Roma e il mondo adriatico, 2,1, Adriatico centrosettentrionale e orientale
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Oggetto del presente lavoro è la politica di pianificazione economica formulata dal Partito socialista italiano tra il 1944 e il 1962. Di tale politica vengono esaminati alcuni aspetti, ritenuti di particolare significato. Il lavoro si suddivide in tre parti. La prima analizza la politica economica del PSIUP/PSI nella fase della ricostruzione (1944-48), quando il piano rappresenta dapprima – nel contesto dei governi di solidarietà nazionale – l'alternativa tecnica all'impostazione conferita al processo di ricostruzione dalle forze liberiste, per assumere poi – dopo l'estromissione delle sinistre dall'esecutivo e fino al termine del 1947 – la valenza politica di alternativa di sistema. I momenti in cui si articola questa prima fase, dominata dalla figura di Rodolfo Morandi, sono: le proposte di politica economica elaborate dal PSIUP nell'ultimo periodo della guerra; il Comitato centrale dell'ottobre 1945 ed il susseguente dibattito sui Consigli di gestione; il Congresso di Firenze dell'aprile 1946; la nascita del secondo governo De Gasperi e la definizione del suo programma economico tra il giugno ed il luglio 1946; la svolta deflazionistica einaudiana dell'estate 1947; la Conferenza economica socialista del novembre 1947. Con l'istituzione del Fronte democratico popolare, il tema della pianificazione viene progressivamente abbandonato dal PSI, che si allinea alle posizioni del PCI. La seconda parte della ricerca si apre con una disamina del percorso intellettuale, dalle originarie posizioni liberiste all'approdo planista, di Riccardo Lombardi, principale ispiratore della strategia economica del PSI a partire dagli anni Cinquanta; questa sorta di "intermezzo", che interrompe la continuità cronologica della narrazione, è stato inserito per rintracciare, nella personale vicenda del suo uomo-simbolo, le radici profonde del planismo socialista post-morandiano. Viene quindi analizzato l'atteggiamento del PSI nei confronti di due iniziative di diversa provenienza ma convergenti nell'ampliare la portata dell'intervento pubblico in campo economico e nell'introdurre elementi più o meno accentuati di pianificazione, sia pur nel rispetto dell'economia di mercato. La prima è costituita dal Piano del lavoro della CGIL, lanciato nel 1949 e presentato, almeno fino al 1952, come alternativa alla politica economica del governo (la cosiddetta linea «stagnazionista» legata al nome del ministro del Bilancio Pella). Le vicende del Piano del lavoro, alla cui elaborazione e popolarizzazione i socialisti offrono un importante contributo, si intrecciano, a partire dal giugno del 1950, con le ripercussioni del conflitto coreano, le quali investono anche il dibattito sulla politica economica e sulla pianificazione. La seconda iniziativa è costituita dallo Schema Vanoni, la cui presentazione ufficiale, nel dicembre 1954, conferisce nuovo slancio al dibattito sulla pianificazione, coinvolgendo in esso anche settori della maggioranza governativa. La terza ed ultima parte della ricerca copre il periodo 1956-1962, gli anni cioè del «miracolo economico» e, a livello politico, della fine dell'esperienza frontista e della gestazione del centro-sinistra. Viene in questa sede rievocato il confronto interno al PSI sul tema del piano economico e delle «riforme di struttura», che vede contrapposte le diverse componenti del partito; l'attenzione si concentra necessariamente sulla corrente autonomista, che individua nel piano e nelle connesse riforme gli strumenti capaci di garantire la transizione al socialismo in un paese capitalistico dell'Occidente (secondo la strategia del «riformismo rivoluzionario»). Si passa quindi ad esaminare la genesi e l'attuazione del provvedimento qualificante di questa stagione, ossia la nazionalizzazione dell'industria elettrica – archetipo di riforma di struttura anticapitalistica e indispensabile premessa della pianificazione nell'ottica della corrente autonomista –, dalle prime compiute proposte socialiste del 1944 al complesso dibattito degli anni Cinquanta fino alla contrastata adozione del provvedimento, su impulso del governo di centro-sinistra, tra il settembre ed il novembre 1962.
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La tesi di dottorato verte sul governo ecclesiastico di Roma dal 1914 al 1931. I papi che si susseguono in questo arco storico sono due, Benedetto XV e Pio XI, il primo per l'intero periodo del suo pontificato, dal '14 al '22, il secondo soltanto per la prima parte, quella che si conclude sostanzialmente con la svolta contraddistinta da alcuni eventi vicini e collegati tra loro: la firma dei Patti Lateranensi (febbraio 1929), il passaggio di consegne alla Segreteria di stato vaticana tra il card. Gasparri e il card. Pacelli (febbraio 1930), la nomina del card. Marchetti a presidente dell'Opera per la preservazione della fede e per la provvista di nuove chiese in Roma (agosto 1930) e infine la morte, prossima alla nota crisi nei rapporti tra Chiesa cattolica e regime fascista, del card. vicario Basilio Pompilj (maggio 1931). L'arco temporale della ricerca copre in effetti l'intero svolgimento della funzione di vicario del papa per il governo della diocesi di Roma da parte della stessa persona, il suddetto card. Pompilj, All'inizio del periodo il Vicariato vive una certa crisi di rapporti con la cittadinanza e l'autorità pubblica, incline a non dare spazio a manifestazioni pubbliche della fede. Al termine dello stesso periodo, invece, la comunità cristiana sembra poter contare sulla quasi totalità dei romani, esprimendosi secondo modalità estremamente visibili e coinvolgenti l'intera città. Il momento di svolta viene individuato nel triennio successivo alla guerra, dal '19 al '21. Durante la guerra infatti l'azione dell'autorità ecclesiastica non riesce a discostarsi dall'assistenza alla popolazione colpita. Immediatamente dopo gli eventi bellici, invece, viene attuato uno slancio di attività fondato sulla collegialità sacerdotale e sul coinvolgimento di tutte le associazioni cattoliche che prende avvio da un piano consapevole di cui sono responsabili principali sia Benedetto XV sia il gruppo dirigente del Vicariato in evidente ed efficace sinergia. Si svolgono tre congressi eucaristici e due congressi catechistici, viene fondata una rivista diocesana ed un'opera specifica per le vocazioni. Il processo di avvicinamento tra chiesa e città conosce un momento di peculiare rilevanza con la processione del 28 maggio 1922, conclusiva del XXVI congresso eucaristico internazionale, il primo del dopoguerra. La conquista degli spazi cittadini del centro storico continua e si sviluppa sempre più nel corso del pontificato di Pio XI. Tutta la città sembra cattolica e lo manifesta, favorita anche dal nuovo clima di relazioni tra Santa Sede e autorità politica italiana. Ciononostante la città cresce tanto impetuosamente da non consentire alla diocesi, povera di risorse, di raggiungerla nei suoi nuovi quartieri. La firma dei Patti, tuttavia, provoca uno sbandamento nel gruppo dirigente del Vicariato. Il card. Pompilj manifesta apertamente la sua contrarietà alle modalità della trattativa ed alla fiducia riposta nelle autorità politiche italiane. Pio XI è costretto a cercare nuove strategie e nuove energie per l'evangelizzazione della periferia cittadina, ormai cresciuta a dismisura e in disordine. La malattia e la morte dell'anziano vicario si accompagnano con l'emersione di tali novità, impersonate dal card. Marchetti Selvaggiani, destinato ad interpretare il governo diocesano con maggiori risorse e secondo modalità più vicine alla personalità attiva del pontefice.
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Politica ed economia, ora più che mai, influenzano e condizionano l'urbanistica, materia già di per se interconnessa con la sociologia. Alla luce delle evoluzioni della materia amministrativa ed urbanistica in relazione alla pianificazione territoriale, all'abusivismo edilizio ed al condono, andremo ad analizzare gli aspetti più salienti di queste complesse materie, attraverso un iter che si focalizzerà in primis sulle normative relative alla pianificazione del territorio, per poi soffermarsi sulla problematica dell'abusivismo edilizio e della lottizzazione abusiva, facendo cenno, di seguito, ai rischi idrogeologici e sismici interconnessi . Per terminare esaustivamente questo percorso analitico, vedremo quello che è stato ed è lo strumento giuridico utilizzato per tentare di combattere il fenomeno dell'abusivismo: il condono edilizio; il quale, a ben vedere, non ha rappresentato una reale soluzione del problema.
