La crescente consapevolezza dei limiti naturali imposti dall'ecosistema ha fatto emergere un progressivo consenso in merito a una nuova visione di sviluppo, nella quale i principi di sostenibilità ed efficientamento energetico sono integrati nei quadri di riferimento strategici nazionali e regionali e nelle politiche di settore. I cambiamenti climatici rappresentano infatti un fenomeno attuale di consistente entità e negli ultimi decenni è aumentata, in misura sempre più importante, l'attenzione verso l'ambiente e, più in dettaglio, per il riscaldamento globale, causato dall'enorme quantitativo di emissioni di gas serra rilasciate nell'atmosfera e derivanti da un'attività umana ricca di sprechi e di inefficienze. Il problema ambientale è strettamente legato a quello energetico e quest'ultimo, considerato uno dei settori maggiormente responsabile delle emissioni di gas climalteranti, risulta uno dei nodi che deve essere affrontato e risolto in tempi brevi, per contenere i danni recati al nostro pianeta. Risulta fondamentale trovare modelli di sviluppo più sostenibili e investire in risorse e tecnologie per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Per far ciò è necessario delineare percorsi e azioni che promuovano l'efficienza energetica e l'utilizzo di fonti rinnovabili, da compiere sia individualmente che collettivamente. Secondo dati recenti più della metà della popolazione mondiale vive all'interno degli insediamenti urbani. Le proiezioni di crescita degli agglomerati urbani, secondo le previsioni dei World Urbanization Prospects, portano a stimare che, nel 2030, il 60% della popolazione totale (stimata intorno a 8,5 miliardi di persone) sarà urbanizzata fino a raggiungere il livello del 70% nel 2050. Assume sempre maggiore importanza, quindi, la problematica della stretta interdipendenza tra città e ambiente globale che era tipica essenzialmente dei paesi più industrializzati quali l'Italia ma, che ora, si è estesa anche ai paesi più popolosi della terra con conseguenze facilmente immaginabili sugli impatti ambientali. Si stima infatti che il 40-50% delle emissioni di gas serra siano ormai da attribuire al settore edile contro il 25% dovuto ai trasporti e il restante 25% ascrivibile al settore industriale. È quindi nei luoghi in cui tali attività si concentrano – gli agglomerati urbani – che bisogna indirizzare gli sforzi congiunti a livello mondiale per realizzare le azioni di protezione e tutela dell'ambiente e del clima globale. Da questa consapevolezza è derivato il termine di "architettura sostenibile" che vuole rappresentare una nuova concettualizzazione dell'architettura rivista in coerenza con il pensiero di uno sviluppo sostenibile inteso come "meetings the need of the present without compromising the ability of the future generations to meet their own needs". Oggi, comunque, bisogna già rivedere l'approccio all'edilizia sostenibile che in passato era concentrato prevalentemente sugli aspetti ecologici per finalizzare gli sforzi sulle problematiche della conservazione dell'energia e della sostenibilità ambientale in tutte le fasi del processo edilizio per studiare e mettere a punto regole, criteri e tecnologie integrate nel rispetto dei più recenti documenti programmatici internazionali. Oltre alla problematica energetica, infatti, nei vari trattati transnazionali si evidenzia come i punti critici relativi alla "sostenibilità" implichino una attenzione particolare all'utilizzo razionale di altre fondamentali risorse per il pianeta quali acqua, materiali e suolo. I cinque principi cardine da utilizzare per la salvaguardia delle risorse ambientali sono dunque: - riusare; - rinnovare; - riciclare; - proteggere; - conservare. Il campo principale individuato per la messa in relazione di sistemi di produzione moderni ed efficienti con l'utilizzo sostenibile delle risorse è proprio quello dell'edilizia; ciò deve essere fatto nella progettazione dei nuovi edifici ma anche nell'adeguamento di quelli esistenti che rappresentano la stragrande maggioranza del patrimonio edilizio italiano ed europeo. Nel recupero degli edifici esistenti, che sono difficilmente adattabili ai nuovi canoni di progettazione, si deve comunque scegliere di intervenire utilizzando - ove possibile - sistemi di produzione di energie da fonte rinnovabile e al contempo contenendo i consumi con un efficientamento dell'involucro, dopo una attenta analisi delle prestazioni energetiche e dei caratteri tipologici dell'esistente (diagnosi energetica). L'originalità dell'approccio di ricerca presente nel volume riguarda essenzialmente il lavoro iniziale sulle tipologie edilizie esistenti nella regione Lazio, di analisi sullo stato dell'arte di sistemi e componenti preferibilmente prefabbricati e/o plug and play esistenti sul mercato internazionale e nazionale e sul loro livello di diffusione per seguire la logica oramai cogente del concetto di edilizia off-site con un particolare riferimento ai materiali di origine locale. Il risultato finale è stata quindi la redazione di linee guida funzionali alle attività dei tecnici di settore operanti sul territorio della regione Lazio al fine di supportare nel loro compito di valutare, progettare e seguire gli interventi di efficientamento energetico degli edifici. La scelta è stata orientata verso prodotti che garantiscano elevate performance sia energetiche che antisismiche e caratterizzati da idonei parametri prestazionali termo-fisici e di sicurezza strutturale che consentano inoltre di correlare la loro applicabilità alle diverse zone climatiche. A supporto delle analisi di cui sopra, nel volume sono riportati materiali e tecnologie desunte da alcune best practices del Progetto Enerselves, esemplificative dei sistemi standardizzati adottati per arrivare allo sviluppo uniformato di quegli elementi/sistemi/processi che necessitano di adeguamento ai nuovi requisiti prestazionali previsti dalle normative vigenti e che non risultano sufficientemente diffusi nell'ottica di standardizzazione del processo produttivo e realizzativo. L'applicazione di alcune di queste tipologie di intervento in due casi studio (residenziale e patrimonio pubblico) gestiti in logica BIM2 permette di valutarne l'efficacia nonché di apprezzare al contempo le potenzialità introducibili dalle logiche di digitalizzazione applicate al processo edilizio. Partendo quindi dalle tipologie costruttive selezionate e dall'individuazione dei nodi strutturali ad esse correlati gli autori hanno individuato, in funzione delle diverse componenti/partizioni, tempistiche e tecniche di montaggio dei singoli sistemi e componenti, fino ad arrivare all'individuazione di un abaco di elementi/moduli/tecnologie prefabbricati standard in grado di rispondere alle diverse esigenze climatiche, geometrico/dimensionali e tecnico/prestazionali che si possono riscontrare nella realtà costruttiva abitativa italiana.
L'oggetto di questa tesi è la peculiare comparsa del termine imperator in un numero esiguo, ma comunque significativo di documenti provenienti dal regno di Asturia e León e dalla Britannia del X secolo. Se già di per sé questa sorta di "incongruenza storica" cattura l'attenzione, il fatto che i due fenomeni imperiali siano praticamente contemporanei e si sviluppino in due contesti molto distanti nello spazio, senza un apparente collegamento, evidenzia l'opportunità di uno studio comparativo. Ad una più attenta analisi, non si può fare a meno di notare come, in entrambi gli ambiti, il secolo immediatamente precedente sia stato caratterizzato da un momento particolarmente favorevole per la cultura – el renacimiento asturiano e the alfredian renaissance – reso possibile dall'azione attiva di due monarchi, Alfonso III di Asturia e León (866-910) e Alfred di Wessex (871-899). Nelle corti di questi sovrani vennero redatte delle cronache (le Crónicas Asturianas e la Anglo-Saxon Chronicle) nelle quali si proponeva una chiave di lettura della storia tesa a ricercare una nuova identità per i rispettivi popoli e si sottolineava il ruolo centrale delle rispettive dinastie regnanti. L'obiettivo della tesi è pertanto duplice: da una parte si desidera comprendere in quale modo e in quale senso sia stato utilizzato il termine imperator nella documentazione presa in esame, dall'altra si prova a capire quale peso ebbero le nuove identità etniche, religiose e territoriali, elaborate nelle già citate cronache, all'interno di questi fenomeni imperiali. Per una miglior resa dell'argomentazione si è deciso di dividere la tesi in due blocchi, il primo dedicato alle cronache del IX secolo e il secondo ai documenti in cui compare il titolo imperiale, risalenti al secolo successivo. A sua volta ciascun blocco si divide quindi in due capitoli, all'interno dei quali le tematiche vengono declinate nel caso ispanico e in quello anglosassone. La tesi si apre con la presentazione dei criteri impiegati nella selezione del corpus di "documenti imperiali" (Cap. 1) – nome con cui si definiscono i diplomi al cui interno compare il titolo di imperator – che ammontano ad un totale 38, di cui 20 asturiano-leonesi (privati e pubblici) e 18 anglosassoni (esclusivamente pubblici). A seguire viene fornito il contesto storico (Cap. 2) e lo status quaestionis (Cap. 3). Nel primo capitolo del primo blocco (Cap. 4) vengono trattate le tre cronache prodotte nella corte asturiano-leonese alla fine del IX secolo: conosciute anche come Crónicas Asturianas, sono intitolate rispettivamente Crónica Albeldense, Crónica Profetica e Crónica de Alfonso III. Per rendere il quadro qui esposto il più completo possibile si inizia trattando il patrimonio librario a disposizione degli autori delle cronache. A seguire si delineano i profili delle tre opere, soffermandosi in particolar modo sulla loro paternità e datazione. Si forniscono quindi indicazioni sulla tradizione manoscritta di queste cronache per poi tracciare un percorso tra le fonti. In questa parte si chiariscono concetti come quello di identità (etnica, religiosa e geografica), e si assiste alla comparsa di temi storiografici come quelli della Reconquista e del neogoticismo. Questi