ABSTRACT Il concetto di "Appropriatezza" è stato introdotto nel contesto normativo italiano a seguito della Raccomandazione n° 17/1997 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri, "sullo sviluppo e l'attivazione dei sistemi di miglioramento della qualità dell'assistenza sanitaria", in cui l'appropriatezza delle cure viene indicata come una delle componenti fondamentali; infatti, la Legge 449/1997, immediatamente successiva, inserisce l'appropriatezza fra i profili da considerare nell'ambito del monitoraggio dell'attività ospedaliera. Successivamente, il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 introduce la distinzione fra "Appropriatezza clinica" e "Appropriatezza organizzativa": come noto, la prima si riferisce all'erogazione di cure mediche ed interventi di comprovata efficacia in contesti caratterizzati da un profilo beneficio-rischio favorevole per il paziente, mentre la seconda concerne la scelta delle modalità di erogazione più idonee ai fini di massimizzare la sicurezza ed il benessere del paziente e di ottimizzare l'efficienza produttiva ed il consumo di risorse. A seguire il recente D.M. 10/12/2009 in materia di controlli sulle cartelle cliniche , specifica modalità di controllo delle cartelle cliniche finalizzandolo alla verifica della appropriatezza . Non ultimo Il Patto per la Salute 2010-2012, nel ribadire la necessità di perseguire l'efficienza, la qualità e l'appropriatezza dell'Assistenza Sanitaria, anche ai fini del raggiungimento dell'equilibrio economico, introduce un ampio set di indicatori, fra cui alcuni specificamente destinati al monitoraggio dell'appropriatezza organizzativa aggiornando inoltre la lista di DRG ad alto rischio di inappropriatezza se erogati in regime di ricovero ordinario. Nel sistema organizzativo sanitario attuale sono identificati indicatori di inappropriatezza organizzativa: - Degenza media preoperatoria L'indicatore viene calcolato come rapporto fra il totale delle giornate intercorse tra la data di ricovero e la data di intervento ed il totale dei dimessi. - Percentuale interventi per frattura del femore effettuati entro due giorni L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra il numero di dimessi con diagnosi principale di frattura del femore che abbiano subito l'intervento entro due giorni dal ricovero ed il totale dei dimessi con diagnosi principale di frattura del femore. - Percentuale di dimessi da reparti chirurgici con DRG medici L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra i dimessi da reparti chirurgici cui sia stato attribuito un DRG medico ed il totale dei dimessi da reparti chirurgici. - Percentuale di ricoveri con DRG chirurgico sul totale dei ricoveri (RO + DH) L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra i dimessi con DRG chirurgico ed il totale dei dimessi. - Percentuale di ricoveri ordinari con DRG ad alto rischio di inappropriatezza L'indicatore viene calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri in regime ordinario e DRG a rischio in appropriatezza ed il totale dei ricoveri con DRG a rischio inappropriatezza. - Percentuale di ricoveri in DH medico a carattere diagnostico sul totale dei ricoveri in DH medico L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale tra il numero di ricoveri in DH medico a carattere diagnostico e il totale dei ricoveri in DH medico. - Percentuale di ricoveri ordinari medici brevi (0-2gg) sul totale dei ricoveri ordinari medici L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri ordinari con DRG medico e durata della degenza minore o uguale a due giorni ed il totale dei ricoveri ordinari con DRG medico. - Percentuale di ricoveri ordinari medici oltre soglia sul totale dei ricoveri ordinari medici di pazienti con età maggiore o uguale a 65 anni L'indicatore è calcolato come rapporto percentuale fra il numero di ricoveri ordinari con DRG medico e durata della degenza superiore alla soglia specifica del DRG di afferenza ed il totale dei ricoveri ordinari con DRG medico di pazienti con età maggiore o uguale a 65 anni. I valori medi Regionali costituiscono gli standard di riferimento ( G.U. 05.01.2010). Al di là di quanto istituzionalmente disponibile e condiviso sull'argomento , la riflessione piu' importante è che la appropriatezza organizzativa non è spesso sostenuta dalla appropriatezza della offerta , inoltre la stessa viene spesso vissuta come un ripiego e non come una opportunità , come un imperativo per la riduzione dei costi e non come un decisione logica e corretta nella presa in carico del paziente ed a tutela della salute del cittadino e della comunità. Proprio sulla inappropriatezza della offerta è necessario soffermarsi per delineare alcune criticità: - gli ospedali sono luoghi di cura culturalmente e strutturalmente preposti al trattamento del paziente in degenza, diversi setting assistenziali che richiedono numerosi accessi per brevi prestazioni devono essere espletati in strutture sanitarie dedicate con appropriati percorsi strutturali ed organizzativi; - prestazioni brevi in piu' accessi rappresentano spesso un disagio per l'utente soprattutto se trattasi di persone anziane o con autonomia ridotta; - il personale addetto alla assistenza ( ormai non piu' giovane poiché la media anagrafica degli operatori sanitari sì è alzata in assenza di turn over e concorsi) è spesso impreparato alla gestione dei pazienti in modalità diversa dal ricovero ordinario , valutando , incautamente , day surgery , day hospital e PAC diversi dal ricovero ordinario solo per il tempo di permanenza in ospedale ( sottovalutando qualunque altro aspetto). Qualunque sia il setting assistenziale , gli aspetti gestionali - organizzativi, i percorsi diagnostico terapeutici , modalità di comunicazione con l'utenza devono essere chiari , sicuri ed efficaci indipendentemente dalla complessità assistenziale. Non si puo' quindi prescindere dalla esigenza di scegliere sistemi qualità idonei al contesto secondo standard internazionali , ricordando che lo Stato Italiano ha imposto alle organizzazioni sanitarie i sistemi qualità attraverso i Requisiti organizzativi per l'Accreditamento Istituzionale , diversificati per Regione ma sempre ispirati a Sistemi Qualità. Negli ultimi anni si è andata sempre più diffondendo, a livello internazionale e anche in Italia, la consapevolezza che la gestione e l'organizzazione dei servizi sanitari debbano avere tra i principi fondamentali la garanzia e la promozione della qualità e la sicurezza dei servizi sanitari e delle cure erogate. Se inizialmente il concetto di qualità e la sua applicazione si scontrava con la convinzione " la qualità costa ", oggi il SSN si sforza di appropriare le prestazioni sempre piu' rispetto alle richieste dell'utenza , ai bisogni di salute , alle risorse sempre piu' esigue e secondo una programmazione a lungo termine , affinchè gli investimenti siano ammortizzabili nel tempo. Si è quindi modificata la idea di qualità e si è adeguata al contesto sociosanitario della nostra Nazione . Lo dimostrano anche le diverse normative sull'accreditamento istituzionale che sebbene orientate dal Dlvo Decreto Legislativo n° 502 del 1992 e s.m.i e il 517 del 1993 , nelle diverse Regioni di Italia hanno cercato di rendersi operative mediante leggi regionali operative in diversi tempi , in diversa modalità , proprio perché diversa è l'utenza da regione a regione , così come diversa è la maturità e la sensibilità dei professionisti su questo argomento. "Dal controllo qualità alla assicurazione qualità" , proprio per sottolineare il ruolo di garanzia che è affidato ad un sistema qualità e per sensibilizzare ad una cultura adocratica ove posto l'obiettivo , tutto il controllo di processo è monitorato, ove la prevenzione dell'evento avverso è centrale così come centrale è il ruolo dell'appropriatezza clinica ed organizzativa : un sistema organizzativo dinamico ed aperto , in continua autovalutazione e correzione . E' pur vero che se le aziende private e di produzione beni , si rendono maggiormente competitive mediante la implementazione di un sistema qualità e si propongono sul mercato come fornitori in grado di soddisfare meglio il cliente , il mondo sanitario , piu' complesso e multidisciplinare , valuta ancora con diffidenza questo approccio gestionale e strategico per differenziarsi sul mercato dell'offerta di servizi di prevenzione , cura e riabilitazione. Anche su questo argomento alcune regioni sono convinte da tempo , altre stentano a maturarne la applicazione , sebbene le normative ormai spingano in tal senso. Resta comunque indiscusso che la realizzazione della qualità, come piena e sostanziale capacità di soddisfazione di bisogni, è un obiettivo "strategico", da perseguire tramite due strumenti essenziali, complementari e sinergici: - L'ottimizzazione dei prodotti e processi, fondata sulla ricerca, innovazione e sviluppo tecnologico. - L'adeguata gestione e tenuta sotto controllo di tutte le attività (tecniche, commerciali, amministrative, ecc.) connesse con la produzione di beni e servizi. Il sistema sanitario italiano è un contesto altamente poliedrico e dinamico, caratterizzato da una complessità strutturale, organizzativa e tecnologica molto alta. Perseguire ottimizzazione dei processi ed adeguato controllo dei processi è davvero impresa complessa : le tecniche gestionali attualmente impiegate in questo settore permettono solo in parte di adottare soluzioni gestionali in grado di raggiungere gli obiettivi aziendali di efficienza, efficacia ed economicità, e solo a seguito della loro effettiva implementazione, e successiva valutazione. Questa condizione espone i manager delle strutture sanitarie al rischio di prendere decisioni che, a dispetto della bontà del progetto, sono esposte al verificarsi di problemi, lacune ed inefficienze in fase di attuazione tali da minarne l'efficacia. Inoltre vi è il rischio, a seguito dell'adozione di soluzioni gestionali errate, di impiegare in maniera poco corretta le risorse economiche eventualmente disponibili. Simulare vuol dire riprodurre nella maniera più accurata possibile il funzionamento di un sistema, o di una parte di esso, al fine di studiarne le risposte al cambiamento dell'ambiente esterno, attraverso l'analisi di indicatori prestazionali opportunamente scelti, chiamati "key performance indicators" (KPI). Inoltre la simulazione può essere considerata un utile strumento per studiare i modelli organizzativi di sistemi reali, al fine di analizzarne e prevederne il comportamento e quindi studiarne l'evoluzione in funzione di determinate specifiche, con una semplicità ed un'interattività non possibile operando direttamente sul sistema reale. L'approccio combinato della simulazione ad eventi discreti (DES) e delle metodiche del business process management (BPM) consente di valutare soluzioni operative alternative a quelle attualmente impiegate, valutandone le conseguenze in termini di prestazioni del sistema (sulla base dei parametri scelti) prima di realizzarle, decidendo poi se attuarle nella realtà oppure cercarne di nuove .Il tutto va inserito nella più generale ottica di un raggiungimento di un maggiore risparmio in termini di tempo e soldi, rendendo inoltre possibile la valutazione ex-ante di più soluzioni manageriali, al fine di individuare e verificare la migliore in accordo con gli obiettivi aziendali e di gestione delle risorse. OBIETTIVO DELLA TESI La tesi costituisce l'elaborato finale relativo a tre anni di studio e ricerca e vuole descrivere la metodologia utilizzata , le attività svolte, i risultati ottenuti. La attività di ricerca si è svolta su tre prevalenti indirizzi: a) Start up di un sistema qualità nella u.o. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II° di Napoli secondo Standard Internazionale UNI EN ISO 9001 / 2008 e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 b) Confronto della appropriatezza organizzativa della u.o rispetto al contesto aziendale , rispetto ad altre strutture sanitarie , e la appropriatezza Aziendale rispetto alla appropriatezza di altre organizzazioni sanitarie, attraverso n° 7 DRG chirurgici e monitoraggio di specifici indicatori c) Creazione di un modello di simulazione delle attività svolte dalla u.o. per profilo assistenziale al fine di avere un supporto conoscitivo per la appropriatezza e uno strumento operativo per l'efficienza . METODOLOGIA Start up di un sistema qualità nella u.o. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II° di Napoli secondo Standard Internazionale UNI EN ISO 9001 / 2008 e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 a1.) iniziale inquadramento quadro Normativo di riferimento, la ISO 9001:2008 e i requisiti strutturali , tecnologici ed organizzativi richiesti dalla normativa sull'accreditamento della Regione Campania . A tal fine si è creata una " tabella di conversione " che dettaglia esattamente la scheda BURC n. 67 del 22 Ottobre 2012 - SCHEDA SRIC 4 - DEGENZA , annotando i punti in comune e di corrispondenza della UNI EN ISO 9001/2008 e i riferimenti procedurali e documentali della Unità Operativa presenti o da creare . a.2) una seconda parte che fa un attenta analisi delle attività svolte dalla unità operativa , flussi di lavoro , risorse coinvolte . A tal fine si assimila la u.o. in oggetto alla u.o. generica di " chirurgia generale ", oggetto di studio ancora in corso di validazione sui modelli ospedalieri chirurgici che schematicamente riassume i principali processi legati alla degenza in u.o. di tipo chirurgico. a) Figura 1 – Diagramma delle attività di unità operativa chirurgica a.3) una terza parte che alla luce degli obiettivi organizzativi, strutturali e tecnologici, ha delineato le priorità di intervento per la implementazione del sistema qualità e dei requisiti organizzativi dell'accreditamento al SSN, con una analisi che sottolineasse punti di forza, le opportunità e i benefici attesi dal progetto per la vita futura della unità operativa ; a.4) una quarta fase che ha identificato le "attività di programmazione di correzione " si è basata sulla redazione e condivisione di alcune procedure organizzative e strumenti operativi e di monitoraggio. I processi di : 1. redazione e gestione della cartella clinica 2. compilazione e gestione di documentazione infermieristica 3. somministrazione e gestione intra reparto dei presidi farmacologici ; 4. monitoraggio e valutazione dell'appropriatezza organizzativa della u.o. sono risultati critici per importanza , frequenza ed anomalie rilevate ; questi processi sono stati analizzati , presi in carico e ridisegnati attraverso procedure operative e strumenti di controllo. b) Studio di n° 7 DRG chirurgici al fine di valutare in due diverse realtà la appropriatezza organizzativa dei casi trattati ". Lo studio è stato effettuato su i seguenti DRG chirurgici - DRG 290 – Interventi sulla tiroide; - DRG 494 – Colecistectomia laparoscopica senza esplorazione del dotto biliare comune senza cc; - DRG 493- Colecistectomia laparoscopica senza esplorazione del dotto biliare comune con cc; - DRG 161 Interventi per ernia inguinale e femorale età > 17 anni con cc; - DRG 162 Interventi per ernia inguinale e femorale età > 17 anni senza cc; - DRG 149 – Interventi maggiori su intestino crasso e tenue senza CC ; - DRG 570 - Interventi maggiori su intestino crasso e tenue con CC senza diagnosi; di questi DRg sono stati monitorati negli ultimi tre anni indicatori di appropriatezza organizzativa al fine di confrontare la u.o. in studio con la globalità aziendale e confrontare due realtà aziendali sanitarie diverse a mission( policlinico universitario e ospedale presidio di zona). c) Creazione di un modello di simulazione delle attività svolte dalla u.o. per profilo assistenziale al fine di avere un supporto conoscitivo per la appropriatezza e uno strumento operativo per l'efficienza . Tale attività di ricerca ha visto un team multidisciplinare attivo nella applicazione di Work Flow Management e Simulazione ad Eventi Discreti che ha applicato tali metodologie di BPM al DRG 290. CONCLUSIONI e PROSPETTIVE Dal percorso di studio e ricerca si evincono tre conclusioni: - Il progetto sulla Unita' operativa di Chirurgia Generale e Mininvasiva di avviare un sistema qualità secondo lo Standard UNI EN ISO 9001e Regolamento 01/2007- Decreto Commissario ad Acta 124/2012 ha consentito di dotare la U.O di una nuova modalità di gestione della cartella clinica cartacea ( è in sperimentazione aziendale la modalità informatizzata) , documentazione infermieristica e somministrazione e gestione di terapie farmacologiche , utili alla riduzione di rischi di errore di compilazione cartella e documentazione allegata inclusa la infermieristica , nonché riduzione di errori nella gestione e somministrazione delle terapie farmacologiche. - Lo studio degli indicatori legati alla appropriatezza organizzativa sui sette DRG scelti ci consente di concludere che la Azienda Policlinico Federico II di Napoli ha in corso un percorso di miglioramento attivo e costante: la sua valutazione globale consente di confermare all'Azienda i requisiti di appropriatezza organizzativa che sostengono poi i finanziamenti pubblici aziendali; l'analisi piu' interessante non è nella sua globalità ma nella scansione di ogni unità operativa che concorre al risultato globale . In questo contesto la U.O. di Chirurgia Generale e Mininvasiva della Azienda Policlinico Federico II di Napoli ha creato un sua identità rispettosa dei principi di appropriatezza organizzativa aziendale mantenendo i suoi standard all'interno dei valori medi aziendali , spesso anche migliorandoli ( e questo