L'incidenza di decisioni quadro, direttive e convenzioni europee sul diritto penale italiano
In: Nuove ricerche di scienze penalistiche 18
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La tesi di dottorato affronta le linee evolutive della cooperazione giudiziaria in materia penale onde cogliere un percorso che, dalla nascita del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia penale, porta all'affermazione di un rapporto di cointeressenza tra il menzionato principio e il ravvicinamento delle discipline nazionali relative alle garanzie e ai diritti del soggetto coinvolto, quale imputato o indagato, nel procedimento penale. Nella menzionata tesi, infatti, si evidenzia l'emersione di una crescente attenzione delle istituzioni europee nei confronti dei diritti della persona nel processo penale; un'attenzione che, invero, affonda le sue radici nei limiti dei primi interventi normativi dell'Unione europea nel settore della cooperazione giudiziaria penale. In un primo momento, infatti, all'indomani del noto vertice di Tampere del 1999, l'azione delle istituzioni europee si dirige verso l'attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie: il citato principio, divenuto- proprio in occasione del menzionato Consiglio europeo- il fondamento della cooperazione giudiziaria penale, si basa sulla reciproca fiducia tra gli Stati membri nei rispettivi ordinamenti; l'esistenza di una reciproca fiducia tra i paesi europei avrebbe dovuto permettere la libera circolazione delle decisioni giudiziarie tra gli Stati membri dell'Unione. In realtà l'esperienza della prima, oltreché più nota, applicazione del principio del reciproco riconoscimento dimostra come la menzionata fiducia reciproca tra gli Stati membri non possa essere puramente e semplicemente proclamata, quasi come un dogma: la possibilità che gli ordinamenti nazionali considerino le decisioni giudiziarie degli altri Stati membri come equivalenti alle proprie impone un certo ravvicinamento delle legislazioni nazionali. La vicenda della "decisione quadro del Consiglio sul mandato d'arresto europeo e sulle procedure di consegna tra gli Stati membri" e del relativo recepimento sul piano interno, rappresenta un esempio emblematico di come la reciproca fiducia non possa essere presunta, ma debba essere costruita e di come l'assenza di un armonizzazione delle legislazioni nazionali possa, talvolta, tradursi in un ostacolo al funzionamento del reciproco riconoscimento. Nella tesi di dottorato vengono esaminate, pertanto, le forti resistenze manifestate dal nostro legislatore nei confronti della decisione quadro 2002/584/GAI. La legge 69/2005 e i suoi numerosi esempi di scollamento rispetto ai contenuti della decisione quadro lasciano trasparire chiaramente - nonostante i successivi interventi correttivi operati dalla giurisprudenza di legittimità- il timore, che mediante il riconoscimento delle decisioni giudiziarie le garanzie e i diritti dell'individuo, previsti dal sistema processuale interno, possano essere sacrificati. La vicenda del MAE mette in discussione il funzionamento del principio del reciproco riconoscimento e l'esistenza di una dogmatica fiducia reciproca tra gli Stati membri. Probabilmente, sono proprio le valutazioni a consuntivo di tale esperienza a determinare un mutamento di prospettiva nell'attività delle istituzioni europee. In un contesto istituzionale riformato dal trattato di Lisbona, vedono la luce il Programma di Stoccolma e la tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti processuali di indagati o imputati in procedimenti penali. Tali documenti programmatici sono la chiara manifestazione di una nuova acquisita consapevolezza in capo alle istituzioni eurounitarie: viene chiaramente affermata la necessità di dar vita a un processo di armonizzazione delle legislazioni processuali nazionali, volto a rafforzare quella reciproca fiducia necessaria al funzionamento del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie; una reciproca fiducia che non può presumersi ma che deve essere costruita. Sulla base dei menzionati documenti vengono adottate le prime direttive in materia di diritti processuali. Le direttive, sul diritto all'interpretazione e alla traduzione e sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, oggetto di indagine nella seconda parte della presente tesi di dottorato, contribuiscono a rafforzare, attraverso la predisposizione di norme minime comuni, la fiducia reciproca tra gli Stati membri. Ancorchè connessa al più volte citato rafforzamento del principio del reciproco riconoscimento, l'adozione delle direttive citate rivela anche una rinnovata attenzione dell'Unione nei confronti dei diritti processuali della persona. Le direttive contengono norme minime comuni in materia di diritti e garanzie processuali nel procedimento penale, alle quali deve conformarsi il legislatore nazionale. La seconda parte della tesi di dottorato affronta, pertanto, i contenuti delle due direttive sul diritto all'interpretazione e alla traduzione e sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, nel tentativo di cogliere le possibili ripercussioni delle norme europee sulla disciplina interna.
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La doppia elica del DNA racchiude al suo interno la chiave di accesso per la comprensione di malattie ritenute fino ad oggi incurabili. Le sue componenti rappresentano, infatti, una straordinaria fonte di informazioni rilevante dal punto di vista scientifico e di riflesso anche economico. Eppure, le speranze della scienza e delle medicina personalizzata non sono unicamente riposte nel cosiddetto codice della vita. I progressi della ricerca biomedica, raggiunti negli ultimi anni, sono riconducibili sia agli sviluppi della biologia molecolare, che ha permesso l'analisi massiccia dei dati genetici, sia alla possibilità di disporre di una massa critica di campioni biologici, raccolti, annotati e conservati secondo standard di elevata qualità. Da qui, la necessità di creare strumenti di lavoro e strutture come le biobanche, capaci di collezionare in maniera sistematica, organizzata e professionale materiale biologico di origine umana. Il termine biobanca conosce diverse declinazioni all'interno del panorama scientifico, potendosi esse distinguere a seconda del tipo di materiale che conservano e dello scopo per cui sono state istituite. Di fronte a questo composito scenario, la disciplina giuridica delle biobanche di ricerca appare altrettanto articolata. Manca ancora una definizione condivisa di biobanca e nel silenzio del legislatore prolificano le guidelines ed altri strumenti non vincolanti. Il ruolo dell'interprete, in un simile frangente, è pertanto quello di ricomporre le tessere di questo variegato mosaico, applicando alla disciplina giuridica della biobanca quella regolamentazione, contenuta in altri atti, che può interessarla sotto alcuni profili. Dall'analisi del panorama normativo internazionale, europeo ed italiano emerge forte l'esigenza di creare tassonomie comuni e di predisporre un quadro omogeneo capace di rispondere alle sfide etiche e giuridiche più pressanti sollevate dalle biobanche. Occorre, altresì, guardare con attenzione ai recenti scenari che la regionalizzazione del diritto delle biobanche ...
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La Convenzione di Istanbul apre la strada alla creazione di un quadro giuridico a livello paneuropeo per proteggere le donne da tutte le forme di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica. Il saggio si concentra su un confronto tra la Parte V (Diritto sostanziale) della Convenzione e lo stato dell'arte della legislazione penale italiana, alla luce delle innovazioni introdotte dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119 e da successivi interventi legislativi. Se la Convenzione di Istanbul adotta una strategia di protezione integrata in cui l'intervento repressivo è solo uno dei tasselli (e probabilmente non il più significativo), il legislatore italiano ha accolto solo in parte questa indicazione metodologica: le norme attuative della Convenzione incidono sulla disciplina del sostanziale e il diritto processuale penale, mentre le misure preventive o il sostegno alle vittime sono solo abbozzate. Nella parte finale si valuta l'opportunità politica criminale di introdurre nuove norme incriminatrici per la lotta alla violenza di genere e si esprime un giudizio critico sulla scelta di continuare a seguire la strada dell'inasprimento delle sanzioni, affidando alla pena il compito di governare fenomeni - come quelli qui esaminati - che hanno radici principalmente culturali (o meglio sottoculturali). L'auspicio è evitare i rischi della pan-penalizzazione e affidarsi a un modello integrato di tutela, in cui il momento della repressione (certamente inevitabile) è preceduto e affiancato da quello della prevenzione.