elementi costituiscono il punto di partenza per un ragionamento teso a far emergere il background ideologico comune a tutte e tre cronache. Nel corrispettivo capitolo inglese (Cap. 5) si delinea un profilo della produzione letteraria, in particolare storiografica, che ha caratterizzato le ultime due decadi del IX secolo anglosassone. Si inizia inquadrando gli uomini che formarono parte della cosiddetta alfredian reinassance per poi analizzare il ruolo avuto, all'interno di questo momento di rinascita culturale, dalle traduzioni in Old English delle grandi opere storiografiche. Infine, si propone una rilettura dell'unica opera storiografica scritta ex novo – l'Anglo-Saxon Chronicle – dalla quale emerge come fil rouge il concetto di overlordship. Questo è il nome che gli studiosi moderni hanno dato all'autorità che alcuni re anglosassoni poterono esercitare al di sopra degli altri regni dell'isola: si trattava di una supremazia principalmente militare che portava un re, per periodi spesso brevi, ad imporre la propria sovranità – e talvolta dei tributi – a popolazioni diverse dalla propria. Questa idea di sovranità sovrapposta era già presente in Beda e viene recuperata dai cronisti anglosassoni che la ricollegano, in maniera evidente, alla dinastia dei re del Wessex, coniando per quei re che la detennero la parola bretwalda. A conclusione del primo blocco è presente un capitolo di confronto (Cap. 6) che permette di tirare le somme della prima metà della tesi. Si ribadiscono alcuni punti in comune tra i due casi di studio qui definiti "macrocongruenze": sia la Britannia che la Spania erano parte dell'impero romano, ma non di quello carolingio e subirono un'invasione durante l'Alto Medioevo (danesi/norvegesi la prima e islamici la seconda); in entrambi i casi la produzione di cultura scritta durante il IX secolo orbitava attorno alla figura del monarca; le cronache del periodo celebrano la dinastia regnante come elemento cardine della storia "nazionale" e così facendo ne legittimano l'autorità; fra le pagine di queste cronache vengono proposte nuove identità per entrambe le popolazioni. Tuttavia, al di là di queste evidenti somiglianze, si è notato come, all'interno della cronachistica, si sia arrivati a due modi particolari di rappresentare sé stessi, il proprio regno, il proprio popolo e il proprio contesto geografico. Sono queste differenze a suscitare un particolare interesse dal momento che, come è stato chiaro sin dalla sua fase embrionale, in nessun modo lo scopo di questa ricerca è l'omologazione: non si sta cercando di uniformare la storia inglese del IX e X secolo con quella spagnola dello stesso periodo, per quanto esse abbiano sicuramente dei punti in comune. Nel capitolo di confronto si riflette quindi sulle particolari soluzioni autorappresentative soluzioni a cui sono giunti i cronisti asturiani e anglosassoni riguardo a tre punti chiave: il recupero del passato, la concezione territoriale dell'ambiente geografico e la questione identitaria. Non si può infatti trascurare il differente peso che ebbero nei relativi ambiti il ricordo del regno visigoto e quello dell'Eptarchia anglosassone e dunque, rispettivamente, le opere di Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile. Sarebbe inoltre sbagliato non sottolineare le differenze tra le due nuove proposte identitarie: quella inglese su base spiccatamente etnica (Angelcynn) e quella ispanica su base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Non poteva infine mancare un paragrafo dedicato ai differenti rapporti tra i due ambiti studiati e il mondo carolingio contemporaneo. Nel secondo blocco vengono sviscerati i fenomeni imperiali. Il capitolo dedicato all'ambito ispanico (Cap. 7) si apre con una riflessione sulle varie figure di scriptores del regno di León e sul peso avuto dai formulari visigoti nella documentazione altomedievale. Al principio del corrispettivo capitolo inglese (Cap. 8) vengono invece presentati due casi di utilizzo del termine imperiale precedenti il X secolo: quello di sant'Oswald di Northumbria (634-642) nella Vita Sancti Columbae di Adomnano di Iona e quello di Coenwulf di Mercia (796-821) nel documento S153. Seguono due paragrafi dedicati alla documentazione di Edward the Elder (899-924) e Æthelstan (924-939) che mettono in luce un sostanziale sviluppo della titolatura regia, indice di un progressivo ampliamento dell'autorità di questi monarchi. Il centro di entrambi i capitoli del secondo blocco consiste nella dettagliata analisi dei documenti imperiali e nelle riflessioni che da questa scaturiscono. Nel caso spagnolo è possibile affermare con una certa sicurezza che l'uso del titolo imperator ebbe inizio con il figlio, Ordoño II, che lo attribuì al padre per rafforzare la propria posizione di re di León. Tra la morte di Ordoño II (924) e l'ascesa al trono di Ramiro II (931) il titolo cominciò ad essere adoperato anche nella documentazione privata, senza per questo scomparire da quella regia. Non è purtroppo possibile cercare di ricondurre il fenomeno imperiale ispanico alla figura di uno scriptor in particolare – a differenza del caso inglese –; va però fatto presente che alcuni testi risalenti alla seconda metà del secolo differiscono dai documenti di Ordoño II nell'impiego del termine, poiché questo viene usato in riferimento al re vivente, anziché al padre defunto. Il titolo, almeno all'inizio del X secolo, non sembra riflettere un'autorità superiore (per l'appunto imperiale), ma richiama la sua più antica accezione, quella di "generale vittorioso" e costituisce una prerogativa dei sovrani leonesi. Per quanto riguarda il fenomeno imperiale inglese, invece, è possibile individuare un punto di inizio nei famosi alliterative charters, probabilmente redatti da Koenwald di Worcester (928/9- 957), sulla cui paternità si discute lungamente nella tesi. Sembra chiaro che imperator altro non sia che la traduzione latina di quello che gli storici hanno definito overlord. Tramite l'impiego di tale titolo i sovrani anglosassoni hanno voluto rappresentare la loro crescente egemonia sugli altri regni dell'isola, rivendicando così un'autorità più territoriale che etnica. Occorre però far presente che l'uso della terminologia imperiale forma parte di quel più ampio processo di evoluzione della titolatura regia già iniziato con Edward the Elder. Queste riflessioni vengono poi messe in relazione con quelle del primo blocco e sviluppate nelle conclusioni (Cap. 9). Esse vertono su quattro punti fondamentali: l'uso del documento e della lingua latina nei due ambiti; la Britannia e la Spania come universi a sé; il significato di imperator nei due contesti documentari; la concezione territoriale come presupposto teorico e geografico di questo utilizzo. La lettura delle fonti ci permette di affermare che entrambi i contesti rappresentavano per i rispettivi sovrani degli universi idealmente a sé stanti. I sovrani leonesi e anglosassoni ereditarono dai loro predecessori non solo una "missione" politica – di riconquista per i primi e di controllo per i secondi –, ma anche una specifica concezione – diversa per ciascun caso – dell'ambiente geografico in cui si trovavano a operare. La Britannia del re-imperatore anglosassone è la Britannia di Beda, frammentata e divisa, eppure tutto sommato unita. La Spania dei re leonesi è la Spania di Isidoro, unita, omogenea, ma drammaticamente perduta. Tuttavia, per il caso spagnolo e nel periodo qui preso in esame, al titolo non venne mai accostato un riferimento spaziale che rimandasse ad un dominio su tutta la penisola. In quello inglese, invece, tale accostamento ci fu, ma il riferimento geografico alla Britannia non fu un'esclusiva del titolo imperiale. Possiamo quindi dire che, nel caso inglese, il titolo nacque per il bisogno di tradurre in latino un'autorità indiretta ed egemonica (come quella di un rex regum), e perse poi questo significato – e quindi l'uso –, quando la situazione politica del regno si modificò; nel caso spagnolo invece, avvenne un'elaborazione quasi simmetricamente opposta. Il titolo, inizialmente usato nel suo significato più antico di "generale vittorioso" o "signore potente", venne poi reinterpretato quando nell'XI e XII secolo cambiarono gli equilibri politici della penisola. In questo periodo troviamo infatti sovrani come Alfonso VI e Alfonso VII impiegare titolature quali imperator totius Hispaniae. In entrambi i casi, l'imperator venne inteso come sinonimo di rex regum, ma in due momenti diversi: ovvero quando ve ne fu effettivamente bisogno. La tesi è provvista di mappe e della bibliografia, divisa tra fonti e studi. Inoltre si è considerato utile aggiungere in appendice i testi dei documenti imperiali. ; The subject of this thesis is the peculiar presence of the term imperator in a small, but still significant, number of 10th century documents from the reign of Asturia and León and from Britain. The fact that these two "imperial phenomena" coexisted and developed in two very distant contexts, without an apparent connection, makes a comparative study necessary. Also, in both areas the previous century was characterized by a particularly favorable moment for culture - el renacimiento asturiano and the alfredian renaissance - made possible by the action of two monarchs, Alfonso III of Asturia and León (866-910) and Alfred of Wessex (871-899). In these sovereigns' courts, chronicles were drawn up (the Crónicas Asturianas and the Anglo-Saxon Chronicle), proposing an interpretation of history which tend to seek a new identity for the respective peoples, highlighting the central role of the respective ruling dynasties. The aim of the thesis is therefore twofold: on the one hand, to understand in what way and in what sense the term imperator was used in the documentation examined; on the other hand, to estimate what weight the new ethnic, religious and territorial identities had within these imperial phenomena. For a better performance of the argument, it was decided to divide the thesis into two parts, the first dedicated to the chronicles of the 9th century and the second to the documents of the following