consente al altre uu.oo. di alzare i valori al di sopra delle medie aziendali). Restano significativi per ulteriori approfondimenti alcuni valori sopra le medie aziendali unicamente per i casi oltre soglia ( rari) - Dalla analisi dei casi trattati sia nel Presidio Ospedaliero di Solofra e che nella U.O. di Chirurgia Generale del Presidio Ospedaliero di Solofra , si evince : il peso che ha la mission aziendale diversa dal Policlinico nella gestione della appropriatezza organizzativa ; la esigenza di rispondere ad un bisogno di salute imminente ( anche in emergenza ) , in un contesto geografico e sociale molto differente da quello della Azienda Policlinico Federico II , ha portato il Presidio di Solofra anche a scegliere codifiche diverse per il riconoscimento dei casi clinici trattati . Per esempio per la gestione della colecistectomia , molti casi sono stati trattati e codificati con SDO in altro DRG diverso dai 493-494, e per tanto sono sfuggiti all'oggetto di studio. Un diverso DRG comporta una diversa remunerazione e un diverso riconoscimento in fatturazione all'ASL. Questa attività giustifica anche il fatto che il DRG 494 scenda da n° 97 casi trattati nel 2011 e n° 94 nel 2012 a n° 57 casi nel 2013. Da sottolineare pero' che se la codifica DRg cambia per identificare una procedura , non si marca il drg 493 che è complicato perché sono presenti pochi casi e anche i casi fuori soglia nel 2011 e 2012 sono n° 0 e n° 4, mentre nel 2013 sono n° 10 su un totale di n° 57 dimessi: questo dato richiederebbe un approfondimento su verifica delle cartelle cliniche per comprendere quali anomalie hanno creato tali dati numerici. - In merito a ciascun DRG il dato piu' significativo , riguardo al DRG 290, è che trattasi di un percorso diagnostico terapeutico molto strutturato al quale il paziente accede già iperstudiato , con a corredo svariati esami strumentali e laboratoristici effettuati in tempi diversi ed al di fuori del DRG ( quindi non in ricovero ma in regime ambulatoriale).In particolare nella Azienda Policlinico Federico II accedono pazienti afferenti dalla Regione Campania e da tutto il Meridione , per tanto le chirurgie aziendali accolgono casi anche molto complessi o non accettati in altre strutture. Alla luce di tale realtà e sebbene sia attivo il servizio di prericovero , taluni pazienti si ricoverano con un un giorno di anticipo rispetto alla data procedurale per ragioni logistiche ( residenza troppo lontana , o tempi troppo lunghi e modalità di percorrenza poco agevoli), ragioni socio-familiari, raramente per motivazioni legate all'età. Tali considerazioni possono ritenersi sufficienti per analizzare la media di degenza globale e la preoperatoria , ulteriormente migliorabile e valutare la ipotesi che il DRG 290 possa, in piccole percentuali e con oculata scelta dei casi clinici da arruolare, proporsi come DRG con tempi di ricovero piu' brevi secondo canoni istituzionali, anche in one day surgery, se le valutazioni epidemiologiche per complicanze periprocedurali su scala piu' ampia possano confortare tali ipotesi. Questa è la prospettiva futura piu' interessante su cui soffermare la attenzione, considerando che nel documento " Rapporto annuale sull'attività di ricovero ospedaliero- Dati SDO" del 2012 il DRG 290 , con rango 39 risulta tra i primi 60 DRG per numerosità di dimissioni, con un totale di n° 36.648 dimissioni , n° 350.645 giornate di degenza ed una remunerazione teorica di Euro 101.373.777. Tai ipotesi non possono essere azzardate per il DRG 494 non avendo valutato alcuna cartella clinica e quindi non conoscendo dati piu' precisi sui pazienti dimessi: un approfondimento da valutare in futuro per considerazioni piu' complete . Certamente si potrà quindi valutare : - l'importanza economica di questa ipotesi che se fosse realizzabile anche in una minima percentuale dei casi clinici in DRG 290 varrebbe un risparmio finanziario sicuramente apprezzabile per il SSR e SSN; - la possibilità di abbreviare liste di attesa e motivare la permanenza del trattamento chirurgico intraregionale , evitando la mobilità extraregionale . - In merito alla Simulazione ad Eventi Discreti (DES) applicata al profilo assistenziale con DRG 290 , si puo' concludere che la applicazione è stata con successo validata . La prospettiva futura piu' di rilievo consiste non solo nella applicazione ad altri DRG, sicuramente con percorsi clinico-diagnostici maggiormente articolati , con utilizzo di diagnostiche piu' invasive , consulenze specialistiche piu' frequenti( per esempio tutti i DRG che contemplano la procedura chirurgica sul colon), ma nella valutazione completa di tutti i dati economici provenienti da un controllo di gestione che abbia fotografato i costi di tutte le risorse utilizzate nel percorso diagnostico clinico , al fine di rendere non piu' utile ma indispensabile la applicazione di Business Process Management – DES nei processi decisionali e direzionali delle Aziende Sanitarie . Tale applicazione , consentirebbe di agire , modificare e correggere processi sanitari che contestualmente sono stati identificati come inefficienti o non conformi , senza attendere i dovuti e lunghi tempi dell'analisi gestionale .
In questo lavoro abbiamo analizzato l'annata 1948 del quotidiano del Partito Comunista Italiano, «l'Unità», cercando di cogliere gli elementi che potevano contribuire a definire i confini dell'idea di patria che aveva il PCI. Abbiamo preso in considerazione articoli di fondo scritti dai massimi dirigenti del partito, articoli di personalità indipendenti candidatesi con il Fronte o di semplici simpatizzanti; abbiamo analizzato articoli non firmati, cioè considerati espressione del quotidiano nella sua interezza e alcuni disegni satirici. Abbiamo indagato le retoriche presenti in questi articoli, confrontandole con quelle dei testi canonici che hanno delineato l'idea della nazione italiana. Abbiamo collocato quest'analisi nel contesto dell'Italia del 1948, un anno decisivo per le sorti dell'Italia e per la storia del Partito Comunista Italiano. Abbiamo visto che il personaggio del traditore, fondamentale nelle narrazioni nazional-patriottiche del «canone risorgimentale» è diffusamente presente nelle pagine del quotidiano del PCI in funzione antigovernativa. Ciò non solo nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche dopo, quando il PCI cercava di riorganizzarsi dopo il disastroso esito delle elezioni e accusava la DC di non avere la volontà di applicare i principi sociali della Costituzione. L'accusa di tradimento sembra peraltro essere un elemento ricorrente nella visione del mondo del comunismo staliniano: il tradimento era ad esempio uno dei capi d'accusa che il partito comunista sovietico muoveva contro i dissidenti nel corso delle sue epurazioni. Il tradimento è anche la chiave di lettura con cui nel libro fatto redarre da Stalin per canonizzare la storia del comunismo sovietico, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, del 1938, venivano interpretate tutte le deviazioni di destra e di sinistra: da Bucharin, a Zinov'iev, da Trockij a Tito.1 Lo stesso procedimento era all'opera nella ricostruzione della storia del PCI fatta redarre da Togliatti in occasione del trentennale del partito: Tasca e Bordiga erano definiti traditori della classe operaia, l'uno per «opportunismo», l'altro per «settarismo». La formula del tradimento era quindi tradizionalmente presente nella cultura marxista-lenista e i massimi dirigenti del PCI erano impregnati di questa mentalità. Molti studiosi che si sono cimentati nello studio del profilo culturale dei comunisti italiani hanno sottolineato questo aspetto: David Kertzer ad esempio ha sostenuto che «at the heart of the PCI's symbolic world was the Manichean tradition of the international Communist movement».2 Per Kertzer questa visione del mondo risaliva alle origini ottocentesche del movimento operaio ed aveva ancor più antiche radici cristiane. On one side lay good, on the other evil. On one side the Communists; on the other, the capitalists and imperialists, Fascists and traitors. On the side of all that is virtuous, the Soviet Union; on the side of all evil, the United States.3 Questa ideologia che portava a identificare i propri avversari come una rete di cospiratori era tipica, aggiunge Kertzer, della retorica del dopoguerra ed aveva un corrispettivo speculare nell'anticomunismo degli USA e dei suoi paesi satelliti, come l'Italia democristiana. Kertzer evidenzia inoltre che il simbolismo manicheo del linguaggio comunista raggiunse il suo acme nel dopoguerra, quando si ebbe la necessità di isolare un nemico interno, come nel caso di Tito in sede internazionale e nel caso Magnani-Cucchi in ambito nazionale. Da questa visione del mondo manichea per Kertzer derivava una «metafora militare», in virtù della quale lo scontro elettorale era letto dai comunisti attraverso un simbolismo militare e gli avversari politici erano identificati come forze reazionarie al servizio degli stranieri.4 Angelo Ventrone ha provato a leggere la storia italiana utilizzando la chiave di lettura del «nemico interno» come strumento di lotta politica. Per Ventrone questo modo di concepire la lotta politica risalirebbe alla prima guerra mondiale quando i neutralisti vennero definiti disfattisti, e prima ancora alla guerra di Libia, e arriverebbe fino ai nostri giorni, passando ovviamente per le elezioni del primo dopoguerra.5 Giuseppe Carlo Marino ha inquadrato il tema nel clima paranoico del PCI postbellico: spie, provocatori e traditori potevano nascondersi ovunque, tanto più in un partito che era diventato di massa, per questo bisognava predisporre criteri rigidi di selezione del personale militante e dirigente. Di qui l'istituzione delle scuole di partito e l'imposizione della pratica autobiografica, perché bisognava conoscere il passato dei militanti per capire se nella loro condotta di vita, nella loro estrazione sociale e familiare, potevano esservi i germi del tradimento. Tutto ciò rendeva necessario spingere alla delazione sistematica: i compagni che notavano elementi potenzialmente anti-comunisti dovevano senza indugio denunciarli alle autorità di partito: il colpevole sarebbe stato poi giudicato e, in caso di colpa grave, sottoposto ad un processo pubblico (cioè alla presenza dei compagni).6 Sempre Kertzer situa questa ricerca del nemico interno nello spazio del mito che caratterizza la sfera politica. Citando l'antropologo francese Raoul Girardet, tra i temi che strutturano i miti politici Kertzer individua quello dell'esistenza di un diavolo cospiratore; l'esistenza di un salvatore; l'arrivo di un'età dell'Oro.7 Per lo studioso americano questi miti sono inoltre al centro della tradizione cristiana, oltre che nell'ideologia del PCI. Per Kertzer i comunisti elaborarono questa mitologia in virtù della loro visione manichea della realtà e della storia, che li portava ad identificare nell'URSS il baluardo del bene, che avrebbe strenuamente combattuto contro il male, cioè il capitalismo e l'imperialismo che in questa fase erano identificati con gli USA.8 Non bisogna però dimenticare che questa visione manichea è presente soprattutto nella prima fase della guerra fredda. Altri studiosi hanno dimostrato che i comunisti non erano una monade nella società italiana ma erano ben inseriti in essa e anche loro furono influenzati dalla cultura di massa americana. Inoltre mito americano, mito sovietico e antiamericanismo erano immagini che erano state variamente presenti nei vari strati della società italiana nel corso del Novecento.9 Due riviste come Il Politecnico e Vie Nuove sono un'ottima testimonianza di questo fatto. Patrick Mc Carthy ha ad esempio mostrato che presso gli intellettuali e i lettori di due delle principali riviste culturali del PCI, Rinascita e Il Politecnico era stato elaborato nel corso degli anni Quaranta un «mito dell'America democratica». Un mito che aveva radici nell'ammirazione della sinistra pre-marxista per l'America e che sembrava essersi rilanciato dopo la «svolta di Salerno» e l'alleanza tra URSS e angloamericani. Esso venne però schiacciato dall'inizio della guerra fredda, che aveva comportato il ritorno ad una visione acritica di un'America imperialistica e consumistica, salvo poi tornare in auge dagli anni '70.10 Stephen Gundle ha poi mostrato in un'analisi comparativa, che il settimanale popolare del PCI Vie Nuove spesso si occupava della cosiddetta «America democratica» e in generale le sue pagine erano familiari con i fenomeni «americanizzanti» che avevano influenzato le abitudini del dopoguerra, dato che si prefiggeva il compito di rispecchiare la mentalità dei suoi lettori.11 Il fatto che questa rivista fosse molto letta è assai significativo.12 Molti studiosi sono quindi concordi nel ritenere quello del tradimento un elemento centrale nella cultura del PCI del primo dopoguerra. In questo lavoro abbiamo cercato di dimostrare che il codice retorico utilizzato per sviluppare il tema in questione è tratto dal discorso nazional-patriottico ottocentesco, anche se quest'ultimo non è ripreso in blocco ma adattato alle diverse esigenze, ai differenti fini, al mutato contesto. Facciamo un altro raffronto, andando a sovrapporre quelle che Banti ha definito «quattro configurazioni sincrone»,13 con il discorso del tradimento lanciato invariabilmente da tutti i dirigenti comunisti su «l'Unità», nei confronti del governo democristiano: per Banti le narrazioni risorgimentali si svolgono sempre passando per le seguenti configurazioni: 1. « l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri; 2. la divisione interna degli italiani, che favorisce tale oppressione; 3. la minaccia al nucleo più profondo dell'onore nazionale, che tale oppressione direttamente o indirettamente comporta; 4. gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto».14 Dal raffronto con le quattro configurazioni delle narrazioni risorgimentali emergono le analogie e le peculiarità che il PCI innesta in questo discorso. Per i comunisti italiani, come abbiamo visto, l'integrità della nazione italiana è minacciata da un lato dallo straniero capitalista e imperialista americano, il quale vuole asservire militarmente il paese; dall'altro lato dall'atteggiamento servile mostrato dalla DC. I comunisti, viceversa, si considerano gli autentici difensori dell'unità e della salute della patria, insieme ai socialisti. A differenza dei patrioti del Risorgimento, però, i comunisti non esprimono avversione nei confronti degli stranieri in quanto tali, cioè gli americani, ma nei confronti del governo italiano, che si è reso servo dello straniero, e del governo degli Stati Uniti, che come abbiamo visto, in questa fase, è identificato con l'imperialismo e il capitalismo. Questo è quanto traspare dalle pagine de «l'Unità». In realtà, come abbiamo visto poco fa, l'atteggiamento del mondo comunista nei confronti dell'America è complesso e variegato nel corso degli anni e l'antiamericanismo può essere considerato un atteggiamento di avversione aprioristica nei confronti degli Usa in quanto considerato il paese in cui il capitalismo si esprime al massimo grado. Il governo d'altra parte è colpevole di accettare servilmente questa politica contraria agli interessi nazionali. Così facendo esso si macchia di tradimento, perché divide irresponsabilmente il corpo nazionale: cioè scinde la classe operaia che nella lettura propagandistica del PCI è rappresentata nella sua interezza dalle forze di sinistra, dal resto della popolazione. Invece nella visione togliattiana la classe operaia per mezzo della guerra di liberazione nazionale era diventata il nucleo della nazione e attorno ad essa si sarebbero dovute coagulare le altre forze sociali interessate ad una riforma in senso «progressivo» delle strutture economiche e sociali dell'Italia. Il PCI, viceversa, ritenendosi il principale e legittimo sostenitore della politica di unità nazionale era per Togliatti il vero sostenitore di una politica indipendente e autonoma dell'Italia in politica estera e interna. Abbiamo visto poi che i massimi dirigenti del PCI nel commemorare i caduti della Resistenza partigiana, hanno fatto ampio uso di immagini impregnate di retorica sacrificale. Le vite lasciate dai partigiani sulle montagne vengono lette cioè come un martirio che ha consentito la redenzione di un paese che si era macchiato della colpa di aver sostenuto il regime fascista e che grazie al sacrificio dei combattenti partigiani ora poteva risorgere. Questo discorso non era esclusivo del PCI: Guri Schwarz ha mostrato che negli anni del primo dopoguerra le neonate istituzioni repubblicane cercarono di ricostruire il paese dal punto di vista simbolico coniando un «patriottismo espiativo» basato sul culto dei caduti, commemorati come vittime, non come eroi. E almeno nei pochi casi che abbiamo visto, sembra proprio che quelle immagini, nelle loro fondamenta, fossero quelle coniate dal discorso nazionalista ottocentesco.15 Abbiamo poi visto che spesso viene evocato «l'onore dell'Italia». In questo caso abbiamo trovato anche alcuni tentennamenti rispetto all'utilizzo del termine «onore». Ad esempio quando l'onore viene evocato dai criminali di guerra nazisti o fascisti, su «l'Unità» si tiene a precisare che essi lo usano in un'accezione diversa o che lo fanno in modo non autentico. L'onore della patria per i comunisti è quello che i fascisti avevano vilipeso, i partigiani riscattato e che i democristiani, adesso, mettevano nuovamente a repentaglio. Ma cos'è l'onore per i comunisti, se è diverso da quello evocato dai fascisti? Evocare l'onore della nazione, da