominanza degli interessi nazionali anteposti a quelli comunitari. La primazia dei partiti nazionali ha sempre costituito un ostacolo all'autonomia di azione dei gruppi e delle federazioni lasciando, fino ad oggi, inattuata la costituzione di veri e propri partiti europei. All'indomani del primo suffragio universale diretto, tuttavia, il nuovo parlamentare europeo avrebbe assunto il ruolo di trait d'union tra il proprio elettorato, il proprio partito, la coalizione europea e il Parlamento stesso. I tratti caratterizzanti il percorso politico-istituzionale del Parlamento europeo sono stati oggetto di approfondimento nello studio dei casi relativi ai tre Paesi considerati rivelando le differenze che, per la natura stessa del ruolo giocato nel contesto sovranazionale, non hanno risparmiato il processo di integrazione e, nel caso specifico, la partecipazione alle elezioni dirette del Parlamento. Accomunando Italia e Francia, paesi fondatori della Comunità europea che si dimostrarono troppo intenti a trattare temi nazionali durante le campagne elettorali, nel Regno Unito l'idea di Europa si coniugò con la costante valutazione di tutti gli elementi che sarebbero risultati convenienti per partecipare, senza che tutto ciò costringesse a modificare o rinunciare a quanto già in possesso, atteggiamento che trovò nella linea di governo di Margaret Thatcher una perfetta interpretazione durata per l'intero decennio esaminato. Se per il primo suffragio universale diretto l'attività maggiore fu quella di approntare nuovi metodi organizzativi per le campagne elettorali, adatti alla ricerca di un consenso più ampio, diretto a legittimare l'istituzione sovranazionale, nella seconda e terza tornata le riflessioni delle forze politiche si resero necessarie per cercare di individuare le cause del progressivo calo partecipativo. I difetti di una comunicazione politica spesso basata su issues nazionali, soprattutto riguardo la Francia, ha di sicuro rappresentato una delle possibili cause, ma l'atteggiamento stesso dei partiti, apparso frequentemente poco incline a credere seriamente nell'importanza delle elezioni, ha lasciato percepire incertezza ai cittadini europei. Per altro verso, anche le campagne elettorali comunitarie, sebbene abbiano investito molte risorse per cercare di catturare il consenso dell'opinione pubblica, hanno mostrato la parziale efficienza dei mezzi messi in atto. Elezioni di second'ordine quindi? E' possibile parlarne ancora in questi termini? Da quanto emerso nel corso della ricerca condotta sul versante storico-politologico, il livello delle elezioni europee non risulta affatto secondario. Il dato partecipativo, anzi è inversamente proporzionale alla quantità di lavoro preparatorio sia dal punto di vista politico che amministravo-istituzionale, ben superiore a qualsiasi suffragio nazionale. Ci si chiede allora perché gli elettori non abbiano risposto con altrettanto entusiasmo. Qui le risposte trovano differenti possibilità da tenere nella giusta considerazione: la poca attenzione ai temi comunitari, la qualità della comunicazione, l'errore di propagandare l'evento troppo a ridosso delle date di svolgimento, l'eccessiva distanza tra istituzioni e cittadini, il livello culturale degli elettori, i giorni della settimana individuati per i suffragi spesso troppo vicini ad elezioni nazionali appena svolte, la classe politica poco convinta. In realtà tutti questi fattori rappresentano concause della scarsa partecipazione. Il cittadino europeo in mezzo a questo guazzabuglio è il personaggio principale di una performance in cui lui stesso determina la riuscita. Nonostante i numeri evidenzino una progressiva flessione nei dieci anni esaminati, i cittadini non sono rimasti indifferenti di fronte alle novità introdotte dal processo di integrazione europea. Spesso, soprattutto durante i sondaggi, accanto ad una percentuale di "indifferenti" o "euroscettici", molti intervistati hanno lamentato la poca autorità del Parlamento europeo nel contesto istituzionale comunitario2 confidando in ulteriori progressi strutturali. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo, preannunciato già prima del 1979, insieme alle vicende politiche legate al proprio Paese, ha gradualmente provocato negli elettori reazioni di protesta attraverso il non voto o il voto negativo3, comportamenti capaci di delineare una partecipazione differente rispetto alla decisione di esprimere la propria scelta. Questo tipo di elettore ha mostrato di essere stato raggiunto dall'informazione diffusa durante le campagne elettorali e, sulla base di quanto appreso, ha deciso consapevolmente di non votare o di esercitare un voto diverso annullando o votando scheda bianca; quindi si è recato ai seggi, 2 Si vedano a questo proposito i risultati emersi nella pubblicazione della Commissione delle Comunità europee, Eurobarometro – L'opinione pubblica nella Comunità europea, Vol.1, 32/89, Direzione generale Informazione, comunicazione e cultura, Bruxelles, 1989. 3 Cfr. A. Gianturco Gulisano, La fenomenologia del non voto, in R. De Mucci (a cura di), Election day. Votare tutti e tutto assieme fa bene alla democrazia?, cit. non è rimasto inerte disinteressandosi di quanto stava accadendo. L'auspicio di un consolidamento istituzionale del Parlamento e di una maggiore coesione politica della Comunità europea non ancora raggiunti, anche per responsabilità delle politiche nazionali, ha posto l'elettore in condizione di negare il proprio contributo o protestare verso il mancato conseguimento dei risultati. L'accrescimento della conoscenza e del coinvolgimento, sebbene presenti, non sono andati di pari passo con la partecipazione. Elementi di insoddisfazione hanno caratterizzato il comportamento dell'elettore realmente europeista. I cittadini europei possono in realtà collocarsi in tre macro aree nelle quali si ritrovano gli europeisti, gli euro avversi e gli euroscettici. Se le aspettative degli europeisti sono rimaste deluse, gli euroavversi hanno parzialmente esercitato il diritto di voto alimentando quelle liste comunque presenti nella competizione europea. Gli euroscettici, invece hanno rappresentato il punto nevralgico dell'elettorato. Trovandosi in quella parte di popolazione attenta ad osservare quali e quanti cambiamenti sarebbero avvenuti a partire dal 1979 hanno avuto modo di consolidare la loro posizione continuando a percepire la Comunità ancora lontana e prevalentemente scomoda se non inutile. A differenza dell'europeista deluso che comunque ha continuato a partecipare, magari protestando, e dell'euroavverso che ha espresso il suo disappunto preferendo i partiti antieuropeisti, l'euroscettico ha proseguito nell'osservazione, affiancandosi agli incerti che sono rimasti a casa. A questo punto sono apparse inevitabili ulteriori valutazioni verso quegli elementi che caratterizzano le elezioni in genere. Ciò che attrae il cittadino ai seggi elettorali è prevalentemente il peso che le elezioni possono esercitare sui cambiamenti del governo nel proprio Paese. Il "less at stake" delle elezioni europee ha rappresentato sicuramente uno dei motivi scatenanti i sentimenti appena descritti; lo scenario si profila diverso, In such 'marker-setting' elections, voters have an incentive to behave tactically, but in a sense of the word 'tactical' that is quite different from what we see in National elections, where large parties are advantaged by their size. In a markersetting election the tactical situation is instead characterized by an apparent lack of consequences for the allocation of power, on the one hand, and by the attentiveness of politicians and media, on the other4. La mancanza di conseguenze sul livello nazionale garantita dalle elezioni europee ha "alleggerito" l'elettore della responsabilità di orientare con la propria scelta il corso della politica nazionale. Sebbene nel 1979 vi fu un'attività partitica a livello transnazionale, consentita anche dalla disponibilità di fondi in quel periodo, l'attenzione dell'elettorato fu minima. In termini di risultati transnazionali la percezione fu praticamente irrilevante; circa il cinquanta per cento dei votanti ammise di non aver idea di quali gruppi avessero ottenuto maggiori consensi. Altro aspetto da non sottovalutare si collega allo sproporzionato successo ottenuto dai partiti più piccoli rispetto ai grandi; è in questo caso che si può parlare di voto punitivo nei confronti della politica del governo nazionale. Molte le sfaccettature e tutte fondamentali per riuscire a capire il perché delle differenze comportamentali dell'elettorato, differenze che nei tre Paesi oggetto di studio si sono rivelate estremamente rappresentate. In linea con la tradizione, gli elettori dell'Italia e della Francia hanno mostrato una partecipazione considerevole, evidentemente legata alle vicende che hanno caratterizzato il dibattito politico nazionale negli anni 1979 – 1989. Il voto "pseudo-obbligatorio" dell'Italia ha mantenuto alta la percentuale dei votanti, ma i risultati hanno mostrato orientamenti variabili nelle tre tornate esaminate. Il caso francese ha mostrato una escalation della destra attraverso i consensi ottenuti dal Front National in risposta ad un importante declino del Partito comunista, anche in considerazione di una progressiva dispersione di voti dovuta alla