Nesse artigo pretendemos delinear as características estéticas básicas do found footage. Tendo como base a realização fílmica através do uso de imagens pré-existentes, esse regime estético tem a apropriação de materiais como elemento central de criação artística. Ao analisar essa estética, temos o objetivo de delinear o seu desenvolvimento no documentário e no cinema experimental, partindo das suas principais bases teóricas e obras seminais.
Filmes de ficção que partem da premissa de "registro encontrado" (found footage) são hoje um fenômeno massivo de produção e consumo audiovisual, sobretudo no campo dos gêneros de fantasia e horror. Característica fundamental desses filmes é o recurso da câmera intradiegética. Neste trabalho, observaremos esse procedimento a partir daquilo que consideramos como uma de suas origens: a literatura de ficção epistolar, baseada em registros ficcionais de cartas, relatos, diários e outros documentos. Para isso, apresentaremos reflexões sobre os resultados de uma pesquisa prática desenvolvida em 2017, na qual uma turma de alunos de graduação da disciplina de Linguagem Audiovisual do curso de Cinema e Audiovisual da Universidade [ANYNOMOZED] adaptou, ao estilo found footage de ficção, cenas descritas por cinco diferentes personagens-narradoras do romance Drácula (1897), de Bram Stoker. Esta reflexão tem como objetivo a análise das características estilísticas das cenas realizadas pelos alunos, buscando, com isso, expandir a compreensão sobre os desafios criativos e as experiências proporcionadas pelo found footage de ficção.
This article offers a brief historical and theoretical overview of found footage films and their contribution to the horror genre, and focuses in more detail on four Southeast Asian productions of the kind made between 2009-2012: Keramat/Sacred (Servia & Tiwa, 2009), Seru/Resurrection (Asraff, Pillai, Andre & Jin 2011), Haunted Changi (Kern, Woo & Lau, 2010), and Darkest Night (Tan, 2012), all of which can be viewed as an alternative to the mainstream local horror cinema. The paper argues that the two most common strategies used by found footage horror films (including the four films in question) are the techniques that effectively authenticate the horror experience: inducing a heightened perception of realism in the audience and a contradictory to it feeling of perceptive subjectivity.
Quella del recupero è una pratica che si afferma con decisione nel XX secolo. Epoca dell'archivio prima e, con l'avvento del computer, del database poi, il Novecento impiega la catalogazione e la raccolta di dati come una modalità di pensiero e un'economia che si incentra sulla frammentarietà e sulla ricostituzione. L'immagine in movimento si sostituisce al testo ed è utilizzata, smembrata, e ricomposta come materiale scultoreo. La pellicola, di qualunque natura essa sia, perde il suo significato originario, la sua trama, la sua narratività per lasciarsi fruire in qualità di oggetto, alienato da sé e dal contesto. L'attenzione al supporto materiale mette in discussione l'intenzione prima con la quale il cinema era nato, ovvero la volontà di duplicare il reale nelle sue coordinate spazio temporali e mnemoniche. Kulešov (da cui l'effetto prende nome) dimostra nel 1920 che un'inquadratura isolata non ha nessun senso in sé, ma lo prende invece da ciò che la segue o la precede. Lo spettatore non può trattenersi, infatti, dallo stabilire un legame logico tra due riprese che si succedono e che non hanno necessariamente un rapporto diretto. E' perciò possibile rovesciare il senso di un testo filmico decostruendo la trama narrativa iniziale e guidare lo spettatore nella lettura del nuovo messaggio prodotto. Il montaggio si rivela la chiave di volta dell'intero processo generando possibilità di riflessione differenti sul medesimo materiale. La presente ricerca, nutrita di apporti teorici imprescindibili e inquadrata in un periodo storico di forti cambiamenti (dagli anni Sessanta ai nostri giorni), mira a costruire una panoramica il più possibile ampia sul recupero, il reimpiego, la riappropriazione, la citazione e la riqualificazione