parte dei dirigenti comunisti, non sembra porre in questione la capacità degli italiani di dimostrare il proprio valore militare nel difendere la purezza delle loro donne, e quindi di mantenere puro il sangue dei membri della comunità nazionale, come avveniva nelle narrazioni risorgimentali. Forse perché questa parte del discorso nazionale era quella più compromessa con il fascismo, che aveva fatto della purezza del sangue un dato "scientifico", legato alla cosiddetta scienza della razza. Il concetto di «onore» nel lessico comunista sembra avere un'accezione lata: la parola sembra aver perso il contenuto che aveva nell'Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento. Questo cambiamento potrebbe anche essere legato alla crisi di quello che George Mosse ha definito «Mito dell'Esperienza della guerra».16 Dopo la seconda guerra mondiale non era più possibile replicare quel meccanismo per cui dopo la Prima guerra mondiale le stragi belliche erano state trasfigurate e rese nobili per essere sopportabili, pertanto il sistema di valori che lo spazio della figure simboliche metteva in circolo non era più attivabile nella sua interezza. I comunisti sembrano utilizzare il termine «onore» piuttosto nell'accezione in cui esso è usato nell'articolo 54 della Costituzione,17 che rimanda più alla «rispettabilità», così come è stata definita dallo stesso Mosse: cioè un sistema di valori e di comportamenti che a partire dall'Ottocento aveva portato a conferire precisi ruoli agli uomini e alle donne, aveva definito i confini della normalità e dell'anormalità dei comportamenti delle persone, e che grazie all'incontro con il nazionalismo era diventato il sistema di valori dominante.18 Rimane comunque la componente bellica: i partigiani, infatti, per i comunisti hanno restituito l'onore all'Italia con la guerra di resistenza. Guerra di resistenza che, però, come abbiamo visto con Schwarz, era letta, a posteriori, come «guerra alla guerra». Così quando si accusa il governo democristiano di disonorare l'Italia per la politica di asservimento agli interessi di una potenza straniera, non c'è, se non in modo molto implicito, alcun riferimento alla violazione dell'integrità sessuale delle donne. Potremmo pensare, però, che se l'Italia fosse vista simbolicamente come una donna, come nell'iconografia nazional-patriottica, chi la vende allo straniero, di fatto la disonora. Pensiamo a questo proposito ai disegni satirici di Guttuso che abbiamo incontrato, al manifesto elettorale e alla fotografia della ceramica di Leoncillo, riprodotta su «l'Unità» per rammentare la barbarie fascista.19 Però credo che questo elemento agisca semmai a livello inconscio, cioè che sia una conseguenza diretta dell'uso di determinate componenti del discorso nazional-patriottico che, quando attivate, mettono in circuito un certo tipo di elementi simbolici che sono profondamente radicati nel profondo di ciascuno, perché legati a sentimenti percepiti e conoscibili da tutti: l'onore, l'amore, l'odio, il legame genitoriale e quello fraterno, il martirio, la redenzione e la resurrezione. Infine abbiamo visto che viene utilizzato talvolta un lessico legato alla dimensione parentale, sia in riferimento alla comunità nazionale, sia alla comunità di partito. A questo scopo viene utilizzato in blocco il lessico che il discorso nazional-patriottico aveva trasposto dalla famiglia alla patria: si parla infatti su «l'Unità» di figli, di fratelli, di padri e di madri della patria. Soprattutto le madri e i figli sono continuamente evocati. Questo dipende forse dalla vicinanza della Resistenza, che era letta dai comunisti come guerra di liberazione nazionale e come «secondo Risorgimento». Nella guerra partigiana molti giovani erano morti, molte madri avevano perso i loro figli, tanto che avevano costituito associazioni di madri e mogli di partigiani caduti.20 Quindi il tema era molto sentito. Un altro elemento da sottolineare è che il lessico parentale è utilizzato anche per la comunità di partito: i compagni sono anche fratelli, i predecessori padri e i successori figli, secondo quel processo di cui parla Emilio Gentile, per cui gli italiani dopo la seconda guerra mondiale spostarono «la fedeltà patriottica verso altre entità ideali, storiche, politiche – dalla religione, all'ideologia, dall'umanità al partito – considerate eticamente superiori alla nazione e allo Stato nazionale».21 Ed è proprio questo il punto che rende il discorso patriottico del PCI non completamente sovrapponibile al discorso nazional-patriottico ottocentesco: l'internazionalismo che caratterizza da sempre il movimento operaio e che sia pure con le differenze apportate dal comunismo cominternista, non può non caratterizzare anche il PCI, è un elemento nettamente contrapposto rispetto a qualsiasi contenuto del nazional-patriottismo ottocentesco. Quest'ultimo infatti non può concepire una solidarietà di classe che vada potenzialmente in contraddizione con la solidarietà nazionale. Infine abbiamo ricostruito il contesto in cui si verifica questo utilizzo dei tropi nazional-patriottici da parte del PCI: sin dal 1943 esso era impegnato nella costruzione di una propria tradizione, con la qual legittimarsi come partito italiano e nella diffusione presso i propri militanti di tale tradizione, nell'ambito della costruzione del «partito nuovo». Al contempo questa volontà doveva coesistere con il profilo internazionalista e di classe a cui il partito non rinunciava, di qui le oscillazioni che abbiamo visto negli interventi sopra riprodotti, che chiamano in causa quella che è stata da molti definita la «doppiezza» del PCI. Cioè la fedeltà da un lato alla patria statale, dall'altro a quella ideale.22 Poniamo l'attenzione anche su un altro elemento: le tre figure profonde, sacrificio, onore, parentela chiamano in causa, in modo più o meno intenso, caratteri già fortemente presenti nella moralità23 comunista: lo spirito di sacrificio è secondo Sandro Bellassai un tratto fondamentale del buon militante comunista, «unità di misura della fedeltà e dell'affidabilità politica di un comunista».24 La capacità di sacrificare se stessi, i propri affetti, le proprie risorse, è considerato un elemento formativo del militante: Bellassai ad esempio racconta che in un corso della scuola centrale di partito, le Frattocchie, gli allievi dovevano trasportare a spalla un mucchio di massi, a scopo di didattico.25 Si pensi poi a Marina Sereni, che scrive alla madre della sua decisione di rompere i rapporti con lei per le sue opinioni politiche.26 Sacrificio dunque anche dei propri affetti: questo perché il Partito era la vera famiglia e ad esso tutto doveva essere subordinato. Ciò nondimeno il PCI incentrava il proprio progetto politico sulle famiglie e si presentava come il vero difensore di esse.27 Abbiamo iniziato questo lavoro chiedendoci se i concetti di patria e di nazione fossero presenti nel discorso pubblico del Partito Comunista Italiano. Per far questo abbiamo analizzato un anno, prendendolo come campione. Per avere un quadro completo dell'idea di patria del PCI in questa fase della vita del paese sarebbe stato necessario visionare almeno tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956.28 Concentrarsi su un solo anno ha d'altra parte consentito un'analisi più sistematica e attenta dei singoli articoli. Quindi, pur tenendo presenti i limiti, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. I concetti di patria e di nazione sono presenti, nel contesto che abbiamo ricostruito, per le ragioni che abbiamo ipotizzato, seppure opportunamente modificati e ricontestualizzati. Inoltre non ho preso in considerazione due aspetti importanti: la visione dell'altro, dello straniero, che mi avrebbe portato a cercare esempi di come venivano rappresentati «gli altri» dei comunisti, cioè gli americani e magari i democristiani. In secondo luogo un altro elemento mancante o non approfondito è il rapporto tra i generi. Per ragioni di tempo e per mancanza di conoscenze adeguate non ho preso in considerazione questi due aspetti. Ciò nonostante credo di poter concludere che il fatto che anche i dirigenti del PCI abbiano utilizzato alcuni degli stilemi fondamentali del discorso nazional-patriottico testimonia una volta di più la profondità del radicamento di essi nella cultura dell'Italia contemporanea: il discorso nazional-patriottico è così profondamente radicato che ha la capacità di adattarsi ai contesti più diversi, di rimanere "in sonno" per molto tempo e di ritornare a galla, come accade in questi ultimi tempi. Emilio Gentile scrive che il tentativo del PCI di presentarsi nei primi anni del dopoguerra come partito nazionale, legittimo erede del primo Risorgimento e protagonista del secondo, è da considerarsi come «l'ultima metamorfosi laica del mito della Grande Italia e, per certi aspetti, potrebbe essere considerata come l'ultima versione del nazionalismo modernista».29 Se Gentile si riferisce al nazional-patriottismo ottocentesco, mi permetto di notare che manca uno de nuclei fondamentali del nazional-patriottismo, quello legato alla difesa dell'onore sessuale delle donne della nazione. In conclusione: il PCI, nel primo dopoguerra, in parte in virtù di un progetto strutturato e meditato di presentarsi come erede delle tradizioni nazionali «progressive»; in parte in virtù di un milieu che rendeva determinati i contenuti simbolici del nazionalismo familiari anche ai comunisti, portò i massimi dirigenti del comunismo italiano ad utilizzare ampiamente i concetti di patria e di nazione nel discorso pubblico. La persistenza, però, del contenuto internazionalista nell'ideologia marxista-leninista rendeva però quell'utilizzo non completamente coincidente con il nazional-patriottismo classico. Infine alcuni temi troppo compromessi dal nazionalismo fascista e nazista e dalla guerra non erano più riproducibili. Se nei successivi decenni della storia italiana il discorso nazional-patriottico è rimasto assente dallo spazio pubblico, per ricomparire magari in occasione delle partite della nazionale di calcio, non significa che sia scomparso. Le sue radici sono ancora presenti nel profondo e, come dimostra il neo-patriottismo rilanciato dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, sono facilmente riattivabili. Purtroppo i circuiti comunicativi del discorso nazional-patriottico sono innestabili anche in contesti e con intenti meno nobili. Si veda la vicenda dei due marò italiani arrestati in India per la morte di due pescatori indiani: aldilà delle effettive responsabilità, delle attenuanti, del contesto, che saranno ricostruite dai tribunali indiani, quello che in questa sede va sottolineato è che la vicenda ha fatto esplodere un'ondata di pulsioni nazionaliste e colonialiste da parte di giornalisti, politici e «popolo». Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono stati giudicati dall'opinione pubblica e dalla classe dirigente innocenti a-priori, e gli indiani degli incantatori di serpenti che hanno ingannato due soldati che facevano solo il loro dovere. La vicenda si è poi colorata in modo sinistro, con la presenza di sedicenti ingegneri provenienti da associazioni neofasciste come Casa Pound chiamati dal governo a ricostruire in parlamento il complotto indiano.30 E basta fare un giro sul web italiano per trovare messaggi come «Salviamo i nostri soldati» in stampatello maiuscolo sparato su fotografie dei due soldati ritratti in pose da «duri» con tricolore sullo sfondo e commenti razzisti non ripetibili in questa sede. E forse è un caso, forse no, che la stampa italiana, solitamente poco interessata alle questioni internazionali, abbia di recente prestato molta attenzione al problema degli stupri in India.
INDICE CAP.1 Premessa 1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA 1. La responsabilità in generale 2 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale 3 3. La responsabilità medica 9 4. La responsabilità del medico 10 5. La responsabilità della struttura sanitaria 12 6. Il sistema a doppio binario 14 7. La "spersonalizzazione" del rapporto 17 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura 19 CAP. 2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1. Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità 25 2. Lo stemperarsi dei profili di differenza 36 3.L'incremento dei punti di contatto 37 4. La zona grigia tra illecito e contratto 41 CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale 46 2. La tesi della natura contrattuale 50 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 56 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le S.U. della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale 72 CAP.4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce 79 2. Problematiche inerenti l'art.3 87 3. Ricadute dottrinali e giurisprudenziali 98 BIBLIOGRAFIA 111 1. Giurisprudenza di legittimità 116 2. Giurisprudenza di merito 118 CAP.1 DALLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITA' SANITARIA Premessa. La presente tesi si propone di affrontare la responsabilità civile del medico approfondendo uno dei profili più dibattuti, la natura della responsabilità, che è stata anche oggetto del predetto intervento normativo. A tal fine nel primo capitolo verrà trattato il passaggio dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, facendo attenzione ai profili evolutivi della dottrina e della giurisprudenza, con uno sguardo rivolto alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente; nel secondo capitolo l'attenzione sarà rivolta alla natura della responsabilità, cercando di definire le linee di confine e le varie problematiche inerenti la prestazione medica; nel terzo capitolo verranno esaminate le varie tesi a supporto della diversa configurazione della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria e infine nell' ultimo capitolo verrà posto l'accento sul contesto socio-economico della legge Balduzzi e le varie problematiche inerenti l'art. I poteri riconosciuti al privato che si ritiene danneggiato dall'altrui condotta spaziano dalla tutela per equivalente alla tutela in forma specifica, previo riconoscimento del suo diritto. 2. Responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale. Volendo delineare le caratteristiche, o meglio il presupposto principale, alla base della responsabilità civile, vediamo che quest' ultimo si sostanzia nell' esistenza di un "danno risarcibile". L'opera di Sacco confutò la tesi dell' identificazione tra ingiustizia del danno e lesione di un diritto soggettivo assoluto, mostrando le varie sfaccettature che può assumere in pratica il requisito dell' ingiustizia del danno, al di là della lesione del diritto della vittima. Schlesinger invece contrastò l'impostazione tradizionale affermando che l'atipicità stessa dell' illecito, portasse l'istituto della responsabilità civile, al di là della protezione dei diritti assoluti . Basti pensare all' interesse del contraente che quando entra in un rapporto contrattuale non pretende solo la prestazione che è oggetto del contratto ma ha interesse anche a non subire pregiudizio alla propria persona e alle proprie cose che indirettamente entrano automaticamente nella stessa prestazione contrattuale. A mio avviso emblematico è a tal riguardo il caso del medico dipendente che, pur essendo legato alla struttura da un rapporto di lavoro, avente ad oggetto il suo obbligo di prestazione medica, si trova esposto ad una molteplicità di rischi e pericoli legati proprio allo svolgimento della sua prestazione. In passato la responsabilità medica si declinava come responsabilità del medico, ponendo al centro del giudizio la colpa professionale dello stesso sul cui accertamento veniva basata la responsabilità solidale di medico e di strutture; oggi, la responsabilità sanitaria è innanzitutto responsabilità della struttura sanitaria e porta alla ribalta l'attività di assistenza sanitaria e con essa il rispetto dei livelli di qualità e appropriatezza clinica delle prestazioni sanitarie oltre che degli standard organizzativi e strutturali , . Oggi si parla sempre più correntemente di responsabilità medica o medico-sanitaria per sottolineare che alla responsabilità del singolo professionista si aggiunge quella della struttura sanitaria o ospedaliera presso la quale il medico presta la propria attività. Al di là della terminologia, il mutamento più significativo si è realizzato nella disciplina della responsabilità sempre più complessa e articolata tanto che si è parlato di un nuovo sottosistema della responsabilità civile . Nell' arco di qualche decennio, come vedremo si è passati dall' affermazione della natura extracontrattuale della responsabilità al principio del concorso ed infine alla natura schiettamente contrattuale. 