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L'archeologia ha sviluppato metodi, strumenti, tecnologie in grado di cogliere le sfide che la società contemporanea pone in materia di pianificazione del tessuto urbano e territoriale, puntando alla salvaguardia del Patrimonio culturale a partire dal concetto di sviluppo locale sostenibile e in direzione di una possibile nuova stagione di dialogo tra esperti, appaltatori, enti amministrativi e abitanti. Tuttavia, non mancano le difficoltà di attuazione, sia a causa di una legislazione in parte carente che per l'ancora complicato rapporto con i pianificatori, che vedono spesso il patrimonio culturale più come un ostacolo che come una risorsa. Il presente contributo vuole proporre degli spunti di riflessione sull'impatto che un'archeologia "globale" dei paesaggi può avere nella crescita ecosostenibile e nelle politiche di tutela e valorizzazione di quello che si configura sempre di più come Eredità culturale collettiva. Tale approccio viene illustrato attraverso la presentazione della cartografia tematica archeologica redatta per il Piano Urbanistico Comunale (PUC) di Carinola (CE), contesto storicamente complesso e con notevoli criticità ambientali.
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La ricerca si propone di definire le linee guida per la stesura di un Piano che si occupi di qualità della vita e di benessere. Il richiamo alla qualità e al benessere è positivamente innovativo, in quanto impone agli organi decisionali di sintonizzarsi con la soggettività attiva dei cittadini e, contemporaneamente, rende evidente la necessità di un approccio più ampio e trasversale al tema della città e di una più stretta relazione dei tecnici/esperti con i responsabili degli organismi politicoamministrativi. La ricerca vuole indagare i limiti dell'urbanistica moderna di fronte alla complessità di bisogni e di nuove necessità espresse dalle popolazioni urbane contemporanee. La domanda dei servizi è notevolmente cambiata rispetto a quella degli anni Sessanta, oltre che sul piano quantitativo anche e soprattutto sul piano qualitativo, a causa degli intervenuti cambiamenti sociali che hanno trasformato la città moderna non solo dal punto di vista strutturale ma anche dal punto di vista culturale: l'intermittenza della cittadinanza, per cui le città sono sempre più vissute e godute da cittadini del mondo (turisti e/o visitatori, temporaneamente presenti) e da cittadini diffusi (suburbani, provinciali, metropolitani); la radicale trasformazione della struttura familiare, per cui la famiglia-tipo costituita da una coppia con figli, solido riferimento per l'economia e la politica, è oggi minoritaria; l'irregolarità e flessibilità dei calendari, delle agende e dei ritmi di vita della popolazione attiva; la mobilità sociale, per cui gli individui hanno traiettorie di vita e pratiche quotidiane meno determinate dalle loro origini sociali di quanto avveniva nel passato; l'elevazione del livello di istruzione e quindi l'incremento della domanda di cultura; la crescita della popolazione anziana e la forte individualizzazione sociale hanno generato una domanda di città espressa dalla gente estremamente variegata ed eterogenea, frammentata e volatile, e per alcuni aspetti assolutamente nuova. Accanto a vecchie e consolidate richieste – la città efficiente, funzionale, produttiva, accessibile a tutti – sorgono nuove domande, ideali e bisogni che hanno come oggetto la bellezza, la varietà, la fruibilità, la sicurezza, la capacità di stupire e divertire, la sostenibilità, la ricerca di nuove identità, domande che esprimono il desiderio di vivere e di godere la città, di stare bene in città, domande che non possono essere più soddisfatte attraverso un'idea di welfare semplicemente basata sull'istruzione, la sanità, il sistema pensionistico e l'assistenza sociale. La città moderna ovvero l'idea moderna della città, organizzata solo sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, uguaglianza e buon governo, è stata consegnata alla storia passata trasformandosi ora in qualcosa di assai diverso che facciamo fatica a rappresentare, a descrivere, a raccontare. La città contemporanea può essere rappresentata in molteplici modi, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale: nella letteratura recente è evidente la difficoltà di definire e di racchiudere entro limiti certi l'oggetto "città" e la mancanza di un convincimento forte nell'interpretazione delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito la società e il mondo nel secolo scorso. La città contemporanea, al di là degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici, delle infrastrutture, della tecnologia, del funzionalismo e dei mercati globali, è anche luogo delle relazioni umane, rappresentazione dei rapporti tra gli individui e dello spazio urbano in cui queste relazioni si muovono. La città è sia concentrazione fisica di persone e di edifici, ma anche varietà di usi e di gruppi, densità di rapporti sociali; è il luogo in cui avvengono i processi di coesione o di esclusione sociale, luogo delle norme culturali che regolano i comportamenti, dell'identità che si esprime materialmente e simbolicamente nello spazio pubblico della vita cittadina. Per studiare la città contemporanea è necessario utilizzare un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline, come la sociologia e le scienze umane, che pure contribuiscono a costruire l'immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell'ambiente. La rappresentazione del sociale urbano varia in base all'idea di cosa è, in un dato momento storico e in un dato contesto, una situazione di benessere delle persone. L'urbanistica moderna mirava al massimo benessere del singolo e della collettività e a modellarsi sulle "effettive necessità delle persone": nei vecchi manuali di urbanistica compare come appendice al piano regolatore il "Piano dei servizi", che comprende i servizi distribuiti sul territorio circostante, una sorta di "piano regolatore sociale", per evitare quartieri separati per fasce di popolazione o per classi. Nella città contemporanea la globalizzazione, le nuove forme di marginalizzazione e di esclusione, l'avvento della cosiddetta "new economy", la ridefinizione della base produttiva e del mercato del lavoro urbani sono espressione di una complessità sociale che può essere definita sulla base delle transazioni e gli scambi simbolici piuttosto che sui processi di industrializzazione e di modernizzazione verso cui era orientata la città storica, definita moderna. Tutto ciò costituisce quel complesso di questioni che attualmente viene definito "nuovo welfare", in contrapposizione a quello essenzialmente basato sull'istruzione, sulla sanità, sul sistema pensionistico e sull'assistenza sociale. La ricerca ha quindi analizzato gli strumenti tradizionali della pianificazione e programmazione territoriale, nella loro dimensione operativa e istituzionale: la destinazione principale di tali strumenti consiste nella classificazione e nella sistemazione dei servizi e dei contenitori urbanistici. E' chiaro, tuttavia, che per poter rispondere alla molteplice complessità di domande, bisogni e desideri espressi dalla società contemporanea le dotazioni effettive per "fare città" devono necessariamente superare i concetti di "standard" e di "zonizzazione", che risultano essere troppo rigidi e quindi incapaci di adattarsi all'evoluzione di una domanda crescente di qualità e di servizi e allo stesso tempo inadeguati nella gestione del rapporto tra lo spazio domestico e lo spazio collettivo. In questo senso è rilevante il rapporto tra le tipologie abitative e la morfologia urbana e quindi anche l'ambiente intorno alla casa, che stabilisce il rapporto "dalla casa alla città", perché è in questa dualità che si definisce il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici e si contestualizzano i temi della strada, dei negozi, dei luoghi di incontro, degli accessi. Dopo la convergenza dalla scala urbana alla scala edilizia si passa quindi dalla scala edilizia a quella urbana, dal momento che il criterio del benessere attraversa le diverse scale dello spazio abitabile. Non solo, nei sistemi territoriali in cui si è raggiunto un benessere diffuso ed un alto livello di sviluppo economico è emersa la consapevolezza che il concetto stesso di benessere sia non più legato esclusivamente alla capacità di reddito collettiva e/o individuale: oggi la qualità della vita si misura in termini di qualità ambientale e sociale. Ecco dunque la necessità di uno strumento di conoscenza della città contemporanea, da allegare al Piano, in cui vengano definiti i criteri da osservare nella progettazione dello spazio urbano al fine di determinare la qualità e il benessere dell'ambiente costruito, inteso come benessere generalizzato, nel