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Sin dal trattato di Maastricht la lotta al terrorismo è divenuto uno dei principali obiettivi della politica dell'Unione Europea. Negli ultimi quindici anni, in particolare a seguito degli attentati dell'11 settembre 2001, la risposta dell'intera comunità internazionale al fenomeno terroristico si è rivelata essere imponente ed efficace anche sul piano della produzione normativa. A seguito dei drammatici attentati verificatisi nell' anno 2015 a Parigi e Bruxelles, il legislatore italiano ha inteso ulteriormente potenziare i sistemi di contrasto al terrorismo internazionale, con particolare riguardo al terrorismo di matrice islamico fondamentalista, tornato tragicamente alla ribalta nel contesto europeo. Il fenomeno che in particolare pare oggi destare maggiore preoccupazione è quello dei cosiddetti "lupi solitari", ovvero di soggetti convertitisi a titolo individuale alla causa fondamentalista e disposti ad immolarsi per il compimento di azioni terroristiche pianificate "in proprio", ovvero prescindendo dall' inserimento in una stabile struttura di tipo associativo. Siamo pertanto dinanzi ad un modus operandi del tutto nuovo, non più basato sulla tradizionale figura del "terrorista membro di una organizzazione criminosa", figura attorno alla quale sono state elaborate le fattispecie incriminatrici presenti nei codici penali europei. Il d.l. 18 febbraio 2015 n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2015 n. 43, ha pertanto introdotto nuove misure volte a fronteggiare l'emersione di questo tipo di fenomeno. Due le strategie che il d.l. pone in essere: la prima, di natura strettamente penalistica, consiste nella previsione di nuove fattispecie incriminatrici o nell' ampliamento del campo di operatività di quelle già esistenti. La seconda strategia posta in essere dal d. l. 7/2015 opera invece sul terreno delle misure di prevenzione personali attraverso l'estensione del campo di applicazione della misura della sorveglianza speciale, nonché attraverso la previsione della possibilità per il questore (e non più solo del Presidente del Tribunale) di disporre, in caso di necessità e urgenza, il ritiro temporaneo del passaporto al fine di impedire in tempo l'espatrio del proposto. A seguito del d.lgs 7/2015 il diritto penale italiano si è pertanto arricchito di fattispecie aventi connotazione fortemente preventiva, caratterizzate dell'arretramento della punibilità ben prima della soglia del tentativo, ovvero a livello di mere attività preparatorie rispetto alla commissione di attività violente per finalità di terrorismo. Ora, non vi è dubbio che le legislazioni antiterrorismo presentino una marcata connotazione emergenziale, ciò nondimeno occorre che esse risultino compatibili con gli standard minimi di tutela dei principi di garanzia penalistici e, in definitiva, dei diritti umani. Sul versante strettamente penalistico ci si interroga dunque sulla tollerabilità di una così massiccia anticipazione della tutela penale, a fronte di fattispecie che incriminano condotte cronologicamente sempre più distanti dalla lesione del bene giuridico che si realizza mediante il reato "fine" terroristico. Per quanto attiene il versante delle misure di prevenzione, i profili problematici si moltiplicano considerata la scarsa effettività delle garanzie difensive di cui il proposto dispone, rispetto a quelle delle quali godrebbe nell' ambito di un procedimento penale.
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Il diritto dell'Unione europea possiede oggi un'influenza sempre più rilevante sul diritto penale degli Stati membri. A partire dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tale influenza coinvolge espressamente anche le scelte di criminalizzazione, potendo l'Unione operare direttamente la decisione circa l'an e in parte anche il quantum di pena. Le istituzioni dell'Unione hanno già iniziato ad adottare direttive in materia penale impiegando quale base giuridica l'art. 83 TFUE, e ci si può ragionevolmente attendere che tale prassi si consolidi e aumenti il numero degli atti adottati, andando così a costituire un corpus normativo di crescente rilevanza per gli ordinamenti nazionali e in ultima analisi per i singoli individui. La tesi ripercorre le più importanti tappe che hanno condotto all'attuale sviluppo della competenza penale europea, soffermandosi principalmente sul quadro istituzionale introdotto dal Trattato di Lisbona (capitolo primo). Successivamente fornisce un sintetico riepilogo degli strumenti istituzionali e normativi di maggiore rilievo nel settore considerato e delle loro più rilevanti caratteristiche (capitolo secondo), passando poi ad effettuare una disamina dei principali atti sino ad oggi adottati, prima nel vigore del terzo pilastro e poi sotto la base giuridica fornita dal Trattato di Lisbona (capitolo terzo). Infine, prova a verificare la presenza, i caratteri e la giustiziabilità dei fondamentali principi della legislazione penale nell'ordinamento dell'Unione europea, alla luce della normazione vigente e della giurisprudenza della Corte di giustizia (capitolo quarto), per poi tentare di affermare la sussistenza di basi fondative per lo sviluppo di una vera e propria politica penale europea. ; European Union law today has an increasingly relevant influence on national criminal law. Since the entry into force of the Treaty of Lisbon, this influence has expressly involved the choices of criminalization as well, as the European Union may directly operate the decision on if and partly how much to punish. The institutions have already begun to adopt directives on criminal matters using art. 83 TFEU as a legal basis, and one can reasonably expect that this practice will consolidate and that the number of measures adopted will increase, thus creating a corpus of legislation which has a growing relevance on the national legal systems and, ultimately, on individuals. The dissertation recalls the most important landmarks that have led to the present development of the European criminal competence, focusing mainly on the institutional framework adopted by the Lisbon Treaty (chapter one). Later, it provides a brief recall of the institutional and legal instruments that have a main role in the relevant subject and of their main characteristics (chapter two). Then, it moves to deal with the main legal acts that have been adopted till now, first in the third pillar framework and then under the legal basis provided by the Lisbon Treaty (chapter three). Eventually, it aims to verify the presence, the characteristics and the possibility to be appealed to on a trial of the fundamental principles of criminal legislation, in the light of the legislation in force and of the case law of the CJEU (chapter four), in order to attempt to maintain the existence of founding basis to the development of an actual European criminal policy.
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La presente ricerca si propone di analizzare la Direttiva 2012/13/UE sul diritto all'informazione nei procedimenti penali ed il suo impatto sul sistema processuale italiano. L'analisi prende le mosse da un primo capitolo dedicato al sistema multilivello delle fonti: sul panorama nazionale e sovranazionale, infatti, la direttiva è solo l'ultima norma, in ordine di tempo, a disciplinare il diritto fondamentale alla conoscenza dell'indagato e dell'imputato. Necessario quindi apprestare una panoramica delle fonti che garantiscono la protezione multilevel dei diritti, e descrivere le loro reciproche interazioni. Imprescindibile, poi, un approfondimento sulla tutela dei diritti nello Spazio di Libertà Sicurezza e Giustizia dell'UE, con un'attenzione particolare all'era post-Lisbona ed al valore aggiunto che le direttive ex art. 82 co. 2 TFUE possono portare sul sistema multilevel. Il secondo ed il terzo capitolo sono dedicati all'analisi normativa della fonte europea. La trattazione si muove lungo le tre visuali prospettiche che la norma europea attribuisce al diritto all'informazione: diritto alla conoscenza dei propri diritti; diritto alla conoscenza dell'accusa; diritto alla conoscenza degli atti di indagine. Le disposizioni europee vengono continuamente integrate con la giurisprudenza della Corte EDU, che inietta di significato le norme della direttiva e fornisce gli standards di tutela laddove non specificati. Vengono messe in rilievo le disposizioni più innovative, che consentono alla direttiva di non essere solo "codificazione" del case law di Strasburgo, ma fonte autonoma e progredita di diritti. Il capitolo finale è infine focalizzato sull'impatto che la direttiva ha prodotto sul sistema processuale interno. La trattazione è suddivisa tra l'analisi delle modifiche apportate dalla normativa di attuazione italiana, d. lgs. 101/2014, e la disamina delle sue lacune: il legislatore ha dato luogo ad un intervento minimalista, omettendo di dare esecuzione proprio alle disposizioni europee più innovative che avrebbero permesso al nostro sistema di essere in linea con i dettami sovranazionali. Particolare attenzione è data al tema delle modifiche all'imputazione e al principio Iura novit curia, sulla scorta dei punti saldi elaborati dalla Corte EDU nel noto caso Drassich. In conclusione, vengono proposti gli scenari futuri che potrebbero conseguire all'efficacia diretta della direttiva e alla penetrazione, per il suo tramite, delle norme CEDU nell'ordinamento giuridico nazionale. ; The present research examines the European Directive on the right to information in criminal proceedings (Directive 2012/13/EU, hereinafter 'the Directive'), assessing the impact that it is likely to have on the Italian legal system. Before analyzing the legislation, the thesis provides an historical overview of the status of human rights safeguards in the EU and a description of its multi-layered system of protection. Starting from the early ECJ case law setting out a 'human rights theory', the research moves on to consider the Charter of Nice and the development of a European Area of Criminal Justice, until the Stockholm Program and the entry into force of the Lisbon Treaty. In addition, it addresses the question as to whether and to what extent the directives 'of new generation' based on art. 82 par. 2 TFEU bring an added value to the aforementioned human rights protection system. Chapters 2 and 3 of the research focus on the analysis of the legislation and on the three meanings that the Directive attaches to the right to information in criminal proceedings, namely, the right to information about rights, the right to information about accusation, and the right to information about case file. The effort is shedding some light on the most innovative prescriptions, while at the same time highlighting how much the EU legislation owes to the ECtHR case law, which is used as a yardstick for the evaluation and interpretation of the Directive. Finally, Chapter 4 addresses the Italian implementing legislation (d. lgs. 101/2014) and the impact of the Directive on our legal system. It finds that the NIM is highly unsatisfactory, as the Italian legislator has failed to comply with the most innovative EU standards. In this regard, the research illustrates the impact of EU prescriptions on the jurisdiction of national judges, in particular, the impact of the 'new' right to information about accusation. It concludes that Italian judges can (in)directly apply ECtHR case law standards due the direct effect of the Directive (which can be regarded as an 'ECtHR case-law codification').