presenza di numerose liste, in particolar modo nel 1989. Il caso anglosassone si colloca in una posizione particolare rispetto agli altri due Paesi, ma sarebbe più giusto dire rispetto a tutti gli altri. A fronte di un orientamento nazionale tendenzialmente contrario alla Comunità europea, fra le ideologie maggiormente rappresentative si è distinto un Partito conservatore desideroso di giocare un ruolo importante nel contesto europeo, consapevole quindi del significato che la competizione europea 4 C. Van der Eijk, M. Franklin, M. Marsh, What voters teach us about Europe-Wide Elections: what Europe-Wide Elections teach us about voters, in "Electoral Studies", vol. 15, n. 2, p. 157. avrebbe potuto assumere per la riuscita dell'intento. L'importanza del suffragio sovranazionale non fu invece immediatamente compresa dai Laburisti, che di fatto ottennero una pesante sconfitta nel corso del primo appuntamento con lo scrutinio europeo, ravvedendosi in seguito e riuscendo a superare i Conservatori anche grazie all'inizio del declino del governo Thatcher. Un elemento che ha accomunato tutti i Paesi della Comunità è stato rappresentato dalla progressiva affermazione dei Verdi. Lo studio effettuato attraverso una costante attenzione al dibattito politico di ciascun Paese, insieme alle strategie attuate dagli attori, consapevoli fin dall'inizio che la sfida europea li avrebbe impegnati non più o meno di quella nazionale, ma sicuramente in modo diverso, ha condotto ad un approfondimento verso il singolo cittadino che assumendo in sé il ruolo di attore principale ne ha determinato gli esiti. Le risultanze dei dati emersi dalle consultazioni avvenute negli anni 1979 – 1989 non possono considerarsi soltanto per il puro dato numerico. La molteplicità dei fattori che hanno influito sulla scelta di votare o meno ha mostrato un elettore che, pur appartenendo a paesi diversi e con differenti livelli culturali, è stato in grado di decidere basandosi su considerazioni affatto superficiali, operando un'attenta scelta dei numerosi elementi che avrebbero potuto favorire il rafforzamento politico-istituzionale europeo: una tacita selezione dell'elettorato, che inevitabilmente ha lasciato fuori tutti coloro che non hanno ritenuto importante impegnarsi per una consultazione ritenuta priva di un qualsiasi tornaconto. Classe politica poco convinta, informazione discutibile, scarsa conoscenza da parte dei cittadini riguardo al ruolo del Parlamento europeo, inefficacia della comunicazione, hanno contribuito a costruire un elettore diverso dal solito, più attento, in possesso di maggiore senso critico nei confronti di uno scenario nuovo e molto più complesso rispetto a quello nazionale5. Dalla pluralità di elementi emersi durante la ricerca attraverso il ricorso all'interdisciplinarietà per cercare di comprenderne maggiormente i significati, sono emersi dettagli che hanno stimolato ad ulteriori approfondimenti. 5 Cfr. Commissione delle Comunità europee, Eurobarometro – L'opinione pubblica e l'Europa, 9/89, Direzione generale Informazione, comunicazione e cultura, Bruxelles, 1989. Successivamente alle considerazioni storico – politiche , ciò che si è voluto sottolineare, attraverso l'analisi sociologica, riguardo alle elezioni europee nel loro complesso e nella loro perpetua considerazione di elezioni secondarie, è che tutti i fattori esaminati ne mostrano un'immagine differente, che non vuole assolutamente porsi in contrasto con l'interpretazione dei dati puri, ma vuole indurre a considerare maggiormente i numerosi fattori, che per la qualità e la quantità riscontrata permettono di ottenere un quadro più completo dei fatti, andando oltre al mero dato partecipativo sul quale, indubbiamente, la differenza con la partecipazione nazionale è di tutta evidenza. L'esame approfondito è apparso ancor più necessario alla luce del tortuoso processo di costruzione europea e del macchinoso assetto istituzionale comunitario, al fine di poter tenere nella giusta considerazione il maggior numero di elementi possibile, non tanto per giustificare i risultati, ma quanto, piuttosto, per riflettere su di essi cercando di distribuire una responsabilità policentrica a partire dalle forze politiche per finire al cittadino stesso. ; Jacques Delors used to talk about European institutions as an O.P.N.I Object Politique Non Identifié. His opinion appears a compromise between his interest to protect National rights and the need to give lasting and autonomous governance to the European integration process. Actually from the European Community model, two different ways of thinking the governance derived both influenced by the instability of the model itself. The first one aimed at a political union; as Riccardo Perissich says: "Ai limitati trasferimenti di sovranità già decisi, altri ne sarebbero seguiti, anche se sempre in modo graduale. Coerentemente con questo approccio, le istituzioni avrebbero dovuto evolvere verso un modello classico. La Commissione si sarebbe trasformata in un esecutivo federale; il Consiglio dei ministri in un "Senato degli Stati"; l'Assemblea parlamentare in un vero Parlamento federale"6. The second one tried not to neglect the sovereignty principle by transferring technical and political power according to the Treaties. This second view increased doubts and mistrust towards the European Parliament and Commission as well. European Member States agreed above all with the first view, except for the France of Charles De Gaulle who was still convinced of his idea of not giving power to supranational level. Following the unification between ECSC, EEC and EAEC there was a single Commission for the whole administrative system while the Parliament had competence on the European budget; direct election to European Parliament was referred to as "temporary" in Article 138 of the European Community Treaty; then the Parliament would plan the way for a single procedure election regarding all Member States. Between 1951 and 1976 there were many proposals to define a direct universal suffrage, but only in 1979 this target was achieved. This result meant a significant change also for the polical and institutional 6R. Perissich, L'Unione Europea una storia non ufficiale, Milano, Longanesi, 2008, p.54. communication that became fundamental to reach citizenship during the election campaign. In 1974, during the French summit chaired by Valéry Giscard d'Estaing, were both established the European Council and the direct election of the European Parliament. The European Parliament finally elected by European citizens would require an increase in both political and institutional influence. The direct elections would enhance popular interest in European affairs as well as raise people's awareness of the Parliament itself. This last aspect emphasized the differences between the federalist and the "gradualist" trend. The first one considered the direct elected Parliament as a "Congress of European People", that is to say the constituent power of the future European Federation. Many famous people were constantly engaged in the European integration cause as politicians and intellectuals did by committing themselves to legitimizing the role of the European Parliament in relation to other institutions, particularly the European Commission. Reference can be made to Altiero Spinelli, Enrico Berlinguer, Simone Veil, Helmut Kohl, Jacques Chirac, just to mention some of them. Members of the European Parliament (MEP's) began their job by addressing many issues such as the question of communist nations or planning for a European TV or preparing a draft for the European Constitution. Appointing political celebrities such as Enrico Berlinguer, Simone Veil, Willy Brandt was a way to make the propaganda more effective. The 1979 election campaign as well as the other two following ones was, however, characterized by arguments too often associated with the national political discourse. All the information given to European citizens succeeded in generating interest in supranational reality above all. The turnout was lower than in national elections and the reason has to be found in the behaviour of political parties in discussing mostly national issues aiming at national targets. In spite of this, the first direct election to the European Parliament gave a breath of fresh air to the meaning of European democracy. The newly acquired legitimacy gave the European Parliament the opportunity to consolidate its power by acting a definite role inside the European decisional process that was, at that time, nebulous to say the least. Once the electoral date was scheduled all the national political parties had to face a challenge that forced them to renew their themes and topics previously chosen in national campaign. There was greater awareness of the necessity to broaden the horizon without loosing contact with voters by looking for similarities in other European political parties. This is what would allow single ideologies to merge in a wider context. We must to consider that between 1975 – 1979 inside the European Parliament there were representatives of parties sharing outlooks similar to the national ones, but different ways of thinking made these coalitions too weak, above all because of the predominant national interests. The primacy of