suo significato di "qualità dello star bene". E' evidente che per raggiungere tale livello di qualità e benessere è necessario provvedere al soddisfacimento da una parte degli aspetti macroscopici del funzionamento sociale e del tenore di vita attraverso gli indicatori di reddito, occupazione, povertà, criminalità, abitazione, istruzione, etc.; dall'altra dei bisogni primari, elementari e di base, e di quelli secondari, culturali e quindi mutevoli, trapassando dal welfare state allo star bene o well being personale, alla wellness in senso olistico, tutte espressioni di un desiderio di bellezza mentale e fisica e di un nuovo rapporto del corpo con l'ambiente, quindi manifestazione concreta di un'esigenza di ben-essere individuale e collettivo. Ed è questa esigenza, nuova e difficile, che crea la diffusa sensazione dell'inizio di una nuova stagione urbana, molto più di quanto facciano pensare le stesse modifiche fisiche della città. ; The research aims to define guidelines for the preparation of a plan that deals with quality of life and well-being. The reference to the quality and well-being is positively innovative, because imposes to organs of the government to relate with the subjectivity of active citizens and, at the same time, makes clear the need for a broader and transversal approach to the city and a more close relationship of technicians/experts with the leaders of political and administrative bodies. The research investigates the limits of modern town-planning theory in front of the complexity of new needs expressed by contemporary urban populations. The demand for services has changed significantly compared to that one of the Sixties, not only on the quantity but also and especially in terms of quality, because of the social changes that have transformed the modern city, from the point of view of the structure and the cultural request: the intermittent citizenship, so cities are increasingly experienced and enjoyed by citizens of the world (tourists and/or visitors, temporarily present) and popular citizens (suburban, provincial, metropolitan); radical transformation of the family structure, so the family-type consisting of a couple with children, solid benchmark for the economy and politics, is now minority; the irregularity and flexibility of calendars, diaries and rhythms of life of the population active, and social mobility, so individuals have trajectories of life and daily practices less determined by their social origins of what happened in the past; the elevation of the level of education and thus the increase in demand for culture; the growth of elderly population and the strong social individualism have generated a demand for the city expressed by the people extremely varied and diverse, fragmented and volatile, and in some aspects quite new. Close to old and consolidated requests - the city efficient, functional, productive, accessible to all - there are new questions, ideals and needs such as beauty, variety, usability, security, the ability to amaze and entertain, sustainability, the search for new identities, questions that express a desire to live and enjoy the city, to fell good into the city, questions that can no longer be satisfied through a welfare simply based on education, health, pension system and social security. The modern city or the modern idea of the city, based only on the concepts of order, regularity, cleaning, equality and good governance was handed over to the past history turning into something very different hard to represent, describe, tell. The contemporary city can be represented in many different ways, both on town-planning way and social way: in the recent literature there is the obvious difficulty of defining and enclose within certain limits the subject "city" and the lack of a strong belief in the interpretation of political, economic and social transformations that have invested society and the world in the last century. The contemporary city, beyond the administrative areas, territorial expansion and urban structures, infrastructure, technology, functionalism and global markets, is also a place of human relations, representation of the relationship between individuals and urban spaces where these relationship move. The city is both physical concentration of people and buildings, but also variety of uses and groups, it's the place of dense social relations where processes of cohesion or social exclusion occur, a place of cultural norms that govern behaviour and identity, expressed physically and symbolically through public spaces of city life. It's necessary a new approach to study the contemporary city, made up of cross-contamination and knowledge provided by other disciplines such as sociology and human sciences, which help to build the image commonly known of the city and the territory, landscape and environment. The representation of the urban social life varies according to what it is considered, in a specific historic moment and in a given context, a situation of well-being. The modern town-planning aimed at maximum level of well-being for individuals and communities, modelling on "real needs of people": in the old urban systems manuals appears a "Plan of services" as an appendix to the master plan, which includes services distributed on the surrounding areas, a sort of "social master plan" to avoid neighborhoods separated by segments of population or classes. In the contemporary city globalization, new forms of marginalization and exclusion, the advent of the so-called "new economy", the re-definition of the production base and the labour market are urban expression of a social complexity that can be defined trough transactions and symbolic exchanges, rather than trough processes of industrialization and modernization towards which the historic city, adopted modern, was oriented. All of this questions are the expression of that complex of matters which are currently described as "the new welfare", opposed to the one essentially based on education, on health, on the pension system and on social assistances. The research has therefore examined the traditional tools of town-planning and territorial programming in their operational and institutional dimension: the main destination of these instruments is the classification and accommodation of services and urban containers. It's evident, however, that in order to answer to the many questions of complexity, needs and desires expressed by contemporary society the actual allocations to "make city" must necessarily overcome the concepts of "standards" and "zoning" that are too rigid and unable to adapt to a growing demand for quality and services and at the same time inadequate to manage the relationship between collective space and domestic space. In this sense it is important to consider the relationship between housing types and urban morphology and hence the environment around the house, which establishes the relationship "from the house to the city" because it is in this duality that it is possible to define the relationship between private domestic spaces and public spaces and contextualize questions of roads, shops, meeting places, accesses. After the convergence from the wide urban scale construction to the architectural scale, the attention moves from the architectural scale to the scale of urban constructions, since the criterion of well-being goes through the different scales of habitable space. Moreover, in territorial systems with a widespread well-being and a high level of economic development there's an emerging awareness that the very concept of well-being is no longer linked only to the ability of collective and/or individual income: today the quality of life is measured in terms of environmental quality and social inclusion. Thus the need of an instrument of knowledge of the contemporary city to be attached to the Plan, containing criteria to be observed in the design of urban spaces in order to determine the quality and well-being, in the meaning of "quality of feeling good", of urban environment. Obviously, to reach quality and well-being it is necessary to satisfy macroscopic aspects of social functioning and living standards, through the indicators of income, employment, poverty, crime, housing, education, etc., and also first needs, basic and elementary, and secondary, cultural and changing, moving through the welfare state to a general feeling of well-being, to wellness in a holistic sense, all expressions of a desire for mental and physical beauty and a new relationship of the body with the environment, then real expression of a need for an individual and collective wellbeing. And it is this need, new and difficult, which creates the widespread feeling of a starting new urban season, much more than physical changes of the city could represent.