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La presente tesis analiza el problema de la validez de las disposiciones de transposición de las Directivas Europeas en los ordenamientos nacionales desde la perspectiva del principio constitucional de reserva de ley. En el primer capítulo se desarrolla un análisis del estado de la cuestión en las jurisprudencias española e italiana. En el segundo se afronta el estudio de los requisitos impuestos por la jurisprudencia del TJUE en relación con las normas por las que se procede a la incorporación en los ordenamientos internos del contenido de las Directivas; teniendo en cuenta que ha de partirse del principio de autonomía institucional y procedimental de los Estados Miembros y que las Directivas, en tanto carentes por razón de su forma de directa aplicabilidad, no pueden sustituir a la ley nacional, el principio de reserva de ley ha de aplicarse en este tipo de operaciones siempre que así lo exija la Constitución nacional. En el tercer capítulo se estudian los efectos que han producido en los ordenamientos italiano, francés y alemán las cláusulas constitucionales "europeas", alcanzándose la fundamental conclusión de que las mismas no han supuesto quiebra alguna de la disciplina general de producción normativa en lo que se refiere a las operaciones de ejecución interna del Derecho Europeo. En el cuarto y último capítulo, en fin, se analiza el sistema italiano de ejecución de las políticas europeas mediante normas reglamentarias y la posible toma en consideración del mismo para la formulación de propuestas de lege ferenda en relación con el Derecho Español. ; This work aims to analyze the general problem of the applicability of the Gesetzesvorbehalt principle to the transposition in National Law of European Directives. First chapter is dedicated to a general study of the treatment which this question has received before the Spanish and Italian national courts. In the second chapter it is developed a general study about the European jurisprudence related to the legal requirements imposed to the national acts transposing European Directives; as ECJ judgements impose the application of the internal rules regarding the legislative process unless effectivity of European Law can be threatened, and the matter of direct effect of Directives has no consequences relating to the duty of transposition, because this source of law suffers a lack of direct applicability just because of its formal nature, Parliament must always proceed to the transposition when it is required by the National Constitution. In the third chapter we focus on the effects that internal constitutional clauses which proclaim the national participation on the European process have produced in the legal systems that have included them. The main conclussion regarding this question is that they have not had any particular effect on the possibility of not taking into account the constitutional Gesetzesvorbehalt on the transposition of European Directives. Finally, last chapter analyzes the Italian system of execution of European Law through governmental decrees and the possibilities of inserting it into the Spanish legal order. ; Il lavoro svolto dal candidato mira ad analizzare il problema riguardante l'applicabilità delle riserve costituzionali di legge nelle operazioni di recepimento delle direttive europee negli ordinamenti nazionali. Nel primo capitolo si analizzano le risposte fornite dalla giurisprudenza spagnola e da quella italiana, evidenziandosi come, mentre nel primo caso non si può ancora affermare l'esistenza di una risposta univoca, nel secondo la Corte costituzionale italiana è arrivata ad una soluzione che, pur non potendosi ritenere adeguata da un punto di vista tecnico, contribuisce comunque a chiarire il trattamento che le disposizioni costituzionali prese in considerazione devono ricevere. Nel secondo capitolo vengono analizzate le esigenze poste dal diritto europeo alle norme di recepimento delle direttive europee e si giunge alla conclusione che l'effettività e l'equivalenza, come limiti al principio di autonomia istituzionale degli Stati membri non comportano una relativizzazione delle riserve costituzionali di legge. Questa conclusione viene confermata nel terzo capitolo, dove si analizzano gli effetti che le clausole costituzionali di partecipazione al processo di integrazione europea hanno avuto nei sistemi che le hanno introdotte (l'Italia, la Francia e la Germania), e dove si sostiene che tali disposizioni non hanno alterato il rapporto tra il diritto dell'Unione e le norme interne sui processi di produzione normativa, ivi incluse le riserve costituzionali di legge. La tesi si chiude con l'esame del sistema italiano di attuazione delle direttive europee mediante norme regolamentari, con particolare riferimento alla delegificazione prevista dall'art. 35 della legge n. 234 del 2012. In particolare, si è cercato di prendere posizione sull'opportunità dell'inserimento di un sistema di esecuzione del diritto europeo come quello italiano nell'ordinamento spagnolo e si è arrivato alla conclusione che una modifica del genere non sarebbe auspicabile, perché contribuirebbe a porre difficoltà pratiche molto importanti soprattutto dal punto di vista della chiarezza dell'attività normativa nazionale.
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2007/2008 ; E' rintracciabile, nell'attuale sistema processualpenalistico, un paradigma del diritto alla "informazione sull'accusa", quale consacrato nell'art. 111 comma III Cost.? La risposta a simile quesito – cui si propone di giungere la presente ricerca – impone di saggiare gli istituti funzionali, nella fase investigativa, a concretizzare tale diritto alla luce del connotati del "giusto processo", mediante un duplice percorso che, per un verso, esplora la possibilità di reductio ad unum dell'apparato informativo e, per altro verso, ne sonda il grado di effettività. L'opera si articola nelle tre parti di seguito illustrate. La prima sezione è dedicata alla definizione del concetto di "diritto all'informazione sull'accusa" nella teoria delle fonti. Il primo capitolo è dedicato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e al Patto internazionale sui diritti civili e politici che, per primi, hanno configurato una organico modello di fair trial, ove il diritto all'informazione sull'accusa partecipa della duplice natura di precipitato del diritto di difesa e presupposto per l'esercizio, all'interno del processo, delle singole facoltà difensive. A fronte della laconica previsione dell'art. 6 § 3 lett. a CEDU – che, al pari dell'omologa disposizione contenuta nell'art. 14 § 3 lett. a ICCPR si risolve in una mera enunciazione dei caratteri della comunicazione –, si impone la ricostruzione del paradigma informativo attraverso l'analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. La giurisprudenza di Strasburgo affronta la tematica senza atteggiamenti preconcetti e sviluppa un modello di informazione, per un verso, dinamico e duttile, atto a modularsi attraverso le diverse fasi procedimentali, e, per altro verso, conforme ai canoni della tempestività e della efficienza. A tal fine, il concetto stesso di accusation, cui il diritto all'informazione è ancorato, non pare postulare formule o atti sacramentali, ma si traduce nella attività dell'organo inquirente che, nel caso concreto, sia abbia a determinare «ripercussioni importanti» sulla sfera personale della persona sottoposta alle indagini: l'avvio del procedimento, l'iscrizione della notizia di reato, l'esecuzione di una perquisizione o di un sequestro. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione del diritto all'informazione sull'accusa all'interno della nostra Carta costituzionale, muovendo dalla sua "archeologia". Invero, sin dai primi anni '60, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate in ordine alla possibilità di enucleare un modello di fair trial dalle disposizioni contenute nella Costituzione. Lo sforzo euristico degli interpreti si è inizialmente incentrato sull'art. 24 Cost., fino a giungere, nel 1996, all'esplicitazione, ad opera della giurisprudenza costituzionale, di un canone del "giusto processo" quale formula scaturente dal coordinamento dei «principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio». Parallelamente al consolidarsi di una via costituzionale ante litteram al due process of law, si assiste al progressivo manifestarsi dell'influenza delle norme contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti della persona e processo penale. Simile fenomeno – che intreccia la tematica del rango rivestito, nella gerarchia interna delle fonti, dalle disposizioni pattizie – assume particolare rilievo nelle pronunce della Consulta, ove l'art. 6 § 3 CEDU viene evocato, con crescente frequenza, quale parametro "ausiliario" nel giudizio di conformità delle norme subordinate alla Costituzione. L'escalation culmina, nel 1987, con l'inserzione dell'ossequio ai principi enunciati nelle convenzioni internazionali di riferimento tra i criteri direttivi atti guidare, ai sensi dell'art. 76 Cost., il legislatore delegato alla redazione dell'attuale codice di procedura penale. La questione della diretta precettività, nel nostro ordinamento, delle norme pattizie – elette a principio informatore del codice di rito – viene, peraltro, messa in secondo piano dalla introduzione, ad opera della l. cost. n. 2 del 1999, della disciplina del giusto processo nel tessuto costituzionale. In controtendenza rispetto alla concezione "minimalista" postulata dai giudici costituzionali, da ultimo, con la sentenza n. 361 del 1998, il legislatore del 1999 introduce, nell'art. 111 Cost., un concetto "forte" di contraddittorio, che partecipa della duplice natura di canone oggettivo di esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto fulcro del giusto processo, e di garanzia soggettiva operante nell'ambito