delle immagini in movimento, in particolare nell'uso del found footage, al confine tra arti visive, cinema commerciale e cinema sperimentale. Per la storicità delle sue radici e, allo stesso tempo, per l'attualità delle sue implicazioni, l'argomento merita un'attenzione e un approfondimento particolari – motivo essenziale della genesi di questo lavoro - al fine di accrescere la portata degli studi che, a partire dagli anni Novanta, in maniera sistematica a livello internazionale e in maniera più discontinua e frammentata a livello italiano, sta costituendo terreno fertile di riflessione sulla materia, non ancora analizzata in tutte le sue sfaccettature e problematiche. L'apporto originale di questa indagine risiede nell'identificazione di tematiche, impiegate come paradigmi di lettura, in grado di riunire, non solo lavori singoli, ma anche atteggiamenti, interessi, modalità operative e scelte artistiche, nonché di individuare differenze strutturali, tecniche, epocali e di intenti che corrono tra le opere, grazie a una ricognizione trasversale che attinge a diversi periodi storici e che osserva con sguardo attento l'impiego di diverse tecnologie. Nella prima parte del primo capitolo (TEORIA-Elementi di teoria) si è scelto di approfondire un discorso teorico legato alla storia altalenante e disomogenea del found footage (Contaminazioni), alle analogie con le caratteristiche dell'Unheimlich freudiano, alle teorie (Che cosa è il found footage? Excursus sulle teorie) elaborate finora in ambito internazionale (Jay Leyda, William C. Wees, Eugeni Bonet, Nicole Brenez, Yann Beauvais, Jean-Michel Bouhours, Michael Zryd, Christa Blümlinger, André Habib, Stefano Basilico) e italiano (Rinaldo Censi, Dunja Dogo, Davide Gherardi, Marco Grosoli, Giulio Bursi, Marco Senaldi, Cosetta G. Saba, Maria Rosa Sossai, Monica Dall'Asta, Andrea Bellavita, Federico Rossin) – e ai Concetti del Postmoderno applicabili al found footage. Le riflessioni attorno al Postmoderno, alle nuove teorie sullo spettatore e l'autorialità sono stimolo a una ricognizione che abbraccia autori, testi e opere di differenti generazioni e provenienti da diversi background. Queste teorie sono lette in filigrana all'interno dell'intera ricerca dando alle volte per scontati alcuni suoi elementi noti, e facendo invece riemergerne in maniera più esplicita altri imprescindibili alla comprensione di determinate dinamiche. La credibilità teorica e artistica dell'esperienza postmoderna è considerata una componente implicita, superando i dibattiti interni e gli attacchi esterni che questo movimento ha subito negli anni, per impiegarne soltanto le reali potenzialità ermeneutiche. Nella seconda parte del primo capitolo (La cultura del frammento e della rovina) si affrontano questioni legate alla qualità del materiale riutilizzato (Frammento/Rovina/Memoria), le afferenze teoriche con le tecniche impiegate negli altri campi artistici e delle immagini in movimento (Collage/Montage/Interruzione), l'atteggiamento attraverso cui si guarda al materiale stesso (Archeologia, Archiviologia, Nostalgia). Nella terza parte del primo capitolo (L'eredità del ready-made) si tratta il soggetto dal punto di vista della storia dell'arte, in particolare, in relazione al concetto di objet trouvé e alla pratica duchampiana del ready-made, di cui il found footage sembra essere una rivisitazione. Si rintracciano le motivazioni estetiche e pratiche, spesso legate a fattori contingenti, della scelta del materiale di found footage (Perché scegliere il found footage), l'evoluzione tecnologica e le sue incidenze nella pratica del found footage, il contesto storico e culturale delle prime sperimentazioni. Si analizzano, dunque, le influenze del concetto di ready-made ereditato dall'arte (L'eredità del ready-made), i punti di contatto che il found footage mantiene con le pratiche artistiche del collage e della cover (Ready-made, collage e cover: interferenze col found footage) e lo slittamento epocale di ruolo dalla figura dell'autore a quella moderna dell'editor, nel significato inglese di "montatore" come intende Lev Manovich (Autore o editore?), che