century in which the imperial title appears. In turn, each part is divided into two chapters focused on Hispanic and Anglo-Saxon cases. The thesis opens with the presentation of the criteria used in the selection of the corpus (Ch. 1), which amounts to a total of 38 imperial documents, of which 20 Asturian-Leonese (private and public) and 18 Anglo-Saxon (exclusively public). The historical context (Ch. 2) and the status quaestionis (Ch. 3) are provided below. The first chapter of the first part (Ch. 4) deals with the three chronicles produced in the Asturian-Leonese court at the end of the 9th century. Also known as Crónicas Asturianas. they are respectively entitled Crónica Albeldense, Crónica Profetica and Crónica de Alfonso III. This chapter starts treating the Asturian library, available to the authors of the chronicles, and follows with the description of each chronicle, focusing on their paternity and dating. It then provides information about the manuscript tradition of each chronicle and it finally ends with an overall reading of the sources. Here, concepts such as identity (ethnic, religious and geographic) are clarified, and we observe the origin of historiographic themes such as those of the Reconquista and neo-Gothicism. These elements constitute the starting point for a reflection aimed at bringing out the ideological background common to all three chronicles. In the corresponding English chapter (Ch. 5) is outlined a profile of the literary production, in particular historiographic, which characterized the last two decades of the 9th century in England. We start by framing the men who formed part in the so-called alfredian reinassance and then analyze the role played in this moment of cultural rebirth by the translations in Old English of the great historiographic works. Finally, we propose a rereading of the only historiographic work written ex novo, the Anglo-Saxon Chronicle, where the concept of overlordship emerges as a common thread. Overlordship is the name that modern scholars have given to the authority that some Anglo-Saxon kings were able to exercise over other kings in the island. It is a predominantly military supremacy which leads a king, for often short periods, to impose his sovereignty - and sometimes tributes - on populations other than his own. This idea of overlapped sovereignty was already present in Beda and is recovered by the Anglo-Saxon chroniclers who relate it, explicity, to the dynasty of the kings of Wessex, coining for those kings who held it the term bretwalda. At the end of the first part there is a comparison chapter (Ch. 6) that draws the conclusions of the first half of the thesis. Some points in common (here called "macrocongruenze") between the two case studies are reiterated: both Britain and Spania formed part of the Roman Empire, but not of the Carolingian Empire and both suffered an invasion during the Early Middle Ages (Danes / Norwegians and Muslims); in both cases the production of written culture, during the 9th century, orbited around the figure of the monarch; the chronicles celebrate the reigning dynasty as the centre of "national" history to legitimize its authority; among the pages of these chronicles new identities are proposed for both populations. However, beyond these obvious similarities, it has been noted that the chronicles adopted two different ways of self-representing themselves, their kingdom, their people and their geographical context. The comparison chapter therefore reflects on three key points: the recovery of the past, the territorial conception of the geographical environment and the identity issue. In fact, we cannot neglect the different importance that the memory of the Visigoth kingdom and of the Anglo-Saxon Heptarchy (and therefore, respectively, the works of Isidore of Seville and the Venerable Bede) had. It would also be wrong not to underline the differences between the two new identity proposals: the English one had a distinctly ethnic base (Angelcynn), while the Hispanic base was mainly religious base (regnum Xristianorum). The last paragraph if finally dedicated to the different relationships between the two areas studied and the contemporary Carolingian world could not be missing. In the second block imperial phenomena are examined. The chapter dedicated to the Hispanic context (Ch. 7) opens with a reflection on the various figures of scriptores of the kingdom of León and on the weight of Visigoth formulae in the early medieval documentation. At the beginning of the corresponding English chapter (Ch. 8) are presented two cases of a use of the imperial term preceding the 10th century: that of Saint Oswald of Northumbria (634-642) in the Adomnan of Hy's Vita Sancti Columbae of and that of Coenwulf of Mercia in the charter S153. These cases are followed by two paragraphs dedicated to Edward the Elder's and Æthelstan's documentation, which highlight a substantial development of the royal title, pointing out an expansion of the authority of these monarchs. The center of both the chapters of the second block consists in the detailed analysis of the imperial documents and in the reflections that arise from it. In the Spanish case, it is possible to affirm with some certainty that the use of the imperator title began with his son, Ordoño II, who attributed it to his father to strengthen his position as king of León. Between the death of Ordoño II (924) and the ascent to the throne of Ramiro II (931), the title also began to be employed into private documentation, without disappearing in the public one. Unfortunately, it is not possible, as it is in the English case, to trace the Hispanic imperial phenomenon back to a particular scriptor. However, it should be noted that some texts dating from the second half of the century differ from the charters of Ordoño II in the use of the term, adopting it in reference to the living king, rather than the deceased father. The title, at least at the beginning of the tenth century, does not seem to reflect a superior (or imperial) authority, but recalls its most ancient meaning, of "victorious general" and constitutes a prerogative of the Leonese sovereigns. As for the English imperial phenomenon, however, it is possible to identify a starting point in the famous alliterative charters, probably drawn up by Koenwald of Worcester (928/9- 957), whose authorship is largely discussed in the thesis. It seems clear that imperator is nothing but the Latin translation of what historians have called overlord. Through the use of this title, the Anglo-Saxon rulers wanted to represent their growing hegemony over the other kingdoms of the island, thus claiming a more territorial than ethnic authority. However, it should be noted that the use of imperial terminology forms part of the broader process of evolution of the royal title that started with Edward the Elder. These reflections are then related to those of the first part and developed in the conclusions (Ch. 9). They focus on four fundamental points: the use of the documentation and the Latin language in the two areas; Britain and Spania as self-contained universes; the meaning of imperator in the two documentary contexts; the territorial conception as a theoretical and geographical assumption of this use. Reading the sources allows us to affirm that both contexts represented universes ideally self-contained for their respective sovereigns. The Leonese and Anglo-Saxon rulers inherited from their predecessors not only a political "mission" - reconquering for the former and control for the latter -, but also a specific conception - different for each case - of the geographical environment in which they found themselves operate. The Britannia of the Anglo-Saxon king-emperor is Bede's Britannia, fragmented and divided, but spiritually united. The Spania of the Leonese kings is Isidoro's Spania, united, homogeneous, but dramatically lost. However, for the Spanish case in the period examined here, the imperial title was never related to a geographical reference; in the English one, the geographical reference to Britannia existed, but was not exclusive to the imperial title. We can therefore say that, in the English case, the title was born out of the need to translate into Latin an indirect and hegemonic authority (like that of a rex regum), and then lost this meaning - and therefore the use - when the political situation of the kingdom changed. In the Spanish case, conversely, an almost symmetrically opposite processing took place. The title, initially used in its oldest meaning as "victorious general" or "powerful lord", was reinterpreted in the 11th and 12th centuries, when the political balance of the peninsula changed. In this period, we find in fact rulers like Alfonso VI and Alfonso VII employing titles such as imperator totius Hispaniae. In both cases, the emperor was intended as a synonym for rex regum, but in two different moments - always when it was more needed. The thesis is equipped with maps and bibliography, divided between sources and studies. Furthermore, it was considered useful to add a final appendix with the texts of the imperial documents. ; El tema de esta tesis es la aparición peculiar del término imperator en un número pequeño, pero significativo, de documentos del siglo X procedentes de los reinos de Asturias y León y de Inglaterra. Si en sí mismo este tipo de "coincidencia histórica" capta la atención, el hecho de que los dos fenómenos imperiales sean prácticamente contemporáneos y se desarrollen en dos contextos muy distantes en el espacio, sin una conexión aparente, pone de manifiesto la necesidad de un estudio comparativo. Tras una ulterior búsqueda, no pasa desapercibido cómo, en ambas áreas, el siglo inmediatamente anterior se caracterizó por ser un momento particularmente favorable para la cultura – el renacimiento asturiano y the alfredian reinassence –, hecho posible por la acción de dos monarcas, Alfonso III de Asturias y León (866-910) y Alfred de Wessex (871-899). En los entornos de estos soberanos, se elaboraron crónicas (las Crónicas Asturianas y la