penale. La centralità del diritto di contraddire consente di attribuire spessore teleologico alla prerogativa, riconosciuta a ogni persona sottoposta a procedimento, di essere informata, nel più breve tempo possibile e in via riservata dell'accusa elevata a suo carico: si attua in tal modo quel "diritto a difendersi conoscendo" che costituisce imprescindibile prodromo per imbastire qualsivoglia tutela processuale delle ragioni dell'imputato. Esaurita la disamina dei principi, la ricerca si impernia sulla ricognizione della fenomenologia informativa nell'attuale sistema codicistico, con riferimento a quegli istituti che sono funzionali a consentire la conoscenza "sul processo" e "nel processo" nella fase investigativa, che, sulla scorta dell'esegesi operata sull'art. 111 comma III Cost., costituisce la naturale sedes materiae del diritto all'informazione sull'accusa. Viene in rilievo l'istituto della informazione di garanzia, funzionale nell'impianto originario del codice di rito, a squarciare la segretezza investigativa con una seppur embrionale parentesi di discovery connessa all'espletamento di un atto cui il difensore abbia diritto ad assistere. Lo strumento informativo in argomento permette di focalizzare l'attenzione sul canone della riservatezza, oggetto di positivo richiamo da parte dell'art. 111 comma III Cost. Dotato di un requisito interno atto, in tesi, a consentire il massimo riserbo – ossia l'invio mediante piego chiuso raccomandato – l'istituto in argomento ha patito, nei primi anni novanta, una sistematica strumentalizzazione che, da presidio di garanzia per la persona sottoposta alle investigazioni quale era stato concepito, l'ha trasformato in veicolo di condanna anticipata. Il conseguente tentativo, operato dal legislatore del 1995, di restituire respiro all'informazione di garanzia ha, invece, finito per comprimere il diritto della persona indagata alla conoscenza della sussistenza di un'investigazione a suo carico attraverso la compressione dell'ambito di operatività dell'art. 369 c.p.p. Contestualmente alla modifica della disciplina dell'informazione di garanzia, in una logica di "pesi e contrappesi" si è inteso recuperare uno spazio di discovery mediante la modifica della disciplina del registro delle notizie di reato, regolato dall'art. 335 c.p.p., il cui accesso, nella lettera originaria del codice di rito, era interdetto sino alla formulazione dell'imputazione. Il riconoscimento del diritto della persona cui il reato è attribuito di ricevere comunicazione delle iscrizioni a proprio carico non ha, invero, sortito un effetto compensativo, atteso che la disciplina dell'accesso – lungi dal configurare una inviolabile prerogativa – patisce due testuali eccezioni. La prima, connessa alla tipologia della notitia criminis, è funzionale ad interdire ex ante la conoscibilità delle iscrizioni relative a procedimenti che abbiano ad oggetto reati di particolare gravità. La seconda è ricondotta al potere, attribuito al pubblico ministero, di secretazione delle inscrizioni in presenza di specifiche esigenze investigative. In una logica di disorganica stratificazione degli istituti, nel 1999 – dopo il fallimento dell'esperienza della contestazione della "imputazione provvisoria" di cui alla l. n. 234 del 1997 – fa il suo ingresso, sulla scena processuale, l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi del quale si onera il pubblico ministero, nell'ipotesi in cui non intenda richiedere l'archiviazione, di provvedere, a pena della nullità del successivo atto di esercizio dell'azione penale, di notificare alla persona sottoposta alle indagini un'informativa in cui l'ostensione degli atti di indagine si coniuga al riconoscimento di un corredo di facoltà difensive. L'avviso in argomento, contrariamente agli auspici del legislatore, lungi dall'attestarsi quale strumento principe per l'attuazione del diritto all'informazione sull'accusa, si è rivelato un «garanzia incompiuta» che, seppur dotata dei requisiti della comprensibilità e del dettaglio, contraddice il richiamo al «tempo più breve possibile», in tal modo deprivando il suo destinatario (anche) del beneficio della fruizione del tempo e delle facilitazioni necessarie per la predisposizione della strategia difensiva. A tale aporia funzionale si assomma la progressiva compressione, anche sulla scorta dell'esegesi giurisprudenziale, dell'ambito di operatività dell'istituto che, pertanto, non è idoneo a fungere da paradigma del diritto all'informazione sull'accusa. Dopo una breve analisi della disciplina dell'informazione sul diritto di difesa, regolato dall'art. 369-bis c.p.p., e sugli strumenti informativi operanti nel procedimento per l'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato (d.lgs. n. 231 del 2001), il presente lavoro si chiude con un bilancio sulla funzionalità dell'apparato informativo configurato nel codice di rito penale alla concretizzazione del principio consacrato nell'art. 111 comma III Cost. Sul profondo deficit della strumentazione – al di là della mancata rispondenza ai singoli connotati della tempestività, del dettaglio e della riservatezza – pare pesare la carenza di organicità nell'affidare l'attuazione del diritto all'informazione ad una pluralità di istituti privi di coordinamento e suscettibili di applicazione solo eventuale. ; XIX Ciclo ; 1973
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No criminal law provision is legitimate only because it is stated by the law. A check of its social working is an equal important range to discuss critically its lawful basis. This is the legacy of the Enlightenment Revolution. In the so called "world risk society" this kind of check is of vital importance. Nevertheless, a thick blanket of uncertainty enshroud the way to develop this kind of test. A look in the History may help to solve this modern question.La ricerca di una razionale legittimazione dell'intervento punitivo, che non si esaurisca nella legalità formale dei precetti, è, almeno sul piano ideale, patrimonio comune della scienza penalistica post-illuministica. Le più recenti evoluzioni del quadro normativo, sospinte dalla pressione esercitata da mutazioni epocali intervenute nella filosofia politica e sociale della "società globale del rischio", ripropongono con urgenza la necessità di tornare ad interrogarsi sul perché si ricorra alla pena per fronteggiare conflitti - reali e potenziali – tra interessi. Urgenza che la scienza penalistica, sebbene frastornata dalla rapida liquefazione dei punti di riferimento usualmente utilizzati per articolare la propria riflessione sui limiti di legittimo intervento del diritto penale, percepisce chiaramente; al pari della consapevolezza circa l'inadeguata calibratura degli strumenti indispensabili per poter fornire convincenti risposte in merito. Uno sguardo al passato, come quello che si dà nella pagine che seguono, può aiutare a superare alcuni degli impedimenti, anche metodologici, che a tutt'oggi si frappongono ad un efficace approfondimento della discussione sui fondamenti di legittimazione dell'intervento punitivo nel XXI secolo.
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La globalizzazione ed il multiculturalismo stanno ponendo all'ordinamento giuridico e, in specie, al diritto penale, una sfida inedita. L'intensificarsi dei flussi migratori ha infatti posto in discussione la tavola valoriale su cui si fondava l'ordinamento e ha sconfessato e reso labili i confini nazionali, che, lungi dal rispecchiare la tradizionale geografia delle confessioni religiose, vengono rimodellati dal continuo fluire di individui e gruppi provenienti da luoghi e culture profondamente diverse. In una società multiculturale e multireligiosa, il ricorso al diritto penale come mezzo di gestione dei conflitti che sorgono dal rapporto tra valori tutelati dalle fattispecie di reato e modelli culturali con essi confliggenti, rischia però di rendere il suo intervento inefficace e controproducente. La coesistenza di modelli culturali diversi richiede, infatti, strumenti flessibili, mentre il diritto penale è tradizionalmente un mezzo rigido di soluzione dei conflitti. Nel contesto di questa società complessa, nella quale le tensioni sociali e politiche indotte dai flussi migratori ed il timore del terrorismo internazionale, ostacolano la percezione delle diversità culturale come valore aggiunto di arricchimento attraverso il dialogo con "l'altro" e ne accentuano piuttosto le differenze in funzione di rafforzamento del senso identitario, è di notevole interesse indagare sul valore da attribuire all'orientamento culturale-religioso nel sistema penale italiano sia sul piano del c.d. "formante legislativo" che su quello "giurisprudenziale". E' proprio la prassi applicativa infatti che, in un contesto normativo connotato dall'assenza di un'esplicita presa di posizione da parte del legislatore, è in grado di restituirci la sensibilità del "diritto vivente" il quale nell'esperienza italiana presenta un approccio di tipo assimilazionista, connotato da minore elasticità rispetto alle posizioni emerse in dottrina, propense invece a riconoscere al fattore culturale effetti quantomeno in termini di mitigazione della risposta sanzionatoria. La giurisprudenza affronta la questione in termini di bilanciamento tra interessi, facendo tendenzialmente prevalere la tutela penale sul "fattore culturale-religioso". Se questa soluzione giurisprudenziale in favore della tutela penale appare però ragionevole quando viene in rilievo l'offesa ad interessi fondamentali della persona, diventa meno giustificabile quando è trasposta sui reati posti a tutela dell'ordine pubblico. E' diffusa in dottrina la convinzione che tutto ciò rifletta uno Zeitgeist ispirato a sentimenti di chiusura nei confronti del diverso così da far scontrare vistosamente il "fattore culturale-religioso" con l'euristica della paura provocando un'estremizzazione delle istanze di tutela.