genera nuovi pensieri su questo tema. Conclude questa sezione un paragrafo dedicato alle interferenze tra le modalità e le figure impiegate nella letteratura e quelle assimilate e traslate da essa nel cinema e, nello specifico, nel found footage (Cinema versus Letteratura). Visto il continuo scambio di informazioni e di linguaggi tra le Arti (visive e cinematografiche nel nostro caso) avvenuto a partire dalla metà del XIX secolo, si è scelto di non operare distinzioni tra gli autori in base alla loro provenienza e formazione. Lavori di artisti visivi, filmmaker, cineasti e registi, vengono analizzati sotto un'unica lente che inquadri di volta in volta le tendenze rintracciabili nei diversi ambiti delle immagini in movimento. L'attenzione sul percorso degli autori lascia dunque posto a quella sulle problematiche e sulle tematiche affrontate dalle opere stesse, spostando così i riflettori dal soggetto all'oggetto. Nella parte centrale del lavoro (IPOTESI DI CATEGORIE E STUDI DI CASO) si esplorano alcuni casi scelti, non secondo il grado di riconoscibilità, ma secondo l'attinenza con le suddivisioni per argomento individuate, in modo da creare un paradigma adattabile a più situazioni di studio. Si tralasciano spesso le opere e gli autori più noti nell'ambito del found footage non per noncuranza, ma per dare invece possibilità di lettura anche a lavori meno frequentati. Mentre si sceglie di inserire tra gli altri anche alcuni capisaldi della pratica essendo funzionali alle questioni trattate di volta in volta, cercando comunque di evitare la ripetizione delle interpretazioni già ampiamente divulgate su taluni argomenti. Essendo impossibile stabilire la quantità di found footage che un film deve contenere per essere chiamato tale, non esiste una metodologia scientifica di classificazione dei lavori. Per questo motivo è fondamentale, una volta chiarite le coordinate teoriche che inquadrano il fenomeno, fissare poi alcune possibili linee guida tematiche sostenute da esempi concreti. Prendendo spunto dalla suddivisione applicata dal "Lux, Artists' Moving Image" di Londra alla propria collezione di film e video, una delle più ricche d'Europa, si delineano quattro aree specifiche: nella prima si trattano i lavori che costruiscono degli inediti Ritratti di città, attraverso una rappresentazione spesso visionaria e poetica (Hart of London di Jack Chambers, The Last of England di Derek Jarman) che rifugge le descrizioni didascaliche, oppure, che si compiace della raccolta certosina di materiale a soggetto (Los Angeles plays itself di Thom Anderson); nella seconda si affrontano i film che rintracciano nell'Uso delle Macchine e delle Tecnologie, alcuni temi di indagine tra i più diffusi ed esplorati nella pratica del reimpiego, secondo un punto di vista ironico (Rythm di Len Lye), critico e riflessivo (21–87 di Arthur Lipsett, Mercy di Abigail Child, The Rumour of True Things di Paul Bush) e metaforico-nostalgico (Manual di Christoph Girardet e Matthias Müller); nel terzo, Looking for Alfred , si prendono in esame i film che ammiccano e rielaborano alcune famose sequenze hitchcockiane (Phoenix Tapes di Christoph Girardet e Matthias Müller), oppure che impiegano lavori interi del regista inglese scardinandone e ricomponendone il significato originario (24 Hour Psycho di Douglas Gordon, vertigo di Martin Zet e (Schizo) Redux di Cristoph Draeger); per ultimo si analizzano alcuni film che, attraverso sequenze a soggetto, rintracciano nelle storie epocali e mediatiche de Il Presidente (John Fitzgerald Kennedy in REPORT di Bruce Conner), il Senatore (Robert Kennedy in Black TV di Aldo Tambellini), il Leader (Malcolm X in Perfect Film di Ken Jacobs) e la Celebrità (Marilyn Monroe in Marilyn Time Five di Bruce Conner e Filmarilyn di Paolo Gioli) materiale di interesse sociologico, politico e artistico. Questa distinzione di soggetti rende l'indagine più fluida e permette contestualmente di individuare dinamiche comuni ad artisti e filmmaker di paesi e generazioni differenti. Il modo di trattare ciascun argomento supera, infatti, le barriere temporali per snodarsi in una ricerca