Anglo-Saxon Chronicle) que proponían una lectura de la historia destinada a buscar una nueva identidad para los respectivos pueblos, subrayando el papel central de las respectivas dinastías gobernantes. El objetivo de la tesis es, por lo tanto, doble: por un lado, se quiere entender de qué manera y en qué sentido se utilizó el término imperator en la documentación examinada y, por otro lado, tratamos de comprender qué peso tenían las nuevas identidades étnicas, religiosas y territoriales, dentro de estos fenómenos imperiales. Para una mejor presentación de los argumentos, se decidió dividir la tesis en dos bloques: el primero dedicado a las crónicas del siglo IX y el segundo a los documentos del siglo siguiente en los que aparece el título imperial. A su vez, cada bloque se divide en dos capítulos donde se desarrollan las temáticas en los casos hispanos y anglosajones. La tesis comienza con la presentación de los criterios utilizados para la selección del corpus de "documentos imperiales" (Capítulo 1) – los diplomas donde aparece el título de imperator –, que asciende a un total de treinta y ocho, veinte de los cuales son asturianos-leoneses (privados y públicos) y dieciocho anglosajones (exclusivamente públicos). El contexto histórico (Capítulo 2) y el status quaestionis (Capítulo 3) se proporcionan a continuación. En el primer capítulo del primer bloque (Capítulo 4) se presentan las tres crónicas producidas en la corte asturiano-leonesa a finales del siglo IX. También conocidas como Crónicas Asturianas, estas son la Crónica Albeldense, la Crónica Profética y la Crónica de Alfonso III. Para conseguir una visión lo más completa posible, comenzamos viendo los libros que los autores de las crónicas tenían a su disposición. A continuación, se analizan las tres obras, con una particular atención a su autoría y datación. Finalmente, proporcionamos indicaciones sobre la tradición manuscrita de estas crónicas y trazamos un camino entre las fuentes. En esta parte se van perfilando cuestiones cruciales, como la identidad (étnica, religiosa y geográfica), y temas historiográficos, como la Reconquista y el neogoticismo. Estos elementos constituyen el punto de partida para un razonamiento destinado a resaltar el trasfondo ideológico común a las tres crónicas. En el capítulo sucesivo (Capítulo 5) se traza un perfil de la producción literaria, en particular historiográfica, que caracterizó las últimas dos décadas del siglo IX anglosajón. Se comienza enmarcando a los hombres que formaron parte del llamado alfredian reinassance y analizando sucesivamente el papel desempeñado por las traducciones en Old English de las grandes obras historiográficas en este momento de renacimiento cultural. Finalmente, proponemos una nueva lectura de la única obra historiográfica escrita desde cero, la Anglo-Saxon Chronicle, a partir de la cual el concepto de overlordship emerge como un hilo conductor. Este es el nombre que los eruditos modernos le han dado a la autoridad que algunos reyes anglosajones pudieron ejercer sobre los otros reyes de la isla. Es una supremacía predominantemente militar que lleva a un rey – a menudo por períodos cortos – a imponer su soberanía, y a veces tributos, a poblaciones distintas de la suya. Esta idea de soberanía superpuesta ya estaba presente en Beda y es recuperada por los cronistas anglosajones que la relacionan, evidentemente, con la dinastía de los reyes de Wessex, acuñando para aquellos reyes la palabra bretwalda. Al final del primer bloque hay un capítulo de comparación (Capítulo 6) que permite resumir las conclusiones de la primera mitad de la tesis. Se reiteran algunos puntos en común entre los dos estudios del caso: tanto Britannia como Spania formaron parte del Imperio Romano, pero no del Imperio Carolingio y sufrieron una invasión durante la Alta Edad Media (Daneses / Noruegos e islámicos); en ambos casos, la producción de cultura escrita durante el siglo IX orbitaba alrededor de la figura del monarca. Las crónicas resultantes de este período celebran la dinastía reinante como la piedra angular de la historia "nacional" y al hacerlo legitiman su autoridad; entre las páginas de estas crónicas se proponen nuevas identidades para ambas poblaciones. Sin embargo, más allá de estas similitudes obvias, se ha observado que dentro de las crónicas ha habido dos formas particulares de representación de sí mismos, de su reino, de su gente y de su contexto geográfico. Son estas diferencias las que despiertan un interés particular, ya que, como ha quedado claro desde el principio, no hay absolutamente ningún intento de homologar la historia inglesa de los siglos IX y X con la historia española del mismo período, aunque sin duda tienen puntos en común. Por lo tanto, el capítulo de comparación reflexiona sobre las particulares formas de auto-representación proporcionadas por los cronistas asturianos y anglosajones y se centra en tres puntos clave: la recuperación del pasado, la concepción territorial del entorno geográfico y la cuestión relativa a la identidad. De hecho, no podemos descuidar el peso diferente que tuvo el recuerdo del reino visigodo y el de la Heptarquía anglosajona y, por lo tanto, respectivamente, las obras de Isidoro de Sevilla y de Beda la Venerable. También sería un error no subrayar las diferencias entre las dos nuevas propuestas de identidad: la inglesa, con una base claramente étnica (Angelcynn) y la hispana, con una base principalmente religiosa (regnum Xristianorum). Finalmente, no podía faltar un párrafo dedicado a las diferentes relaciones entre las dos áreas estudiadas y el mundo carolingio contemporáneo. En el segundo bloque se examinan los fenómenos imperiales. El capítulo dedicado al contexto hispano (Capítulo 7) comienza con una reflexión sobre las diversas figuras de los scriptores del reino de León y sobre el peso de las fórmulas visigodas en la documentación altomedieval. Al comienzo del capítulo correspondiente en inglés (Capítulo 8) se presentan dos casos de uso del término imperial anterior al siglo X: el de San Oswald de Northumbria (634-642) en la Vita Sancti Columbae de Adomnano de Iona y el de Coenwulf de Mercia (796-821) en el documento S153. Siguen dos párrafos dedicados a la documentación de Edward the Elder (899-924) y Æthelstan (924-939), donde se destaca un desarrollo sustancial del título real que indica una expansión de la autoridad insular de estos monarcas. El centro de ambos capítulos del segundo bloque consiste en el análisis detallado de los documentos imperiales y en las reflexiones que surgen de esto. En el caso español se puede concluir que, aunque hay rastros de un empleo del título imperial en la documentación de Alfonso III, es posible afirmar con cierta certeza que el uso del título imperator comenzó con su hijo, Ordoño II (914-924), quien lo atribuyó a su padre para fortalecer su posición como rey de León. Entre la muerte de Ordoño II (924) y el ascenso al trono de Ramiro II (931), el título también pasó a la documentación privada, sin desaparecer de la pública. Desafortunadamente, no es posible, como en el caso inglés, tratar de rastrear el fenómeno imperial hispano hasta la figura de un escritor en particular. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que algunos textos que datan de la segunda mitad del siglo difieren de los documentos de Ordoño II en el uso del término, ya que se emplea en referencia al rey vivo y no al padre fallecido. El título, al menos a principios del siglo X, no parece reflejar una autoridad superior (precisamente imperial), pero recuerda su significado más antiguo, el de "general victorioso" y constituye una prerrogativa de los soberanos leoneses. En cuanto al fenómeno imperial inglés, por otro lado, es posible identificar un punto de partida en los famosos alliterative charters, probablemente producidos por Koenwald de Worcester (928/9- 957), cuya autoría se discute extensamente en la tesis. Parece que imperator no es más que la traducción latina de lo que los historiadores han llamado overlord. Mediante el uso de este título, los gobernantes anglosajones querían representar su creciente hegemonía sobre los otros reinos de la isla, reclamando así una autoridad más territorial que étnica. Sin embargo, debe tenerse en cuenta que el uso de la terminología imperial forma parte de ese proceso más amplio de evolución del título real que ya comenzó con Edward the Elder. En las conclusiones (Capítulo 9) se relacionan estas reflexiones con las del primer bloque desarrollándolas. Se centran en cuatro puntos fundamentales: el papel del documento y del idioma latino en las dos áreas; Britannia y Spania como universos en sí mismos; el significado de imperator en los dos contextos documentales y, por último, la concepción territorial como una premisa teórica y geográfica de este empleo de la terminología imperial. Tras leer las fuentes podemos afirmar que ambos contextos representaban, a los ojos de sus respectivos soberanos, universos dentro del universo. Los gobernantes leoneses y anglosajones heredaron de sus predecesores no solo una "misión" política – de reconquista para los primeros y de control para los segundos – sino también una concepción específica, diferente para cada caso, del entorno geográfico en el que se encontraban. La Britannia del rey-emperador anglosajón es la Britannia de Beda, fragmentada, dividida y, sin embargo, unida. La Spania de los reyes leoneses es la Spania de Isidoro, unida, homogénea, pero dramáticamente perdida. Sin embargo, para el caso español, en el período examinado aquí, nunca se encuentra el título imperial en relación a una referencia territorial que evoque un dominio sobre toda la península. En el inglés, sin embargo, existía este uso, pero la referencia geográfica a Britannia no era exclusiva del título imperial. Por lo tanto, podemos decir que, en el caso inglés, el título nació de la necesidad de traducir al latín una autoridad indirecta y hegemónica (como la de un rex regum), y luego perdió este significado – y su uso – cuando la situación política del reino cambió. En el caso español, sin embargo, tuvo lugar un procesamiento casi simétricamente opuesto. El título, utilizado inicialmente en su significado más antiguo como "general victorioso" o "señor poderoso", fue reinterpretado más tarde cuando el equilibrio político de la península cambió en los siglos XI y XII. En este período encontramos, de hecho, gobernantes como Alfonso VI y Alfonso VII que emplean títulos como imperator totius Hispaniae. En ambos casos, imperator fue concebido como sinónimo de rex regum, pero en dos momentos diferentes; cuando realmente se necesitaba. La tesis está provista de mapas y bibliografía, dividida entre fuentes y estudios. Además, se consideró útil agregar los textos de los documentos imperiales al apéndice.