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La consapevolezza della opportunità di una salvaguardia dell ambiente, considerato come bene rilevante in sé e per sé, è divenuta, quindi, patrimonio condiviso e al fine di approntare una sua tutela sono state predisposte anche determinate sanzioni penali. Attualmente, tuttavia, è stato notato come la problematica della tutela penale dell ambiente viva, almeno sul versante nazionale, un periodo particolarmente controverso . Ciò è dovuto anche alla circostanza che le soluzioni offerte da parte della dottrina alla succitata problematica non sono forse del tutto in linea con quello che, oramai, costituisce il comune sentire delle popolazioni degli Stati europei in tema di ambiente. In taluni recenti contributi, infatti, o si giunge alla radicale soluzione dell abbandono della tutela penale dell ambiente , oppure ci si accontenta di una tutela affidata al modello ingiunzionale , in una prospettiva esclusivamente antropocentrica, in cui il bene ambiente viene in considerazione solo in funzione strumentale rispetto alla tutela di altri beni , quali la vita, l incolumità individuale, la salute pubblica, oppure, addirittura, il patrimonio o il corretto funzionamento del mercato. Al contrario, i cittadini europei sembrano sempre più preoccupati dall inesorabile aggravarsi della crisi ambientale. E si aspettano un rafforzamento, e non certo un abbandono, della tutela penale dell ambiente. La consapevolezza dell importanza cruciale degli interessi sottesi alla più ampia nozione categoriale di ambiente, del resto, ha indotto il legislatore comunitario ad intervenire più volte nella suddetta materia, suggerendo così agli Stati membri l introduzione (o, a seconda dei casi, il perfezionamento) di normative di carattere in primo luogo penale, ma anche amministrativo e civile. Già nel 1998, il Consiglio d Europa aveva adottato una Convenzione per la tutela dell ambiente attraverso il diritto penale. La stessa preoccupazione «per l aumento dei reati contro l ambiente e per le loro conseguenze, che sempre più frequentemente si estendono al di là delle frontiere degli Stati ove tali reati vengono commessi», che già aveva portato all adozione della succitata Convenzione, ha costituito, poi, il fondamento - su iniziativa del Regno di Danimarca del febbraio 2000 - della Decisione Quadro della U.E. n.80/2003 in materia di tutela penale dell ambiente . Da ultimo, un ruolo di straordinaria importanza è svolto dalla Direttiva 2008/99/CE del 19 novembre 2008 sulla tutela penale dell ambiente . Tale direttiva, obbliga gli Stati membri a prevedere «nella loro legislazione nazionale sanzioni penali in relazione a gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell ambiente». Il ricorso alle sanzioni penali è necessario sulla base dell espresso presupposto che le stesse «sono indice di una riprovazione sociale di natura qualitativamente diversa rispetto alle sanzioni amministrative o ai meccanismi risarcitori di diritto civile». La direttiva si spinge anche oltre, indicando gli ambiti specifici dell intervento penale mediante un elencazione delle condotte penalmente rilevanti. Il fine della realizzazione di una tutela penale effettiva, proporzionata e dissuasiva, che in tal modo viene imposto agli Stati membri, costituisce lo spunto per una riflessione sul grado di tutela offerto ai beni ambientali dal nostro ordinamento giuridico allo stato attuale, suggerendo altresì l opportunità di un analisi in ordine alle prospettive cui il diritto penale possa ispirarsi, nel momento in cui interviene a regolamentare una materia così complessa.
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Cover -- Occhiello -- Indice -- Introduzione -- Parte I. L'attuale dibattito sull'ingresso della prova scientifica nel processo penale -- Capitolo I. I complessi rapporti tra scienza, diritto penale e processo: una nota introduttiva -- Capitolo II. Scienza ed epistemologia giudiziaria verso l'affermazione di nuovi paradigmi -- Capitolo III. La motivazione della sentenza e la prova scientifica: "reasoning by probabilities" -- Capitolo IV. Scienza e rischio fra prevedibilità dell'evento e predittività della decisione giudiziaria -- Capitolo V. Scienza, processo e informazion -- Parte II. Le suggestioni comparatistiche -- Capitolo VI. Scienza e processo a confronto: brevi riflessioni sul reference manual on scientific evidence -- Capitolo VII. La prova scientifica negli stati uniti: dal frye test al reference manual on scientific evidence -- Parte III. Quale e quanta scienza nel processo penale italiano? -- Capitolo VIII. La scienza dei terremoti tra incertezza, imprevedibilità e aule di tribunale -- Capitolo IX. La prova scientifica nei reati di frana, valanga e inondazione nel processo penale -- Capitolo X. La scienza nel processo decisionale di protezione civile per la ge-stione dei rischi -- Capitolo XI. La prova scientifica nei processi per i reati ambientali, con particolare riferimento all'inquinamento derivante dall'occultamento di rifiuti -- Capitolo XII. Il segno dei tre: il processo penale, la medicina legale e la prova scientifica -- Capitolo XIII. Evidenza epidemiologica e decisioni nelle aule di tribunale -- Capitolo XIV. Il report "latent fingerprint examination" alla luce del metodo dattiloscopico della polizia scientifica e dell'esame in giudizio della prova scientifica -- Capitolo XV. Le scienze sociali e il rischio: approcci a confronto -- Postfazione. Scienza e processo.
2008/2009 ; Lo studio si prefigge di indagare come la produzione normativa comunitaria abbia influenzato il diritto penale nazionale fino a delineare i tratti di un diritto penale di matrice europea. Ai fini dell'individuazione dei rapporti intercorrenti tra i due sistemi, è stata prescelta come chiave di lettura trasversale la materia ambientale. L'introduzione mira a porre le basi dell'analisi, ripercorrendo, seppur in forma riassuntiva le tappe dell'evoluzione dell'Unione europea, sotto il profilo del progressivo ampliamento delle finalità e delle competenze della stessa: nata con finalità prevalentemente economiche, quali la creazione di un mercato unico diretto alla libera circolazione delle merci, delle persone e capitali, l'Unione espanse le sue competenze verso la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, inaugurando nuove forme di cooperazione, prefissandosi finalità politiche generali e servendosi per questi fini di un solido quadro istituzionale. Al progresso economico e sociale, alla creazione di uno spazio senza frontiere interne ed ad un'unione monetaria si affiancò la prospettiva di una politica estera di sicurezza e di difesa comune, di una tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri, mediante una cittadinanza comune dell'Unione, nonché di una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. A fianco delle politiche comunitarie (primo pilastro) attuate per mezzo di una cessione di sovranità dei singoli Stati a vantaggio delle Istituzioni europee, sorsero nuove forme di cooperazione, di natura intergovernativa, in materia di politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro), poi mutata in cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La nascita e l'espansione delle Comunità Europee fece emergere, svilupparsi ed affermarsi una serie di beni giuridici meritevoli di tutela su più livelli, a carattere nazionale e sovranazionale. Se ne distinguono principalmente due categorie: i beni "istituzionali", c.d. comunitari, strettamente funzionali all'esistenza dell'Unione ed allo svolgimento dei compiti ad essa connessi, ed i beni "satellite" rispetto ai precedenti, c.d. di estensione comunitaria, originariamente tutelati dagli ordinamenti nazionali e solo recentemente attratti nei piani di tutela comunitaria, con la caratteristica di essere beni "normativi" e connessi ad un sistema giuridico di riferimento ma destinatari di una tutela integrata da parte del diritto comunitario derivato. Trova poi posto una nuova categoria di beni, nascenti dalla regolamentazione comunitaria e comprendente i diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria, il diritto di circolazione e soggiorno, nonché la tutela del consumatore e dell'ambiente. La domanda di tutela dei beni di rilevanza comunitaria si trasforma inevitabilmente in una richiesta di intervento effettivo che comprende, in base ad una valutazione qualitativa, di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di necessità della stessa, anche ipotesi di tutela penale. Infatti, la "necessità di pena" in queste ipotesi deve essere intesa quale necessità di pena sovranazionale, ai fini di evitare un inefficace e disarmonico intervento rimesso agli Stati. Un tanto ha portato nel corso degli anni ad una europeizzazione dei diritti penali nazionali, vincolando le scelte dei legislatori interni in ordine ai comportamenti da sanzionare, alla natura ed alla misura della sanzione, nonché alla prospettiva di un diritto penale europeo, che conferisse all'Unione, e poi anche alla Comunità, un effettivo e diretto potere di intervento. Ne è esempio il bene ambiente che si caratterizza per una significativa "bidimensionalità", possedendo rilevanza nazionale e sovranazionale e rientrando peraltro tra quei beni di rilevanza comunitaria per cui si richiede una efficace ed uniforme tutela. L'interesse giuridico in questa direzione si rinviene nella comunanza dei tipi di condotte illecite che pongono in pericolo o ledono il bene giuridico tutelato. Tali condotte sono la fonte dei c.d. spillowers o effetti transnazionali, eventi in senso naturalistico o giuridico che si riverberano all'interno dei paesi della Comunità Europea, senza che operino