verticale che accolga rappresentanti di diversi periodi storici alle prese con metodologie di lavoro simili per scelta dei soggetti rappresentati ma spesso molto distanti per procedimento tecnico o per linguaggio artistico. In ciascun sottogruppo si trovano a convivere indistintamente film che reimpiegano materiale cinematografico, materiale televisivo, materiale d'archivio, materiale home movies e materiale girato e rielaborato dall'autore stesso. Tecniche di montaggio differenti sono inoltre ravvisabili in ciascun lavoro, da quelli realizzati in scratch video e cut up, a quelli in cui il found footage appare nel testo del film solo come una presenza discontinua, dai film in cui il montaggio shot-for-shot e il sonoro costruiscono l'azione, ai film che si presentano come cinema installato. Attraverso l'analisi di una rosa ristretta di lavori (mai più di cinque per ogni categoria e voce individuata), scelti come modelli di riferimento o come campioni estratti arbitrariamente all'interno di una produzione vastissima, è, dunque, possibile eseguire un'ampia ricognizione nelle pratiche di "riuso". Le profonde differenze tecniche, di intenti e di formulazione che contraddistinguono le opere permettono, infatti, di evidenziare importanti soglie epocali generate da fattori contingenti: il progresso tecnologico e l'avvento di apparati di riproduzione sempre più sofisticati, la trasformazione dell'accessibilità delle fonti e della cultura in genere (destinata ad essere sempre più raggiungibile e libera), il diverso atteggiamento che le leggi per il copyright hanno imposto all'uso dei materiali. I punti di questa riflessione costituiscono un paradigma applicabile e interscambiabile tra ciascun gruppo e ciascuna area individuata. L'obiettivo di questa ricerca è, dunque, l'abbozzo di una impalcatura cognitiva, non definitiva, non vincolante, non unica, quanto indispensabile, per la costruzione di una metodologia di lettura dei film appartenenti alla pratica del found footage. La scelta dei raggruppamenti tematici, utili a semplificare la vastità e la frammentarietà dei lavori rintracciabili in questo settore, non comporta volutamente valutazioni semiotiche approfondite ma punta a fornire uno strumento agile e a tutti comprensibile di riflessione e catalogazione. Come si avrà modo di vedere più avanti, il termine "found footage" non si dimostra mai completamente esaustivo della pratica che descrive, ed è anzi molto spesso contestato e ripudiato dagli autori stessi che lo applicano: esso, infatti, identifica più propriamente un certo tipo di materiale (il metraggio trovato) che non il procedimento tecnico a cui fa riferimento, escludendo, almeno a livello letterale, tutte le altre fonti e metodologie di reperimento. Se ne fa qui uso per ragioni di comodità e uniformità lessicale, ma si tiene comunque a precisare che esso è spesso sostituito da termini equivalenti, o ancor più pertinenti, quali "reimpiego", "riuso", "riappropriazione", "citazione", "riqualificazione delle immagini". Difficile, inoltre, è stabilire la tipologia dei supporti su cui questi lavori compaiono per la prima volta: un conto è parlare di supporto originario (super8 o 16mm per la maggior parte dei film elaborati fino agli anni Ottanta), un conto parlare delle copie in distribuzione e del formato su cui spesso sono stati riversati i film (VHS, DVD, file digitale). Per scelta si è deciso di trattare quasi esclusivamente film composti interamente di found footage, o comunque film in cui la parte di reimpiego di immagini è preponderante sul girato originale (spesso considerato dallo stesso autore materiale di riuso alla stregua di quello trovato o cercato, poiché realizzato in tempi differenti e investito perciò di una certa distanza critica e concettuale). Non si affrontano in questa sede film realizzati da utenti anonimi senza particolari velleità artistiche con materiale recuperato in internet, perché ciò richiederebbe uno studio a parte. E, pur consapevoli dell'esistenza di film che non usano ma imitano il found footage, si è preferito non trattare l'argomento dal momento che anch'esso potrebbe esigere