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L'oggetto della tesi di dottorato è costituito, nel quadro delle reciproche relazioni tra assetti territoriali e sviluppo economico, dalla dimensione giuridica del governo del territorio. Il diritto del governo del territorio, infatti, sta attraversando, con un ritmo ed una intensità crescenti, una fase di profonde e non sempre lineari trasformazioni. Questi mutamenti, lungi dal limitarsi ad aspetti specifici e particolari, incidono sui «fondamentali» stessi della «materia», arrivando a mettere in discussione le ricostruzioni teoriche più accreditate e le prassi applicative maggiormente consolidate. A dispetto della rilevanza delle innovazioni, però, la dimensione giuridica del governo del territorio seguita ad essere un campo segnato da una notevole continuità ed ambiguità di fondo, dove le innovazioni stesse procedono di pari passo con le contraddizioni. Un'ambiguità che, fatalmente, si riflette sull'azione delle pubbliche amministrazioni cui sono attribuiti compiti in materia. Queste, infatti, trovandosi spesso tra l'«incudine» (delle innovazioni) ed il «martello» (delle contraddizioni), sono costrette ad operare in un contesto fortemente disomogeneo e disarticolato già sul piano normativo. Da qui deriva, altresì, la difficoltà di restituirne una cifra complessiva che non sia la riproposizione di piatte descrizioni del processo di progressivo, ma costante incremento della «complessità» - normativa, organizzativa e funzionale - del sistema giuridico di disciplina del territorio, a cui corrisponde ciò che appare sempre di più come una forma implicita di «rinuncia» a logiche e moduli d'azione più o meno unitari nella definizione degli assetti territoriali: in questo senso, pertanto, vanno lette le ricorrenti affermazioni relative allo stato di crisi che, anche prescindendo dai difetti congeniti della disciplina per come si è venuta giuridicamente a configurare, caratterizza il sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica. Si spiega così perché, nonostante il profluvio di interventi da parte dei diversi legislatori, specialmente regionali, si sia ancora ben lontani dal fornire una risposta adeguata ai molteplici profili di criticità del sistema giuridico di disciplina del territorio: tra i quali, su tutti, va sicuramente menzionata la sempre più marcata asimmetria tra la configurazione «ontologicamente» territoriale e spaziale degli strumenti cui si tende a riconoscere la funzione di «motore immobile» dei processi di governo del territorio - i piani - e la componente temporale degli stessi in relazione alle vorticose modificazioni del contesto socio-economico di riferimento. Né, a dire il vero, gli «antidoti» alla complessità, via via introdotti in sede regionale, sembrano aver sortito - almeno fino ad ora - gli effetti sperati. L'esito di tutto ciò, però, non può che essere il progressivo venir meno di logiche unitarie e, soprattutto, «sistemiche» nella definizione degli assetti territoriali. Fenomeno, questo, che - paradossalmente - si manifesta con maggiore intensità proprio nel momento in cui, stante il legame sempre più stretto tra sviluppo socio-economico e competitività dei singoli sistemi territoriali, l'ordinamento dovrebbe muovere nella direzione opposta. Date le premesse, si è dunque strutturato il percorso di ricerca e analisi nel modo seguente. In primo luogo, si sono immaginati due capitoli nei quali sono trattati ed affrontati i temi generali dell'indagine e lo sfondo nel quale essa va collocata: le nozioni di governo del territorio e di urbanistica, nonché quella, eminentemente descrittiva, di governo degli assetti territoriali, i loro contenuti e le funzioni maggiormente rilevanti riconducibili a tali ambiti; la tematica della competitività e degli interessi, pubblici, privati e collettivi correlati allo sviluppo economico dei singoli sistemi territoriali; la presunta centralità riconosciuta, in questo quadro, al sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica in una prospettiva promozionale dello sviluppo economico; ma, soprattutto, i riflessi ed i mutamenti indotti al sistema giuridico di disciplina del territorio dall'azione delle dinamiche cosiddette glocal: questo, sia per quanto concerne le modalità organizzative e procedimentali di esercizio delle funzioni da parte dei pubblici poteri, sia per quanto attiene, più in generale, alla composizione stessa degli interessi nella definizione degli assetti territoriali. In secondo luogo, si è reputato necessario sottoporre a vaglio critico il sistema pianificatorio, cercando di evidenziare i fattori strutturali e gli ulteriori elementi che hanno determinato il suo insuccesso come strumento per realizzare le condizioni 'ottimali' per lo sviluppo economico delle collettività che usano il territorio. In terzo luogo, poi, si è rivolto lo sguardo al quadro delle soluzioni individuate dalla normativa e, per certi versi, offerte dalla prassi alla crisi che ha investito il sistema di pianificazione del territorio, soffermandosi, specificatamente e con approccio critico, sull'urbanistica per progetti e sull'urbanistica consensuale nelle loro innumerevoli articolazioni e partizioni. Infine, si è provato a dar conto di quelle che potrebbero essere le linee evolutive dell'ordinamento, anche in un'ottica de jure condendo. Si è tentato, cioè, di rispondere, sulla base dei risultati raggiunti, alla domanda se e a quali condizioni il sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica possa dirsi il modello preferibile per un governo degli assetti territoriali funzionale a realizzare le condizioni ottimali per lo sviluppo economico.
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Il contributo approfondisce un tema di grande attualità a Roma dall'Ottocento: l'inserimento del verde nella città in relazione ai monumenti e alle aree archeologiche. La questione è affrontata in un percorso culturale e legislativo che inizia con l'annessione dello Stato Pontificio all'Impero di Napoleone (1809-10). Dopo l'Unità d'Italia il dibattito s'incentra sul rapporto tra i ruderi e il mondo vegetale all'interno del tessuto storico. Il Piano di Viviani del 1883 già contiene indicazioni per la riconfigurazione delle zone verdi di Roma. Dalla seconda metà del Novecento, con il Piano Regolatore del 1931 e l'elaborazione di strumenti normativi, gli studi e le proposte per l'Area archeologica centrale coinvolgono esponenti della cultura, dell'urbanistica e della politica italiana. Dall'analisi di queste esperienze, il saggio si pone l'obiettivo di evidenziare il legame tra le testimonianze classiche, la progettazione e la tutela dei giardini nel ridisegno del centro di Roma, con riferimento alla Carta italiana di Firenze del 1981. ; The contribution explores a highly topical issue in Rome since the nineteenth century: the inclusion of greenery in the city in relation to monuments and archaeological areas. The issue is addressed in a cultural and legislative process that begins with the annexation of the Papal State to the Napoleon's Empire (1809-10). Since Italy's unifications, the debate focuses on the relation between the ruins and the plants within the historical fabric. Viviani's Plan of 1883 contains indications for the reconfiguration of the green areas of Rome. In the twentieth century, due to the Master Plan of 1931 and the development of regulatory instruments, the major representatives of Italian culture, urban planning and politics were being involved in studies and proposals for the central archaeological area. Starting from the analysis of these experiences, the essay aims to highlight the link between classical evidence, the design and protection of gardens in the redesign of Rome's city center, with reference to the 1981 Carta italiana di Firenze.
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Non è certamente necessario ribadire quanto il tema della Città metropolitana sia prepotentemente all'ordine del giorno nell'agenda politica e come il processo riformatore avviato con l'approvazione della legge Delrio segni un passaggio ormai determinante: dopo quasi 25 anni dall'introduzione dell'aggettivo "metropolitana" (prima riferito all'area, poi alla città) nella legislazione italiana senza che si sia assistito alla effettiva istituzione di tale nuovo livello di governo del territorio, oggi si percorre una strada senza ritorno: o il processo istitutivo va in porto e si completa, realizzando effettivamente quella istanza di cambiamento da più parti richiesta, oppure sarà evidente che la strada delle Città metropolitane, in Italia, non è percorribile.