The German Nazis planned to annihilate the Jewish nation. The Holocaust reached immense proportions on Polish lands, which had been the dwelling place for thousands of Jews for ages. Therefore, the Germans located several death camps on the territory of the occupied Poland. The Poles did not remain passive towards the persecution of the members of the Chosen People living next to them, with many priests and men and women religious committing themselves to rescuing Jews. This issue has not yet been fully explored. The article presents the attitudes of the Polish Catholic Bishops providing aid to Jews during the Second World War. They became involved in the following actions: they issued petitions in defence of Jews and informed pope Pius XII about the persecution of Jews, intervened with the occupation authorities and defended converts, they were personally involved in assisting and saving the lives of the members of the Jewish community, as well as supported clergymen and organizations helping Jews. ; Fonti d'archivio: Archiwum Akt Nowych (AAN) [Archivio degli Atti Nuovi], RGO (Kraków), 5, Lettera dell'arcivescovo mons. Adam Sapieha a Ronikier, 30.10.1940, f. 19-20. AAN, RGO (Kraków), 5, Andie Regierung des Generalgouvernements Abteilung Innere Verwaltung Bevölkerung swessen und Fursorge in Krakau, 4.11.1940, f. 5-6. AAN, RGO (Kraków), 5, Nota, f. 28. Archiwum Kurii Metropolitalnej w Krakowie (AKMKr) [Archivio della Curia Met (AKMKr) [Archivio della Curia Met(AKMKr) [Archivio della Curia Met [Archivio della Curia MetArchivio della Curia Metropolitana di Cracovia], Neofici, Zbiór podań za lata 1939-1942 [I neofiti, Raccolta delle richieste degli anni 1939-1942]. Fonti edite: Hlond August, O położeniu Kościoła katolickiego w Polsce po trzech latach okupacji hitlerowskiej [Sulla situazione della Chiesa cattolica in Polonia dopo i tre anni dell'occupazione hitleriana], in: Chrześcijanin w Świecie 10 (1978), 25-53. Jasiewicz Krzysztof (ed.), Bóg i Jego polska owczarnia w dokumentach 1939-1945 [Dio e il Suo ovile polacco nei documenti 1939-1945], Warszawa 2009. L'archevéque de Cracovie Sapieha au pape Pie XII, 28 février 1942, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 3 b: Le Saint Siège et la situation religieuse en Pologne et dans les Pays Baltes 1939-1945, parte 2: 1942-1945, Città del Vaticano 1967, 539-541. L'évêque de Katowice au cardinal Maglione, janvier 1943, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 9: Le Saint Siège et les victimes de la guerre, janvier - décembre 1943, Città del Vaticano 1975, 113. Lettera di Padre Pirro Scavizzi a Pio XII, 12 maggio 1942, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 8: Le Saint Siège et les victimes de la guerre, janvier 1941 - décembre 1942, Città del Vaticano 1974, 534. Przemówienie bp. Józefa Gawliny z 3 października 1943 r. [Discorso del vescovo mons. Józef Gawlina del 3.10.1943], in: Andrzej Krzysztof Kunert (ed.), Józef Feliks Gawlina Biskup Polowy Polskich Sił Zbrojnych [Józef Feliks Gawlina Vescovo Militare delle Forze Armate Polacche], Warszawa 2002, 317-321. Przemówienie radiowe biskupa Karola Radońskiego z 14 grudnia 1942 [Discorso alla radio del vescovo mons. Karol Radoński del 14.12.1942], in: Andrzej Krzysztof Kunert (ed.), Polacy-Żydzi 1939-1945. Wybór źródeł [I Polacchi e gli Ebrei 19391945. Scelta delle fonti], Warszawa 2006, 108-110. Rapport de l'Evêque de Katowice Adamski, fin de janvier 1943, in: Pierre Blet, Robert A. Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (ed.), Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. 3 b: Le Saint Siège et la situation religieuse en Pologne et dans les Pays Baltes 1939-1945, parte 2: 1942-1945, Città del Vaticano 1967, 728-731. Ringelblum Emanuel, Kronika getta warszawskiego. Wrzesień 1939-styczeń 1943 [Cronaca del ghetto di Varsavia. Settembre 1939-gennaio 1943], Artur Eisenbach (ed.),Warszawa 1988. Ronikier Adam, Pamiętniki 1939-1945 [Diari 1939-1945], Maria Rydlowa (ed.), Kraków 2001. Rozporządzeniu z 15 października 1941 r. "O ograniczeniach pobytu w Generalnym Gubernatorstwie" [Ordinanza del 15.10.1941 "Sui vincoli del soggiorno nel Governatorato Generale"], in: Verordnungsblatt für das Generalgouvernement. Gazzetta delle Ordinanze per il Governatorato Generale, n. 99 del 2.10.1941, 1. Szeptycki Andrzej, Pisma wybrane [Scritti scelti], Maria H. Szeptycka, Marek Skórka (ed.), Kraków 2000. Ulotka "Protest" [Volantino "La Protesta"], in: Andrzej Krzysztof Kunert (ed.), Polacy-Żydzi 1939-1945. Wybór źródeł [I Polacchi e gli Ebrei 1939-1945. Scelta delle fonti], Warszawa 2001, 212. Zielinski de Mundlak Elzbieta, Black Roots in the Hair of a Blond Cherubin, in: Children Who Survived the Final Solution, Peter Tarjan (ed.), New York 2004, 205-206. Studi: Bartoszewski Wladyslaw, Lewinówna Zofia (ed.), Ten jest z ojczyzny mojej. Polacy z pomocą Żydom 1939-1945 [Egli è della mia patria. I polacchi in soccorso degli Ebrei 1939-1945], Kraków 1966. Bieberstein Aleksander, Zagłada Żydów w Krakowie [Lo sterminio degli ebrei a Cracovia], Kraków 1985. Bizuń Stanisław, Historia krzyżem znaczona. Wspomnienia z życia Kościoła katolickiego na Ziemi Lwowskiej 1939-1945 [Una storia segnata dalla croce. I riI ricordi della vita della Chiesa cattolica sul territorio di Leopoli 1939-1945], Józef Wołczański (ed.), Lublin 1994. Blet Pierre, Pius XII i druga wojna światowa w tajnych archiwach watykańskich [Pio XII e la seconda guerra mondiale negli archivi segreti vaticani], Katowice 2000. Bratkowski Stefan, Pod wspólnym niebem [Sotto lo stesso cielo], Warszawa 2001. Bratkowski Stefan, Pod tym samym niebem. Krótka historia Żydów w Polsce i stosunków polsko-żydowskich [Sotto lo stesso cielo. Breve storia degli Ebrei in Polonia e delle relazioni polacco-ebree], Warszawa 2006. Chajko Grzegorz, The Clergy of the Archdiocese of Lviv of the Latins in Aid of the Jewish Nation during the Years of the German Occupation from 1941-1944. An Outline of the Events, in: The Person and the Challenges 3/2 (2013), 143-155. Dębiński Józef, Biskup włocławski Karol Mieczysław Radoński (1883-1951). Życie i działalność [Il vescovo di Breslavia mons. Karol Mieczysław Radoński 18831951: vita e attività], Toruń 2001. Feldenkreiz-Grinbal Eva (ed.), Eth Ezkera. Whenever I remember. Memorial book of the Jewish Community in Tzoyzmir (Sandomierz), Tel Aviv 1993. Gilbert Martin, The Righteous. The Unsung Heroes of the Holocaust, New York 2003. Humeński Julian (ed.), Udział kapelanów wojskowych w drugiej wojnie światowej [Partecipazione dei cappellani militari alla seconda guerra mondiale], Warszawa 1984. Iranek-Osmecki Kazimierz, Kto ratuje jedno życie. Polacy i Żydzi 1939-1945 [Chi salva una vita. I Polacchi e gli Ebrei 1939-1945], London 1968. Jemielity Witold, Stanisław Kostka Łukomski, in: Słownik biograficzny katolicyzmu społecznego w Polsce [Dizionario biografico del cattolicesimo sociale in Polonia], vol. 2, Lublin 1994, 102-103. Kałuski Marian, Wypełniali przykazanie miłosierdzia. Polski Kościół i polscy katolicy wobec holocaustu [Osservavano il comandamento della carità. La Chiesa polacca e i cattolici polacchi nei confronti dell'Olocausto], Warszawa 2000. Kutrzeba Joseph S., The Contract. A Life for a Life, New York 2009. Lewin Kurt I., Przeżyłem. Saga świętego Jura spisana w roku 1946 [Sono sopravvissuto. La saga di San Jura scritta nell'anno 1946], Warszawa 2006. Libionka Dariusz, Polska hierarchia kościelna wobec eksterminacji Żydów - próba krytycznego ujęcia [La gerarchia ecclesiastica polacca di fronte allo sterminio degli Ebrei – un tentativo di descrizione critica], in: Zagłada Żydów. Studia i Materiały 5 (1999), 19-69. Manzo Michele, Don Pirro Scavizzi. Prete romano, Casale Monferrato 1997. Moskałyk Jarosław, Metropolita Andrzej Szeptycki wobec wyzwań historyczno-eklezjalnych [Metropolita Andrej Šeptyckyj di fronte alle sfide storiche ed ecclesiali], in: Poznańskie Studia Teologiczne 24 (2010), 301-322. Paul Mark, Wartime rescue of Jews by the Polish Catholic Clergy. The testimony of survivors and rescuers, Toronto 2010. Pietrzykowski Jan, Walka i męczeństwo. Z wojennych dziejów duchowieństwa diecezji częstochowskiej 1939-1945 [La lotta e il martirio. La storia del clero della diocesi di Częstochowa durante la guerra 1939-1945], Warszawa 1981. Przybyszewski Bolesław, Dzieje kościelne Krakowa w czasie okupacji 1939-1945 [Storia ecclesiastica di Cracovia nel periodo dell'occupazione 1939-1945], in: Chrześcijanin w Świecie 12 (1979), 14-41. Rotfeld Adam Daniel, Sprawiedliwi są wśród nas… [I giusti sono tra di noi.], in: Polacy ratujący Żydów w czasie Zagłady. Przywracanie pamięci [I polacchi che salvavano gli ebrei nel periodo dello sterminio. Il ripristino della memoria], scelta e redazione dei materiali Cancelleria del Presidente della Repubblica polacca, Warszawa 2008, 11-16. Rotfeld Adam Daniel, Obcy wśród swoich [Estraneo tra i suoi], in: Znak 10 (2017), 40-50. Samsonowska Krystyna, Pomoc dla Żydów krakowskich w okresie okupacji hitlerowskiej [L'aiuto agli ebrei cracoviani nel periodo dell'occupazione hitleriana], in: Andrzej Żbikowski (ed.), Polacy i Żydzi pod okupacją niemiecką 1939-1945. Studia i materiały [I Polacchi e gli Ebrei sotto l'occupazione tedesca 1939-1945. Studi e materiali], Warszawa 2006, 827-890. Ślaski Jerzy, Polska walcząca [La Polonia combattente], vol. 2, Warszawa 1999. Stopniak Franciszek, Katolickie duchowieństwo w Polsce i Żydzi w okresie niemieckiej