4.La responsabilità del medico. In origine la responsabilità medica nasce e si afferma come responsabilità professionale del medico. La cornice normativa era composta da poche norme di portata generale sulla responsabilità civile(artt.1218 e 2043 c.c.) ed una norma di parte speciale che, dedicata alla responsabilità del professionista intellettuale(artt.2236 c.c.), si trova nell'ambito della disciplina del contratto d'opera professionale . Nell' evoluzione giurisprudenziale la responsabilità medica è stata declinata come responsabilità sanitaria di medici e strutture che ha dato luogo alla creazione da parte dei giudici di regole di responsabilità solo modellate sull' atto medico. Si è arrivati infatti a dare autonomia al "fare organizzato" della struttura rispetto al "fare professionale" del medico. Nell' ottica dell' attività di assistenza sanitaria, di cui è debitrice la struttura nei confronti del paziente, non si può più parlare di somma delle prestazioni dei singoli medici. L'opera creativa della giurisprudenza ha dapprima cercato di definire questo "contatto sociale", che da essere considerato la fonte di meri obblighi di protezione senza obbligo primario di prestazione diviene fonte di un "contratto di fatto" sulla base del quale è possibile individuare in capo al medico un obbligo di prestazione ; successivamente cercando di assimilare e ricondurre all' obbligo di prestazione da parte del medico quell' obbligo di assistenza sanitaria di cui è debitrice la struttura, sulla base del contratto stipulato con il medico. Nel panorama dei soggetti operanti nel settore sanitario si iscrivono anzitutto le Aziende Unità Sanitarie Locali, costituite dalla legge di riordino del sistema sanitario nazionale, sono aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, che operano mediante atti di diritto privato, e che sono vincolate al rispetto del principio della economicità della gestione e alla redazione del bilancio d'esercizio, rimanendo in ogni caso soggette al potere di controllo delle Regioni(art.3) . n. 502/1992. La natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria sia pubblica che privata, nei confronti del paziente, è oggi pacificamente condivisa da dottrina e giurisprudenza, non semplicemente sulla base della stipulazione di un contratto. Alla luce di tali considerazioni parrebbe preferibile una definizione della natura della responsabilità dell'istituto di cura in termini di responsabilità ex lege: la struttura sanitaria, ai sensi della legge 833/1978, è , infatti, legislativamente obbligata allo svolgimento dell'attività di "assistenza medica", con la conseguenza che il non corretto esercizio della stessa costituirebbe inadempimento di una obbligazione legale. Il sistema cd. a " doppio binario", costituisce il periodo intermedio dell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale dell'intera disciplina, nel quale alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva origine contrattuale, mentre a quella del professionista si attribuiva natura aquiliana. In capo al medico gravava solo una responsabilità extracontrattuale, per violazione dei doveri inerenti alla professione, ex 2236 cod. civ., concorrente con quella contrattuale dell' ente. Un doppio binario in cui incanalare la responsabilità aquiliana del medico e quella contrattuale della struttura come responsabilità solidali in cui al medico era riconosciuta la possibilità di valersi di un beneficio di preventiva escussione della struttura sanitaria ogniqualvolta esso sia in grado di dare prova di una "non grave violazione" delle regole desumibili da protocolli scientifici, linee guida, raccomandazioni . Se la qualificazione extracontrattuale della responsabilità di quest'ultimo appariva corretta sul piano metodologico, al contempo risultava troppo riduttiva: ravvisare, infatti, nel medico un "quiusque de populo"significava non tenere conto del rapporto che si instaura direttamente tra quest'ultimo e il paziente . Inoltre, veniva a determinarsi un concorso improprio tra responsabilità aquiliana del medico e contrattuale dell'ente con conseguente bipartizione del regime giuridico applicabile, nonostante la responsabilità dell'ente avesse matrice unica ed esclusiva nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico. A questo punto era utile definire quando si conclude il rapporto contrattuale tra ente e paziente; secondo l'impostazione tradizionale , è la stessa accettazione del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale a segnare la conclusione del "contratto d'opera professionale" tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente,l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica, in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. A questo rapporto contrattuale il medico rimane del tutto estraneo, venendo ad instaurarsi con il malato solo un rapporto "giuridicamente indiretto". Di qui la conclusione che "la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dall'art. La "spersonalizzazione" del rapporto che intercorre tra medico e paziente va di pari passo con l'evoluzione dell'attività medica. Proprio sulla figura del "malato" infatti e non più sulla cura della "malattia" dovrebbe concentrarsi il lavoro del medico e di tutti gli altri operatori sanitari. 8. Il problema della responsabilità del medico dipendente dalla struttura La responsabilità del medico verso l'ente è strettamente legata al tipo di rapporto che intercorre tra i due soggetti, mentre sostanzialmente irrilevante è la natura pubblica o privata della struttura. I problemi in merito alla responsabilità del medico alle dipendenze della struttura muovono dal non sempre agevole inquadramento di quest'ultimo all' interno del complesso iter organizzativo che vede il coinvolgimento di altre figure sanitarie e di altri fattori interni come apparecchiature e l'erogazione di servizi ad essi correlati. A questo punto analizziamo il caso in cui, il medico, nello svolgimento del suo incarico, provochi un danno al paziente. Quest'ultimo potrà agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro del medico, struttura pubblica o privata, in quanto il suo rapporto è con l'istituzione, alla quale è ricorso, in base alla disciplina della responsabilità contrattuale; A sua volta l'istituzione convenuta in giudizio, può rivalersi civilmente con l'azione di regresso ai sensi dell' art. 2055 c.c. :" Responsabilità solidale.- Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali", nei confronti del proprio dipendente per i danni che sia stata costretta a risarcire al terzo, danneggiato in conseguenza della colpa professionale del medico, così pure può chiamarlo nel processo ove è citata in giudizio. Tornando, solo brevemente al quantum di diligenza richiesto al medico dipendente dalla struttura, la norma di riferimento è l'art. 2104 del c.c., che recita:"Diligenza del prestatore di lavoro.- Altrettanto emblematico si rivela poi il percorso giurisprudenziale in tema di qualificazione della responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria, infatti in tale settore si è registrato un progressivo abbandono della prospettiva extracontrattuale, ritenuta inappropriata in quanto l'assenza di un contratto non può determinare una variazione del contenuto dell' obbligo del medico che rimane pur sempre quello di cui all' art. 1176 secondo comma c.c. Il fondamento normativo della responsabilità del singolo operatore è individuato prevalentemente nell' art. 28 Cost., anche se non mancano riferimenti all' art.1228 c.c. . Medico ed ente sarebbero legati da un contratto di cui il paziente è terzo beneficiario , da ciò discende la sua possibilità di attivarsi contrattualmente anche nei confronti del medico per far valere la non diligente esecuzione della prestazione . In una posizione a se si colloca la sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 1999 che propone un nuovo approccio alla problematica mediante il ricorso alla teoria dell' obbligazione senza prestazione basata sul rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale tra medico e paziente . L'attività del medico incide su di un bene costituzionalmente garantito (art.32 Cost.) ed, inoltre, il medico è vincolato al rispetto di una disciplina deontologica particolarmente pregnante . CAP.2 RESPONSABILITA' CONTRATTUALE ED EXTRACONTRATTUALE 1.Il problema della distinzione dell'ambito applicativo delle regole sulla responsabilità. La differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si basa su una diversità strutturale che pone la prima in esito alla violazione di un obbligo funzionale alla realizzazione del diritto e la seconda in esito alla lesione tout court di un diritto . Si pensi al mancato rispetto del vincolo ad attuare il trasferimento del diritto nei contratti ad efficacia reale. Il primo secondo cui:"L' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura ". Siccome a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, nelle vesti di organo dell' Ente ospedaliero, la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno provocato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale; immediata conseguenza quindi è che il diritto al risarcimento del danno, spettante al paziente nei confronti del medico, si prescrive nel termine quinquennale. Un secondo, più recente, orientamento faceva, invece, rientrare la responsabilità del sanitario in ambito contrattuale, assumendo che detta responsabilità, così come quella dell'ente, avrebbe "radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito dell'organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente sarebbe, come quella dell'ente pubblico, di natura professionale" . Detto inquadramento tende, peraltro, ad appiattire ed omologare la responsabilità della struttura a quella del medico; infatti, se da un lato dava importanza al contratto stipulato tra paziente e struttura, tanto da "attirare" nel regime contrattuale anche l'operato del medico, dall'altro individuava, quale unica fonte di danno, l'eventuale comportamento imprudente/negligente del professionista, così trascurando tutte quelle altre possibili cause di danno derivanti dall' inadempimento, da parte dell' ente, di obbligazioni di cui solo quest' ultimo è debitore (es. igiene, controllo dei macchinari, organizzazione del personale). Si deve peraltro segnalare che la Suprema Corte era giunta al riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del sanitario dipendente anche tramite altra via, ovvero tramite l'accoglimento della teoria, di origine germanica, del "contratto con effetti protettivi a favore del terzo". Secondo questa impostazione, in alcuni contratti, accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale, sarebbe garantito ed esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. La natura della responsabilità quindi, deve essere individuata non sulla base della condotta ( negligente o meno) in concreto tenuta dall'agente, ma sulla base della natura del precetto violato; sia la responsabilità del medico, sia quella dell'ente ospedaliero hanno entrambe una "radice comune" nell'esecuzione non diligente della prestazione, ma ciò non comporta necessariamente che entrambe le responsabilità siano di natura contrattuale, non potendosi escludere che un fatto, l'attività professionale del medico appunto, integri, da un lato, una responsabilità contrattuale a carico di un soggetto (ente ospedaliero) e, dall'altro, una responsabilità extracontrattuale a carico di un altro soggetto, autore del fatto (medico). Escluso, dunque, di poter fondare la natura contrattuale della responsabilità del medico sulla "radice comune" dell' esecuzione non diligente o sul rapporto di dipendenza tra medico ed ente, l'orientamento di cui trattasi individua la ragione della natura contrattuale degli obblighi di cura dovuti dal medico a favore del paziente nel "contatto sociale" che si instaura tra detti due soggetti; la disamina di tale teoria sarà trattata nel terzo capitolo, per il momento ci apprestiamo ad analizzare alcuni aspetti problematici. Secondo questa lettura, l'attività professionale del medico implica l' adempimento di obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che nascono dall'affidamento inevitabilmente generato dalla stessa professionalità. Con riferimento ai carichi probatori, secondo questa teoria che fonda la responsabilità del medico sul "contatto sociale" con il paziente, "in base alla regola di cui all'art. Parallelamente al descritto iter relativo alla responsabilità del sanitario, si è assistito al riconoscimento di una totale autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella del medico curante. 1228 c.c., per l'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario . Detta lettura, che costituisce un ritorno al passato inquadramento della responsabilità del medico, trova il proprio fondamento normativo nell' art.3 del recente provvedimento legislativo n. 189 dell' 8 novembre 2012 di conversione del c.d. "Decreto Sanità" (d.l. 13 settembre 2012,n. 158), secondo cui: "L'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile…". Nel rinvio all' art. 2043 c.c., parte della dottrina legge, infatti, la volontà del legislatore di prendere posizione ,nella disputa sulla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del sanitario, a favore di tale ultima impostazione; sul punto si tornerà in maniera più accurata e approfondita nel capitolo quarto. Ne risulta una riduzione ad unità della responsabilità di diritto civile, questa volta all' insegna del modello contrattuale. Quanto al primo aspetto, costituisce principio giurisprudenziale ormai consolidato che la responsabilità extracontrattuale concorre con quella contrattuale ogniqualvolta all'inosservanza di una previsione negoziale si accompagni la violazione del generale dovere del neminem laedere . La tesi contraria fa perno principalmente sulla "specificità" della tutela creditoria, ovvero sul diritto del creditore alla prestazione che "assorbirebbe", in altre parole, la generica pretesa ad una condotta non dannosa da parte del debitore. In tal caso, dunque, il paziente potrà, quale creditore insoddisfatto, invocare la responsabilità contrattuale; ma al tempo stesso, ricorrere alle regole di responsabilità aquiliana. E' stato in proposito osservato che in sostanza , la funzione del cumulo della responsabilità medica risponde all'esigenza di offrire tutela al diritto alla salute, senza sottrarla al regime aquiliano anche in quei casi in cui la lesione sia stata la conseguenza di un inadempimento, ma nel contempo adottando per la valutazione della condotta medica uno standard unitario, valevole sia per la responsabilità contrattuale che per quella aquiliana, desumibile dal criterio della diligenza professionale ex. art. 1176 c.c. . Si parla di "obblighi di protezione", considerati autonomi rispetto all' obbligo di prestazione, oltre che sul piano della struttura, anche su quello della fonte: nascono dalla legge anche quando fonte dell' obbligazione sia il contratto . La questione rimane aperta e le possibilità configurabili sono tre: a) unicità di natura della responsabilità contrattuale e di quella aquiliana, c.d. reductio ad unum della responsabilità di diritto civile ; b) tertium genus tra contratto e torto; c) tradizionale bipartizione della responsabilità di diritto civile. In dottrina inoltre, di fronte al dilagante fenomeno della c.d."ipertrofia del contratto" , due sono le strategie elaborate: quella della c.d. "terza via" , diretta a far confluire al suo interno tutte le ipotesi tipiche di responsabilità che non rientrano né nel modello extracontrattuale né nel modello contrattuale; e quella della riscoperta, per dir si voglia della portata generale del principio del neminem laedere, in una prospettiva di graduale superamento dell' antinomia tra modello contrattuale e modello extracontrattuale di responsabilità . CAP.3 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DIPENDENTE DALLA STRUTTURA SANITARIA 1. La tesi della natura extracontrattuale. Un primo orientamento riconduce la responsabilità del medico inserito all' interno di una struttura sanitaria(sia essa pubblica o privata) all' alveo extracontrattuale. A tal proposito è utile far riferimento alla sentenza che ha segnato i caratteri di questa, ormai anacronistica configurazione. Parte nel contratto d'opera professionale, e nel conseguente rapporto obbligatorio, è l'ente ospedaliero ed esso soltanto, non anche il medico dipendente che provvede in concreto allo svolgimento dell' attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica. In sede di conclusione del contratto e di esecuzione della dovuta prestazione professionale, di fronte al paziente si pone esclusivamente la soggettività giuridica dell' ente ospedaliero, nel quale il medico dipendente si immedesima per effetto del rapporto organico, sì che non rileva, nell' ambito e sotto l'aspetto dell' attività diagnostica e terapeutica, il suo status di soggetto di diritto, essendo egli organo per mezzo del quale l'ente ospedaliero adempie la prestazione professionale che è il contenuto dell' obbligazione assunta a proprio carico con la conclusione del contratto ."Quanto all' ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente, quale prestazione che l' ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale. Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell' ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego pubblico che lo lega all' ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere" . Non è configurabile una responsabilità contrattuale del medico dipendente da ente ospedaliero, verso il paziente, in conseguenza dell' errore diagnostico o terapeutico da lui commesso. Il quale errore, però, rileva, cioè sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale . La qualificazione contrattuale della responsabilità del medico dipendente, pur in mancanza di un vincolo negoziale diretto col paziente, è variamente argomentata e costituisce attualmente la questione più complessa della materia. Così, pensando alla prestazione medica o meglio al fine ultimo e sperato di quest' ultima, il "risultato della guarigione", certo non dovuto, pensiamo alla malattie tumorali in fase terminale, indica e seleziona le terapie adeguate al suo (sperato) conseguimento. Il richiamo all' obbligazione senza prestazione, nella sentenza della cassazione n. 589 del 1999 e successive pronunce, appare forse il più problematico fra i tentativi di fondare la responsabilità diretta del medico dipendente da una struttura ospedaliera. Detto ciò, vediamo che obblighi di protezione, obbligazione senza prestazione e contratto con effetti protettivi a favore di terzo, sono inidonei a render conto della complessità di contenuto del rapporto medico-paziente e della sua attuale evoluzione. Limitarsi al profilo della responsabilità aquilliana quindi significherebbe farsi sfuggire il dato più significativo e caratterizzante, il modo in cui oggi realmente si atteggia il rapporto medico-paziente. 