national parties has always been an obstacle to the autonomy of groups and federations, neglecting the implementation of European parties. After the first direct European elections the new MEP's were a kind of "trait d'union" with their own electorates, their own party, the European coalition and the Parliament as well. The peculiar features of the political-institutional path of the European Parliament concerning the three countries studied showed differences that have characterized their participation in European elections. While Italy and France, founding members of EC, were too busy to deal with national issues during electoral campaign, the UK was more attentive to evaluate the benefits of participation and Margaret Thatcher, who was Prime Minister from 1979 to 1990 was particularly suited for such an attitude. While during the first direct election there was a need to bring some new element in organizing the electoral campaign in order to reach a wider consensus, the following two elections made political forces more reflective about the decline in turnout. Too many national issues made the communication weak, particularly for the French campaign. What citizens perceived was the little confidence of political parties and that was the reason for such a large incertitude among the people. On the other hand, the Community campaign too showed a partial efficiency. So what kind of elections are we talking about? Still "second order" elections? This is not the picture that emerged from my research conducted on the historical and political fields. Participation is inversely proportional to the preparatory work, both from a political point of view and from an administrative-institutional one, which was far superior to any national suffrage. So, why didn't voters participate so enthusiastically? Many answers are possible because many are the causes of such an odd behaviour: little attention to European issues, quality of communication, propaganda too close to the election date, distance between citizens and istitution, the cultural level of voters, election dates too close to those of national elections, lack of confidence of the political class were all contributing factors in low participation. In the middle of this mess the European citizen becomes the protagonist for the success of such a performance. Despite numbers reveal a gradual decline in the ten years examined, European citizens have not remained indifferent to the changes introduced by the European integration process. Many surveys showed that in addition to a percentage of "indifferent" or "eurosceptical" people, there were citizens who asked for a stronger Parliament hoping that this result would be reached sooner or later. The failure to achieve this goal as well as the political events of each nation have gradually caused an outcry against the vote expressed either in nonvoting or in negative-vote; these different behaviours show a different way of participating . The voter who, though informed by the electoral campaign, decided not to vote or to give a different vote by cancelling his vote or returning blank−voting ballot, went nevertheless to the polling station and didn't stay at home ignoring what was happening. The unfullfilled hope for an institutional strengthening of the Parliament and for greater political cohesion of the European Community, due to political responsibilities, didn't allow the voter to contribute or protest against the non-achievement of results. Citizens' increased knowledge and involvement did not keep pace with the participation; some elements of dissatisfaction have characterized the behaviour of the pro-Europe voter. The three main groups in which European voters may be included are pro- Europe, anti-Europe and eurosceptics. Whereas the pro-Europe voters' expectations have been disappointed, the anti-Europe voters have partially exercised the right to vote feeding this kind of lists in the European competition. Eurosceptics, on the other hand were the centerpiece of the electorate. Being careful observers of which and how many changes have occurred since 1979, citizens have been able to consolidate their position by continuing to perceive the Community as still too distant and mostly uncomfortable if not useless. They have continued their observation by standing together with those uncertain people who stayed at home. At this point it appeared inevitable to assess also those elements that characterized the elections in general. What attracts people to the polling station is mainly the weight that elections may have on the governmental changes in their own countries. The "less at stake" of European elections surely showed one of the reasons just described. We are therefore facing a different context, In such 'marker-setting' elections, voters have an incentive to behave tactically, but in a sense of the word 'tactical' that is quite different from what we see in National elections, where large parties are advantaged by their size. In a markersetting election the tactical situation is instead characterized by an apparent lack of consequences for the allocation of power, on the one hand, and by the attentiveness of politicians and media, on the other7. The lack of consequences on the national level where European elections are concerned lightened voters by taking away their responsibility in directing the national political course. Although in 1979 there was a political activity at the transnational level, the electorate's attention was very scarce. The result showed 50% of voters admitting to their disinformation about the groups that achieved greater consensus. 7 C. Van der Eijk, M. Franklin, M. Marsh, What voters teach us about Europe-Wide Elections: what Europe-Wide Elections teach us about voters, in "Electoral Studies", vol. 15, n. 2, p. 157. Another issue is the large success gained by smaller parties; in this case it is possible to talk about a "punishment vote" against the policy of the national government. The three cases studied showed different ways of participating. Italian and French voters showed a considerable participation according to their tradition also because in the 1979 – 1989 period there was an interesting political debate. The Italian "pseudo-compulsory" vote kept the percentage of voters high, but the outcome showed changing directions during the above mentioned period. Looking at the outcomes got by the Front National the French case showed an escalation of the Right next to to a significant decline of the Communist Party. There was also a substantial dispersion of voting because of so many rolls, particularly during the 1989 elections. The British case is a special one for the particular behaviour towards the European integration process. The Conservative Party wanted to play an important role in the European context and for this reason European elections were considered as a way to succeed in it. On the contrary the Labour Party did not immediately understand the importance of such a crucial opportunity; the outcome of the 1979 European elections was disastrous and they met an evident defeat that therefore was useful to understand many things for future elections. All three countries have seen the progressive growth of the Green Party. The present study has paid constant attention to to the political debate in each country, and to the strategies implemented by the actors, who were aware from the beginning that the European challenge would engage them in different ways. It was, moreover, focused on the individual citizen's ability to determine the election outcome. Considering the outcome through the mere numerical data gives a partial view of the whole context. There are so many aspects that influenced the decision to vote or not. There was a selection among voters that showed citizens who desired a more political union operating a political and institutional strengthening in opposition to those who did not want to engage themselves in an election without any gain. An unconvinced political class, questionable information, lack of knowledge among citizens about the role of the European Parliament have built a different voter, a more attentive one, with a greater critical sense towards a newer context different from the national one. The diverse elements which have emerged from this interdiciplinary study have led to further insights. After historical considerations, a sociological analysis has been carried out on European elections as a whole and their "second order" perception. From these considerations a new picture has emerged, which is not in absolute contrast with the interpretation of the raw data. The quality and the quantity of so many factors allow a more complete picture of the facts, going beyond the mere participation on which, undoubtedly, the difference with the national presence is quite evident. Detailed examination appeared necessary in the light of the tortuous European building process, in order to take into account as many elements as possible, not only to justify the results, but rather because, to reflect on them trying to deploy a polycentric responsibility from the political forces to the citizens themselves.
