I saggi raccolti nel presente volume affrontano un tema centrale della tradizione ebraica: il sogno, e in secondo luogo il surreale. Per quanto concerne lo studio dei testi, i contributi spaziano lungo un arco temporale assai ampio, dalla Bibbia alla poesia moderna, prendendo in esame una vasta gamma di argomenti; nell'ambito delle arti visive, attraverso epoche e media diversi, ci si muove dagli affreschi della sinagoga di Dura Europos fino alla pittura del Novecento, senza dimenticare il cinema. Estremamente variegato è il panorama linguistico offerto dai documenti considerati, che all'ebraico nelle sue varie fasi affianca i Jewish Languages e le lingue non specificamente giudaiche adottate nei secoli dagli ebrei della Diaspora.
Il libro di Ester nella tradizione ebraica riveste un ruolo estremamente importante. Esso insegna come, con l'aiuto di Dio, è possibile che un evento disastroso, come il piano architettato dal perfido ministro Haman per distruggere il popolo ebraico, si ribalti in un evento gioioso e riservi un lieto fine. Per questa ragione, nella storia ebraica, troppo spesso segnata da persecuzioni ed emarginazione, le vicende narrate in questo libro biblico divennero un fondamentale modello di pensiero e comportamento, per dare speranza e conforto al popolo. La memoria di questi eventi si rinnova ogni anno nella festa di Purim, il cui evento centrale è la lettura della Megillat-Ester ("il Libro di Ester"). Nella Provenza della prima metà del Trecento, il tema di Ester comincia a ricevere un'attenzione particolare. In quest'epoca e luogo sono composti testi in ebraico, come trattati esegetici, poesie religiose, parodie, ed anche parafrasi in giudeo-provenzale del libro biblico. Queste parafrasi, in versi e in rima, sono rielaborazioni letterarie pensate per essere recitate durante la festa di Purim. In questo contributo, sono analizzate le varie possibili rese in giudeo-provenzale dei versetti 1-6 del primo capitolo del Libro di Ester. Questi primi versetti, che descrivono la città di Susa e i banchetti che il re approntò nel giardino del suo palazzo, sono stati ampiamente commentati e diversamente interpretati, per via della loro difficoltà, dovuta alla sinteticità dell'originale e all'abbondanza di termini rari e oscuri. Attraverso una indagine comparata sulle scelte traduttorie e sulle fonti, risulta chiaro come queste parafrasi, per quanto create per un intento letterario e performativo, riflettano al contempo le posizioni degli autori in materia di esegesi del testo biblico. Infine, è presentata anche la traduzione provenzale "cristiana" di Est. 1:1-6, conservata nel ms. Paris, BNF, 2426 (XV sec.). La comparazione tra versioni provenienti da ambienti tanto diversi permette di cogliere come la traduzione sia un processo condizionato dal contesto del traduttore, dal messaggio che egli vuole veicolare, dalla tradizione in cui si riconosce. Tuttavia, a ispirare tanti testi su Ester (cristiani ed ebrei) nella Provenza tra Trecento e Quattrocento, potrebbe essere stata anche una identificazione tra re Assuero e il suo lussuoso palazzo nella capitale Susa e la corte pontificia di Avignone.
Il ms. Roth 32 della Brotherton Library di Leeds, redatto in Provenza alla fine del 1400, è l'unico testimone noto di un siddur (libro ebraico di preghiere) in giudeo-provenzale. Esso costituisce un'importante fonte di informazioni sia sul rito degli ebrei di Provenza nel XV secolo, sia sulla lingua giudeo-provenzale. In questo articolo presento l'edizione di alcuni canti e preghiere conservati nel ms. Roth 32, finora inediti e, sulla base del materiale linguistico offerto, formulo alcune considerazioni di carattere linguistico e stilistico su questa specifica varietà di provenzale. In particolare, analizzo il metodo di traduzione dall'ebraico al giudeo-provenzale, chiarendo il significato di termini rari o non attestati nel provenzale "cristiano" coevo: talvolta si tratterà di neologismi, talvolta di prestiti (persino dal giudeo-arabo), talvolta di termini attestati finora solo nel provenzale moderno; inoltre, considero il rapporto tra il giudeo-provenzale "scolastico" riflesso nel siddur e qualche spia della lingua parlata dagli ebrei dell'epoca, per mettere in evidenza la complessità diafasica di questo idioma. Infine, opero un confronto tra le traduzioni giudeo-provenzale e giudeo-italiana dello shema' Israel per trarre qualche considerazione sull'annosa questione che riguarda la comune tradizione delle traduzioni giudeo-romanze e la loro eventuale origine giudeo-latina.
Ad oggi sono noti alla comunità scientifica cinque epitalami giudeo-catalani, conservati in due manoscritti (Gerusalemme, Biblioteca Nazionale Universitaria, ms. 8° 3312 e Oxford, Bodleian Library, ms. Lyell 98) risalenti a metà XV secolo e provenienti da ambiente provenzale. Tra questi, una particolare attenzione spetta a piyyu? na'eh, un 'canto festivo' pensato per i festeggiamenti che seguono il rito nuziale. Questo canto è una parodia, dai toni umoristici e dalle forti allusioni erotiche, che si presenta in forma di dialogo tra i due sposi, un vecchio e una ragazza. Il primo non vuole consumare l'amore, data l'età, ma, per l'insistenza della moglie, le propone infine di farsi sostituire da un baldo giovanotto. L'interesse di questo testo riguarda innanzitutto il linguaggio, e in secondo luogo la sua forma letteraria. Per quanto riguarda il linguaggio, esso è scritto in un giudeo-catalano in cui la componente ebraica è sottilmente intrecciata a quella romanza. Gli ebraismi sono funzionali a suscitare il riso del pubblico, perché calati in un contesto triviale in cui la loro sacralità originaria crea un forte e comico contrasto. Alcuni dei termini ebraici hanno mutato il loro significato, assumendone uno connotato, secondo un fenomeno di slittamento semantico tipico dei Jewish Languages. Per questa ragione, piyyu? na'eh è anche un prezioso testimone linguistico di una fase poco attestata, perché alquanto antica, del giudeo-catalano parlato. A livello letterario, piyyu? na'eh è un testo assai ricercato, i cui toni 'popolareggianti' sono ottenuti attraverso un sapiente uso del linguaggio 'colloquiale', della metrica, della caratterizzazione stereotipica dei personaggi. In questo saggio, presento innanzitutto l'analisi semantica della componente ebraica, approfondendo le varie categorie linguistiche e/o stilistiche in cui possono essere fatti rientrare gli ebraismi del testo, per mostrare come questa dinamica riproduca ed esasperi per intenti comici la prassi linguistica quotidiana degli ebrei catalani dell'epoca e costituisca, dunque, sia un fatto stilistico, sia una preziosa testimonianza storico-linguistica. In secondo luogo, mostro come piyyu? na'eh sia stato composto da un autore dotto che disponeva di fonti letterarie ebraiche e romanze e propongo una contestualizzazione di questo tipo di testo nell'ambito del genere letterario romanzo della pastorella e della canzone di donna, in cui la figura femminile costituisce l'occasione della scenetta umoristica e la giustificazione del ricorso a un codice mistilingue.