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Il territorio della penisola italiana, sin dall'età pre-romana, è stato caratterizzato dalla fitta presenza di centri abitati di piccola dimensione. Quest'ultimi, nello scorrere della storia, hanno attraversato anni di prosperità e anni di forti difficoltà. Nei primi anni del secondo dopoguerra, mentre il continente iniziava un periodo di rinascita dalle tremende distruzioni della guerra e gli interessi economici si concentravano principalmente nelle maggiori aree urbane, i Comuni italiani di piccola dimensione si incamminavano lungo una strada di forte declino che, ancora oggi, caratterizza la quasi totalità delle aree marginali del territorio italiano. I primi segnali di ripresa si cominciarono ad avere a partire dagli anni '90 e solo nella parte settentrionale del Paese dove i collegamenti infrastrutturali, da sempre, sono meglio distribuiti e meglio manutenuti su tutto il territorio. Nel frattempo, anche gli equilibri mondiali hanno subito delle profonde trasformazioni. Il processo di globalizzazione e il processo di formazione dell'Unione Europea hanno influito non poco sulle condizioni economiche, fisiche e sociali. Si sono affermate politiche di sviluppo fondate sulla visione regionalistica e sulla crescita policentrica del territorio. Tutto ciò ha coinvolto anche le comunità di piccola dimensione del territorio italiano. Ma cosa si intende per Comune di piccole dimensioni? La definizione della dimensione di un centro abitato non può essere affidata ai soli numeri sulla grandezza del Comune (numero di abitanti, estensione territoriale, densità abitativa), ma è necessario prendere in considerazione anche la presenza o l'assenza di funzioni e servizi all'interno di esso. Per poter avere dei parametri di rifermento e di confronto accettabili è stato necessario classificare, come fanno le principali ricerche, l'ISTAT e le leggi nazionali, come piccoli Comuni tutti quegli enti comunali con una popolazione inferiore ai 5000 abitanti. A oggi i piccoli comuni in Italia sono 5.683, rappresentano il 70,2% delle amministrazioni comunali italiane, vi risiede il 17,1% della popolazione italiana (pari a 10.349.962 abitanti) e i loro territori coprono il 70% della penisola. Allo stesso modo, per comprendere la struttura del territorio italiano, è indispensabile considerare le interdipendenze sociali, economiche e fisiche esistenti tra i piccoli Comuni limitrofi. Questo intensificarsi delle relazioni tra centri abitati ha prodotto un fenomeno di "coalescenza territoriale" che, anno dopo anno, trasforma due unità urbane funzionalmente autonome in unico sistema locale. Questo fenomeno non ha la stessa intensità in tutti i sistemi locali. La sua forza "aggregatrice" può variare in base: al numero di centri abitati coinvolti; alla distanza tra i centri abitati; alla distribuzione delle sedi lavorate principali; alla distanza dei centri urbani minori dall'eventuale area urbana centroide; al grado di autocontenimento del sistema locale; al livello di centralità dell'eventuale Comune centroide e alla diffusione di infrastrutture di collegamento su tutta l'area interessata dal fenomeno. Tutto ciò impone di studiare e di pianificare il territorio con un diverso punto di vista. Si rende necessario avere uno sguardo non più concentrato sul singolo Comune, ma interessato a tutto il territorio del sistema locale che avrà dei confini a "geometria variabile" in base al tipo si funzione o di relazione sulla quale si sta ponendo l'attenzione. La risposta istituzionale a questo processo evolutivo del territorio non è mai stata molto incisiva. Tant'è che uno dei principali limiti alla crescita e alla pianificazione del territorio, in molti casi, risulta essere proprio la mancata "coalescenza istituzionale". Le proposte normative per un'aggregazione istituzionale non sono mai mancate. Fin dal 1934, con il Regio decreto n. 383, i Comuni hanno la possibilità di istituire dei consorzi per la collaborazione sull'esercizio di servizi. Ma il passo più importante dal punto di vista normativo è stato compiuto solo nel 1990 con la riforma dell'ordinamento degli enti locali, legge 142/1990, con la quale sono state normate le forme associative comunali, tra cui troviamo l'Unione dei Comuni. Per quanto riguarda i piccoli Comuni, solo nell'ultimo decennio, per puri motivi finanziari, si è introdotta l'obbligatorietà delle gestione delle funzioni fondamentali che ha avuto un rafforzamento importante nelle manovre economiche varate nel 2010 e nel 2011. Anche la pianificazione urbanistica, fin dall'emanazione, nel 1942, della legge fondamentale prevede la possibilità, anche se in maniera poco chiara, di redigere i piani urbanistici intercomunali. Nonostante negli anni, tramite le leggi regionali sul governo del territorio, si sia cercato di incentivare la pianificazione urbanistica intercomunale, attualmente i casi di piani intercomunali non sono molto diffusi sul territorio nazionale. Un'impronta decisiva per la diffusione della pianificazione intercomunale è stata data con la "nuova forma di piano" proposta dall'Inu nel 1995 e successivamente recepita da molte Regioni nelle proprie leggi regionali. La proposta di riforma del piano consiste nella strutturazione di quest'ultimo in tre componenti fondamentali: la componente strutturale, il regolamento urbanistico edilizio e la componente operativa. Vista questa tripartizione, la componente strutturale del piano urbanistico, a livello comunale e in particolar modo per quanto riguarda i piccoli Comuni limitrofi caratterizzati da forti interdipendenze, si presta ad avere un'applicazione intercomunale capace di avere una visione completa del territorio che si dovrà regolamentare. I piccoli Comuni affinché possano superare i limiti cognitivi e la marginalità in cui - la maggior parte di essi - si trovano, devono imparare e prendere coscienza che è indispensabile "fare rete" con le piccole municipalità limitrofe. A questo punto, viste le caratteristiche insediative del territorio italiano fortemente caratterizzato dalla fitta presenza di piccoli centri abitati, visti i processi di "coalescenza territoriale" e la conseguente necessità di approcciarsi al territorio su base di sistemi locali intercomunali, vista la possibilità per gli enti comunali di associarsi per la gestione delle funzioni e per l'esercizio dei servizi e, infine, vista la strutturazione riformista del piano urbanistico in tre componenti fondamentali ritengo che, per i piccoli Comuni che si trovano in situazioni di forte dipendenza uno dall'altro, sia necessario pensare alla componente strutturale essenzialmente su base intercomunale, in modo da avere una migliore salvaguardia e un'adeguata strutturazione della rete insediativa, della rete infrastrutturale, della rete ambientale e della rete energetica. Affinché tutto ciò sia possibile e quindi avere una corretta redazione, un'efficace attuazione e una buona gestione, è preferibile che il tutto sia supervisionato o redatto da un ufficio di piano unico per tutti Comuni interessati. Tale ufficio, al fine di accrescerne i poteri decisori, andrebbe inserito in un ente intercomunale dotato di organi decisori che possano dettare delle direttive di funzionamento immediate ed eseguibili. L'ente sovra locale maggiormente rispondente a tali esigenze è senz'altro l'Unione dei Comuni. Quanto infine alla componente operativa del piano urbanistico, è opportuno precisare che essa si applica negli ambiti di trasformazione delimitati nella componente strutturale e in base a essi si potrà stabilire anche se debba riguardare un solo Comune o più Comuni. Alla base dell'attuazione del piano pongo la tecnica della perequazione urbanistica che, proprio grazie alla dimensione intercomunale, potrebbe trovare la forza per essere applicata e garantire la realizzazione delle attrezzature pubbliche di cui necessitano gli abitanti e le opere di compensazione ambientale di cui necessita il territorio fortemente caratterizzato dal dissesto idrogeologico. Il procedimento proposto potrebbe risultare utile a superare lo stallo istituzionale in cui versano i piccoli Comuni e tutti gli enti pubblici in genere nonché fornire quella spinta necessaria affinché i piccoli enti municipali si risollevino dalla tremenda crisi in cui sono caduti.