un approfondimento a sé, evitando così il rischio di espandere esponenzialmente una ricerca già tentacolare per sua natura. Il primo minuto che apre il film A sense of the End di Mark Lewis (1996) è un ottimo esempio di questo genere. Un capitolo a parte, il terzo, è dedicato, infine, alla questione legale dei diritti d'autore e dell'impiego di immagini già esistenti protette dal copyright o esenti da questo (UN ACCENNO AL DIRITTO D'AUTORE E AL COPYRIGHT). L'evoluzione della legislazione legata a questo tema (Una legislazione poco definita, Breve storia del diritto d'autore, Il fair use americano e la sua applicazione nella legge italiana) permette di seguire di pari passo l'evoluzione dell'accessibilità della cultura e delle attività di riappropriazione delle immagini (Il dominio pubblico e La smaterializzazione dei prodotti e l'era dell'accesso), mettendo in luce le carenze legislative delle norme e gli escamotages che permettono l'aggiramento delle stesse. Chiude l'intera ricerca il caso esemplare di Un Navet di Maurice Lemaître in cui la richiesta di riconoscimento dei diritti da parte di Madame Malthête-Méliès pone l'artista in discussione conducendolo a scavare nella legislazione (francese), coadiuvato da un avvocato preparato, e a reperire quelle eccezioni alla legge grazie alle quali gran parte dei cineasti di found footage possono smettere di considerarsi fuorilegge. La tesi è corredata, inoltre, da una video-filmografia che riporta le schede dettagliate delle opere prese in esame nonché il luogo di reperimento e consultazione delle stesse.
The aim of this article is to explore how the differences between Guy Debord and Gilles Deleuze delineate two different interpretations of the politics of found footage cinema. To do so, the notion of cinematic interval is crucial. While Debord's practice of détournement presupposes a Hegelian-inspired notion of interval that allows for self-awareness to be achieved, Deleuze puts forth a Bergsonian concept of interval that functions as a condition of possibility for creating an 'image of movement in itself'. To explore these two interpretations, this article uses Guy Debord's 1973 film The Society of the Spectacle as a case study. By focusing on this specific object, the two interpretations of the cinematic interval make it possible to compare two alternative ways of dealing with the representability – or unrepresentability – of capital, and hence to sketch two alternative views on the politics of found footage film practices.
El presente trabajo tiene como objetivo resultar relevante para las carreras de Comunicación Audiovisual y Dirección Cinematográfica en particular, pero también puede resultar de interés para otras carreras vinculadas a la comunicación audiovisual como ser Diseño de Imagen y Sonido y Fotografía, que se dictan en la Facultad de Diseño y Comunicación. Por lo tanto el área a la que responde es la Audiovisual. Este trabajo será de utilidad para el alumnado de las carreras anteriormente citadas, ya que plantea el análisis de una tendencia en crecimiento dentro del campo audiovisual en general y del video arte en particular. Si bien, los primeros realizadores de la práctica Found Footage pertenecen a la cinematografía mundial, en Argentina durante la última década se ha desarrollado ampliamente. El resultado de dicha exploración será de gran utilidad como material de consulta para los alumnos interesados en vincularse tanto desde la investigación como desde la práctica, con esta tendencia en crecimiento. La práctica del Found Footage o cine encontrado, es nombrada también por las lenguas latinas como "película de montaje". Este concepto incluye un conjunto de películas muy variadas que están basadas en un material preexistente ya sea de archivo u otra procedencia y son reutilizadas para generar un nuevo discurso. Por lo tanto se generan nuevas obras a partir de obras preexistentes. El desarrollo de dicha tendencia se materializa en la presencia en festivales internacionales como ser el BAFICI (Buenos Aires Festival Internacional de Cine Independiente) en el que participan realizadores argentinos.