okupacji [Il clero cattolico in Polonia e gli Ebrei nel periodo dell'occupazione tedesca], in: Krzysztof Dunin-Wąsowicz (ed.), Społeczeństwo polskie wobec martyrologii i walki Żydów w latach II wojny światowej. Materiały z sesji w Instytucie Historii PAN w dniu 11 III 1993 [Società polacca nei confronti del martirologio e della lotta degli Ebrei negli anni della Seconda guerra mondiale. Materiali della sessione nell'Istituto di Storia dell'Accademia Polacca delle Scienze l'11 marzo 1993], Warszawa 1996, 19-42. Sziling Jan, Polityka okupanta hitlerowskiego wobec Kościoła katolickiego 1939-1945. Tzw. okręgi Rzeszy: Gdańsk-Prusy Zachodnie, Kraj Warty i Regencja Katowicka [La politica dell'occupante hitleriano nei confronti della Chiesa cattolica 19391945. I cosiddetti distretti del Reich: Danzica-Prussia Occidentale, Wartheland e Circondario di Katowice], Poznań 1970. Sztankowa Tetjana M., Dokumenty archiwum historycznego we Lwowie odnoszące się do kontaktów metropolity Szeptyckiego z Żydami [Documenti dell'archivio storico di Leopoli riguardanti i contatti del metropolita mons. Šeptyckyj con gli Ebrei], in: Andrzej A. Zięba, Metropolita Andrzej Szeptycki. Studia i Materiały [Metropolita Andrej Šeptyckyj. Studi e materiali], Kraków 1994, 229-235. Torzecki Ryszard, Polacy i Ukraińcy. Sprawa ukraińska w czasie II wojny światowej na terenie II Rzeczypospolitej [I Polacchi e gli Ucraini. La questione ucraina nel periodo della Seconda guerra mondiale sul territorio della Seconda Repubblica di Polonia], Warszawa 1993. Wąsowski Grzegorz, Szkice o Żołnierzach Wyklętych i współczesnej Polsce [Storia dei Soldati Maledetti e della Polonia contemporanea], Łomianki 2015. Wilk Stanisław, Episkopat polski wobec władz okupacyjnych w latach 1939-1945 [L'Episcopato polacco nei confronti delle autorità di occupazione negli anni 1939-1945], in: Saeculum Christianum 2/2 (1995), 61-83. Zajączkowski Wacław, Martyrs of Charity. Christian and Jewish Response to the Holocaust, vol. I/1, Washington 1987. Żbikowski Andrzej (ed.), Polacy i Żydzi pod okupacją niemiecką 1939-1945. Studia i materiały [I Polacchi e gli Ebrei sotto l'occupazione tedesca 1939-1945. Studi e materiali], Warszawa 2006. Zieliński Zygmunt, Stanisław Andrzej Łukomski, in: Polski Słownik Biograficzny [Dizionario Biografico Polacco], vol. 18, Warszawa-Wrocław-Kraków-Gdańsk 1973, 559-560. Zieliński Zygmunt (ed.), Życie religijne w Polsce pod okupacją hitlerowską 1939-1945 [La vita religiosa in Polonia sotto l'occupazione hitleriana 1939-1945], Warszawa 1982. Zieliński Zygmunt, Activities of Catholic Orders on Behalf of Jews in Nazi-occupied Poland, in: Judaism and Christianity under the Impact of National Socialism 19191945, Jerusalem 1987, 381-394. Zieliński Zygmunt, Polska-Watykan w latach 1939-1945 [Polonia-Vaticano negli anni 1939-1945], in: Waldemar Michowicz (ed.), Historia dyplomacji polskiej [Storia della diplomazia polacca], vol. 5: 1939-1945, Warszawa 1999, 711-739. Zuker Simon (ed.), The Unconquerable spirit. Vignettes of the Jewish religious spirit the Nazis could not destroy, New York 1980. Związek Jan, Niezapomniany Biskup Częstochowski Teodor Kubina [L'indimenticabile vescovo di Częstochowa mons. Teodor Kubina], in: Częstochowskie Studia Teologiczne 25 (1997), 249-252. Związek Jan, Kościół częstochowski w okresie okupacji hitlerowskiej [La Chiesa di Częstochowa nel periodo dell'occupazione hitleriana], in: Ryszard Szwed (ed.), Częstochowa. Dzieje miasta i klasztoru jasnogórskiego w czasie Polski Odrodzonej i drugiej wojny światowej 1918-1945 [Częstochowa. La storia della città e del convento di Jasna Góra nel periodo della Polonia Restituita e della seconda guerra mondiale 1918-1945], vol. 3, Częstochowa 2006, 491-508. Zych Sławomir, Diecezja przemyska obrządku łacińskiego w warunkach okupacji niemieckiej i sowieckiej 1939-1944/1945 [Diocesi di rito latino di Przemyśl nelle condizioni dell'occupazione tedesca e sovietica 1939-1944/1945], Przemyśl 2011. Stampa periodica: Torańska Teresa, Uratował mnie arcybiskup [Mi ha salvato l'arcivescovo], in: Gazeta Wyborcza 123 (2006), 28-29. Jasienica Paweł, Jednym płucem [Con un solo polmone], in: Tygodnik Powszechny 26 (1948), 9-10. Klich Aleksandra, Teodor Kubina, czerwony biskup od Żydów [Teodor Kubina, il vescovo rosso degli Ebrei], in: Gazeta Wyborcza 52 (2008), 35-36. Rytel-Andrianik Paweł, Księża dla Żydów – wyniki badań [Sacerdoti per gli Ebrei – risultati delle ricerche], in: Przewodnik Katolicki 4 (2014), 27. Sitografia: https://episkopat.pl/okolo-tysiac-polskich-ksiezy-ratowalo-zydow/[accesso: 26.10.2018].
Il lavoro prende in considerazione i principali avvenimenti che hanno influenzato l'evoluzione economica finanziaria del nostro Paese nella crisi del cambio 1992,ho voluto concentrare l'attenzione sugli avvenimenti a partire dal 1979 e analizzando l'intervento delle autorità monetarie. Allora non esisteva l'Euro, esisteva il Sistema Monetario Europeo con una sorta di valuta di riferimento, l'ECU, a cui le varie valute nazionali aderenti al sistema dovevano stare agganciate, entro una percentuale di scostamento non superiore al 2,25% per alcune e al 6% per altre, fra cui la lira. La Germania vantava di un'economia più solida di altri, con un sistema produttivo di avanguardia e con una moneta forte che faceva da riferimento per tutte le economie. L'Italia aveva un' economia che si doveva adattare continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica. Nel marzo 1979, l'Italia aveva aderito al Sistema Monetario Europeo, una decisione orientata, insieme con la politica estera, al rafforzamento dei vincoli comunitari nell'intento di dar luogo alla creazione di un'Europa Unita; consapevoli che questa sarebbe stata una scelta più di carattere politico che economica. L'adesione allo Sme avvenne in un clima di divergenza, Paolo Baffi allora governatore della Banca d'Italia, faceva infatti presente che una valuta debole come la lira, avrebbe trovato difficoltà ad abbandonare il regime delle svalutazioni facile. diversi economisti, oltre a Baffi,al di là di dove sedessero, se in Parlamento come Luigi Spaventa o alla direzione della Banca d'Italia o ancora all'interno del governo come Rinaldo Ossola, sostenevano la loro contrarietà all'ingresso nel Sistema Monetario Europeo, esponendo motivazioni tra loro eterogenee. Tutti si attendevano che il vincolo esterno dei cambi stabili costringesse il paese a seguire una politica di rigorosa stabilità monetaria. L'Italia aveva ottenuto il privilegio di una banda di oscillazione del 6%, contro il 2,5% degli altri paesi, ma tutti intendevano che l'adesione all'accordo di cambio avrebbe imposto una politica di rientro all'inflazione. Contro le aspettative generali, l'inflazione proseguì invece più violenta di prima. Il tasso di cambio, assunse con l'avanzare del progetto unitario una significatività crescente, aggiungendo alla sua funzione di strumento di orientamento, quella di fattore di credibilità. Le autorità monetarie italiane non accettarono mai una svalutazione esterna della lira pari a quella interna. Fra il 1980 e il 1987, i riallineamenti di parità nell'ambito dello Sme si susseguirono numerosi e coinvolsero numerose valute. Ogni riallineamento segnò una svalutazione della lira rispetto al marco. Dopo il 1987, i riallineamenti vennero sospesi e il corso della lira subì un solo ritocco al ribasso, in occasione del rientro della banda stretta. La politica di fatto seguita fu dunque quella di una graduale rivalutazione della lira, in termini reali, rispetto al marco. All'inizio degli anni novanta venne firmato il trattato di Maastricht, il contenuto degli accordi si inseriva in un contesto politico- sociale interno altamente critico, nel quale le energie politiche a lungo represse dalla guerra fredda si erano liberate, grazie al crollo del Muro di Berlino, spingendo quindi gli equilibri del sistema politico e economico con una rottura che si verificò del tutto nel 1992. Se il processo d'integrazione europeo era stato spesso rappresentato dalla classe politica come una sorta di panacea alle tare italiane, a Maastricht, si celebrò l'innocenza dell'europeismo italiano che vide stravolgere e crollare la visione retorica con la quale aveva guardato alla costruzione europea a partire degli anni '70. Per la storia dell'integrazione europea, il trattato di Maastricht rappresenta una pietra miliare, anche se con l'entrata in vigore ha creato ancora più instabilità, in quanto caratterizzato da uno scarso realismo degli obiettivi di convergenza delle variabili macroeconomiche, da mancanza flessibilità e insieme da asimmetrie dei comportamenti possibili delle banche centrali. La scena economica internazionale era segnata da: tendenze divergenti dei tassi di interesse, al ribasso negli Stati Uniti per rilanciare l'economia, al rialzo in Germania per gli effetti dell'unificazione tedesca, con conseguenti indebolimenti del dollaro, rafforzamento del marco, tensione nello Sme; le incertezze circa il completamento della unificazione monetaria in Europa, quale è stata sancita nel trattato di Maastricht. Questi sviluppi esterni coglievano l'economia italiana in una fase di attività produttiva debole, inflazione in lenta discesa, squilibri irrisolti nella finanza pubblica. Tra gli accadimenti che sono susseguiti, sono da richiamare i seguenti: l'esito negativo del referendum danese sul trattato di Maastricht del 2 giugno, infatti il referendum di Copenaghen si conclude al fotofinish (50,7%) di no contro il (49,3%) di si; mancata riduzione dei tassi di interesse in Germania; voci di svalutazione della lira; rialzo dei tassi ufficiali in Germania. Nel corso dell'anno 1992 si assiste a una piena recessione, infatti con il debito pubblico al 105,5 del Pil, con un fabbisogno attorno al 10,4 del Pil, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, la crisi era alle porte. Il 6 giugno la Banca d'Italia aumenta il tasso sulle anticipazioni a scadenza fissa di mezzo punto percentuale, irrigidendo così la politica monetaria, Moody's mise sotto controllo l'Italia per la sua incapacità nella riduzione del debito pubblico. Il 29 