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2008/2009 ; L'ecologia è una disciplina storica: i processi ecologici in corso sono il risultato di quello che è accaduto nel passato. Non conosciamo però quando e con che intensità l'uomo ha iniziato ad alterare l'ambiente marino, e non conosciamo lo stato "naturale" degli ecosistemi. L'ecologia storica ha come obiettivo lo studio degli ecosistemi e delle sue componenti a posteriori, attraverso il recupero e la meta-analisi di documenti del passato. La ricostruzione dello stato passato (historical baseline) degli ecosistemi è essenziale per la definizione di punti di riferimento (reference points) e direzioni di riferimento (reference directions) per valutare i cambiamenti e per stabilire obiettivi di ripristino. Basare gli studi di biomonitoraggio solo su dati recenti può, infatti, indurre la sindrome del "shifting baseline", ovvero uno spostamento di generazione in generazione del punto di riferimento cui confrontare i cambiamenti, con la conseguenza di sottostimare eventuali processi di degrado in atto. Inoltre, i processi ecologici agiscono su scale temporali diverse (da anni a decenni), e per capirne le dinamiche è quindi necessario considerare un'adeguata finestra temporale. Studiare le dinamiche a lungo termine delle comunità marine permette quindi di monitorare e valutare lo stato e i cambiamenti degli ecosistemi rispetto ad un adeguato riferimento, in cui le comunità marine sono usate come indicatori. La raccolta e lo studio di documentazione storica rappresentano, quindi, un'attività imprescindibile nell'ambito del monitoraggio ambientale. La pesca rappresenta uno dei principali fattori di alterazione negli ecosistemi marini, ed è considerata la principale causa di perdita di biodiversità e del collasso delle popolazioni. I suoi effetti, diretti e indiretti, costituiscono una fonte di disturbo ecologico in grado di modificare l'abbondanza delle specie, gli habitat, la rete trofica e quindi la struttura e il funzionamento degli ecosistemi stessi. Essa rappresenta una fonte "storica" di disturbo, essendo una delle prime attività antropiche di alterazione dell'ambiente marino. Inoltre, la sovra-pesca (overfishing) sembra essere un pre-requisito perché altre forme di alterazione, come l'eutrofizzazione o la diffusione di specie alloctone, si manifestino con effetti più pervicaci. La pesca rappresenta però anche una sorta di campionamento estensivo non standardizzato delle popolazioni marine. Dal momento che dati raccolti ad hoc per il monitoraggio delle risorse alieutiche (fishery-independent) sono disponibili solo dopo la seconda metà del 20° secolo, e in alcuni casi (come in Mediterraneo) solo per le ultime decadi, lo studio delle dinamiche a lungo termine richiede il recupero di informazioni che sostituiscono le osservazioni strumentali moderne e possono essere comunque considerati descrittori dei processi di interesse (proxy). La principale criticità nel ricostruire serie storiche a lungo termine nasce dall'eterogeneità dei dati storici e dalla necessità di elaborare metodologie per l'analisi e l'integrazione dei dati qualitativi o semi-quantitativi del passato con i dati moderni. A seconda del periodo considerato e dell'ampiezza della finestra temporale di studio, quindi, è necessario applicare diverse metodologie d'analisi. La gestione sostenibile dello sfruttamento delle risorse alieutiche è un tema sempre più rilevante nel contesto della pesca mondiale, come conseguenza del progressivo aumento della capacità e dell'efficenza di pesca stimolati dal progresso tecnologico. Ciò ha portato all'impoverimento delle risorse ittiche determinando effetti negativi sia in termini ecologici che socio-economici. Tradizionalmente la gestione della pesca si è basata sulla massimizzazione delle catture di singole specie bersaglio, ignorando gli effetti sugli habitat, sulle interazioni trofiche tra le specie sfruttate e le specie non bersaglio, e su altre componenti dell'ecosistema. Questo ha portato al depauperamento delle risorse e all'alterazione della struttura e funzionamento degli ecosistemi, rendendo le misure gestionali spesso inefficaci. Per questo motivo è necessario applicare una gestione della pesca basata sull'ecosistema (Ecosystem-based fishery management), che ha come obiettivi: prevenire o contenere l'alterazione indotta dalla pesca sull' ecosistema, valutata mediante l'applicazione di indicatori; tenere in considerazione gli effetti indiretti del prelievo sull'insieme delle componenti dell'ecosistema e non solo sulle specie bersaglio (cascading effect); proteggere habitat essenziali per il completamento del ciclo vitale di diverse specie; tutelare importanti componenti dell'ecosistema (keystone species) da pratiche di pesca distruttive; monitorare affinchè le attività antropiche non compromettano le caratteristiche di struttura delle comunità biotiche, per preservare caratteristiche funzionali quali la resilienza e la resistenza dell'ecosistema, prevenendo cambiamenti che potrebbero essere irreversibili (regime-shifts). A tale scopo è necessario essere in possesso di adeguate conoscenze relative alle caratteristiche ecologiche ed allo stato degli stock sfruttati, monitorandone le dinamiche e consentendo l'applicazione di modalità gestionali adeguate. L'approccio ecosistemico alla gestione della pesca prevede l'applicazione di indicatori che siano in grado di descrivere lo stato degli ecosistemi marini, le pressioni antropiche esercitate su di essi e gli effetti di eventuali politiche gestionali sull'ambiente marino e sulla società. Nell'ambito dell'ecologia storica l'Alto Adriatico rappresenta un caso di studio interessante, sia per la disponibilità di fonti storiche, sia perché è un ecosistema che nei secoli ha subito diversi impatti ed alterazioni. La presente tesi di dottorato si inserisce nell'ambito del progetto internazionale History of Marine Animal Populations (HMAP), la componente storica del Census of Marine Life (CoML), uno studio decennale (che si concluderà nel 2010) per valutare e spiegare i cambiamenti della diversità, della distribuzione e dell'abbondanza della vita negli oceani nel passato, nel presente e nel futuro. HMAP è un progetto multidisciplinare che, attraverso una lettura in chiave ecologica delle interazioni storiche tra uomo e ambiente, ha come obiettivo la ricostruzione delle dinamiche a lungo termine degli ecosistemi marini e delle forzanti (sia naturali che antropiche) che li hanno influenzati. Tale ricostruzione permette di migliorare la nostra comprensione dei processi ecologici, di ridefinire i punti di riferimento sullo stato dell'ecosistema (historical baseline), e di valutare la variabilità naturale su ampia scala temporale (historical range of variation). Gli obiettivi del presente progetto di dottorato sono: i) descrivere le attività di pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli, quale principale forzante che ha agito sull'ecosistema; ii) analizzare i cambiamenti a lungo termine della struttura della comunità marina; iii) valutare ed interpretare i cambiamenti intercorsi mediante applicazione di indicatori. Allo scopo è stata condotta un'estensiva ricerca bibliografica nei principali archivi storici e biblioteche di Venezia, Chioggia, Trieste, Roma e Spalato al fine di individuare, catalogare e acquisire informazioni e dati sulle popolazioni marine e le attività di pesca nell'Alto Adriatico nel 19° e 20° secolo. La tipologia delle fonti raccolte include documenti storici e archivistici, cataloghi di specie, fonti statistiche come i dati di sbarcato dei mercati ittici e informazioni sulla consistenza delle flotte e gli attrezzi da pesca utilizzati. Si rileva come la ricerca d'archivio abbia evidenziato un'ampia disponibilità di documenti storici, inerenti sia le popolazioni marine che le attività di pesca. La tesi è organizzata in tre capitoli. Il primo è parzialmente tratto dal libro "T. Fortibuoni, O. Giovanardi, e S. Raicevich, 2009. Un altro mare. Edizioni Associazione Tegnue di Chioggia – onlus, 221 pp." e ricostruisce la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli; il secondo rappresenta una versione estesa del manoscritto "T. Fortibuoni, S. Libralato, S. Raicevich, O. Giovanardi e C. Solidoro. Coding early naturalists' accounts into historical fish community changes" (attualmente sottomesso presso rivista internazionale ISI), e ricostruisce, attraverso l'intercalibrazione ed integrazione di fonti qualitative e quantitative, i cambiamenti della struttura della comunità ittica avvenuti tra il 1800 e il 2000; il terzo capitolo analizza, mediante l'applicazione di indicatori, i cambiamenti qualitativi e quantitativi della produzione alieutica dell'Alto Adriatico dal secondo dopoguerra ad oggi (1945-2008), inferendo informazioni sui cambiamenti cui è stata sottoposta la comunità marina alla luce di diverse forzanti (manoscritto in preparazione). L'obiettivo