barriere politico-geografiche di sorta. Le conseguenze fisiche ed economiche che una tale criminalità transnazionale porta con sè rende necessario un intervento comunitario, non risultando invece efficace né possibile l'intervento del singolo Stato membro. E' per tali motivi che il diritto ambientale ha avuto anche storicamente una dimensione in primis internazionale ed europea e solo successivamente nazionale. La tutela ambientale ha rappresentato una costante dell'azione della Comunità che ha consentito una progressione verso la normativizzazione in materia ambientale, inizialmente attraverso convenzioni, decisioni quadro, regolamenti e direttive, poi in misura sempre più vincolante a livello dei Trattati, divenendo con il Trattato di Maastricht politica fondamentale dell'Unione e con Amsterdam un valore autonomo, indipendente dalle scelte economiche. L'interesse crescente a livello europeo e comunitario ha contribuito all'implementazione e all'armonizzazione delle normative nazionali, destinatarie degli impulsi di sensibilizzazione e di orientamento verso obiettivi comuni di tutela. La normativa interna ne ha subito gli influssi, presentando fattispecie costruite tramite il rinvio, in forma definitoria o di completamento, di norme extrapenali di derivazione comunitaria. Un tale meccanismo normativo, pur consentendo un agevole mutamento della norma penale, ha posto di fronte a problemi interpretativi e di legittimità costituzionale, le Corti nazionali ed europee. L'influenza comunitaria si è fatta ancora più evidente nella misura in cui le Istituzioni europee hanno formulato una specifica domanda di criminalizzazione, nella formulazione del precetto e della sanzione, aprendo il varco alla prospettiva di un vero e proprio diritto penale europeo. Sotto queste premesse, il primo capitolo si propone di indagare se, nonostante l'assenza di un'affermazione sulla potestà punitiva comunitaria possa esistere un'influenza dell'attività normativa delle Istituzioni europee nella formazione del precetto e della sanzione penale. Si prendono le mosse dall'attività di una cooperazione giudiziaria in materia penale", attuata attraverso "posizioni comuni" ed "azioni comuni" e la cooperazione in materia penale, nell'ambito, c.d. Terzo pilastro, che, seppure distinto da quello propriamente comunitario, rientra a pieno titolo nelle competenze dell'Unione europea. Gli strumenti del terzo pilastro sono espressivi di un sistema misto, lasciando ad ogni singolo Stato un ulteriore livello di discrezionalità sia nella fase della firma e della ratifica, con riserve o eccezioni, sia nella fase successiva alla sua adesione, consentendo la scelta di mezzi funzionali al raggiungimento del risultato, e rispettando così il principio di riserva di legge e di sovranità nazionale. Ma gli strumenti utilizzati, la mancanza di diretta efficacia degli stessi, la discrezionalità nella fase attuativa e il carattere facoltativo della competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia, hanno reso progressivamente necessario, o quantomeno auspicabile, nelle materie comunitarie in senso proprio, un intervento più cogente, con capacità di penetrazione nell'ordinamento interno e prerogative giurisdizionali affidate alla Corte di Giustizia, azionabile solo con gli strumenti del primo pilastro. Si ripercorrono, dunque, le tappe essenziali in base alle quali viene affermato e riconosciuto il principio di prevalenza dell'ordinamento comunitario, al quale, neppure il diritto penale, con la sua forza di resistenza, risulta impermeabile. Si è di fronte a due ordinamenti coordinati ma autonomi e separati per cui l'ordinamento comunitario è considerato come integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con la conseguente impossibilità per gli Stati membri di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore. Vi è dunque una modifica de facto dell'assetto costituzionale delle fonti del diritto, risultando una ritrazione degli ambiti normativi di pertinenza dell'ordinamento interno ed una contestuale affermazione di alcuni ambiti propri invece dell'ordinamento comunitario. La prevalenza del diritto comunitario deve però conciliarsi con il principio di legalità in quanto la valenza garantistica del principio, derivante dall'attribuzione all'organo democraticamente eletto del potere di individuare le condotte da sottoporre a pena, non risulta adeguatamente rispettata dall'attribuzione di una potestà penale ad un'entità, quale la Comunità, il cui assetto istituzionale ed operativo non soddisfa a pieno i criteri di democraticità e rappresentatività che tale potestà esige. Dal punto di vista nazionale, il mancato rispetto del principio di legalità, sotto l'aspetto della riserva di legge e di quello della determinatezza si pone come ostacolo primo all'applicazione diretta delle norme comunitarie al fine di comminare una sanzione penale: la potestà punitiva è sempre stata soggetta al rispetto dei limiti del principio di legalità nelle forme della riserva di legge e tassatività e non può cedere neppure di fronte agli interventi normativi diretti o riflessi della Comunità. La conclusione che sembra soddisfare tutte le istanze e conciliare le problematiche nascenti dall'incontro dei due sistemi punitivi, deve ricercarsi in una tutela mediata degli interessi, assicurata tramite l'intervento dell'apparato sanzionatorio degli Stati membri. Infatti, le fisiologiche lacune di tutela dell'ordinamento comunitario che appare sprovvisto di autonomi strumenti di tutela idonei ad assicurare il corretto funzionamento risultano colmate dal ricorso alle risorse sanzionatorie degli Stati membri che vengono chiamati a mettere il proprio sistema giuridico al servizio delle esigenze di tutela degli interessi dell'ente sovranazionale. Il diritto penale subisce, dunque, alla pari di tutti gli altri settori normativi, gli effetti scaturenti dal processo di integrazione europea fondanti sul principio di prevalenza e diretta efficacia del diritto comunitario. Allo stato attuale, ciò che può essere definito come diritto penale europeo, dunque, è caratterizzato "dall'incontro tra il principio di prevalenza del diritto comunitario e quello di riserva di legge del diritto penale, che determina un universo giuridico paradossale, composto per un verso da norme, quelle comunitarie, prevalenti ma incompetenti e per altro verso da altre norme, quelle penali nazionali, competenti in via esclusiva ma subordinate alle prime". Ad una domanda espressa del diritto comunitario a tutela dei beni creati dalle sue attività, deve corrispondere un'offerta di tutela del legislatore nazionale, formando in tal modo un diritto penale comunitario risultante dalla stratificazione di più livelli normativi. Nonostante le problematiche sottese all'intervento penalistico, non si può negare come si sia attuata una progressiva armonizzazione delle sanzioni nel quadro europeo, in seno alle organizzazioni internazionali, nell'ambito del terzo pilastro e dunque, nella sede comunitaria. In questo ambito la prima armonizzazione è avvenuta ad opera dell'attività creatrice della giurisprudenza, e solo successivamente a livello normativo. La Corte ha incrementato la domanda di tutela fino a giungere, non solo alla richiesta di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ma anche di natura penale. La rivoluzionaria sentenza del 13 settembre 2005 ha legittimato, infatti, una competenza normativa comunitaria in materia penale, prevedendo la possibilità di una domanda esplicita di tutela penale per mezzo di direttive. L'assenza di una specifica indicazione in merito alla scelta del contenuto delle prescrizioni penali ha lasciato che si sviluppasse, in seno alla Commissione, l'idea che la Comunità potesse giungere fino ad indicare misura e specie delle sanzioni, vincolando il legislatore nazionale in limiti edittali predeterminati. E' però la Corte di Giustizia, in una successiva statuizione a chiarire il punto e specificare che il contenuto delle direttive oltre a segnalare agli Stati l'opzione della tutela penale in talune materie di rilevanza comunitaria, ed a descrivere i requisiti costitutivi delle fattispecie incriminatrici, garantendo uno standard di tutela penale, non possa giungere a stabilire la tipologia delle sanzioni penali e i correlativi minimi e massimi edittali. Riassumendo la questione ai minimi termini si può affermare che l'Unione europea diviene definitivamente competente a svolgere il giudizio di necessità di pena, ma non ad esercitare la potestà punitiva, concezione accolta anche dal neonato Trattato di Lisbona. Il secondo capitolo si occupa quindi di indagare quale sia la risposta nazionale a fronte della domanda operata in sede comunitaria e dunque di delineare quali mutamenti operino a livello normativo penale. Si distingue a tal proposito tra l'influenza diretta e l'influenza riflessa. La prima consiste in quegli obblighi di criminalizzazione espressa a cui l'ordinamento ha dato ingresso solo recentemente al fine di tutelare beni ed interessi riconducibili alla Comunità europea, con provvedimenti vincolanti e precisi. L'attività normativa comunitaria così strutturata condurrebbe alla creazione di vere e proprie norme incriminatrici e disposizioni sanzionatorie di produzione sovranazionale direttamente applicabili nell'ordinamento interno. Si è già sottolineato come questo rappresenti però il punto più problematico, nell'affidare ad Istituzioni non democraticamente elette il potere punitivo, tradizionalmente detenuto dallo Stato nazionale. Si ritiene che possa ricomprendersi nell'influenza lato sensu diretta anche quell'attività normativa di natura comunitaria che si concretizza in obblighi di