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica, istituzioni (XIX - XX secolo) ; La ricerca realizzata ha inteso studiare, in un'ottica di lungo periodo e in una prospettiva complessiva, ciò che ha rappresentato l'esperienza del fascismo in un contesto territoriale periferico e non omogeneo, di cui è espressione quel segmento dell'Umbria meridionale costituito in provincia nel gennaio 1927. Tale area si è rivelata un case study esemplare, in grado di offrire interessanti spunti interpretativi. In effetti, all'unico grande polo industriale della provincia, compreso nel territorio della conca ternana, si contrappone la restante parte del territorio provinciale, comprendente città come Orvieto e Amelia, contrassegnate da consolidate relazioni con le regioni limitrofe, espressione di un'Umbria verde, agricola e mezzadrile, ma anche francescana, terra d'arte, di misticismo, ritenuta dalla pubblicistica di regime "cuore" dell'Italia fascista. A partire da ciò, si è creduto opportuno impostare la ricerca attorno a tre questioni principali, ritenute essenziali per cogliere aspetti e dinamiche della società locale nel ventennio mussoliniano. Per fare questo è stata definita una griglia interpretativa funzionale a verificare il ruolo del Pnf nel quadro del rapporto centro-periferia, continuità-rottura. Si è così puntato a esaminare come il fascismo abbia influito sui processi di formazione e consolidamento dei ceti dirigenti locali, verificandone la capacità di rapportarsi con le vecchie élites, di promuoverne di nuove o, magari, di fare coesistere entrambe. Si è poi cercato di approfondire il ruolo che il partito ha svolto in ambito locale, la sua capacità di inserirsi nelle diverse dinamiche territoriali, di creare e controllare reti clientelari e, soprattutto, di rapportarsi con le due realtà che rimangono fuori dal suo controllo, il grande gruppo polisettoriale rappresentato dalla "Terni" polisettoriale di Bocciardo e la Chiesa locale, il tutto al fine di conseguire i propri obiettivi totalitari. Infine, si è affrontata la questione del consenso. In questo senso, è stato preso in considerazione non soltanto il ruolo della violenza attuata dal fascismo per conquistare il potere e la stessa azione repressiva dispiegatasi negli anni del regime, che si dimostra concreta e reale come è normale in una situazione di dittatura, ma si è provato a fare luce sul dissenso e sulle aree di rassegnazione o di consenso tiepido che sembrano persistere nella società locale. Nel procedere si è poi cercato di coniugare la storia politicoistituzionale con quella sociale e in parte economica, attraverso un costante lavoro di analisi e incrocio delle fonti studiate, scelta ritenuta utile per conseguire gli obiettivi prefissati. Certamente, la riflessione sulle origini, l'affermazione, il consolidamento del fascismo in provincia di Terni, offre sostanziali conferme a quanto una parte della storiografia aveva proposto. Nell'Umbria meridionale il fascismo, nei suoi vertici, sorge e si afferma come punto d'incontro dei ceti dominanti tradizionali. Esso si afferma in quanto strumento della reazione agraria e dei gruppi industriali monopolistici di 2 fronte alla conflittualità contadina e operaia e al dilagare del socialismo. La sconfitta delle élites politiche tradizionali alle elezioni politiche del 1919 e a quelle amministrative del 1920, che seguiva l'effervescenza sociale del biennio rosso; la stipula del patto colonico del 1920 sfavorevole per gli agrari; la stessa esperienza, sebbene breve e contraddittoria, dell'occupazione delle fabbriche, sullo sfondo di una situazione economica difficile, ne determina la reazione, che si concretizza per l'appunto nell'adesione al fascismo. Dapprima nella versione squadrista, capace di sconfiggere sul piano militare gli oppositori, anche grazie al diffuso sostegno degli apparati di sicurezza dello Stato, quindi come blocco elettorale e nuova struttura politica in grado di conquistare il potere, il fascismo si configura come una sorta di union sacrée contro il "bolscevismo", in cui confluiscono conservatorismo agrario ma anche impulsi industrialisti e modernizzatori. Più concretamente, esso viene accorpando tutte quelle correnti politiche, contrapposte tra loro nel primo quindicennio del secolo, che avevano costituito il frastagliato universo giolittiano. In questo senso, come l'analisi dei vertici del Pnf provinciale e degli amministratori locali ha permesso di verificare, sino al 1927 a essere protagonisti sulla scena politica locale sono le forze che tradizionalmente facevano parte del blocco agrario. In primo luogo i proprietari terrieri, molti dei quali appartenenti alla nobiltà, a cui si affiancano esponenti della borghesia delle professioni, le cui proprietà erano cresciute a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché alcuni settori espressione diretta del mondo rurale, come gli agenti di campagna, i fattori, ma anche quei contadini che nei primi anni venti erano riusciti ad accedere alla proprietà della terra. In provincia di Terni quindi, dalla conquista fascista sino all'introduzione della riforma podestarile ma, in gran parte, anche dopo, la presenza ai vertici delle amministrazioni municipali e di quella provinciale di esponenti del notabilato locale, essenzialmente aristocratici, proprietari terrieri, professionisti, si rivela dato costante che permette di accomunare la provincia di Terni a realtà come la Toscana, l'Emilia-Romagna e, anche, a parte dell'Italia meridionale. L'attuazione della riforma podestarile, con le prerogative concesse al prefetto nella nomina dei vertici delle amministrazioni comunali, non sembra variare di molto la situazione, almeno nella prima fase di attuazione della riforma. Come è emerso nei comuni della provincia di Terni, il criterio seguito dai prefetti per l'individuazione dei podestà era connesso con la rilevanza sociale ed economica riconosciuta in una comunità ai candidati alla carica che, senza dubbio, un titolo nobiliare e una professione adeguata erano in grado di assicurare, anche magari a scapito della mancanza di qualche requisito previsto dalla legge istitutiva della riforma podestarile. In questo senso, sembra dunque perpetuarsi un modello burocratico e ottimatizio insieme, grazie al quale il fascismo intendeva presentarsi alle comunità locali con un volto rassicurante, al fine di accattivarsi il favore della popolazione. L'analisi prosopografica dei profili relativi a presidi, consultori provinciali, podestà, membri delle consulte municipali, per il periodo 1926-1943, ha reso possibile definire un quadro che vede sostanzialmente confermata l'analisi fatta in una prospettiva nazionale da Luca Baldissara ormai più di una decina di anni 3 fa1. E' cosi emerso il carattere di classe della rappresentanza politico-amministrativa fascista in questi anni, sebbene con alcune differenze effetto delle specificità socioeconomiche caratterizzanti l'area esaminata. Nello specifico, l'esame condotto sul corpus di 147 amministratori (78 podestà e 69 commissari prefettizi) che si succedono nei Comuni della provincia nell'arco di tempo considerato, ha permesso di tracciare l'identikit di un funzionario con un'età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni; in possesso di un titolo di studio elevato (laurea o diploma di scuola superiore); in cui la proprietà della terra riveste un ruolo essenziale, coerentemente al tessuto socio-economico prevalente in provincia, e in cui dal punto di vista della professione esercitata appare predominante la figura del libero professionista (in genere avvocato e notaio). Forte è poi il legame dei podestà con il Pnf, più della metà del campione individuato risulta nel partito dal biennio 1920-1922; al tempo stesso, la maggioranza delle designazioni effettuate dai prefetti avviene in accordo con la federazione provinciale fascista. Sembra quindi delinearsi un quadro d'assieme che nel corso degli anni trenta, in gran parte della provincia, vede la predominanza delle gerarchie notabilari nella gestione del potere locale. Da tale situazione si discosta in parte l'area industriale compresa tra Terni e Narni, in cui come avviene in altri contesti urbani o regionali, attraverso il Pnf si assiste all'ascesa di personalità espressione della media e piccola borghesia urbana, per i quali l'istituto podestarile diventa uno strumento di promozione sociale e di affermazione nella gerarchia del potere locale. L'immagine del governo locale che si profila non è però statica, appare invece dinamica e contrassegnata da una forte conflittualità che, a vari livelli, si dimostra uno dei tratti comuni percepibili sotto l'apparente pacificazione realizzata dal fascismo. La forte instabilità presente nelle amministrazioni comunali della provincia di Terni, attestata dall'elevato numero di commissari prefettizi e di podestà retribuiti che si succedono, è testimonianza non solo delle difficoltà incontrate dai prefetti nella selezione di un ceto dirigente adeguato ma, soprattutto, del tentativo delle élites tradizionali, attraversate da interessi diversi e relazioni clientelari e familiari molteplici, di resistere all'azione omologatrice del regime. Indubbiamente, lo Stato fascista, attraverso la promozione di un modello di podestà fondato su competenza, capacità di agire, allineamento alle direttive dei vertici, in nome della proclamata modernizzazione puntava a ricondurre