del primo capitolo è descrivere l'evoluzione della capacità di pesca, principale forzante che storicamente ha interagito con l'ecosistema marino, in Alto Adriatico dal 1800 ad oggi. La diversificazione, sia per varietà di attrezzi utilizzati che per la molteplicità delle specie sfruttate, delle attività di pesca storicamente condotte in Alto Adriatico è un tratto caratteristico di tale area. Le differenze morfologiche e biologiche delle due sponde, occidentale e orientale, e le diverse vicende storiche e politiche, hanno portato infatti ad uno sviluppo delle attività di pesca nettamente diversificato. Sulla sponda orientale la pesca ha rappresentato, almeno fino all'inizio del 20° secolo, un'attività di sussistenza. Era praticata quasi esclusivamente nelle acque costiere, con un'ampia varietà di attrezzi artigianali e mono-specifici, concepiti cioè per lo sfruttamento di poche specie e adattati a particolari ambienti. Al contrario, lungo la costa occidentale operavano flotte ben sviluppate, come quella di Chioggia, che si dedicavano alla pesca in mare su entrambe le sponde adriatiche con attrezzi a strascico, compiendo migrazioni stagionali tra le due sponde per seguire le migrazioni del pesce. La capacità di pesca in Alto Adriatico è aumentata a partire dalla seconda metà del 19° secolo, periodo in cui si è osservato uno sviluppo sia in termini di numero di imbarcazioni che di addetti, grazie ad una congiuntura economica, sociale e storica favorevole. Fino alla I Guerra Mondiale, però, le tecniche di pesca sono rimaste pressoché invariate, e le attività erano condotte con barche a vela o a remi. Già all'inizio del 20° secolo l'Alto Adriatico era sottoposto ad un'intensa attività di pesca che, compatibilmente con le tecnologie disponibili all'epoca, riguardava principalmente le aree costiere, mentre l'attività era più moderata in alto mare. Durante la II Guerra Mondiale si è assistito al fermo quasi totale della pesca, con conseguente disarmo della maggior parte dei pescherecci. Nell'immediato dopoguerra il numero di imbarcazioni è aumentato molto velocemente, e sono state introdotte alcune innovazioni che in breve tempo hanno cambiato radicalmente le attività di pesca tradizionali (industrializzazione della pesca). Innanzitutto l'introduzione del motore, con conseguente espansione delle aree di pesca ed aumento delle giornate in mare, grazie all'indipendenza della navigazione dalle condizioni di vento. Il motore ha anche permesso l'introduzione di nuovi attrezzi da pesca, più efficienti ma al contempo più impattanti, che richiedono un'elevata potenza per essere manovrati (ad esempio il rapido e la draga idraulica). Altre innovazioni hanno determinato un miglioramento delle condizioni dei pescatori e un aumento consistente delle catture. Analizzando la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli si possono quindi distinguere principalmente due periodi diversi: pre-1950, quando aveva notevole importanza su entrambe le coste la pesca strettamente costiera, praticata con attrezzi artigianali e mono-specifici, mentre la pesca a strascico in mare aperto era prerogativa delle flotte italiane (ed in particolare di Chioggia) ed era praticata con barche a vela; il periodo successivo al 1950, che ha visto l'introduzione del motore, un aumento esponenziale del tonnellaggio e del numero di barche e la sostituzione graduale di attrezzi artigianali mono-specifici con attrezzi multi-specifici ad elevato impatto. Se nel primo periodo la pesca si basava sulle conoscenze ecologiche del pescatore, che adattava le proprie tecniche in funzione della stagione, dell'habitat e degli spostamenti delle specie, nel secondo si è visto un maggior investimento nella tecnologia e nell'utilizzo di attrezzi multi-specifici. Negli ultimi vent'anni la capacità di pesca delle principali flotte italiane operanti in Alto Adriatico si è stabilizzata su valori elevati, e in alcune marinerie all'inizio del 21° secolo è iniziata una lieve diminuzione, in linea con i dettami della Politica Comune della Pesca dell'Unione Europea. A tutt'oggi comunque lo sforzo di pesca in questo ecosistema è molto elevato; ad esempio, alcuni fondali possono essere disturbati dalla pesca a strascico con intensità superiori a dieci volte in un anno, determinando un disturbo cronico su habitat e biota. Il secondo capitolo presenta una nuova metodologia per intercalibrare ed integrare informazioni qualitative e quantitative sull'abbondanza delle specie, per ottenere una descrizione semi-quantitativa della comunità ittica su ampia scala temporale. La disponibilità di dati quantitativi sulle popolazioni marine dell'Alto Adriatico prima della seconda metà del 20° secolo è, infatti, scarsa, e la ricostruzione di cambiamenti a lungo termine richiede l'integrazione e l'analisi di dati provenienti da altre tipologie di fonti (proxy), tra cui i cataloghi dei naturalisti e le statistiche di sbarcato dei mercati ittici. Le opere dei naturalisti rappresentano la principale e più completa fonte d'informazione sulle popolazioni ittiche dell'Alto Adriatico nel 19° secolo e almeno fino alla seconda metà del 20° secolo. Consistono in cataloghi di specie in cui ne vengono descritte l'abbondanza (in termini qualitativi: ad esempio raro, comune, molto comune), le aree di distribuzione, la taglia, gli aspetti riproduttivi e altre informazioni ancillari. Sono stati raccolti trentasei cataloghi di specie per il periodo 1818-1956, in cui sono descritte un totale di 255 specie ittiche. I dati di sbarcato costituiscono l'unica fonte quantitativa per un elevato numero di specie disponibile per l'Alto Adriatico a partire dalla fine del 19° secolo. I dati utilizzati nel presente lavoro sono riferiti ai principali mercati e aree di pesca dell'Alto Adriatico e coprono il periodo 1874-2000, e sono espressi come peso umido di specie o gruppi di specie commerciate in un anno (kg/anno). Poiché i naturalisti basavano le proprie valutazioni sull'abbondanza delle specie su osservazioni fatte presso mercati ittici, porti e interviste a pescatori, è stato possibile sviluppare una metodologia per intercalibrare ed integrare le due fonti di dati, permettendo un'analisi di lungo periodo dei cambiamenti della comunità ittica. L'intercalibrazione e l'integrazione dei due datasets ha infatti permesso di descrivere, con una scala semi-quantitativa, l'abbondanza di circa 90 taxa nell'arco di due secoli (1800-2000). Mediante l'applicazione di indicatori basati sulle caratteristiche ecologiche dei taxon è stato così possibile analizzare cambiamenti a lungo termine della comunità ittica. Sono stati evidenziati segnali di cambiamento che precedono l'industrializzazione della pesca, con una diminuzione significativa dell'abbondanza relativa dei predatori apicali (pesci cartilaginei e specie di taglia elevata) e delle specie più vulnerabili (specie che raggiungono la maturità sessuale tardi). Questo lavoro rappresenta uno dei pochi casi in cui è stato studiato il cambiamento della struttura di un'intera comunità ittica su un'ampia scala temporale (due secoli), e presenta una nuova metodologia per l'intercalibrazione ed integrazione di dati qualitativi e quantitativi. In particolare le testimonianze dirette dei naturalisti – considerate per molto tempo dai biologi della pesca "aneddoti" e non "scienza" – si sono rilevate un'ottima fonte per ricostruire cambiamenti a lungo termine delle comunità marine. La metodologia elaborata in questo lavoro può essere estesa ad altri casi-studio in cui è necessario integrare informazioni qualitative e quantitative, permettendo di estrarre nuove informazioni da vecchie – e talvolta sottovalutate – fonti, e riscoprire l'importanza delle testimonianze di naturalisti, viaggiatori e storici. Il terzo capitolo affronta un'analisi quantitativa dei cambiamenti ecologici dell'Alto Adriatico, condotta mediante analisi dello sbarcato del Mercato Ittico di Chioggia tra il 1945 e il 2008 e l'applicazione di indicatori. È stato scelto questo mercato per la disponibilità di dati per un ampio periodo storico (circa 60 anni), che ha permesso di valutare i cambiamenti avvenuti in un arco di tempo in cui si è assistito all'industrializzazione, ad una rapida ascesa e al successivo declino della pesca. Chioggia rappresenta il principale mercato ittico dell'Alto Adriatico rifornito dalla più consistente flotta peschereccia dell'area, che sfrutta sia zone costiere che di mare aperto. Oltre ad un'analisi dell'andamento temporale dello sbarcato totale, sono stati applicati alcuni indicatori trofodinamici (livello trofico medio, Fishing-in-Balance, Relative Price Index e rapporto Pelagici/Demersali) e indicatori basati sulle caratteristiche di life-history delle specie (lunghezza media della comunità ittica e rapporto Elasmobranchi/Teleostei). L'utilizzo complementare di più indicatori, sensibili in misura diversa alle fonti di disturbo ecologico e riferite a diverse proprietà