3. La tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Troppo riduttivo e alquanto garantista appare restringere la responsabilità del medico nell'alveo della responsabilità contrattuale, infatti difficilmente poteva configurarsi un rapporto contrattuale tra medico e paziente, tale da identificare un eventuale danno come inadempimento contrattuale. La responsabilità del medico per i danni cagionati dall' espletamento dell' attività sanitaria ha, pertanto, comunque natura contrattuale, ma derivante dalla posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente a seguito dell' affidamento che quest'ultimo ripone in colui che esercita una professione protetta avente a oggetto il bene, costituzionalmente tutelato, della salute. La cassazione inoltre è intervenuta anche in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, affermando più volte che sussistendo un rapporto contrattuale , quand'anche fondato sul solo contatto sociale, in base alla regola di cui all'art. Natura contrattuale ha quindi la responsabilità del medico ospedaliero anche in caso di inesistenza di un pregresso rapporto obbligatorio col paziente poiché con quest' ultimo, nel momento in cui il sanitario decide di intervenire, si instaura un rapporto contrattuale di fatto . La giurisprudenza quindi, come più volte sottolineato in precedenza, operava una distinzione tra la responsabilità della struttura sanitaria, ritenuta da inadempimento a seguito dell' accettazione del paziente nell' ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale con l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e terapeutica in relazione alla situazione patologica del paziente preso in cura, dopo il pagamento del ticket, ipotizzando la conclusione di un contratto d'opera professionale tra paziente ed ente ospedaliero, mentre la natura della responsabilità del medico, dipendente e pagato dalla struttura pubblica, nei confronti del paziente, per danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico, veniva qualificata extracontrattuale, con esclusione della colpa lieve nei casi di negligenza o imprudenza . La tesi contrattualistica della natura della responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria è stata variamente argomentata da dottrina e giurisprudenza, sino ad essere cristallizzata, sotto un peculiare profilo, dalla nota pronuncia n.589/99 della Suprema Corte. Secondo un primo orientamento , la responsabilità contrattuale del medico dipendente troverebbe fondamento nell' art.28 Cost.; tanto la responsabilità dell' ente, quanto quella dell' operatore sanitario troverebbero, cioè, radice nella medesima condotta, ossia nell' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria. Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come "rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele" . La prima esperienza applicativa di questa teoria riguarda la responsabilità da contatto sociale del medico strutturato e le note difficoltà di inquadramento del rapporto tra ente, medico e paziente. Come già accennato il primo riconoscimento della validità del contatto sociale come fonte di responsabilità è avvenuto nella nota sentenza della Suprema Corte n. 589 del 22 gennaio 1999, ed ha ad oggetto la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero pubblico per il danno cagionato ad un paziente da un'errata diagnosi, con conseguente non corretto trattamento terapeutico. Più controverso è stato individuare la natura della responsabilità del medico dipendente. In alcune sentenze la Suprema corte ha peraltro optato per una responsabilità contrattuale del sanitario. Ciò perché si inseriva la prestazione del medico nel quadro del rapporto privatistico tra ente gestore e paziente, e si rilevava la diretta relazione che lega detta prestazione all' aspettativa del privato richiedente il servizio, ravvisandosi una responsabilità contrattuale sia dell' ente ospedaliero che del medico da cui questo dipende . Questo orientamento parte dal presupposto che, attraverso l'immedesimazione organica tra l'ente pubblico ed i suoi dipendenti, i danni causati all' assistito dall' esecuzione non diligente della prestazione del medico dipendente sono fonte di responsabilità diretta per l'ente gestore del servizio sanitario. La riconduzione in schemi contrattualistica anche della responsabilità del medico dipendente si desume poi dall' art. 28 della cost. che contempla, unitamente alla responsabilità dell' ente, quella del dipendente, essendo entrambe tali responsabilità fondate sull' esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico. L'unicità del fondamento comporta quindi che anche quella del medico sarebbe una responsabilità contrattuale di natura professionale . È stata, infatti, definita un sottoinsieme della responsabilità civile o un settore multidisciplinare all' interno del quale vige un regime giuridico speciale , . L'atipicità del modello di responsabilità medica si desume anche dal fatto che, pure quando è stata collocata all' interno della responsabilità aquiliana, ad essa sono stati applicati comunque istituti propri della responsabilità contrattuale, quali la distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato, il criterio della diligenza professionale, il richiamo a regole di causalità materiale, la limitazione di responsabilità di cui all' art. 2236 c.c. 4. Evoluzione giurisprudenziale dopo le SU della cassazione e consolidamento della tesi della responsabilità contrattuale da contatto sociale. Da ciò ne consegue che la responsabilità dell' ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell' esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi , ovviamente tale qualificazione non discende dalla fonte dell' obbligazione ma dal contenuto del rapporto . 2236 c.c., essere allegata e provata dal medico ; a proposito della responsabilità professionale da contratto o contatto sociale del medico, la Corte in una pronuncia afferma che al fine del riparto dell' onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale, e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un' affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato . Ancora, in tema di responsabilità professionale del medico, ove pure quest' ultimo si limiti alla diagnosi e all' illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell' intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenere il necessario consenso informato, ha natura contrattuale e non precontrattuale e quindi ne consegue che a fronte dell' allegazione, da parte del paziente dell' inadempimento dell' obbligo di informazione, è il medico gravato dell' onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione .Dalle varie pronunce si evince come la sentenza n. 589 del 1999 ha sicuramente trovato un riscontro favorevole nella successiva giurisprudenza. Ricondurre all' alveo della responsabilità contrattuale da contatto sociale la responsabilità del medico dipendente ha però senz' altro esposto la professione medica alla cd. medicina difensiva. E' evidente che l'estensione ai medici del servizio sanitario nazionale della responsabilità contrattuale , che riduce notevolmente le possibilità di difesa da ingiuste o non provate accuse di violazione del contratto, non potrà che accelerare questo orientamento delle compagnie di assicurazione. La responsabilità del medico sembra concretizzarsi non all' atto dell' assunzione di un obbligo, ma in esecuzione dell' obbligazione sanitaria e quanto al suo contenuto, questo si atteggia come una normale obbligazione che richiama comportamenti destinati a produrre un risultato utile per il creditore. Come visto, nel tentativo di ricostruire il rapporto medico-paziente come autenticamente contrattuale vediamo come nella prestazione del medico nei confronti del paziente ciò che sembra sfuggire è l' accordo tra le due parti che deve precedere l'esecuzione della prestazione. Per quel che concerne, poi, il criterio della risarcibilità del danno, esso, a prescindere dalla natura della responsabilità individuata, viene sempre limitato all' interesse a non subire danni alla salute. La lesione dell' interesse positivo al contratto può venire in considerazione, in particolare, nel caso in cui si possa individuare in maniera distinta sia un interesse alla prestazione migliorativa, che un interesse alla prestazione conservativa. CAP. 4 LA NATURA DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DOPO LA LEGGE BALDUZZI 1. La ratio della legge e il contesto socio-economico nel quale si inserisce. Nel capitolo precedente abbiamo visto come attraverso l'espediente del contatto sociale, come fonte di protezione tra medico e paziente, si compie una perfetta omologazione in punto di disciplina della responsabilità del medico a quella della struttura e viene salvaguardata, in nome della radice comune delle due responsabilità, l'unitarietà del regime di regole applicabile ad entrambi. Dal "fatto illecito del medico", che negli anni 80 aveva sorretto la configurazione di un regime unitario di regole di responsabilità, si trascorre oggi alla "non diligente esecuzione della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente nell' ambito dell' organizzazione sanitaria" . In tal modo si individua nell' "operato professionale", in cui si incardina il "fare" del sanitario/dipendente della struttura, quel "fatto dannoso comune" che sorregge la responsabilità solidali di medici e strutture. Quindi la responsabilità del medico dal paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa, trascorre al paradigma di una responsabilità semi-oggettiva in quanto la prova liberatoria ad esso richiesta non è quella dell' assenza di colpa bensì quella specifica dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa di danno alla salute . Tutto ciò perché nell' interpretazione che ormai si impone in giurisprudenza con riguardo alla ben nota regola probatoria contenuta nell' art. 1218, nel riferimento anche all' inesatto adempimento di obbligazioni che hanno per oggetto un fare professionale del medico, l'intero carico probatorio si sposta sulla struttura e sul medico e senza distinzioni di sorta si richiede ad entrambi come prova liberatoria, a fronte dell' allegazione dell' inadempimento da parte del paziente, non la prova dell' assenza di colpa bensì quella dell' evento straordinario ed eccezionale che è stato causa del danno alla salute del paziente . Si giunge cosi a considerare esigibile dal medico "strutturato", oltreché dall' ente, quel "risultato conseguibile, secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, all'abilità tecnica del primo, e alla capacità tecnico-organizzativa dell' ente" , del quale entrambi sono chiamati a rispondere fino alla prova di quell' evento imprevisto/imprevedibile/non prevenibile, che è stato causa dell' insuccesso del trattamento sanitario o del mancato miglioramento della salute del paziente. Oggi il medico, se dipendente di struttura, nonostante nelle massime si continui a declamare la sua responsabilità per colpa al pari degli altri professionisti intellettuali, diviene oggi "garante della salute" del paziente rispondendo di qualsiasi insuccesso della terapia fino al limite della complicanza non prevedibile o non prevenibile, e ciò anche nei casi in cui l' insuccesso sia riconducibile a fattori risalenti all' organizzazione . Ovviamente si parla sempre di responsabilità da violazione di obblighi che, a prescindere dalla fonte, vuoi da contatto sociale vuoi da contratto, vengono comunque ricondotte all' art. 1218, salvo differenziarsi sui contenuti della prova liberatoria posta a carico del medico. Per il primo, si richiede l' identificazione della causa, eccezionale e non prevedibile con la diligenza ordinaria, che sia stata all' origine dell' insuccesso del trattamento e/o del danno alla salute del paziente; per il secondo, che svolge la sua opera al di fuori di un'organizzazione sanitaria, si ritiene essere sufficiente, come prova liberatoria, quella della corretta esecuzione della prestazione o comunque del fatto che l'inadempimento non sia stato causa del danno. Ovviamente nel nostro sistema ciò è avvenuto, senza abbandonare il modello unitario di disciplina della responsabilità di medici e strutture che si regge su un fatto dannoso comune come presupposto fondante entrambe le responsabilità; modello che se in passato ha condotto ad omologare la responsabilità della struttura a quella del medico, oggi, in una inversione di tendenza, fa si che sia la responsabilità del medico ad adeguarsi in punto di disciplina, a quella della struttura. In questo clima dunque la nostra classe medica è stata attratta dal vortice della medicina difensiva, della quale abbiamo avuto modo di parlare all' inizio del paragrafo. L'obiettivo del legislatore è, allora, quello di farsi carico con misure concrete del problema, tentando di porre un freno al dilagare del contenzioso giudiziario e dei costi connessi. A completare il quadro l'estrema specializzazione di ogni operatore sanitario, insieme alla crescente difficoltà di aggiornamento e alla complessità della strumentazione moderna; lo svolgimento del lavoro in equipe e all' interno delle strutture sanitarie; la presenza di norme sempre più dettagliate e l'enfatizzazione del diritto alla salute, che ha fatto salire il livello di attesa di un risultato favorevole. In tale contesto si inserisce l' art. 3 del decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.189, articolo specificamente dedicato alla "responsabilità professionale dell' esercente la professione sanitaria", che pare riportare la responsabilità del medico nella disciplina dell' illecito. L'art 3 del decreto legge stabiliva: Al comma I, che :"Fermo restando il disposto dell' art. 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell' attività dell' esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell' art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell' osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità nazionale e internazionale.". Al comma quarto che: "Fatto salvo quanto previsto al comma I, la responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario medico e non medico, occorsi nell' ambito di una struttura sanitaria pubblica, privata accreditata e privata è sempre a carico della struttura stessa". - In tali casi resta comunque fermo l' obbligo di cui all' art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo"; Il comma quarto è stato, invece rimosso dal testo legislativo finale. Inoltre parte della dottrina, tra cui l'autore N. Todeschini, affermano che il legislatore avrebbe introdotto una mera lex specialis, per i soli dipendenti del sistema medico sanitario, senza tener conto che la responsabilità del medico fa parte delle "responsabilità nei servizi sanitari"; sottolineando anche come il ritorno all' applicazione della disciplina sull' illecito aquiliano, più gravosa per il paziente in ordine all' onere probatorio ed ai termini di prescrizione, volta a ridurre il contenzioso sulla responsabilità del medico,indebolirebbe sia il diritto alla salute, sia il diritto ad essere curati dal servizio sanitario, sia la stessa tutela della salute . Volendo passare in rassegna le due versioni della norma vediamo come il legislatore abbia inteso perseguire il proprio obiettivo focalizzando l'attenzione sulla "colpa professionale" del medico, così restituendo all' elemento soggettivo, troppo spesso trascurato nelle decisioni dei giudici, un ruolo centrale nella responsabilità del medico. Questa scelta definita da molti autori "demolitiva", da un lato, lascia intendere che per l'ente continuino a valere quelle regole già coniate prima dell' entrata in vigore della recente modifica; regole all' insegna di una responsabilità semioggettiva, che trova il proprio limite nella dimostrazione dell' evento imprevisto ed imprevedibile che abbia causato il mancato miglioramento del paziente; dall' altro lato, porta a ritenere che la volontà del legislatore di dettare una norma dedicata esclusivamente alla responsabilità del medico, significhi, implicitamente, aver ammesso che il regime applicabile al sanitario deve considerarsi disciplinato da regole separate ed autonome, sia con riguardo alla fonte, sia alla natura della responsabilità, rispetto a quelle indirizzate alla struttura. Come emerge dalla lettura proposta del comma 1, dell'art. 3, si ritiene che il legislatore, con l'ultima versione dell' articolato, abbia operato una "scelta di campo" a favore della natura extracontrattuale della responsabilità del medico, con le relative conseguenze in tema di elemento soggettivo, termine di prescrizione ed onere della prova . 3 della l. 8.11.2012 come disposizione, espressamente dedicata a disciplinare la responsabilità degli "esercenti la professione sanitaria", rivela dunque, nel silenzio serbato nei confronti di chi è oggi il protagonista chiave nel giudizio civile e cioè la struttura che è anche solidalmente responsabile con il medico, di voler guardare alla responsabilità del medico, in modo del tutto autonomo dalla responsabilità della struttura, confermandone il suo inquadramento nell' ambito delle responsabilità professionali da status. 