Dicha investigación será realizada por mi persona, sin la participación de alumnos u otros docentes. Sin embargo será imprescindible realizar entrevistas a realizadores, críticos y teóricos del medio especializados en el tema, ya que no existe una bibliografía amplia debido a lo incipiente y experimental que resulta ser el objeto de estudio.
Trabajaré con bibliografía específica, complementaria y sitios Web dedicados al tema. Las teorías con las que el presente proyecto se vincula, desde el campo específico son aquellas que definen y estudian lo experimental y las nuevas tendencias surgidas desde los tiempos de la posmodernidad. También con teorías provenientes de la filosofía y puntualmente de la estética que estudia el concepto de creación artística y creatividad, como con teorías provenientes de la sociología de la cultura como ser los conceptos de campo intelectual y proyecto creador.
At the beginning of cinema, in his early twentieth-century research the Soviet director and film theorist Sergei Eisenstein developed his theory of associative montage "1+1=3." Nowadays, new methods have been added to this theory. These variables include the creative re-use of allusions to film history. In contemporary cinema, when a new archive film uses sequences from cinema heritage, it quotes from the past and can activate visually and content-wise complex cultural memories. In these films, the successive placement of two sequences, beyond their association, creates new associative meaning, thus, it calls forth metacinematic associations. This additional meaning is the imprint of cinematic heritage. Final Cut by György Pálfi and Péter Lichter's works make use of the archives of cinematic heritage through a reinterpreted film language, attempting to create independent, innovative works of art. They use the same starting point, based on a directorial concept, but the two attempts resulted in completely different motion pictures. Due to the approach at the basis of their conception, these films illustrate both the linear, i.e., the archetypal narrative film representation and the nonlinear narration. However, these films are not only defined by the scenes they are compiled of, but also bear the particularities of the original motion pictures, referring to and going far beyond the individual characteristics of the scenes themselves. Despite being linear narrative films, the cinematic rhetoric of neither motion picture is continuous but associative - they bring into play layers of film culture. Overall, Eisenstein's formula can be extended in the following way: 1 afs (archive film sequence) + 1 afs (archive film sequence) = 3 mca (metacinematic associations).
Abstract During the 1960's, the invention of portable video technology was accepted as the most suitable medium to support the development of a cultural and political counter-information that was embodied by the various movements and protagonists of the so-called Guerrilla Television. With different approaches, today we are still facing a similar trend based on the appropriation and elaboration of contents proposed by the various mass media, in order to highlight the effect of media saturation and manipulation we are subjected to. The mixing and revision attitudes of digital technologies are currently helping the artists in productions often based on the dismantlement and re-editing of mass media contents. The aim is that of setting up observation points to create works swinging between questioning and denunciation. The analysis of works by authors such as Jean-Gabriel Périot, Canecavolto, Johan Söderberg and John Callaghan, with different languages and perspectives, let us think of a new Digital Guerrilla Television.