giugno il cambio contro il marco arrivò a 756,54 a fronte di una sostanziale stabilità nei confronti della sterlina e della peseta, Amato per effettuare un risanamento economico annunciò il 5 luglio la manovra da 30000 miliardi di lire, e con quella successiva di 100000 miliardi dà inizio al risanamento finanziario del Paese. Le vicende relative alle turbolenze che hanno sconvolto le parità valutarie dei paesi aderenti allo Sme hanno avuto inizio con la svalutazione del 7% della lira, la quale appariva quasi un riallineamento da manuale. Il 21 settembre, la Banca d'Italia, annunciò che le autorità monetarie si sarebbero astenute all'effettuare la quotazione ufficiale della lira. Questo fu un colpo durissimo per l'Italia che fino a quella data, aveva fatto del cambio della lira l'architrave della sua politica economica e finanziaria, sostenendo pesanti oneri in termini di riserve valutarie, infatti tra il giugno e il settembre vennero impiegate 53000 miliardi di riserve; colpo durissimo anche per la Comunità, colpita al cuore proprio nello strumento fondamentale, lo SME, investito nel ruolo di preparare e garantire le condizioni di stabilità, generalizzata e consolidata, che avrebbero dovuto, poi consentire quel salto di qualità dell'Europa, con il decollo della Unione Economica e monetaria, la moneta unica e il sistema delle banche centrali europee. Successivamente le tensioni speculative investono la lira , la sterlina e la peseta: momento in cui Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio. Subito dopo la svalutazione del 1992, si aprì un periodo di svalutazione generale della lira rispetto alle altre monete, periodo che si protrasse all'incirca fino al marzo 1993. Tra il 1992 e 1993 vennero firmati due accordi triangolari il protocollo Amato 31 luglio 1992 che abolì il sistema di scala mobile, completato da Ciampi nel luglio 1993, con la quale si fissarono gli obiettivi comuni di politica di reddito. Dopo di allora la lira rimase agganciata al dollaro. Il legame fra lira e dollaro potrebbe essere frutto dell'agire spontaneo dei mercati, ma potrebbe anche essere scaturito dalla decisione delle autorità monetarie italiane di ritornare alla vecchia linea di cambio differenziato, già seguita negli anni prima del 1979, fino all'ingresso dello Sme. Il problema essenziale delle autorità di governo era quello di evitare che la svalutazione esterna della lira si traducesse in inflazione importata, l'aver agganciato la lira al dollaro può essere inteso come una misura ragionevolmente coerente con l'obiettivo della stabilità monetaria. Di certo che la svalutazione della lira non ha contribuito alla soluzione del problema economico italiano, ha rischiato di aggravarlo producendo perdita di credibilità per il Paese. La crisi del sistema monetario europeo ha favorito una ripresa dei dibattiti teorici sui modelli di crisi valutarie, che si distinguono tra prima e seconda generazione, quelli di prima collegano l'emergere della crisi all'incompatibilità tra politiche macroeconomiche e stabilità del cambio; quelli di seconda, il cui sviluppo è stato stimolato dagli stessi fatti del 1992, nella quale l'emergere di una crisi appare come una scelta endogena, effettuata dalle autorità in base alle proprie preferenze e all'interazione con gli agenti economici privati. Analizzando i modelli si può concludere che mentre la rappresentazione di un regime di cambio fisso per mezzo di un livello puntuale del cambio non rappresenta un limite interpretativo rilevante, le ipotesi relative al processo di espansione del credito e all'esistenza di un livello di soglia delle riserve, nei modelli di Krugman, non sembrano dar conto adeguatamente della realtà dei fenomeni economici. I modelli di prima generazione danno una spiegazione "fondamentalista" delle crisi nel senso che fanno risalire la crisi allo sfasamento dei fondamentali macroeconomici dell'economia, in particolare l'esistenza di politiche fiscali espansive e prolungati deficit di bilancio incompatibili con un impegno di cambio fisso. I modelli di seconda generazione sottolineano il comportamento ottimizzante del policy-maker che non subisce più la crisi, ma decide di avviarla perché tale scelta minimizza i costi, nel senso che i costi in termini di reputazione a cui il governo va incontro uscendo dall'impegno sono comunque minori dei costi di rimanere in termini di incremento dei tassi di interesse e riduzione delle riserve valutarie. I modelli di terza generazione pongono enfasi sulla presenza di squilibri di natura finanziaria con la conseguenza che delle crisi valutarie non sono più viste come fenomeni a sé stanti ma come parte di una crisi sistemica in cui le crisi valutarie e bancarie si autoalimentano. Le ipotesi di perfetta previsione, d'altra parte, implicano che la razionalità degli agenti sia tale da non permette il realizzarsi di peso problem, i quali invece vengono osservati nella realtà. (Riassunto tradotto in inglese) Labour takes into account the main events that influenced the financial economic development of our country in the 1992 exchange rate crisis, I wanted to focus on the events since 1979 and analysing the intervention of the monetary authorities. At that time there was no euro, there was the European Monetary System with a kind of reference currency, the ECU, to which the various national currencies participating in the system had to be hooked, within a variance rate of no more than 2.25% for some and 6% for others, including the lira. Germany boasted of an economy stronger than others, with a state-of-the-art production system and a strong currency that was the benchmark for all economies. Italy had an economy that had to adapt continuously to the consequences of a reckless, short-sighted and short-term management of the country, the result of an incompetence of the political class. In March 1979, Italy had joined the European Monetary System, a decision aimed, together with foreign policy, at strengthening EU ties in order to create a united Europe; aware that this would be a more political than an economic choice. The accession to the Sme took place in a climate of divergence, Paolo Baffi then governor of the Bank of Italy, in fact, pointed out that a weak currency such as the lira, would find it difficult to abandon the regime of devaluations easy. several economists, in addition to Baffi, beyond where they sat, whether in Parliament as Luigi Spaventa or at the management of the Bank of Italy or even within the government as Rinaldo Ossola, argued their opposition to entry into the European Monetary System, exposing heterogeneous motivations among themselves. Everyone expected that the external constraint of stable exchange rates would force the country to follow a policy of strict monetary stability. Italy had obtained the privilege of a 6% swing band, compared with 2.5% in the other countries, but all wanted that accession to the exchange agreement would impose a policy of returning to inflation. Against general expectations, however, inflation continued more violent than before. The exchange rate, as the unitary project progressed, became increasingly significant, adding to its role as a guideline, that of a credibility factor. The Italian monetary authorities never accepted an external devaluation of the lira equal to the internal one. Between 1980 and 1987, the realignments of parity within the Sme followed numerous and involved numerous currencies. Each realignment marked a devaluation of the lira against the mark. After 1987, the realignments were suspended and the course of the lira underwent only one downward adjustment, on the occasion of the return of the narrow band. The policy followed was therefore that of a gradual revaluation of the lira, in real terms, with respect to the mark. At the beginning of the 1990s the Maastricht Treaty was signed, the content of the agreements was part of a highly critical internal political-social context, in which political energies long repressed by the Cold War had been freed, thanks to the collapse of the Berlin Wall, thus pushing the balance of the political and economic system with a break that occurred entirely in 1992. If the process of European integration had often been portrayed by the political class as a kind of panacea to the Italian tare, in Maastricht, the innocence of Italian Europeanism was celebrated, which saw the rhetorical vision with which it had looked to the construction of Europe since the 1970s, overturned and collapsed. For the history of European integration, the Maastricht Treaty represents a milestone, although with the entry into force it has created even more instability, as it is characterized by a lack of realism in the convergence objectives of macroeconomic variables, lack of flexibility and at the same time as asymmetries of the possible behaviour of central banks. The international economic scene was marked by: divergent trends in interest rates, downwards in the United States to boost the economy, up in Germany due to the effects of unification Germany, resulting in a weakening of the dollar, a strengthening of the mark, tension in the SME; The uncertainty about the completion of monetary unification in Europe, as enshrined in the Maastricht Treaty, is. These external developments caught the Italian economy in a period of weak production activity, slow-falling inflation, unresolved imbalances in public finances. Among the events that have followed, the following are to be recalled: the negative outcome of the Danish referendum on the Maastricht Treaty of 2 June, in fact the Copenhagen referendum ends at photofinish (50.7%) no versus (49.3%) yes; failure to reduce interest rates in Germany; rumours of the valuation of the lira; official interest rates in Germany. During the year 1992 there is a full recession, in fact with public debt at 105.5 of GDP, with a requirement around 10.4 of GDP, with the passive of the current account balance growing, the crisis was upon us. On 6 June, the Bank of Italy increased the rate on fixed-term advances by half a percentage point, thus tightening monetary policy, and