3 del decreto sanità, nel riferimento alla prova di una diligenza, qualificata dall' applicazione delle L.G., con importanti implicazioni sulla quantificazione del risarcimento del danno in termini di riduzione, abbia inteso, nel rinvio all' art. 2043 c.c., far gravare sul paziente la prova della colpa medica all' insegna di un non dovuto o non richiesto dalle circostanze del caso, adeguamento alle L.G., che solo al medico compete individuare tra le diverse accreditate dalle Società scientifiche. Molti autori sostengono in definitiva che la norma del decreto Balduzzi sia "precettiva" con riguardo alla colpa penale e al criterio di quantificazione del danno in sede civile, mentre è una norma "interpretativa" con riguardo alla colpa civile del medico; la sua rilevanza nella gerarchia delle fonti consiste nell' evidenza di riassegnare un ruolo centrale alla responsabilità da fatto illecito, in linea con la tradizione, e conferma l'intuizione dottrinale dell' attualità, per così dire, del paradigma della responsabilità professionale fondata sulla colpa . In senso favorevole a una restaurazione del sistema vertente sulla natura aquiliana della responsabilità del medico, il Tribunale di Varese, nella sentenza 26 novembre 2012, n.1406, si è pronunciato motivando il revirement in forza di una maggiore coerenza con i nuclei ispiratori della disciplina di riforma sanitaria. Ciò in considerazione dell' aumento esponenziale e spesso pretestuoso del contenzioso nei confronti dei sanitari. Viene sottolineato anche il fatto che se il richiamo all' art. 2043 c.c. imponesse l'adozione di un modello extracontrattuale, l'applicazione rigorosa della norma ne comporterebbe l'applicazione anche alle ipotesi pacificamente contrattuali, quali i rapporti fra pazienti e medici liberi professionisti, dal momento che il primo periodo dell' art. 3, comma 1, secondo periodo della legge Balduzzi, in conformità con la collocazione sistematica e con la ratio dell' intervento legislativo, ha il solo scopo di richiamare la disposizione cardine espressione del principio del neminem laedere e del conseguente obbligo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del suddetto principio. 3 del decreto legge 158/2012 scolpiva la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria pubblica, e dei medici pubblici dipendenti, il novellato art. 3 della legge di conversione, opta per la soluzione opposta, facendo scomparire ogni riferimento esplicito alla qualificazione in termini contrattuali della responsabilità del medico pubblico dipendente, con il chiaro ed indubbio riferimento all' art. 2043. Come abbiamo già visto poi la legge di conversione, ribaltando la norma del decreto legge che faceva una chiara scelta in tema di responsabilità risarcitoria del medico pubblico dipendente, richiama espressamente i criteri della responsabilità aquiliana, ritenendo che la responsabilità civile del medico non debba rifarsi ad una responsabilità da inadempimento con gli indubbi vantaggi del paziente in tema di prescrizione ed onere della prova, ma alla responsabilità aquiliana. In altri termini, al fine di contenere gli oneri risarcitori della spesa pubblica, il nuovo art. 3 della l. 189/2012, intende intervenire sul "diritto vivente", operando una scelta di campo finalizzata al valore del risparmio e non della salute del paziente. Il Tribunale di Torino non utilizza la teorica del contatto sociale e quindi rigetta la domanda del paziente per i danni subiti in ospedale, nel caso di specie la frattura del femore, per non aver fornito la prova della colpa delle parti convenute, e quindi del fatto illecito. Tralasciando i riscontri penalistici, per il caso di colpa lieve, che per molti è limitata alla sola imperizia e non anche alla negligenza e imprudenza, la persistenza della stessa responsabilità civile va riportata all' art. 2043 c.c., infatti la norma sottolinea come :" In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all' art. 2043 c.c. Ovviamente il giudice nella determinazione del risarcimento del danno terrà conto della condotta del medico richiamata nel primo periodo dell' art. 3, e quindi anche se l'esercente si attiene alle c.d. L.G. e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, nel momento in cui provochi dei danni al paziente, sarà tenuto al risarcimento danni ex art. 2043; se poi verrà accertato che la sua attività sia stata condotta con negligenza e imprudenza e non solo imperizia, risponderà anche in sede penale. Tutto ciò fa si che la paziente abbia stipulato, al momento dell'accordo con il medico dr. Le due sentenze ribadiscono che la responsabilità del medico, così come quella della struttura sanitaria, ha ancora natura contrattuale; anche l' obbligazione del medico dipendente dall' azienda sanitaria nei confronti del paziente, seppur fondata sul contatto sociale, costituisce vincolo contrattuale. La tutela del paziente passa in primo piano senza però sfociare in eccessive estensioni della responsabilità, civile e penale, che in passato hanno fomentato il ricorso alla medicina difensiva. Il richiamo all' art. 2043 c.c. all' interno dell'art.3 della legge Balduzzi è stato letto da molti autori come un vero e proprio fondamento normativo della responsabilità del medico ospedaliero di natura extracontrattuale. A conferma di questa prima interpretazione sono intervenute numerose sentenze, tra le quali è utile ricordare quella del tribunale di Milano che afferma come: Sembra corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell' onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno". La tesi che però oggi è prevalente in giurisprudenza è quella che qualifica come "contrattuale" la responsabilità medica, per agevolare la posizione del paziente, responsabilità che nasce non dal contratto atipico di spedalità, che riguarda il rapporto del paziente con la struttura, bensì dal "contatto sociale" istituito tra medico ospedaliero e paziente. In conclusione del presente lavoro appare opportuno richiamare alcune novità contenute negli articoli 6 e 7 del ddl sulla responsabilità professionale n. 1324 dell' 8 luglio 2013. La prima novità si lega a una delle critiche mosse alla legge Balduzzi: avere fatto un riferimento troppo generico alla colpa. Inoltre, per quello che ci interessa più da vicino, dalla natura "extracontrattuale" della responsabilità in capo all' esercente la professione sanitaria sono esclusi i liberi professionisti . La responsabilità contrattuale delle strutture viene allargata anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime intramurario, nonché attraverso la "telemedicina". 1912, 744. CARUSI, Responsabilità del medico e obbligazione di mezzi, in Rass. giur. Treccani, 1990. CASTRONOVO C., Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979 in La responsabilità medica, Giuffrè editore, Milano, 2004 , 22. CATTANEO C., La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 313. CATTANEO C., La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, 11. CHINDEMI D., La responsabilità contabile e danno erariale della asl e del medico, in Resp. 2011, 1400. CHINDEMI D., Resonsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, terza edizione, Milano, 2015, 60ss. DE LUCA M, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma, 2012, 24-78. DE MATTEIS R., Dall' atto medico all' attività sanitaria. 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1.1- Uno sguardo al percorso normativo sovranazionale Alla metà del XIX secolo, le scienze antropologiche cominciarono a manifestare l'esigenza di riformare la giustizia penale nei confronti dei minori, adattandola alle peculiari caratteristiche di tali soggetti. La particolarità del diritto penale minorile è infatti che i suoi destinatari sono soggetti nei quali le caratteristiche psico-fisiche e la personalità sono ancora in fase di sviluppo. Se da un lato il minore risulta essere educabile con maggiore facilità rispetto all'adulto, dall'altro risulta più incline agli influssi criminogeni che possono scaturire da trattamenti penali non adeguati ad un soggetto con tante peculiarità1. Prima del secolo scorso il minore era considerato alla stregua dell'adulto dal punto di vista procedimentale ed erano i singoli Stati a disciplinare discrezionalmente la materia: quasi ovunque si riconosceva una potestas assoluta del padre sul figlio minorenne. Il primo Tribunale per minorenni, chiamato Juvenile Court, fu istituito a Chicago nel 1899: un giudice specializzato che poteva applicare sanzioni correttive o anche soltanto educative, competente a giudicare tutti i minori di anni dieci. Si trattava, comunque, di un istituzione con una marcata impronta paternalistica, che mancava delle garanzie necessarie secondo i criteri della giurisprudenza classica, e per il quale non fu mai prevista una disciplina speciale2. In seguito altri Tribunali, sull'esempio di Chicago, furono istituiti a Boston e New York. Per quanto riguarda l'Europa, nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, con il quale venne abolita quasi del tutto la pena di morte per i minori e stabilito che nessun minore di 16 anni potesse essere condannato al carcere3. Seguendo quest'esempio, altri Paesi sentirono il bisogno di istituire un organo giurisdizionale idoneo ad esaminare sia il crimine commesso dal minore sia il contesto sociale e familiare in cui è maturata la sua personalità. Il primo atto internazionale non vincolante a disciplinare specificatamente la giustizia penale minorile furono le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile (c.d. Regole di Pechino), adottate dal VI Congresso dell'ONU il 29 Novembre 1985. Questo atto è stato fonte per tutti i codici penali moderni, compreso quello italiano, poiché per primo disciplinò forme di giustizia specifiche per il minore, che tendessero a rieducare e reinserire il minore, uscendo da una concezione puramente retribuzionistica. Alcune novità sono così rilevanti che ancora oggi le troviamo nei moderni codici di giustizia penale minorile, quali: la limitazione della libertà personale soltanto come extrema ratio, la quale deve essere sostituita tutte le volte che risulti possibile da misure alternative quali la sorveglianza o l'affidamento alla famiglia o ad una comunità (agenzia educativa); la custodia preventiva disposta in istituti separati dagli adulti o in una parte distinta dell'istituto; la previsione di cure, protezione e assistenza individuale necessari per l'età, il sesso e la personalità; la previsione di sanzioni alternative come multa, risarcimento e restituzione; l'applicazione di misure di probation. Le Regole di Pechino furono incorporate nella Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, approvata a New York il 20 Novembre del 1989: si tratta di un documento vincolante per gli Stati firmatari che costituisce il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche (sono 194 gli Stati firmatari). In Italia fu resa esecutiva con la l. n. 176/91, che, oltre a ribadire ciò che era stato affermati nei precedenti documenti in ambito di giustizia minorile, introduce alcune importanti novità sebbene non inerenti all' ambito processuale. Le Regole di Pechino, assieme alla Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. R(87)20, del 17 Settembre 1987, sulle risposte sociali alla delinquenza giovanile4, sono espressamente prese in considerazione dal legislatore delegato, come confermato dalla Relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul nuovo processo minorile ove si afferma che questi atti "ribadiscono il diritto del minore a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano il rinforzo". Per quanto riguarda la collocazione di questi atti nel sistema delle fonti, è stato osservato che anche il processo penale minorile deve "adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale" come stabilito al primo alinea dell'art. 2 della l. 16 Febbraio 1987 n. 81 per il nuovo processo penale, in ragione del riferimento ai principi generali di questo processo espresso per il processo penale minorile dall'art. 3 comma uno l. n. 81 del 1987. Appare evidente come anche a livello internazionale è mutato profondamente l'approccio nei confronti del minore, inizialmente visto soltanto come soggetto da contenere e correggere nell'ottica della tutela della comunità (che pure non ha perso la sua rilevanza), in seguito come un'identità in piena evoluzione, in capo alla quale sorgono dei diritti, bisognosa di misure ad hoc capaci di rieducarlo allontanandolo da quelle situazioni che sono causa di devianza. 1.2- Gli inizi del percorso legislativo in Italia In Italia un sistema penale autonomo per i minori è giunto con leggero ritardo rispetto ad altri Paesi Occidentali, il primo passo in tal senso fu la Circolare dell'11 Maggio 1908 ad opera del Ministro Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando, con la quale venivano poste le basi per l'affermazione, nell'ambito del diritto minorile, dei principi della specializzazione del giudice dei minorenni, della non pubblicità del processo in cui è coinvolto un minore e della necessità dell'indagine diretta ad acclarare la personalità del minore. L'importanza di questa circolare, che pure non sortì nell'immediato gli effetti sperati, nel percorso che ha portato all'affermazione del principio di specializzazione del giudice dei Minorenni è stata richiamata anche recentemente dalla Corte di Cassazione (sez. V pen., 16 Settembre 2008, n. 38481): attualmente infatti il giudice dei minori è caratterizzato sì dalla specifica competenza in ambito minorile, ma soprattutto dalla presenza, accanto ai magistrati ordinari, di giudici non togati esperti in psicologia e/o pedagogia. Nel 1909 ebbe inizio il progetto per la redazione di un Codice dei Minorenni, che prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato, affidato a un'apposita commissione al cui vertice vi era il senatore Quarta. Il progetto non divenne legge, ma costituì la base per i seguenti progetti Ferri e Ollandini. Nel 1921 Enrico Ferri a capo di un'apposita commissione formulò un progetto di riforma che, prevedendo anch'esso l'istituzione di un giudice specializzato, andasse ad indagare l'insieme delle cause sociali, familiari, psicologiche, ereditarie ed evolutive del minore portato a delinquere. L'approccio particolarmente scientifico alla base della riforma fu forse una delle cause che non lo portò all'approvazione da parte del Parlamento. Il progetto Ollandini invece prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato in ogni città con popolazione superiore ai duecentomila abitanti, ma nemmeno questo tentativo legislativo giunse all'approvazione. Nel 1930 furono approvati il nuovo codice penale (il codice Rocco) e il codice di procedura penale. Fu fissata a 18 anni la piena capacità penale, mentre nei casi riguardanti minori tra i quattordici anni e i diciotto anni il compito di accertare l'eventuale imputabilità veniva rimesso al giudice, in riferimento al possesso della capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui il minore fosse ritenuto non imputabile ma comunque socialmente pericoloso poteva essere applicata una misura di sicurezza come il riformatorio giudiziale o la libertà vigilata. Per i minori imputabili invece era previsto che scontassero le pene in istituti separati da quelli degli adulti fino al compimento della maggiore età, inoltre la pena doveva essere finalizzata a una rieducazione morale. 