This article is devoted to the third part of Barbara Hammer's documentary trilogy, History Lessons. The author analyzes and interprets the form and message of this post-queer essay, with the aim of describing its formula in relation to the mockumentary and found-footage film conventions. She goes back to the pioneer of found footage in the history of world cinema, Esfir Shub, and the position of women in production culture. She refers to Hammer's debut film, Dyketactics (1974), to describe Hammer's artistic and political tactic, consisting of intercepting images of women, rooted in visual history, and the subversive quotation of these images against the idea and context of the original. Dyketactics in History Lessons is about quoting archival materials from the genres of documentary, popular science and pornography with the aim of writing the history of the lives of lesbians in the US from the period before the Stonewall riots, where there is very little coverage of the story. The falsifying of archival materials through the editing manipulation of imagery and sound paradoxically uncovers not so much the truth about the lives of lesbians, as what seems to be hidden in images created with a completely different aim than telling the herstory of American women of various orientations and races.
In the digital age, we often encounter analog photographs as things that – after having been stored away, lost, or even thrown away – are (re)found. The fascination with such found photographs is reflected in a striking way in contemporary essay and documentary film. Found photo films are an essayistic documentary form that has emerged since the turn of the millennium: Films that work with left-behind, rescued, or found convolutions of photographic images, collecting, selecting, and placing them in a new context. They stand in a field of tension between popular aestheticization and re-auratization of analog media in the course of digitalization as well as a long tradition of cinematically reflecting the materiality and mediality of film by working with photography and found footage. Charlotte Praetorius explores such appropriations of analog photographs through a corpus of international films: How do filmmakers relate to photographic found footage? How do the narratives and the narrativity of photography and history intertwine? How is the photographic material arranged and staged? And how can the relationships between different media and materials be grasped? In doing so, Praetorius is also concerned with taking the forms of documentary and essayistic film seriously as a medium for reflecting on (media) history and at the same time also critically questioning them.
Emerging in the UK in the 1980s, Scratch Video established a paradoxical union of mass-media critique, Left-wing politics, and music-video and advertising aesthetics with its use of moving-image appropriation in the medium of videotape. Enabled by innovative professional and consumer video technologies, artists like George Barber, The Gorilla Tapes, and Sandra Goldbacher and Kim Flitcroft deployed a style characterized by the rapid sampling and manipulation of dissociated images drawn from broadcast television. Inspired by the cut-up methods of William Burroughs and the audio sampling practiced by contemporary black American musicians, these artists developed strategies for intervening in the audiovisual archive of television and disseminating its images in new contexts: in galleries and nightclubs, and on home video. Reconceptualizing video's 'body,' Scratch's appropriation of televisual images of the human form imagined a new hybrid image of the post-industrial body, a 'third body' representing a new convergence of human and machine.
TERROR NULLIUS (Soda_Jerk, 2018) is an experimental sample film that remixes Australian cinema, television and news media into a "political revenge fable" (soda_jerk.co.au). While TERROR NULLIUS is overtly political in tone, understanding its specific messages requires unpacking its form, content and cultural references. This thesis investigates the multiple layers of TERROR NULLIUS' politics, thereby highlighting the political strategies and capacities of sample filmmaking. Employing a historical methodology, this research contextualises TERROR NULLIUS within a tradition of sampling and other subversive modes of filmmaking, including Soviet cinema, Surrealism, avant-garde found-footage films, fan remix videos, and Australian archival art films. This comparative analysis highlights how Soda_Jerk utilise and advance formal strategies of subversive appropriation, fair use, dialectical editing and digital compositing to interrogate the relationship between media and culture. It also argues that TERROR NULLIUS employs postmodern and postcolonial approaches to archives and history to undermine positivist, linear historical constructions and colonial mythologies. Building on these formal and theoretical foundations, this thesis also closely reads TERROR NULLIUS to scrutinise the accessibility of its arguments for Australian and international audiences: one reading utilises Donna Haraway's cyberfeminist theory to interpret TERROR NULLIUS' progressive identity politics, and the second explores the cultural and historical references imbedded in TERROR NULLIUS' samples to unpack its commentary on contemporary debates in Australian politics (particularly regarding refugee detention and white nationalism). Ultimately, this multi- faceted analysis of TERROR NULLIUS' form, content and references highlights the complexity of sample films' political messages, which are radically open to diverse interpretations.