emergenti dell'ecosistema e delle relative caratteristiche strutturali, ha permesso di descrivere i cambiamenti avvenuti dal secondo dopoguerra ad oggi e identificare le potenziali forzanti che hanno agito sull'ecosistema. Ad una rapida espansione della pesca, cui è conseguito un aumento significativo delle catture (che hanno raggiunto il massimo negli anni '80), è seguita una fase di acuta crisi ambientale. L'effetto sinergico di diverse forzanti (pesca, eutrofizzazione, crisi anossiche, fioriture di mucillaggini) ha modificato la struttura e la composizione della comunità biologica, inducendo una graduale semplificazione della rete trofica. Fino agli anni '80 l'aumento della produttività legato all'incremento di apporto di nutrienti ha sostenuto l'elevata e crescente pressione di pesca, malgrado progressivi cambiamenti strutturali della comunità (regime-shifts), rendendo l'Adriatico il più pescoso mare italiano. Successivamente il sistema sembra essere entrato in una situazione di instabilità, manifestatasi con un drastico calo della produzione alieutica, bloom di meduse (soprattutto Pelagia noctiluca), maree rosse (fioriture di dinoflagellati potenzialmente tossici), crisi anossiche e conseguenti mortalità di massa, regressione di alcune specie importanti per la pesca come la vongola (Chamelea gallina), e fioriture sempre più frequenti di mucillaggini. L'analisi conferma che la sovra-pesca ha agito da pre-requisito perché altre forme di alterazione si manifestassero, e attualmente non sono evidenti segnali di recupero, probabilmente a causa sia di una diminuzione della produttività primaria che della pressione cronica e tuttora crescente indotta dalla pesca. L'approccio di ecologia storica utilizzato ha permesso di ricostruire la storia della pesca in Alto Adriatico, evidenziandone le dinamiche di sviluppo, i cambiamenti tecnologici, strutturali e di pressione ambientale. L'insieme delle analisi e delle fonti raccolte ha permesso di ricostruire - in termini semi-quantitativi - le attività di pesca in Alto Adriatico dal 19° secolo a oggi, analizzare i cambiamenti della comunità ittica nell'arco di due secoli, e infine approfondire le analisi per gli ultimi sessanta anni attraverso l'applicazione di indicatori quantitativi. Da questo studio emerge come già all'inizio del 20° secolo la pesca fosse pienamente sviluppata nell'area, causando cambiamenti strutturali nella comunità ittica, ben prima dell'industrializzazione. Dal secondo dopoguerra si è verificato un rapido incremento dell'intensità delle diverse forzanti antropiche, il cui effetto sinergico ha alterato profondamente l'ecosistema portandolo ad uno stato di inabilità, culminato in gravi crisi ambientali e un netto calo della produzione alieutica. ; XXII Ciclo ; 1979
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In una stagione in cui la nozione di urbanistica è "inghiottita" da una parte dall'insostenibilità degli esiti prodotti, e dall'altra dall'introduzione della più complessa nozione di governo del territorio, l'opportunità di interrogarsi sulle più complesse dimensioni cui occorre riferirsi diventa impegno urgente. Sembra delinearsi un ritorno a pratiche più sistematiche, capaci di garantire il perseguimento di obiettivi strategici ideati, attraverso la programmazione di interventi inseriti nel quadro di piani dalla doppia dimensione strutturale-operativa. Ed in questa linea di pensiero acquistano importanza le pratiche conoscitive e valutative che accompagnano l'ideazione stessa degli strumenti di pianificazione. L'attività di ricerca ha approfondito i diversi approcci con cui le regioni italiane hanno affrontato il tema del governo del territorio. Dunque si è inteso approfondire il senso dell'urbanistica contemporanea, effettuando una ricognizione sugli strumenti di cui la disciplina si avvale, per verificarne criticamente la credibilità nei modi e negli esiti. Nello svolgimento si assume l'idea di un "paese di luoghi", ovvero una nazione formata da realtà locali fortemente identitarie, ma caratterizzate da profonde differenze culturali e socio-economiche, con notevoli conseguenze sulla capacità e sugli esiti di governo nei diversi contesti geografici. L'esperienza emiliano-romagnola è stata oggetto di approfondimento nel corso della ricerca, perché costituisce a mio avviso il sistema di pianificazione più efficace e completo nel panorama italiano. In altri casi, fra i quali la Campania, non pare che le annunciate innovazioni trovino la spinta e la volontà politica necessarie a operare realmente il cambiamento. Fra gli strumenti della pianificazione il quadro conoscitivo è stato codificato all'interno di alcune leggi regionali come elemento costitutivo del Piano, cui attribuire ruolo fondamentale nella ricerca della condivisione dei presupposti su cui costruire un quadro di compatibilità delle azioni. In regione Campania questa attività non è disciplinata dalla legge, ma esiste una casistica determinata dallo stile di chi si occupa delle questioni urbanistiche. Un caso particolarmente interessante è il territorio del comune di Capaccio-Paestum: esso è custode di un eccezionale patrimonio storico culturale e paesaggistico, e nondimeno si caratterizza per la presenza di grandi energie imprenditoriali costituenti una sorta di distretto produttivo locale di elevata vivacità e qualità. Si è svolto un approfondimento sperimentale su metodologie di indagine mirate all'ideazione del progetto urbanistico. La ricerca di razionalità nel processo avviato con la Relazione Programmatica per il nuovo piano diventa un presupposto cruciale per costruire argomenti su cui sostenere il dibattito con gli attori in campo.
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Dottorato di ricerca in Scienze e tecnologie per la gestione forestale e ambientale ; Una delle problematiche più attuali e non risolta del governo del territorio è rappresentata dai rapporti fra pianificazione e territorio rurale. Con il passaggio da una pianificazione urbanistica incentrata sui soli aspetti insediativi alla pianificazione ecologica, ha prevalso un'impostazione che ha visto il concetto di ecosistema guadagnare sempre più spazio, mentre sono stati sostanzialmente esclusi gli aspetti storico-culturali. Il governo del territorio rurale è stato lasciato in mano alle politiche agricole che hanno seguito l'orientamento tipico della pianificazione economica con finalità essenzialmente produttive. Con il presente lavoro si è quindi voluto indagare come l'agricoltura e il paesaggio rurale sono considerati negli strumenti di pianificazione ordinaria. In primo luogo è stata valutata la situazione della pianificazione paesaggistica in Italia attraverso l'analisi di alcuni piani paesaggistici regionali. Successivamente lo studio si è concentrato sulla pianificazione in Toscana a livello regionale, provinciale e comunale, confrontando i contenuti dei piani con i risultati di analisi multitemporali realizzate in aree campione. Dall'analisi è emerso che la pianificazione sembra riconoscere l'importanza della conservazione e della valorizzazione dell'ambiente e del paesaggio rurale. Il punto critico sembra essere la poca comprensione del ruolo del territorio agricolo come risultato di attività produttive e la corretta interpretazione di alcune delle sue componenti, come le foreste e i pascoli ai quali sono spesso attribuiti soltanto valori naturalistici, mentre i valori storico-culturali non vengono generalmente riconosciuti. One ; One of the present and unsolved issue of territorial governance is represented by the relationship between planning and rural land. With the transition from urban planning, focused on aspects of settlement, to the ecological planning, has prevailed the concept of ecosystem, while the historical and cultural aspects were largely excluded. The management of rural area has been left to agricultural policies that have followed the typical orientation of economic planning with productive purposes mainly. The aim of this work was to investigate how agriculture and rural landscape are considered in the ordinary planning tools. First of all, it was assessed the situation of landscape planning in Italy through the analysis of some regional landscape plans. Then, the study focused on planning in Tuscany at regional, provincial and municipal levels, comparing the contents of the plans with the results of multi-temporal analysis made in sample areas. The analysis showed that the planning seems to recognize the importance of conserving and enhancing the environment and rural landscape. The critical point seems to be little understanding of the role of agricultural land as result of productive activities and the correct interpretation of some of its components, such as forests and pastures, to which are often attributed only natural values, while historical-cultural values are not generally recognized.
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