1.3- Il r.d.l. n. 1404 del 1934 La creazione di un Tribunale specializzato per i minori arrivò nel 1934 con il r.d.l. n. 14045 (che rappresenta la prima disciplina sistematica del settore), convertito con la l. n. 835 del 1935, in cui trovarono finalmente attuazione tutti i precedenti progetti di riforma esaminati e i movimenti umanitari sviluppatisi negli anni precedenti. Al Tribunale venne attribuita la competenza di giudice di primo grado in materia penale, civile e amministrativa, distinta da quella del giudice ordinario. Era prevista all'art. 5 la possibilità di proporre appello, nei casi stabiliti dalla legge, presso una sezione specializzata della Corte d'Appello. Nello stesso edificio dove era situato il Tribunale, era prevista la creazione dei centri di rieducazione dei minori composti da un riformatorio giudiziario, un riformatorio per corrigendi, un carcere per minorenni, uffici di servizio sociale per i minorenne, nonché un centro di osservazione per minorenni. Una delle particolarità del decreto del '34 fu la possibilità per il giudice, introdotta con l'art. 25, di adottare misure rieducative nell'ambito della propria competenza amministrativa quali l'internamento al riformatorio per corrigendi6, applicabile al minore di diciotto anni che "avesse dato, per abitudini contratte, manifeste prove di traviamento" e risultasse per questo "bisognevole di correzione morale". Col tempo però i giudici non seguirono più i criteri guida fissati dal testo della legge e finirono con l'applicare l'internamento al riformatorio anche a soggetti non traviati, le cui situazioni familiari denotavano uno stato di degrado e abbandono. Inoltre, non essendo previsto un limite alla permanenza in questi istituti, essa si concludeva solo quando il soggetto non si mostrasse agli occhi del giudice più necessario di correzione oppure col compimento dei diciotto anni, con conseguente allontanamento prolungato dalla comunità, trasformando i minori in delinquenti veri e propri senza perseguire il fine rieducativo cui in astratto si sarebbe voluto tendere. Tali istituti si rivelarono avere caratteristiche non difformi da vere e proprie carceri penali: i minori venivano collocati in edifici rigorosamente chiusi e protetti da inferriate e cancelli dai quali non potevano allontanarsi, perdendo ogni contatto con il contesto sociale dal quale provenivano. Questo decreto, quindi, seppur ideato con nobili fini, rispecchia il difficile contesto politico-sociale in cui venne alla luce, che ne rappresenta il limite più evidente: uno Stato forte come quello fascista, che aveva il pieno controllo su ogni aspetto della vita degli individui, era, in quell'ottica, la prima forma di prevenzione per la devianza dei giovani. Di fronte al manifestarsi di un'eventuale devianza, lo Stato la affrontava in termini di malattia: la pena, dunque, era vista come una sorta di terapia per il soggetto malato, con la conseguenza che ci si concentrò di più sul controllo e la contenzione del minore, che sul fornire aiuto e sostegno per eliminare le cause devianti. Con l'entrata in vigore della Costituzione si ha l'introduzione di una serie di nuovi principi che si collocano come fonte primaria nell'ordinamento: tali principi rispecchiano i valori e gli ideali dei Padri Costituenti come reazione al regime fascista. Per quanto riguarda il processo minorile si fa riferimento all'art. 27, terzo comma e al 31, secondo comma. L'art. 27, terzo comma, afferma il principio rieducativo della pena: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La mancanza, in questa disposizione e nei lavori preparatori, di un esplicito riferimento ai minori è stata colmata successivamente dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale7. L'articolo 31, secondo comma, dispone invece che la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". Appare quindi evidente che l'impianto fascista su cui è stata costruita la competenza amministrativa del Tribunale e l'impianto delle misure rieducative necessitavano di essere riviste alla luce dell'entrata in vigore della Costituzione, affinché si potessero realizzare al meglio i principi in essa affermati. 1.4- La l. n. 888 del 1956 La risposta a queste esigenze arrivò con la l. n. 888 del 1956 la quale modificò notevolmente il r.d.l. n. 404/1934 attraverso un ampliamento della competenza amministrativa del Tribunale e un sistema di individualizzazione delle misure e del trattamento che limitasse la detenzione carceraria soltanto ai casi in cui risultasse strettamente necessaria. Fu previsto che le indagini per la personalizzazione delle misure fossero svolte non più dal pubblico ministero ma da un componente del Tribunale e inoltre furono previsti o modificati, all'art. 1, una serie di istituti per l'assistenza al minore, quali: gli istituti di osservazione, i gabinetti medico-psico-pedagogici, le case di rieducazione ed istituti medico-psicopedagogici, gli uffici di servizio sociale per minorenni, i "focolari" di semi-libertà e pensionati giovanili, le prigioni scuola e i riformatori giudiziari8. La novità più significativa è costituita dalla definitiva creazione dell'ufficio del servizio sociale per i minorenni (già previsto dal r.d. n. 1404/34 ma mai entrati concretamente in funzione), chiamato inizialmente a collaborare con il giudice minorile per l'esecuzione dei provvedimenti amministrativi ed in particolare della misura di rieducazione dell'affidamento ai servizi sociali introdotta con la medesima legge9. In tal senso è significativa la valorizzazione, all'interno delle case di rieducazione, della figura dell'educatore10 al quale è devoluto il compito di costituire un modello di identificazione positivo affinché il minore possa (ri)costruire la propria personalità e il mondo dei valori e delle norme11. L'intento era quello di limitare al massimo l'internamento del minore, privilegiando un'assistenza nelle forme della libertà assistita, attraverso la previsione e la realizzazione di un progetto educativo che vedeva la collaborazione tra servizi e giudice nel momento di adozione della misura stessa12. Questa riforma portò a un cambiamento dei presupposti per l'applicazione della misura: non si tratta più di giovani "traviati", bensì di "soggetti irregolari per condotta o carattere", irregolarità che deve essere accertata attraverso "approfondite indagini sulla personalità del minore", esplicate da uno dei componenti del Tribunale per i minorenni designato dal Presidente13: questo cambiamento permise di circoscrivere l'intervento amministrativo a quei minori che esprimevano una concreta devianza con il rischio di incorrere nella commissione di reati. Vi erano quindi tutti i presupposti per un effettivo mutamento negli interventi amministrativi, grazie ad una adeguata individuazione delle tipologie di soggetti destinatari degli stessi che, con rigore interpretativo andavano circoscritti solo a quelli effettivamente a rischio dimissione di reati ed il cui comportamento fosse espressione di devianza. Ciò avrebbe consentito di distinguere chiaramente gli interventi comunque limitativi della libertà personale finalizzati, oltre che ad una ripresa dei processi educativi del minore, anche a concorrenti esigenze di tutela dell'ordine pubblico, dagli interventi di carattere meramente assistenziale, indirizzati a soggetti in situazioni di carenza familiare e, quindi, bisognevoli esclusivamente di supporto e sostegno14. Purtroppo però questo sistema non raggiunse i risultati sperati: istituti identici venivano usati per far fronte a situazioni che avrebbero richiesto trattamenti differenziati e inoltre alcuni interventi che il legislatore aveva voluto differenziare si rivelarono sostanzialmente identici fra loro. Così la richiesta di internamento dei figli da parte della famiglie, prevista dalla l. n. 888/56, finì col supplire alle carenze educative familiari o scolastiche, piuttosto che rappresentare una risposta a irregolarità nella condotta o nel carattere del minore, cancellando di fatto la differenza fra il fine rieducativo e quello assistenziale. Il risultato fu che, nonostante un'apertura alle necessità ed esigenze del minore, continua non si riuscì a separare nettamente l'assistenza dal controllo con la conseguenza che l'ideologia rieducativa convive di fatto con quella custodiale degli anni passati15. La crisi del sistema alimentò negli anni '70 un dibattito fra gli stessi operatori incentrato da un lato sull'esigenza di superare l'istituzionalizzazione prolungata e l'internamento in strutture chiuse che nei giovani sono causa della formazione di una identità negativa, di immagini di sé e di ruoli sociali degradanti16, dall'altro di giungere a una completa depenalizzazione delle norme sanzionatorie che portasse a una decarcerizzazione per i minori, sospinta anche dall'approvazione della riforma penitenziaria del 1975 che, seppur sembrò non interessarsi particolarmente allo specifico minorile, ne influenzò il relativo dibattito. 1.5- Il d.p.r. n. 616 del 1977: il decentramento agli enti locali Fu in questo clima che si giunse al d.p.r. n. 616 del 1977 con il quale si attribuiva la competenza della giurisdizione minorile in campo amministrativo e civile ai servizi sociali dei Comuni (decentralizzazione) e si aboliva la negativa esperienza delle Case di rieducazione. Si arrivò quindi a una distinzione fra la competenza in campo penale attribuita allo Stato (con finalità punitiva) e quella in campo amministrativo e civile attribuita agli Enti Locali (con finalità rieducativa): l'idea era quella di discostarsi dal precedente modello in cui il minore era rinchiuso all'interno di un istituto lontano dalla società e di agire direttamente sul proprio contesto sociale al fine di rimuoverne quegli ostacoli che erano fonte di devianza. Questo prevedeva la permanenza del minore all'interno dell'ambito sociale di appartenenza, li dove sarebbero intervenuti i servizi sociali comunali. Molti Comuni però si trovarono impreparati a fronteggiare la situazione, finendo col fornire le sole misure assistenziali anche di fronte ai comportamenti devianti che avrebbero necessitato invece di risposte rieducative; il vuoto legislativo creatosi comportò per i giudici di trovarsi di fronte alla scelta di rinunciare a qualsiasi intervento o di applicare pene detentive sproporzionate al caso in esame. Appariva ormai chiara l'ambivalenza sia delle misure di rieducazione che dell'intero sistema penale minorile che oscillava fra provvedimenti meramente clemenziali, quali ad esempio il perdono giudiziale, il quale veniva applicato in modo automatico per fatti di lieve entità, e la risposta meramente retributiva, non marcatamente differenziata rispetto agli adulti, sia per quanto riguarda l'entità della pena inflitta, sia per quanto riguarda le modalità di esecuzione o l'eventuale diversificazione delle risposte sanzionatorie. Senza dubbio è in questo periodo storico che si ha la presa di coscienza, come evidenziato dalle pronunce della Corte Costituzionale17, in ordine all'esigenza di ridurre al massimo sia la carcerazione, ma soprattutto anche gli interventi rieducativi all'interno di strutture chiuse, limitando l'intervento giudiziario a casi e situazioni ben definiti18. 1.6- Il nuovo processo penale minorile: il d.p.r. 448 del 1988 In seguito alle numerose sentenze della Corte Costituzionale, alle Convenzioni e alle Dichiarazioni internazionali che si susseguirono prese il via in Italia il progetto di redazione di un nuovo processo penale minorile. Al momento della redazione del provvedimento vennero alla luce due possibili e contrapposte impostazioni: la prima sosteneva la necessità di inserire la normativa del nuovo processo minorile all'interno del codice di procedura penale, la seconda invece riteneva necessaria la predisposizione di un autonomo decreto delegato; questa seconda opinione fu quella prevalente sia per la specificità della materia in oggetto e in–oltre per non "appesantire" in maniera ulteriore un codice di notevole estensione e complessità19. Il d.p.r. 448, emanato il 22 Settembre del 1988 in seguito alla legge delega n. 81 del 1987, e completato poi dal d.lgs n. 272 del 1989 recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, delinea un sistema di giustizia penale diversificato, dove il momento più significativo è rappresentato dal passaggio del minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di "esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal minore20. Occorre innanzitutto sottolineare che non fu toccato l'aspetto ordinamentale, e neppure quello sostanziale: si ebbe così un processo penale minorile del tutto nuovo, da celebrarsi però davanti a un giudice "vecchio", che applicava un sistema sanzionatorio che era stato previsto fin dalla sua origine per gli imputati adulti. E una conferma a quello che si è appena detto la si trova nei continui richiami, da parte dell'intero d.p.r. n. 448/88, alle esigenze educative del minore, che pongono contrasti con i principi di tassatività della pena e di legalità: un tale sistema pone dubbi di legittimità costituzionale alla luce dell'art. 13 Cost. secondo cui le limitazioni alla libertà personale devono avvenire nei "casi e modi previsti dalla legge". Ciò si concretizza nell'ampia discrezionalità lasciata al giudice al momento della scelta delle misure cautelari da adottare nei confronti dell'imputato, per le quali egli dovrà tener conto, in aggiunta ai criteri ex art. 275 c.p.p., anche di non interrompere i processi educativi in atto: si faccia riferimento, ad esempio, alla misura delle prescrizioni, il cui contenuto può essere fra i più ampi e disparati dall'obbligo di frequentare attività di volontariato al divieto di stare fuori casa oltre una certa ora. Sarebbe stato più opportuno ridurre i margini di questa discrezionalità attraverso l'introduzione di ulteriori criteri che riflettessero la specificità del processo minorile. 1.7- I principi generali del processo minorile Il codice processuale minorile contiene una serie di principi che si discostano da quello per gli adulti proprio in virtù della specificità della condizione del minore al momento dell'instaurazione del processo penale: all'articolo 1 viene enunciato il principio di sussidiarietà: "Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale"21. La norma quindi ci avverte che le disposizioni contenute nel presente decreto non sono del tutto autosufficienti e laddove siano presenti delle lacune si dovrà fare riferimento all'ordinario codice di procedura penale. Il rinvio operato dall'articolo 1 ha posto dubbi interpretativi circa la sua natura: se si tratta di un rinvio materiale ogni modificazione (pronunce di incostituzionalità e abrogazioni) alle disposizioni del codice processuale ordinario non opererebbe per il d.p.r. n. 448 il quale, invece, continuerebbe a fare riferimento al testo originario del codice; se invece si accoglie l'impostazione di chi vi abbia ravvisato un rinvio formale, si consentirebbe al nuovo codice di adeguarsi all'evoluzione dell'ordinario codice processuale penale, applicando disposizioni concretamente vigenti, previa compatibilità delle norme alla luce delle modificazioni. La dottrina maggioritaria ha adottato quest'ultima impostazione per non condannare i due sistemi a muoversi lungo linee inevitabilmente divaricate, in quanto il quadro di riferimento per il rito minorile rimarrebbe fermo nel tempo, mentre la giustizia penale per adulti seguirebbe propri itinerari evolutivi in grado di mutarne, anche in modo significativo, i caratteri connotativi22. A sostegno di questa interpretazione anche la sentenza n. 323/2000 della Corte Costituzionale, che ha evidenziato come nel dubbio circa l'applicazione fra due norme si debba il principio del favor rei nei confronti dell'imputato minorenne. Un altro problema che sorge nell'interpretazione dell'articolo 1 d.p.r. n. 448/88 riguarda la scelta delle norme del c.p.p. cui si deve fare rinvio: esse devono essere applicate secondo un'interpretazione sistematica per escludere eventuali situazioni di incompatibilità con le norme o i principi del processo dei minori. Contestualmente al principio di sussidiarietà, all'art. 1, è affermato il principio di adeguatezza: "Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne". Si fa riferimento alla fase applicativa delle norme posta in essere dal giudice, quando vengono individuate le misure cautelari e definitive da applicare al minore: in accordo con questo principio il giudice non dovrà limitarsi a una mera applicazione automatica ma dovrà individuare le varie misure facendo riferimento alla situazione del minore: ambiente familiare, problemi personali e percorso educativo passato od eventualmente in atto. Solo tenendo conto di questi elementi il giudice potrà perseguire il fine rieducativo e di reinserimento sociale cui l'intero sistema tende. Un altro dei principi fondanti del processo penale minorile è quello di minima offensività del processo in quanto esso concretizza il fine del recupero sociale del minore che ha commesso un reato. Il contatto fra il minore e il processo penale può essere causa di notevoli sofferenze psicologiche che potrebbero arrecare grave pregiudizio al percorso educativo e di crescita del minore: espressione di questo principio in ambito cautelare è la facoltatività che caratterizza l'intervento del giudice, su cui ci soffermeremo meglio nel prossimo capitolo. L'ultimo principio riguarda la residualità della detenzione che, in conformità alle pronunce della Corte Costituzionale, sottolinea che la pena detentiva nei confronti del minore deve rappresentare l'extrema ratio: per questo sono previste misure alternative alla custodia detentiva che riducano l'impatto sulla sfera psico-emotiva del minore.
