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Le scienze, come altri campi dell'attività umana, sono spesso vittime di pregiudizi. Tradizionalmente, il discorso stereotipato di certi mass media e generatori d'opinione ha sviluppato e diffuso un'immagine banalizzata e poco realista della ricerca scientifica, contribuendo ad accrescere il divario che separa le scienze umane e sociali (come
l'antropologia) dalle scienze esatte e naturali (come le neuroscienze). Eppure, tale divario si è costruito artificialmente e poco ha a che vedere con la realtà oggettiva e con la quotidianità dei ricercatori: si ha spesso la tendenza ad associare gli scienziati sociali ai flâneurs, passeggiatori che attraversano le culture, osservando e sistematizzando -più o meno soggettivamente- strutture e logiche sociali quando invece i "veri" scienziati, quelli in camice bianco, sono tendenzialmente associati ad un immaginario asettico fatto di macchinari, tecnologia
e strumenti di precisione atti a garantire l'oggettività del loro lavoro. Una menzogna ben orchestrata, questa, che non rende merito al processo dialogico che ha permesso ad entrambi i versanti della scienza (quella "molle", delle scienze umane e sociali, e quella "dura", delle scienze esatte e naturali) di costruire quel sapere polifonico che costituisce la nostra modernità. Quest'intervento vuole dunque contribuire a mostrare come l'antropologia e le neuroscienze, andrebbero considerate come due discipline "amiche" che, sin dalle origini, si son stimolate a vicenda, dato che condividono temi e metodi di ricerca.
A causa della crisi sanitaria globale provocata dall'epidemia da COVID-19, per quasi due anni abbiamo vissuto in uno stato d'emergenza sociopolitica accompagnato da restrizioni alla mobilità, nuove norme igieniche e distanziamento sociale. Il regime di lockdown ha imposto per vari mesi, nella maggior parte dei paesi del mondo, la chiusura delle scuole e delle Università (e l'impiego di dispositivi di didattica a distanza e continuità degli insegnamenti). Il prezzo da pagare è stato particolarmente alto: i ricercatori dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico hanno stimato che, durante i primi 9 mesi di crisi sanitaria (marzo-dicembre 2020) avevamo già perso più di 200 milioni d'anni d'apprendimento (Hanuschek e Woessmann, 2020). Il mondo dell'educazione ne ha profondamente sofferto e un nuovo programma di ricerche si è rapidamente sviluppato, volto questa volta a comprendere le dinamiche educative in tale nuovo contesto così come l'impatto che ha avuto la pandemia sulla salute mentale della comunità educativa.
È questa, dunque, la ragione del redux nel titolo di questo contributo. Così come i reduci tornano dal fronte, con queste pagine vorrei tornare su un tema che ho già avuto l'opportunità di introdurre per riproporlo alla luce degli interrogativi posti dalla crisi sanitaria (un vero e proprio campo di battaglia). L'obiettivo è di sintetizzare alcune considerazioni riguardo i più recenti sviluppi del dialogo che intrattengono le scienze umane e sociali e le neuroscienze al fine di riesaminare la logica soggiacente alle ricerche in ambito educativo e proporre nuovi scenari.