criminalizzazione, sia a livello del precetto che della sanzione, contenute in atti vincolanti, seppur non direttamente efficaci. Le ipotesi di influenza riflessa, invece, indicano tutte quelle interferenze che non sono perseguite come scopo primario dal diritto comunitario ma che ugualmente si producono, senza alcun intervento dei legislatori nazionali, in forza del normale incontro del diritto sovranazionale col diritto penale interno. Il fondamento dell'efficacia riflessa è da rinvenire nel principio di preminenza del diritto comunitario secondo cui "le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei rapporti col diritto interno di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, nonchè di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie". Spetterà, dunque, a qualsiasi giudice nazionale "applicare integralmente il diritto comunitario e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore, sia successiva alla norma comunitaria". Il primo tipo di influenza riflessa del diritto comunitario è rappresentato dall'influenza c.d. interpretativa che, proprio in forza del principio del primato del diritto comunitario, comporta che il diritto interno debba essere interpretato conformemente alle fonti comunitarie: il giudice, dunque, ravvisato un contrasto tra norme nazionali e disposizioni comunitarie ha la facoltà di risolverlo, ricercando un'interpretazione comunitariamente conforme della norma nazionale senza giungere alla disapplicazione della stessa. Il secondo aspetto di incidenza riflessa del diritto comunitario sul diritto penale è da rinvenirsi negli elementi normativi della fattispecie. Vi è, infatti, l'ipotesi che le norme extrapenali che integrano la fattispecie punitiva nazionale siano norme comunitarie, antecedenti o successive alla norma nazionale: in tal modo la normativa interna subisce un processo di influenza comunitaria in forza della definizione degli elementi normativi da parte della norma sovranazionale. La normativa comunitaria, sostituendosi o integrando la normativa extrapenale richiamata ai fini definitori può determinare una diversa estensione dell'incriminazione. La forma maggiormente incisiva di influenza è operata in forza dell'integrazione ad opera della fonte comunitaria che, a fronte della tecnica del rinvio, completa con elementi specializzanti il precetto nazionale. Nell'ambito degli effetti riflessi del diritto comunitario, l'intervento maggiormente incisivo sul diritto interno è esercitato dall'influenza disapplicatrice, promanante da un'incompatibilità a livello normativo tra diritto interno e diritto comunitario. In forza del principio di prevalenza dell'ordinamento comunitario sull'ordinamento interno, è ormai consolidato che le norme interne, e, dunque, anche le fattispecie penali, debbano essere disapplicate se in contrasto con gli atti comunitari, dotati dei requisiti di efficacia diretta e di diretta applicabilità. In presenza di due norme contemporaneamente applicabili ed in contrasto tra di loro, il giudice nazionale dovrà procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante così operando una vera e propria modifica dell'ambito del penalmente rilevante. La disapplicazione produce, pertanto, il risultato di riplasmare e comprimere in maniera significativa gli ambiti del penalmente rilevante. Il contrasto della norma interna può derivare dall'incompatibilità con norme o principi, espliciti o impliciti, a carattere generale, con fonte nel diritto comunitario primario, sia con disposizioni più o meno specifiche, contenute in atti di diritto comunitario derivato, quali regolamenti e direttive chiare, precise, dettagliate e incondizionate. La disapplicazione può coinvolgere il precetto o la relativa sanzione e può essere di carattere totale, causando un'integrale inapplicabilità della fattispecie, o parziale, comportando l'incompatibilità solo di alcune fattispecie o soluzioni sanzionatorie. Ed ancora, la disapplicazione può produrre effetti riduttivi o espansivi del penalmente rilevante: nel primo caso la norma sovranazionale che riconosce un diritto, una facoltà legittima al cittadino, opera come esimente, riducendo l'area di applicazione della fattispecie sanzionatoria, diversa è l'ipotesi in cui l'influenza, ancora discussa su tal punto dell'ordinamento comunitario, comporti un'espansione dei comportamenti penalmente rilevanti. Più problematici risultano quelli che autorevole dottrina definisce "conflitti triadici" ove una norma nazionale in attuazione di un principio comunitario sia sostituita da una successiva norma nazionale più favorevole ma in contrasto con gli obblighi comunitari. Il contrasto tra la norma comunitaria e la norma nazionale sopravvenuta ha come effetto, in queste ipotesi, di provocare l'applicazione di un'altra norma nazionale e non la diretta applicazione della norma comunitaria, sprovvista di effetti diretti. Il terzo capitolo giunge infine al fulcro del problema trattando la materia ambientale come il fil rouge che consente di ripercorrere l'evoluzione del diritto penale europeo ed indagare sulle prospettive di un possibile intervento penale da parte degli organi comunitari. L'intervento europeo, proprio per la trasversalità della materia ambientale, si è manifestato con differenti intensità: a seconda dello strumento normativo prescelto è variata la discrezionalità lasciata agli Stati nell'attuazione delle previsioni comunitarie. La normativa europea ha, quindi, interessato anche il diritto penale nazionale, nell'ambito della costruzione della fattispecie ambientale, operando in chiave sanzionatoria di condotte definite altrove. La fonte sovranazionale, sia pure a mezzo del legislatore nazionale, contribuisce a delineare il nucleo di disvalore della fattispecie, in particolare quella ambientale eterointegrata da fonti di natura tecnicistica, e pertanto costantemente soggetta ai mutamenti normativi ed alle indicazioni delle Istituzioni comunitarie. Un tanto ha condotto ben presto ad affrontare numerosi problemi interpretativi, di compatibilità tra norme così ad evidenziare la costante incidenza degli effetti riflessi esercitati dal diritto comunitario sul diritto nazionale. Infine, di primario interesse, anche in un'ottica de iure condendo, sono gli effetti diretti, progressivamente più incisivi, che a partire dal perseguimento della finalità di armonizzazione dei sistemi penali con gli strumenti del terzo pilastro, hanno aperto un varco ad un sistema di tutela rafforzato a livello strettamente comunitario degli illeciti connessi alla protezione dell'ambiente. Si può legittimamente affermare che i più significativi passi per un'armonizzazione dei diritti penali nazionali, e per la creazione di un diritto penale europeo abbiano riguardato proprio la materia ambientale. La questione ambientale, quindi, è divenuta non solo punto cruciale della politica economica, ma ha segnato il dibattito istituzionale sulle competenze dei pilastri comunitari e sull'eventuale legittimazione al ricorso degli strumenti comunitari anche in campo penale. Nell'ambito degli effetti che l'ordinamento comunitario ha esercitato nel diritto interno in materia ambientale, deve aversi riguardo alla complicata evoluzione normativa e giurisprudenziale della definizione di rifiuto, fulcro della specifica disciplina di settore e di numerosissimi atti normativi che ad essa rinviano o che la presuppongono. Infatti, proprio in tema di rifiuti, vi è stata una delle prime concretizzazioni dell'esigenza di armonizzazione in materia ambientale, dettata dalla potenziale attitudine offensiva degli stessi, nei confronti dell'ambiente e della salute umana, in assenza di un apparato normativo che consentisse di disciplinarne la gestione e lo smaltimento finale. La delimitazione dei confini della nozione di rifiuto si rivela particolarmente determinante in quanto condiziona e determina l'operatività di tutta la normativa in materia, nonché l'efficacia della stessa, risultando nozione di riferimento dell'intero sistema giuridico di protezione ambientale. Il concetto di rifiuto concorre alla determinazione dell'illiceità penale delle condotte, delimitando, nel suo espandersi e comprimersi, i confini della protezione, in campo amministrativo e penale, dei beni ambientali. Accanto al meccanismo di influenza riflessa, è da ravvisare come in materia ambientale si sia sviluppata l'evoluzione di un possibile diritto penale europeo, e dunque di una esplicita influenza dell'ordinamento sovrannazionale nelle scelte di criminalizzazione nazionali. L'occasione di contrasto deve rinvenirsi nell'annullamento da parte della Corte di Giustizia della decisione quadro, adottata dal Consiglio il 27 gennaio 2003, sul presupposto che la Comunità ha un potere di armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri in tutte le materie nelle quali esista già una normativa comunitaria di settore extrapenale: i provvedimenti in materia penale possono pertanto essere adottati in ambito comunitario ove strumentali ad assicurare una maggiore efficacia alle politiche comunitarie. La competenza penale e la possibilità di istituire un espresso obbligo diretto di criminalizzazione comunitaria, si spostano dal terzo al primo pilastro in quelle materie di evidente interesse comunitario, quali appunto la tutela ambientale. L'argomento ha portata rivoluzionaria nella misura in cui indirettamente apre il varco al riconoscimento di una competenza "generale" della Comunità in funzione del ravvicinamento delle legislazioni di carattere penale, laddove questo miri all'effettività del diritto comunitario, minacciato da gravi violazioni. La decisione riconosce il potere alle Istituzioni comunitarie, sottraendolo ai