L'attività di ricerca nell'ambito del Dottorato di ricerca "Persone, imprese e lavoro: dal diritto interno a quello internazionale" ha consentito di studiare ed approfondire una tematica nuova del diritto internazionale, ossia "La responsabilità delle imprese multinazionali per crimini internazionali". Il progetto di ricerca è stato strutturato su tre parti dedicate rispettivamente alla soggettività giuridica delle imprese multinazionali, ai diversi profili di responsabilità che possono essere riferiti alle imprese multinazionali e, infine, alla responsabilità penale che può essere loro contestata. Per quanto riguarda il primo capitolo, "L'impresa multinazionale come realtà multiforme", l'analisi si è concentrata principalmente sulla nozione di impresa multinazionale e sul relativo problema dell'ammissibilità della personalità giuridica di diritto internazionale delle imprese multinazionale. Il profilo definitorio è stato oggetto di un iter argomentativo che si è mosso lungo l'analisi delle fonti di diritto internazionale e il modus operandi delle imprese multinazionali. Alla luce di ciò, l'indagine definitoria si è conclusa propendendo per una nozione di impresa multinazionale che va specificata in concreto attraverso i suoi elementi costitutivi. In definitiva, l'impresa multinazionale è un'organizzazione che esercita la sua attività produttiva in Paesi diversi da quello di origine avvalendosi di aziende affiliate, che, seppure sono qualificate come satelliti delle imprese multinazionali, sono dotate di personalità giuridica e di autonomia giuridica. Risolto il problema definitorio, l'indagine si è concentrata su una problematica complessa, che ha sollecitato l'intervento della dottrina più autorevole. Al di là del dibattito dottrinario che ne è scaturito, attualmente si potrebbe propendere per la personalità giuridica delle imprese multinazionali. Il riconoscimento che ne è derivato è stato determinato da una serie di "criteri sintomatici". Valga a titolo esemplificativo il riferimento alla loro partecipazione nei procedimenti giurisdizionali ed arbitrali al fine di garantire i diritti riconosciuti (esempio significativo si può indicare nell'istituzione dell'Iran-United States Claims Tribunal risalente al 1981, che è stato oggetto del Rapporto dell'Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ove è stato dichiarata in modo esplicito la colpevolezza dell'impresa multinazionale che si mostra tollerante ovvero ignora i fatti criminali riservati ai diritti umani.). Il primo capitolo è introduttivo del secondo capitolo dal titolo "La disciplina giuridica internazionale dell'attività delle imprese multinazionali". La seconda parte della tesi ha avuto ad oggetto un ambito di indagine piuttosto esteso, che non è stato di difficile inquadramento in quanto le problematiche sottese hanno trovato adeguate risposte attraverso l'intervento dottrinario, ma soprattutto attraverso l'intervento della giurisprudenza e l'operato del legislatore. L'attività delle imprese multinazionali si lega inesorabilmente con la tematica della responsabilità sociale delle imprese multinazionali (indicato con l'acronimo inglese CSR, Corporate Social Responsability). Gli unici strumenti in grado di fornire un'adeguata risposta sanzionatoria alle condotte delle imprese multinazionali si possono rinvenire nei Codici di Condotta, anche detti codici etici. Gli esempi più rilevanti di Codici di Condotta, che sono stati oggetto di una puntuale analisi, sono da riscontrare nella Dichiarazione Tripartita dell'OIL sulle imprese multinazionali e la politica sociale (1977/2000/2006), nelle Guidelines dell'OCSE destinate alle imprese multinazionali (2000/2011) e nel Global Compact delle Nazioni Unite (2000/2010). Per ragioni di completezza sistematica, il secondo capitolo ha tenuto conto anche dei c.d. Codici di Condotta privati, quali documenti volontariamente sottoscritti dalle imprese multinazionali raggruppanti norme e principi non vincolanti tesi a disciplinare la condotta sul mercato delle stesse imprese. Resta da prendere in esame la parte centrale della tesi che si incentra sulla responsabilità internazionale delle imprese multinazionali per i crimini internazionali. Il terzo, il quarto e il quinto capitolo sono il cuore della tesi di dottorato, che si riferiscono ad un ambito del diritto internazionale inesplorato e su cui si concentrano le numerose perplessità della dottrina nazionale ed internazionale. L'attività di ricerca ha seguito un determinato filo d'indagine tenendo anche conto che il progetto di ricerca si inserisce nel ciclo di dottorato dal Titolo "Persone, imprese e lavoro: dal diritto interno al diritto internazionale". In altri termini, l'indagine ha tenuto conto della penale responsabilità delle imprese multinazionali partendo dalla normativa interna dell'ordinamento italiano, che com'è noto è segnata dal d.lgs. n. 231 del 2001. Al di là della scelta strutturale che segna il terzo, il quarto e il quinto capitolo, è bene precisare che la responsabilità penale delle imprese multinazionali è stata definita dal presunto ambito operativo. Difatti, l'indagine si è concentrata principalmente sull'ammissibilità della responsabilità penale delle imprese multinazionali per i crimini internazionali, sugli elementi tipizzanti il fatto illecito e sul relativo disvalore penale. E' bene precisare che i crimini internazionali sono, generalmente, di esclusiva competenza della Corte penale internazionale, salva l'applicazione del noto principio della giurisdizione penale universale. In tal modo si garantisce l'intervento giurisdizionale anche dei Tribunali interni, che possono sindacare la illiceità della condotta offensiva. In astratto, non vi sarebbero ostacoli a riconoscere la responsabilità penale delle imprese multinazionali per i crimini internazionali. Ma, in concreto, le perplessità persistono. Il primo problema che è stato affrontato attiene alla copertura normativa. L'analisi ha consentito di comporre un adeguato sostrato normativo, partendo dalla bozza dello Statuto della Corte penale internazionale e da autorevole dottrina e completando con il rapporto del 2013 del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Quindi, il problema attinente alla copertura normativa è stato risolto, ma ciò che ha destato immediate difficoltà è stata l'individuazione degli elementi costitutivi della responsabilità penale delle imprese multinazionali e, di conseguenza, l'imputazione diretta della violazione dei diritti umani. La responsabilità delle imprese multinazionali per crimini internazionali, attualmente, si può risolvere in un duplice modo: 1. non intervenire con lo strumento sanzionatorio, ma ciò vorrebbe dire lasciare impunite le condotte delle imprese multinazionali; 2. riferire la condotta delle imprese multinazionali allo Stato ospite. In questo secondo caso, sono ben note le conseguenza che derivano, basti considerare che l'illecito internazionale materialmente lesivo dei diritti degli individui è subordinato alla giurisdizione dello Stato che ne è autore. Invece, per quanto concerne il primo profilo si corre il rischio di fare andare impunite le condotte delle imprese multinazionali violando indirettamente il principio di legalità e direttamente i principi sottesi alla comunità internazionale. In altri termini, se il sistema di diritto internazionale non aziona gli strumenti previsti dalla normativa sopra esaminata a tutela dei diritti umani si può determinare una doppia violazione a danno di quest'ultimi. Di conseguenza, l'esigenza di attivare strumenti idonei previsti dall'ordinamento internazionale ha fatto sì che si possa utilizzare uno strumento idoneo a riscontrare la diretta imputabilità delle imprese multinazionali, ossia l'interpretazione estensiva . E' noto che il sistema penale ripudia l'analogia, ma allo stesso tempo consente l'interpretazione estensiva . Avvalendosi dell'interpretazione estensiva l'interprete può adoperare gli strumenti che sono contenuti nel Progetto 2001, ove si tiene conto della responsabilità dello Stato. Di conseguenza, anche per le imprese multinazionali sarà possibile riscontrare, a seguito dell'interpretazione estensiva, la sussistenza degli elementi costitutivi del fatto illecito. Pertanto, si configura anche in capo alle imprese multinazionali l'elemento oggettivo della violazione delle norme internazionali e l'elemento soggettivo attinente alla diretta imputazione del comportamento antigiuridico. In tal modo entrambi gli elementi sono riconducibili direttamente alla condotta delle imprese multinazionali, che, come più volte chiarito, può essere intesa come una condotta attiva ovvero una condotta omissiva. In altri termini, la condotta può essere attiva quando le imprese violano direttamente per un profitto proprio le disposizioni di legge a tutela dei diritti umani determinando effetti incidenti sugli individui, che sono collocati stabilmente nell'area ove operano le imprese multinazionali; invece, la condotta è omissiva, quando le imprese multinazionali omettono di adottare le misure di prevenzione (che potrebbero corrispondere ai c.d. compliance programs) finalizzate a ridurre o eliminare le conseguenze offensive derivanti dalla loro condotta a danno dei diritti umani. In definitiva, accertato che l'attività delle imprese multinazionali è coperta normativamente da atti delle organizzazioni internazionali e ritenuta ammissibile l'interpretazione estensiva degli elementi essenziali costitutivi del fatto illecito dello Stato, le imprese multinazionali possono essere responsabili per i crimini internazionali. In conclusione, la soluzione positiva offerta è stata frutto di una ricostruzione che ha preso le mosse principalmente dagli esempi degli ordinamenti nazionali e ha trovato la sua ratio nella bozza dello Statuto della Corte penale internazionale, ma nonostante ciò la scelta incriminatrice non vuole essere esaustiva di una tematica che dispone di un notevole ambito operativo e che è risultata essere connessa con diversi fattori (economici, politi e sociali) non sempre di facile comprensione. ; The research activities within the framework of the PhD "People, businesses or jobs: domestic law to the international" made it possible to study and discuss a new subject of international law, i.e. "the responsibility of transnational corporations for international crimes". The research project has been structured on three sections devoted respectively to legal subjectivity of various MNEs liability profiles that may be related to transnational corporations and, finally, the criminal liability that may be disputed. As regards the first chapter, "The multinational enterprise as a multiform reality", the analysis focused primarily on the notion of multinational enterprise and its problem of eligibility of legal personality under international law of multinational enterprises. The Definitory profile has been the subject of an argumentative process that moved along the analysis of sources of international law and the modus operandi of the multinational companies. In light of this, the survey definition ended inclinations for a notion of multinational enterprise must be specified in concrete terms through its constituent elements. Ultimately, the multinational firm is an organization that carries on his production activity in countries other than the country of origin through affiliated companies, which, although they are classified as satellites of multinational companies, have legal personality and legal autonomy. Fixed issue Definitory, the investigation has focused on a complex issue, which has prompted the intervention of the most authoritative doctrine. On the other side of the debate that has been doctrinaire, currently you might lean towards the legal personality of multinational enterprises. The recognition that resulted was determined by a series of "symptomatic criteria". It is not limited to the reference to their participation in court proceedings and arbitral tribunals to ensure that the statutory rights (example you can indicate in the establishment of the Iran-United States Claims Tribunal dating from 1981, which was the subject of the report of the High Commissioner for human rights of the United Nations, where it has been explicitly declared guilty of multinational enterprise that is tolerant or ignores the facts private human rights criminals.). The first chapter is an introduction to the second chapter entitled "international legal regulation of the activities of transnational corporations". The second part of the thesis had such a scope object of investigation rather extended, which was not difficult to monitor because the underlying problems have found adequate responses through a doctrinaire, but especially through the intervention of the law and the work of the legislature. The activity of multinational enterprises is bound inexorably with the issue of social responsibility of multinational companies (referred to by the acronym CSR, Corporate Social responsibility). The only instruments capable of providing an adequate response to the conduct of disciplinary multinational enterprises can be found in the codes of conduct, also called ethical codes. The most important examples of codes of conduct, which were the subject of a detailed analysis, are to be found in the ILO Tripartite Declaration on multinational enterprises and social policy (1977/2000/2006), in the OECD Guidelines for multinational enterprises (2000-2011) and the United Nations Global Compact (2000/2010). For the sake of completeness, the second chapter systematically took account also of the so-called private codes of conduct, which documents voluntarily undertaken by transnational corporations involving non-binding standards and principles designed to govern the conduct of business on the market. It remains to consider the central part of the thesis that focuses on international responsibility of transnational corporations for international crimes. The third, fourth and fifth chapter are at the heart of the doctoral thesis, which refer to an international law which is unexplored and concentrate the many concerns of national and international doctrine. The research activity has been following a certain thread of investigation taking into account also that the research project is part of the doctoral cycle entitled "People, businesses or jobs: domestic law with international law". In other words, the survey took account of the responsibility of the criminal multinationals from the internal legislation of the Italian law, which as you know is marked by d.lgs. No. 231 of 2001. Beyond the structural choice that marks the third, fourth and fifth chapter, it is good to point out that the criminal responsibility of transnational corporations was allegedly operating scope defined. Indeed, the investigation has focused primarily on the admissibility of criminal liability of multinational corporations to international crimes, on particular toxins the tort and criminal disvalue. It is good to point out that international crimes are, generally, the exclusive jurisdiction of the International Criminal Court, without prejudice to the application of the principle of universal criminal jurisdiction. This ensures the jurisdiction of domestic Courts, which can review the unlawfulness of conduct offensive. In principle, there would be obstacles to recognise the criminal liability of multinational corporations to international crimes. But, in practice, the concerns persist. The first problem that has been addressed as far as the regulatory coverage. The analysis made it possible to compose an appropriate regulatory milieu, starting with the draft statute of the International Criminal Court and by authoritative doctrine and completing with the 2013 report of the Secretary-General of the United Nations. Then, the problem pertaining to legislation coverage is resolved, but what aroused immediate fix was the identification of the constituent elements of criminal responsibility of transnational corporations and, consequently, on charges of human rights violations. The responsibility of transnational corporations for international crimes, currently, you can resolve in a twofold way: 1. do not use the instrument of sanctions, but that would mean leaving unpunished the conduct of multinational enterprises; 2. report the conduct of transnational corporations to the host State. In this second case, are well known the consequence arising, suffice it to note that the international offence materially detrimental to the rights of individuals shall be subject to the jurisdiction of the State which is the author. On the other hand, as regards the first profile you run the risk of making go unpunished the conduct of multinational companies indirectly violating the principle of legality and the principles governing the international community. In other words, if the international law system propels the tools foreseen by examined above legislation protecting human rights can determine a double violation to the detriment of the latter. As a result, the need to activate suitable instruments under international law meant that we could use a suitable tool to experience the direct eligibility of multinational enterprises, i.e. the interpretation. It is known that the penal system rejects the analogy, but at the same time allows for broad interpretation. Using the interpretation the interpreter can use tools that are contained in the 2001 Draft, which takes into account the responsibility of the State. As a result, even for multinational enterprises will encounter as a result of the interpretation, the existence of the constituent elements of the tort. Therefore, it also configures in Chief for multinational enterprises the objective element of the violation of international standards and the subjective element relating to objectionable material behavior directly attributable. Thus both elements can be traced back directly to the conduct of multinational enterprises, which, as repeatedly explained, can be understood as active behaviour or conduct of omission. In other words, the conduct can be activated when companies violate directly for a profit its legal provisions for the protection of human rights, causing accident effects on individuals, who are placed firmly in the area where multinational enterprises operate; Instead, the conduct is of omission, when multinational companies fail to adopt prevention measures (which might correspond to so-called compliance programs) designed to reduce or eliminate offensive consequences resulting from their conduct to the detriment of human rights. Ultimately, ensured that the activity of multinational enterprises is covered by law from international organizations and acts deemed eligible for the interpretation of the essential elements constituting the tort State, multinational companies may be responsible for international crimes. In conclusion, the positive outcome was the result of a reconstruction that took the moves primarily by examples of national laws and found its ratio in the draft statute of the International Criminal Court, but nevertheless the choice event is not intended to be exhaustive of a subject that has significant operational and scope that was found to be connected with various factors (economicpolitical and social), not always easy to understand. ; Dottorato di ricerca in Persona, impresa e lavoro: dal diritto interno a quello internazionale (XXVI ciclo)