le periferie sotto il controllo del centro. Ecco allora che la ricerca di una concreta azione di governo delle amministrazioni locali, frequentemente sollecitata dal prefetto, da perseguire, ad esempio, attraverso la realizzazione di opere pubbliche funzionali alla mobilitazione di settori diversi della società, diventava il riferimento attraverso cui misurare l'efficienza e, soprattutto, "l'operosità" degli amministratori locali. L'elevato turnover dei podestà rappresenta pertanto una spia che si presta a misurare significativamente le difficoltà incontrate dal regime nell'affermare la propria azione in periferia. Non di rado tuttavia l'intervento del prefetto sui podestà si rendeva necessario per stroncare le lotte intestine e di fazione che si scatenavano all'interno delle élites locali per la gestione del potere. Le modalità attraverso cui tali scontri si manifestano sembrano esprimere dinamiche del conflitto omogenee a quanto accertato da altri studi 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 riguardanti realtà comunali, provinciali e regionali diverse. Esse assumono la forma di lettere, esposti, denunzie anonime, che divengono lo strumento di lotta principale tra le fazioni in una dimensione comunale ma, come è stato accertato in chiave provinciale, anche tra i rappresentanti dei diversi poteri locali, oltre che all'interno degli stessi vertici della federazione fascista ternana. A partire dal 1927, con la nascita della Provincia e l'insediamento di istituzioni politiche e amministrative nella città capoluogo, anche per il fascismo locale inizia una fase nuova, l'esame della quale ha permesso di meglio comprendere come in questa realtà si viene definendo il rapporto con il centro. La genesi della nuova entità territoriale è frutto di una serie di variabili legate, da un lato, alle esigenze politiche amministrative dello Stato fascista divenuto regime; a cui si sovrappongono le dinamiche conflittuali interne al fascismo regionale, che portano alla pacificazione dello stesso e alla nascita della federazione provinciale del Pnf. Infine, un ruolo determinante lo ha l'affermazione della "Terni" polisettoriale, vero e proprio potere forte nella nuova provincia, in grado di dare vita a un originale sistema di fabbrica a metà strada tra paternalismo assistenziale e truck-system. Con essa il regime dialoga direttamente, baypassando la neonata federazione provinciale del Pnf e, se necessario, intervenendo per normalizzarla, come dimostra esemplarmente la vicenda politica e personale di Elia Rossi Passavanti, primo federale e podestà di Terni. In questo senso, la ricostruzione dei percorsi personali e professionali dei vertici dell'amministrazione statale (prefetti e questori), degli organi politici (federali, vicefederali, segretari amministrativi, componenti del Direttorio della federazione fascista) ed economici (membri del consiglio provinciale dell'economia, di quello delle corporazioni e del principale istituto bancario del capoluogo), è stata preziosa per le riflessioni che permette di realizzare rispetto al ruolo avuto dal Pnf in provincia e, specialmente, alle dinamiche politiche che si innescano nei rapporti che il partito instaura con le altre autorità, a cominciare da quella prefettizia. Proprio con riferimento ai prefetti, si è potuto osservare che sui nove che si succedono in provincia di Terni nel periodo considerato, ben sei provengono dal Pnf. Tale fatto non sottende necessariamente un'automatica collaborazione con la federazione fascista, quanto piuttosto sembra rispondere all'esigenza del centro di superare i contrasti esistenti tra la federazione fascista e la prefettura che, invece, è situazione ricorrente in provincia. Nel contempo, il succedersi di dodici federali alla guida del partito è prova di una significativa instabilità, dato peraltro ulteriormente confermato dalla netta prevalenza di personalità estranee all'ambiente locale, ben nove. Questo fatto non esprime solo una certa debolezza del fascismo locale, incapace di fornire un ceto dirigente adeguato, ma dimostra la stessa evoluzione che subisce la figura del segretario federale, nei termini di una spiccata professionalizzazione inquadrabile nel più generale contesto di crescente burocratizzazione del Pnf funzionale a consolidarne il ruolo di mediazione e di intervento nell'amministrazione dello Stato, che si rivela uno dei tratti tipici del Pnf staraciano. In questo senso, le guerre che si scatenano tra prefetto e federale nel corso degli anni trenta, ad esempio per la questione delle nomine dei podestà, in cui ruolo determinante lo acquista ancora una volta l'arma dell'esposto e della lettera anonima, attestano il tentativo portato avanti dal partito di far sentire il proprio peso al fine se non di sovrapporsi, quanto meno di affiancare lo Stato in periferia. Affiora così quella di5 mensione policratica che si configura come uno degli elementi caratterizzanti la politica in periferia negli anni del regime. Nonostante i contrasti che si scatenano tra i poteri, le lotte intestine all'interno del Pnf, la cronica debolezza dimostrata dai ceti dirigenti, la federazione provinciale fascista nel corso degli anni trenta riesce comunque a essere vitale e in grado di esercitare il proprio ruolo ai fini della fascistizzazione della società locale. D'altra parte, ai vertici del partito se si escludono i federali e i loro più stretti collaboratori, le restanti cariche continuano a essere gestite in larga parte dal medesimo nucleo originario fascista, fatto di appartenenti al ceto agrario e alla borghesia delle professioni provenienti, per la maggior parte, dall'area ternana. Ciò attesta lo scarso ricambio generazionale esistente all'interno della federazione, ma anche il peso politico ed economico ricoperto dal capoluogo rispetto all'intera provincia. Questi dirigenti fanno parte dei diversi Direttori federali che si succedono e, talvolta, ricoprono contemporaneamente, laddove la legislazione lo consente, incarichi in organismi quali il Consiglio provinciale dell'economia o, anche, alla guida della principale banca locale. Ai vertici del partito il peso degli appartenenti a settori della piccola borghesia e del ceto operaio è invece minore. Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, si fanno strada figure espressione del ceto impiegatizio, ma anche tecnici e qualche sindacalista con alle spalle una carriera nell'apparato burocratico della federazione provinciale, i quali assumono incarichi di un certo peso, come quello di segretario amministrativo o di componente del Direttorio. In questo modo sembra prefigurarsi, sebbene in maniera timida e non paragonabile a quanto accade in altre province, l'affermazione «dal basso e dalle periferie [di] una nuova classe dirigente del regime totalitario»2. Nel corso degli anni trenta dunque, sebbene tra molteplici difficoltà di natura anche economica, il Pnf riesce a dare vita in provincia a una struttura organizzativa in grado di penetrare e inquadrare la società locale. Peraltro, l'afflusso costante di contributi concessi da enti pubblici diversi (amministrazioni provinciali, comunali, Consiglio provinciale dell'economia) e soggetti privati (la Società "Terni" in primo luogo, ma anche altre aziende) a un partito alla continua ricerca di risorse, che la documentazione amministrativa della federazione ternana ha permesso di verificare, rappresenta testimonianza esemplare degli sforzi profusi dal regime per rendere il Pnf un volano di sviluppo del peculiare welfare funzionale alla fascistizzazione della società locale. In questa prospettiva, il rapporto con la Società "Terni" si è rivelato una chiave di lettura che non è possibile trascurare se si vuole comprendere la natura dell'esperienza fascista in provincia di Terni. Si è visto che la stessa nascita della nuova Provincia è connessa alla questione del controllo delle acque del sistema Nera-Velino, presupposto essenziale per la creazione dell'impresa polisettoriale; così come la stipula della convenzione tra il Comune di Terni e la società guidata da Bocciardo, sanziona di fatto in maniera prepotente la forza non solo della grande azienda, ma l'affermazione dello stesso "centro" sulla "periferia". Da quel momento e anche dopo l'inserimento della "Terni" nel sistema delle partecipazioni statali attra- 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 6 verso l'Iri, operazione che garantì allo Stato il controllo pubblico sull'azienda e sul suo assetto produttivo, la grande impresa per il fascismo ma, più in generale, per la stessa società locale diventa emblematicamente una madre-matrigna. Essa viene percepita come un complesso capitalistico che invade la città e, con i suoi vertici, in grado di dialogare con il centro e, anche, direttamente con il duce, si pone rispetto al Pnf locale in una situazione super partes. Non è così casuale che i federali presentino come risultato della loro azione politica i buoni rapporti che riescono a intrattenere con i vertici aziendali, i quali peraltro si dimostrano costantemente impermeabili all'influenza della federazione fascista. D'altra parte, a partire dalla stipula della convenzione del 1927 e per tutto il decennio successivo la "Terni", insieme al partito, appare senza alcun dubbio uno dei pilastri del regime in provincia. Non soltanto