settori di cooperazione intergovernativa, di obbligare gli Stati ad introdurre sanzioni penali armonizzate, proporzionali, effettive e dissuasive in risposta alle violazioni gravi delle proprie disposizioni. Non solo, dunque, viene riconosciuto alla Comunità un potere di incriminazione attraverso direttive, ma è altresì legittimato un ampio ricorso agli strumenti normativi del diritto comunitario classico, con un corrispondente ed inevitabile declino degli ambiti di operatività del terzo pilastro, per l'armonizzazione delle norme penali interne agli ordinamenti nazionali nelle materie rientranti nelle competenze comunitarie, provocando una conseguente comunitarizzazione delle misure volte a fissare gli elementi minimi delle fattispecie incriminatrici e delle correlative sanzioni. Pochi anni dopo la Corte ha ridimensionato in modo significativo il dictum della precedente statuizione, negando alla Comunità il potere di definire la tipologia e la misura delle pene attraverso atti normativi vincolanti: alle direttive compete la facoltà di obbligare gli Stati a garantire uno standard di tutela penale in taluni settori, attraverso l'apprestamento di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, senza avere la facoltà di vincolare la scelta del legislatore nazionale in relazione alla species ed al quantum. La decisione, seppur di compromesso segna un punto di volta nel riconoscere l'incidenza effettiva del diritto comunitario sul diritto penale: il divieto di indicare le sanzioni è limitato alle direttive, lasciando invece alle decisioni quadro la possibilità di prescrivere il quantum delle sanzioni penali da adottare a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi comunitari, vincolando le scelte nazionali. Dal punto di vista degli obiettivi di criminalizzazione, non viene pertanto superata la frammentazione tra precetto e sanzione, permanendo, a causa della persistente resistenza degli Stati membri a detenere la potestà punitiva in materia penale, una divisione tra il momento precettivo, deferito alle istituzioni comunitarie, e quello sanzionatorio, di competenza nazionale. Le due statuizioni trovano la loro applicazione pratica, proprio nella direttiva 2008/99 sui reati ambientali risultando terreno di sintesi tra le spinte espansionistiche provenienti dalla Commissione e quelle conservatrici del Consiglio, nonché luogo di mediazione tra i diversi modelli di incriminazione degli ordinamenti nazionali, fornendo un minimo comune denominatore di tutela di fonte sovranazionale. Si è così configurato un sistema multilivello ove i legislatori nazionali sono condizionati nel loro potere discrezionale dalle indicazioni formalizzate dalle Istituzioni comunitarie. Dal punto di vista funzionale, l'obiettivo della direttiva è quello di ottenere che gli Stati membri introducano nel diritto penale disposizioni che possano garantire un adeguato livello di tutela ambientale. La direttiva presenta rilevanti elementi di novità, in primis appunto per gli obblighi formali di penalizzazione imposti, nell'ambito del primo pilastro . Il Trattato di Lisbona accoglie sotto alcuni aspetti l'evoluzione giurisprudenziale della Corte ma non ne sviluppa le problematiche in modo soddisfacente, deludendo le aspettative in merito al riconoscimento di una vera e propria potestà punitiva comunitaria. Il Trattato seleziona, come si è visto, tre ambiti di intervento per le direttive a contenuto penale per i fenomeni criminali tassativamente indicati al par. 1 dell'art. 83, per i fenomeni criminali diversi da quelli tassativamente elencati, per i quali occorre una decisione del Consiglio adottata all'unanimità e previa approvazione del Parlamento, ed in tutti i casi in cui la fissazione di norme minime su reati e pene risulti indispensabile per dare efficace attuazione alle politiche comunitarie, per i settori già oggetto di armonizzazione (art. 83 par. 2). L'ambiente, pur avendo avuto un ruolo nevralgico nell'evoluzione della competenza penale, e risultando oggetto di una incrementata tutela nel Trattato, non compare tra le materie tassativamente elencate, riscontrando un'evidente battuta d'arresto, deferendo inevitabilmente l'individuazione delle linee evolutive all'attività giurisprudenziale. Il quarto capitolo, infine, si ripropone di evidenziare le prospettive di un possibile penale europeo, unificato o quantomeno armonizzato, partendo dai pregressi tentativi di codificazione, quali il Corpus Juris, gli Europa delikte, il progetto alternativo, ed infine la Costituzione europea. I tentativi di armonizzazione e unificazione sopra citati hanno costituito banco di prova per un diritto penale europeo, seppur settoriale, ponendo, nell'esame dei pregi e dei limiti dei diversi progetti, le basi per un nuovo intervento sovrannazionale più mirato. La prospettiva che si deve prendere in considerazione al momento non riguarda solamente la possibile concretizzazione dei progetti qui delineati, quanto piuttosto l'esigenza che tale unificazione ed armonizzazione si spinga verso differenti ed ulteriori settori che progressivamente hanno acquisito una rilevanza comunitaria. I beni istituzionali della pubblica funzione europea, la moneta unica, gli interessi finanziari dell'Unione nonché l'ambiente possono già essere considerati, ad esempio, come un nucleo, condiviso, di interessi sovrannazionali per i quali sussistono in capo agli ordinamenti nazionali penetranti obblighi di tutela penale. Anche in ordine a tali beni si dovrebbero prospettare dei micro-sistemi di tutela penale ulteriore e sovraordinati che, proprio in ragione del carattere settoriale, pur rispettando le identità nazionali, si imporrebbero alla normativa nazionale, sostituendola o integrandola, nei settori di competenza. La finalità auspicata sarebbe quella di giungere ad una "mise en compatibilité" degli interventi nazionali con quelli sovrannazionali in determinati settori, diretta ad instaurare un "pluralisme juridique ordonnè" ed a garantire la coesistenza di una pluralità di norme di natura e valenza differenti, regolata da un sistema di criteri ordinatori ispirati alla flessibilità ed alla complessità che consentano di tradurre le inevitabili interferenze ed i reciproci rinvii da un ordinamento istituzionale all'altro. La politica criminale europea dovrebbe, dunque, risultare come un sistema misto e graduato su diversi livelli di incidenza, con forme di normazione sovrannazionale direttamente vincolante, per quei beni che risultino meritevoli e necessitanti una tutela penale esaustivamente definita a livello sovrannazionale ed, invece, forme di normazione armonizzatrice di diversa intensità sui sistemi nazionali, nel caso di beni di interesse comune o di beni sovrannazionali non necessitanti la predisposizione di una tutela accentrata e unificata a livello sovrannazionale. Sarebbe necessario, piuttosto, a tal fine far ricorso ad alcuni principi generali in materia penale che possano ispirare l'intero ordinamento sovrannazionale, chiamati ad orientare, vincolandoli, gli interventi europei di penalizzazione diretta e di armonizzazione, nonché le misure nazionali di tutela ed assicurare una coerenza complessiva della politica criminale europea. In tale prospettiva gioca un ruolo di prim'ordine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione in quanto referente primario dei valori fondanti l'Unione e dunque, per ciò stesso, condivisi. La formalizzazione dei principi ivi contenuti, in particolare di quelli relativi alla materia penale potrebbe fornire la base per costituire una teoria generale dell'intervento penale, quale consacrazione e concretizzazione a livello sovrannazionale di quel patrimonio comune di ideali e tradizioni politiche, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto. La prospettiva più realistica, nel breve periodo è proprio quella di procedere ad un'unificazione ed un'armonizzazione riguardo a beni e interessi condivisi, lasciando un margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Prendendo le mosse dal Trattato di Lisbona, non si può escludere, invece, come, accanto alle misure di armonizzazione fin ora attuate col tramite delle direttive, vi possa essere la prospettiva sul lungo periodo della creazione di un diritto penale di tipo federale, accanto ai codici penali nazionali, demandando alla Comunità la definizione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in alcune determinate materie in sfere di criminalità particolarmente grave. Allo stato, quindi, si può ritenere che vi sia stata un'opera visibile di armonizzazione, anche a livello normativo, evolutasi nella scelta degli strumenti del primo pilastro, maggiormente vincolanti, e nelle materie da sottoporre a tutela. Ne abbiamo l'esempio visibile in materia ambientale con tre direttive in settori differenti che hanno imposto norme minime, definizioni, fattispecie incriminatorie e obblighi di penalizzazione, proprio accogliendo i presupposti di una normativa comunitaria settoriale. Il riscontro a livello nazionale, che si attende in tempi brevi, dovrebbe portare ad una chiarificazione, seppur parziale, del diritto interno ambientale, introducendo modifiche in linea con gli standards europei e consentendo, anche a livello processuale "di usare efficaci metodi di indagine e di assistenza, all'interno di uno Stato membro o tra diversi Stati membri". E' indiscutibile come il diritto penale non sia più una materia riservata in modo esclusivo al legislatore di ciascuno Stato membro, e si stiano delineando dei campi di azione in cui il diritto europeo può concorrere alla effettiva configurazione del sistema penale nazionale. ; XXII Ciclo ; 1981
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