sostiene la federazione provinciale con contributi costanti, essenziali per assicurargli la possibilità di svolgere la propria azione sul territorio; ma, più in generale, con tutto il suo peso di grande gruppo polisettoriale sposa in pieno le politiche economiche, sindacali, sociali del regime, garantendo allo stesso le condizioni per affermare «un sistema di aggregazione/costruzione del consenso/controllo sociale e politico che si adegua al modello del regime reazionario di massa»3. In queste dinamiche si inserisce anche, per quanto è stato possibile accertare in relazione alle fonti disponibili, l'atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica locale nei riguardi del fascismo. L'analisi condotta con riferimento specifico alla diocesi di Terni-Narni e al vescovo Cesare Boccoleri che la guida nel Ventennio fascista, ha permesso di accertare che, come succede in altre diocesi italiane e coerentemente con le scelte fatte dai vertici vaticani, la Chiesa ternana sembra tenere una posizione di sostanziale appoggio al fascismo e di collaborazione con il Pnf. Ciò emerge in maniera evidente in alcuni momenti: ad esempio, in occasione delle campagne promosse dal regime sul terreno economico e sociale, come per la Battaglia del grano e, soprattutto, dopo la stipula del Concordato, o nel corso della guerra d'Etiopia e di Spagna. Al tempo stesso, anche quando si hanno tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa (per effetto della crisi del 1931 sulle prerogative dell'Azione cattolica o in occasione dell'introduzione delle leggi razziali), le conseguenze concrete per la Chiesa locale sono di scarso rilievo e, comunque, tali da non incidere sostanzialmente sulla natura dei rapporti esistenti con la federazione fascista. Anche la Chiesa locale quindi, sebbene con l'obiettivo di preservare e, per quanto possibile, incrementare la presenza cattolica nella società locale, contribuisce nella sostanza a consolidare e, anche, ampliare il consenso al regime. In particolare, essa si dimostra attiva nel favorire, specialmente nelle aree rurali, quell'azione di «modernizzazione politica» di natura reazionaria, conseguenza del tentativo di organizzazione della società italiana secondo criteri gerarchici e accentratori, che il fascismo è impegnato a portare avanti in periferia. Certamente, un ruolo essenziale ai fini della creazione e, soprattutto, del mantenimento del consenso lo esercita anche la costante opera di vigilanza e repressione di ogni forma di dissenso organizzato e di attività politica di opposizione, che si attua in provincia per opera degli apparati di sicurezza dello Stato fascista. Tale azione si rivela particolarmente efficace se negli anni del regime solo i comunisti, essenzial- 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 7 mente nell'area industriale ternana, riescono a mantenere in vita, per quanto a fatica e in misura ridotta, una forma di opposizione organizzata. E tuttavia, il fatto che continuamente le autorità, sebbene nell'ambito del riconoscimento di quanto fatto dalle diverse organizzazioni del partito a favore del ceto operaio, lamentassero l'inadeguato grado di "comprensione fascista", quando non la scarsa fascistizzazione dei lavoratori delle industrie ternane e la loro "pericolosità" politica, sembra essere la conferma implicita di come in provincia, non solo non scompare l'insofferenza e il dissenso, anche politicamente organizzato, ma, più in generale, sotto la camicia nera, a prescindere dalla propaganda e dall'attività delle differenti istituzioni del regime, non vengono meno nemmeno gli interessi molteplici che contrassegnano la società locale e le diverse realtà presenti sul territorio. In ultima analisi, il fascismo locale appare in grado di esercitare un ruolo attivo nel disegno di fascistizzazione della società, coerentemente con l'accelerazione nel processo di creazione dello Stato totalitario di cui è strumento il Pnf staraciano. Il partito si rivela dunque un vero e proprio centro di potere, espressione di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario, con cui, inevitabilmente, tutti i cittadini si trovano a confrontarsi per le necessità della vita quotidiana: in altre parole, a dover essere, almeno una volta nella vita, fascisti. ; This research project is an in-depth study, in a comprehensive and long-term perspective, of what Fascism represented at a local level in a peripheral and non-homogeneous context, as in the case of the Southern Umbria areas, established as an administrative province in 1927. This specific geographical district flagged-up all the prerequisites for an exemplary case study, featuring several significant explanatory points. To this unique large provincial administrative industrial hub located within the Terni basin, other districts, part of the same province, remained juxtaposed. Within their respective areas, these districts included towns such as Orvieto and Amelia, which had strong links with the neighbouring communities, representing the rural, agricultural and mezzadrile aspects of Umbria, land of Saint Francis of Assisi, rich in art and religious meanings, which the Fascist Regime came to proclaim officially as the "heart" of Fascist Italy. On the basis of these introductory remarks, the study focuses its scope of research on three main points, all but essential to understand fully the aspects and dynamics of the local society during the Fascist period, also referred to as the ventennio mussoliniano. An interpretative functional grid has been designed with a view to describe the role of the National Fascist Party (Nfp) within the centre-periphery and continuity-innovation relationships with the previous regime. The study seeks to investigate how Fascism exerted its influence on the establishment and process of strengthening of the local ruling ranks, attesting its ability to relate with the old dominant élites, or promote the emerging of new ones or, in addition, facilitate and support the coexistence of both. Furthermore, the research focuses on the role exerted by the Nfp at a local level, its capability to affect the various localised dynamics of power, to create and control networks of affiliates and, above all, to relate with the two main subjects which remained independent from its control, the important industrial group represented by "Terni" of Bocciardo and the local Catholic Church, with an overarching aim to achieve its totalitarian objectives. Finally, the question of popular consent has also been scrutinised. At one level, the study analyses the 2 role of fascist violence deployed to obtain power and the repressive actions carried out under the Regime, which were highly effective, as one might expect under a dictatorship. At another level, it investigates the popular dissent and the grey areas of passive acceptance and weak consent which were common among strata of the local population. Additionally, in a broader perspective, political and institutional historical analysis has been coupled with social and economic investigation, through a systematic scrutiny and cross-examination of the main sources, as a methodological approach needful to the achievement of the final outcomes of the research. Findings on the origins, development, and strengthening of Fascism within the Terni province appear to concur with the conclusions reached by previous historical research. In the Southern areas of Umbria, Fascism, at its highest level, was brought into power and successfully established by the traditional ruling classes. The establishment of Fascism was supported and facilitated by the agrarian reaction and the monopolistic industrial groups threatened by the discontent of the rural and working classes and the rapid advancement of Socialism. The political defeat of the traditional ruling élites at the 1919 general election and the 1920 local elections, which followed the social turmoil of the so-called red biennium; the agreement of the 1920 patto colonico, disadvantageous to landowners; the occupation of factories, though a brief and contradictory experience, against a background of economic difficulty, caused their reaction and prompted their acceptance and support for Fascism. Firstly, Fascism, in the form of Fascist action squads and their capability of defeating its opponents militarily, with the extensive assistance of the State security services, then as an electoral block and political force capable to achieve power, presented itself as a sort of union sacrée against the threat of Bolshevism into which various groups appear to converge: the agrarian conservatism but also industrial and more modern forces. Undoubtedly, Fascism drew together different political forces, which during the first decade of the twentieth-century had been mutually antagonistic, and segments of the complex and divided political establishment of the Giolitti era. The scrutiny of the highest levels of the local Nfp and civil servants has revealed that, at least till 1927, the main political figures belonged to those forces already part of the agrarian block. Firstly, the landowners, many of whom belonged to the local nobility, supported by members of the professional bourgeoisie, whose estates and wealth had augmented during the nineteenth- and twentieth-century, and other sectors which were the direct expression of the rural milieus, such as the rural agents, farmers, but also those peasants whom, during the first two decades of the twentieth-century, had succeeded in becoming landowners themselves. Therefore in the Terni province, from the establishment of the Fascist regime to the introduction of the office of podestà and, for some time even after, 3 the highest offices of the municipal and provincial administration were held by members of the local nobility, primarily aristocrats, landowners and professionals. This is an invariable characteristic which put the Terni province in alignment with similar situations in Tuscany, Emilia Romagna and other areas of Southern Italy. The administrative reform and the establishment of the podestà authority, together with the prerogatives of the prefectures in appointing members of the highest offices within the municipal administrations, did not radically change, at least during the early phases of the reform, established practice. A survey of the municipalities located within the Terni province, shows that the prefects in the selection process to appoint the podestà took greatly into account the candidates' social and economic status of and, without doubt, a honorific title and tenure of highly considered profession were often sufficient criteria for a candidate to be nominated even when lacking some of the prescribed requisites as outlined by the administrative reform. The Fascist regime therefore, in perpetuating a bureaucratic and grandees system, showed an intention to reassure the existing ruling élites and obtain the support of the local population. A prosopographical analysis of the biographical profiles of headmasters, members of the provincial advice bureaus, podestà, members of the municipal advisory councils, during the 1926-1943 period, has made it possible to outline a summary framework which strongly corroborates the analysis carried out at a national level by Luca Baldissarra over a decade ago.1 What has emerged from this analysis is the class-based character of the Fascist political and administrative representation during those years, though presenting various differences linked to the social and economic specificity of the area scrutinised. In more depth, the study carried out on a corpus of 147 civil servants (78 podestà and 69 prefectural officers) employed by the municipalities of the province during the examined period, made it possible to draw up a profile of the typical officer: between forty and fifty years of age; highly educated (having achieved a high-school or university degree); often a landowner, a characteristic consistent with the social and economic structure prevailing throughout the province, and among whom the status of self-employed (generally lawyer or public notary) represented the most frequent professional position held. Relations between the podestà and the Nfp appear to have been particularly close, over half of the sample identified is composed by individuals who had joined the Fascist Party at an early stage, during 1920-1922; additionally, the majority of the appointments made by the prefects were agreed in advance with the Provincial Fascist Federation. It would therefore appear that during the 1930s, in 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 large areas of the province, the highest hierarchies of grandees were the prominent figures holding local high office. The industrial area comprised within the administrative territories of the two municipalities of Terni and Narni, however, appears to contrast with other districts of the province. In this area, as for similar cases in other municipalities or other regional administrations, the Nfp supported the emergence of members of the small and medium local urban bourgeoisie, as the office of podestà became a vehicle of social advancement and an opportunity to climb up the local hierarchy of power. Despite the apparent pacification established forcibly by the Fascist regime, the dynamics of power within the local government remained characterised by extreme unrest and strong conflict at various levels. The sizeable number of prefectural commissioners and remunerated podestà who succeeded in office, often in rapid succession, bears witness to the instability which marred almost all the municipal administrations of Terni province. This is evidence of the obstacles encountered by the prefects during the selection process of a qualified managerial class but, above all, of the resistance put up by the traditional élites of power, motivated by divergent interests and loyalty to various networks of familial and personal relations, to the process of homologation pursued by the Fascist regime. Undoubtedly, the Fascist regime, in implementing a model of podestà based on competence, on the energetic ability to act, on its alignment to official directives, and in order to achieve a modernisation of the administrative system, aimed at placing the local authorities under the prescriptive control of a centralised State. The actual administrative actions implemented by the local administrative offices, frequently under the guidance and pressure of the Prefects, as for example in the case of the accomplishment of public works functional to the civil mobilisation of various segments of the local community, became a measure of their efficiency and, above all, a measurement of how industrious the local administrators should be. The high turn-over of podestà is a clear indication of how difficult it was for the Fascist regime to implement its plans of action in peripheral areas. Additionally, direct intervention by the Prefects was often necessary to put an end to rivalries and internal power struggles which frequently broke out among local élites. These clashes and their manifestations appear to be similar in their dynamics, as pointed out by previous studies, to other cases occurred in different municipalities, provinces and regions. Resorting to anonymous letters, official complaints, accusations, came to represent the instrument to attack and weaken the opposite factions at a local level, within the municipalities, but also within the provincial administration, among the various representatives of the local administration and even the highest offices of the Terni Fascist Federation. From 1927, following the establishment of the 5 Province and the set up of political and administrative authorities in Terni, now seat of local government, a new phase emerged for the local Fascist Party too. The study of this new province has facilitated the understanding of its relations with central authorities. The establishment of this new local administration was the result of various circumstances linked to the political requirements of the Fascist State following the transition to a totalitarian regime. Additionally, the internal conflict dynamics of the regional Fascist Party played an important role. These led to the inner pacification of the Party and the set up of a Nfp Provincial Federation. Finally, the establishment of "Terni" had a pivotal role too. "Società Terni" (also referred to as "La Terni") came to represent the real "strong power" of the province, capable of imposing a factory regimen based partially on paternalistic assistance and partially on a truck-system model. The Fascist regime dealt directly with "Terni", bypassing the newly-established Nfp Provincial Federation and, where necessary, intervened to impose its authority, as the political and personal vicissitudes of Elia Rossi Passavanti, the first Federal secretary and podestà of Terni, exemplified. In this perspective, drawing together personal and professional career paths of the highest officers (prefects and police commissioners), of both political (federals, deputy federals, administrative secretaries, members of the Fascist Federation Federal Bureau) and economic authorities (members of the Provincial Economic Council, members of the Provincial Corporations Council and of the main bank) has represented an invaluable study, conducive to the understanding of the Nfp's role within the province and, in addition, of the political dynamics at play among the Fascist Party and other authorities, such as the prefectures. With specific reference to the prefects, it is worth noticing that of the nine prefects in office in the Terni province during the period under scrutiny, as many as six were Nfp members. This situation, however, did not necessarily imply a spontaneous collaboration between the prefectures and the Fascist Federation, but it would appear to have been a response to the need of overcoming the conflictual antinomy between the two authorities, which was a recurrent event throughout the Terni province. In addition, the succession of twelve Federals as leaders of the Fascist Party bears witness to a pervasive instability, a fact which is also confirmed by the noticeable preference given to individuals, as many as nine, unconnected with the local milieu. This is certainly a clear manifestation of the local Fascist Party's weakness - which appeared unable to express and produce capable managerial ranks - and of the evolution of the Federal Secretary's role, becoming more and more a professional one, in the context of the remarkable bureaucratisation of the Nfp, aimed at strengthening its mediatory and interventional role on the local administration, one of the main characteristics of the Nfp 6 under the leadership of Starace. Within this framework, the contrast between the prefects and the Fascist Federal secretaries during the 1930s, with regard, as a case in point, to the appointments of the podestà, and the crucial utilisation of official complaints and anonymous letters, bears witness to the Party's attempt to impose its decisions or, at least, to influence the administration at a local level. This, in turn, resulted in a situation of polycracy, which was one of the factors denoting local politics during the Fascist regime. During the 1930s, despite deep rooted conflict among the authorities, the internal power struggles within the Nfp and the endemic ineptitudes of the ruling class, the Fascist Provincial Federation was successful in exerting and promoting the fascistisation of the local community. It is manifest that the highest authorities within the National Fascist Party, with the exception of the Federals and their closest advisors, remained the domain of the original Fascist core, composed by members of the rural class and the bourgeoisie originating primarily from the Terni area. This explains the inadequate generational change within the Fascist Federation and, in addition, the political and economic importance of the Terni area in comparison to the entire province. These political figures were part of the various Federal Bureau and, in some cases at the same time, if the law permitted, held additional offices in different institutional bodies, such as the Economic Provincial Council or were in charge of the main local bank. On the contrary, the influence exerted on the high levels of the National Fascist Party by the small bourgeoisie or by members of the working class remained negligible. It was only with the approach of the Second World War that members of the clerical class, but also technicians and a few tradeunionists already employed within the bureaucratic structure of the Provincial Federation, acquired an enhanced importance and gained access to higher office, such as administrative secretaries or members of the Federal Bureau. The Terni area too, though in a more limited way, which bears not comparison with other provinces, saw the rising «from the bottom and the periphery of a new ruling class within the totalitarian regime»2. During the 1930s therefore, despite various difficulties, including economic issues, the Nfp was successful in creating at a provincial level an organisational structure capable of influencing and organising the local community. Additionally, the regular flow of financial contributions bestowed by various public authorities (provincial administrations, municipalities, Provincial Economic Council) and private companies ("La Terni", first of all, but other businesses too) to a political party constantly seeking financial backing, as thoroughly documented by records of the Terni Fascist Federation, bears witness to the outstanding efforts the Regime made to 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 7 successfully present the Nfp as a conducive mean to the development of this specific welfare model, with a view to promote the fascistisation of the local community. In this perspective, the Nfp's relation with the "Società Terni" is key to understanding the nature of the Fascist Regime and its role within the Terni province. The establishment of a Province was connected to the control of the water-system of the two rivers Nera-Velino, essential to create an industrial hub; similar reasons were behind the agreement stipulated between the Terni municipality and the Bocciardo Company, which came to sanction resolutely the importance of the Company and, additionally, the supremacy of the "centre" over the "periphery". It was from this period and following the inclusion of "Società Terni" within the system of state-controlled industries through the Institute for Industrial Reconstruction, a transaction which secured State control over the Company and its productive branches, that "La Terni" became firmly linked to Fascism and, more in general, to the local community, though in a controversial and ambivalent mutual relation. The Company was perceived as a capitalistic enterprise which took over the city, its directors being able to negotiate with the central Government directly and with the Duce himself, taking a super partes position in relation to the local Nfp. It was not a fortuitous occurrence that the Federal secretaries gauged their political influence against the effectiveness and strength of the relations they were able to maintain with the executive directors of "Società Terni", whom, on their part, appeared to be impenetrable to any influence exerted by the local Fascist Federation. Additionally, following the 1927 agreement and during the ensuing decade, "La Terni", in conjunction with the Fascist Party, appeared to become, without doubt, one of the main pillars of the province. At one level, it supported the Fascist Provincial Federation through a constant flow of financial contributions, vital to bankroll the Federation's activities within the province; but, at a more general level, asserting its influence as a large industrial group, it was capable of shaping the economic, trade-union and social policies of the Fascist regime, creating those conditions to establish «a system of aggregation/disaggregation of the social and political consensus/control conforming to the mass reactionary regime model»3. Within this dynamic interactions, and on the basis of documents available, the local Catholic Church played a significant role in relation to the Fascist Party. With reference to the specific case of the Terni-Narni dioceses and bishop Cesare Boccoleri, the Church's main leader during the Fascist ventennio, this research has showed that, as in the case of other Italian 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 8 dioceses and in alignment with the decisions taken by the Vatican, the Church authorities in Terni supported the Fascist apparatus and adhered to a policy of collaboration with the Nfp. This was particularly manifest on specific occasions: for example during the economic and social campaigns promoted by the Regime, as a case in point the so-called "Battle of the wheat" and, above all, following the 1929 Concordat with the Catholic Church, or during the Ethiopian and Spanish conflicts. At the same time, even when tensions arose and marred the relations between the Fascist regime and the Catholic Church (following the 1931 crisis caused by the limitations imposed on the prerogatives of Azione Cattolica or the adoption of the 1938 racial laws), the consequences for the local Church were negligible and did not appear to affect the on-going relations with the local Fascist Federation. The local Church therefore in pursuing the aim of preserving and, wherever possible, augmenting the Church's influence on the local community, contributed to reinforce and widen consensus for the Fascist regime. More specifically, the Church's actions were particularly effective in encouraging, especially in rural areas, that precise process of "political modernisation", though reactionary at its core, based on organising the entire Italian society on hierarchical and centralising criteria, which Fascism was promoting particularly at a local level. Additionally, and without doubt, the important function to create and, above all, to maintain a high level of consensus was exerted by the pervasive surveillance and repression of any form of dissent and political opposition, enforced within the province by the Fascist security services. A repressive action which was extremely effective and, during the dictatorship, only the Communist Party, despite being hemmed in to the Terni industrial area, was able to maintain, albeit with great difficulty and in a limited way, a form of organised resistance. The fact that the Fascist authorities continuously, though recognising what had been achieved by the Party's multifarious organisations to favour and support the working classes, lamented the feeble "fascistisation" of the Terni industrial workforce and their being "politically dangerous", would appear to confirm implicitly that throughout the province the opposition and political dissent had not completely ceased. More in general, under the "black shirts", despite the propaganda and the activities of various Fascist authorities and institutions, it remained evident that the diversified interests which characterised the local society and the different realities rooted at local level persisted. Ultimately, the local Fascist Party appeared capable of exerting an active role in the "fascistisation" process of society, in alignment with the creation and implementation of a totalitarian state, being the main objective of the National Fascist Party under the leadership of Starace. The Nfp was therefore a real centre of power, expression of an authoritarian 9 regime leaning toward totalitarianism. A regime against which all citizens had to relate for their everyday life needs: that is to say, all citizens had to act, at least outwardly, as fascists.