Moody's brought Italy under control for its inability to reduce public debt. On 29 June, the exchange rate against the mark reached 756.54 in the face of substantial stability against the pound and the peseta, Amato to carry out an economic recovery announced on 5 July the maneuver of 30000 billion lre, and with the next one of 100000 billion begins the financial consolidation of the country. The events surrounding the turmoil that have disrupted the currency parities of the SME member countries began with the devaluation of 7% of the lira, which appeared to be almost a textbook realignment. On 21 September, the Bank of Italy announced that the monetary authorities would refrain from making the official listing of the lira. This was a very serious blow for Italy, which until that date had made the lira change the backbone of its economic and financial policy, bearing heavy burdens in terms of foreign exchange reserves, in fact between June and September 53 trillion reserves were used; It is also a very serious blow for the Community, which has been struck at the heart by the fundamental instrument, the EMS, which has been invested in the role of preparing and guaranteeing the conditions of stability, generalised and consolidated, which should have allowed Europe to jump in quality, with the take-off of the Economic and Monetary Union, the single currency and the system of European central banks. Subsequently, speculative tensions hit the lira, sterling and peseta, when Italy and Great Britain announced they were leaving the European Exchange Agreements. Immediately after the devaluation of 1992, a period of general devaluation of the lira against the other currencies opened up, which lasted approximately until March 1993. Between 1992 and 1993, two triangular agreements were signed, the Amato protocol on 31 July 1992, which abolished the escalator system, which was completed by Ciampi in July 1993, which set common income policy objectives. After that, the lira remained pegged to the dollar. The link between the lira and the dollar may be the result of the spontaneous action of the markets, but it could also have stemmed from the decision of the Italian monetary authorities to return to the old differentiated exchange line, which was already followed in the years before 1979, until the entry of the Sme. The main problem of the government authorities was to prevent the external devaluation of the lira from translating into imported inflation, the having pegged the lira to the dollar can be understood as a measure reasonably consistent with the objective of monetary stability. Certainly the devaluation of the lira did not contribute to the solution of the Italian economic problem, it risked aggravating it, producing a loss of credibility for the country. The crisis in the European monetary system has encouraged a resumption of theoretical debates on currency crisis patterns, which stand out between the first and second generations, those of first generation link the emergence of the crisis to the incompatibility between macroeconomic policies and exchange rate stability; Second, the development of which was stimulated by the same events of 1992, in which the emergence of a crisis appears to be a choice "It's not just a way of using private economic agents," he said. By analysing the models, it can be concluded that while the representation of a fixed exchange rate regime by means of a timely exchange rate does not represent a relevant interpretive limit, assumptions about the credit expansion process and the existence of a level of reserve threshold, in Krugman's models, do not seem to adequately account for the reality of economic phenomena. First-generation models give a "fundamentalist" explanation of crises in the sense that the crisis is traced back to the shift in macroeconomic fundamentals of the economy, in particular the existence of expansionary fiscal policies and prolonged budget deficits incompatible with a fixed exchange rate commitment. The second-generation models emphasize the optimising behaviour of the policy-maker who is no longer suffering from the crisis, but decides to start it because this choice minimizes costs, in the sense that the reputation costs that the government faces by exiting the commitment are still lower than the costs of staying in terms of raising interest rates and reducing currency reserves. Third-generation models place emphasis on financial imbalances, with the consequence that currency crises are no longer seen as stand-alone phenomena but as part of a systemic crisis in which currency and banking crises feed themselves. The hypotheses of perfect prediction, on the other hand, imply that the rationality of the agents is such that it does not allow the realization of weight problem, which instead are observed in reality.
2009/2010 ; Lo scopo di questa ricerca di dottorato è l'analisi geopolitica di una regione transfrontaliera dell'Asia centrale: la valle del Fergana. Tre anni di ricerca sul campo: l'analisi delle frontiere di questa regione attualmente divisa politicamente tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, la cartografia analitica, le osservazioni, le interviste alla popolazione e agli esperti, la ricerca nelle biblioteche della regione, nella capitale dell'Uzbekistan, Tashkent (presso l'Istituto Francese di Studi sull'Asia centrale – IFEAC) e la ricerca svolta in Francia principalmente presso l'Istituto Francese di Geopolitica (IFG) e la Biblioteca Nazionale di Francia (BNF), sono gli strumenti che hanno permesso lo studio di questo territorio. Il principale obiettivo del lavoro è l'analisi delle rivalità di potere della valle del Fergana. Grazie alla sua fertilità e alla sua importante posizione strategica all'interno del contesto geopolitico centrasiatico, il bacino del Fergana è stato e continua tuttora ad essere una posta in gioco ambita da differenti attori territoriali. La rivalità di potere tra i diversi attori si gioca soprattutto sullo scenario transfrontaliero della regione. Il secondo scopo di questa ricerca è la presentazione e la valutazione di un particolare attore territoriale della valle, il Regionalismo culturale. La parte introduttiva della ricerca si concentrerà su una presentazione del contesto centrasiatico e sulle peculiarità derivanti dalle sue frontiere. In seguito verrà introdotta la "posta in gioco" Fergana con le sue risorse fisiche ed economiche al fine di legittimare l'importanza del territorio. Infine l'introduzione si concluderà con la teoria geopolitica: il perché della scelta della scuola di geopolitica del geografo francese Yves Lacoste per questa ricerca e una prima analisi dello spazio Fergana come regione divisa tra confine e frontiera. Il lavoro è strutturato in due grandi parti. La prima, più teorica, è relativa all'analisi dei tre attori territoriali. Le rappresentazioni dei differenti attori che verranno presentate, non seguiranno un ordine cronologico, ma un ordine concettuale: eventi simultanei verranno dunque analizzati non nello stesso momento, perché relativi a rappresentazioni differenti del territorio Fergana. Il primo capitolo è consacrato all'attore Nazione. Con questa espressione si intende non solo l'attore Stato-Nazione in sé, o meglio gli Stati-Nazione (Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan), ma anche la Nazione come idea, come politica nazionalistica applicata ad un territorio. La valle del Fergana è diventata una regione transfrontaliera da quando, negli anni '20, fu divisa tra i tre Stati, allora all'interno della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Negli anni '90, in seguito alla caduta dell'URSS, il Fergana divenne una regione divisa da frontiere non più interne ma internazionali. Questo capitolo ha come scopo l'analisi di tutte le rappresentazioni dell'attore Nazione per quanto riguarda il contesto Fergana, dalla sua nascita (anni '20) fino all'indipendenza delle Repubbliche (anni '90). Sicuramente la rappresentazione più importante da analizzare è quella della creazione delle sue frontiere. L'attore Nazione è senza dubbio l'attore geopolitico più importante anche perché quello più legittimato in questo contesto territoriale. Il capitolo approfondirà anche le relazioni tra i differenti Stati-Nazione che rappresentano allo stesso tempo: un unico attore (contro la Religione e il Regionalismo culturale) e tre attori differenti quando competono tra loro per il territorio Fergana. Il secondo attore è la Religione. La valle del Fergana è una delle aree centrasiatiche più credenti e praticanti e la religione islamica ha sempre avuto un ruolo importante nella gestione della società ferganiana. Verrà proposta un'analisi di tutte le rappresentazioni della religione nel Fergana: il sufismo autoctono con un'analisi sulla geografia sacra dei luoghi ferganiani importanti per questa corrente dell'Islam; l'Islam tradizionale del periodo sovietico, divenuto un'arma legale utilizzata da Mosca per combattere l'ortodossia religiosa sufi del Fergana; il fondamentalismo wahabbita degli ultimi anni importato dall'Afghanistan, dal Pakistan, dall'Arabia Saudita, come conseguenza dell'invasione sovietica dell'Afghanistan del 1979 e dunque in seguito all'incontro tra i musulmani sovietici e i mujaheddin afgani. In seguito verrà analizzato come le differenti varianti dell'attore Religione si sono opposte, negli anni, all'attore Nazione per il controllo del potere e delle risorse del territorio Fergana. Un fenomeno particolarmente analizzato sarà la politicizzazione dell'attore Religione e come questa politicizzazione ha portato l'attore in questione ad essere l'elemento protagonista di numerosi eventi nel Fergana. Il terzo attore è il Regionalismo culturale. Con questa espressione si fa riferimento all'identità geo-culturale di questo insieme regionale che persiste nonostante le pressioni nazionalistiche e religiose. La valle del Fergana è sempre stata un insieme geografico, politico, sociale, malgrado negli ultimi secoli la sua popolazione si è sempre distinta per il suo alto livello di multietnicità e di disomogeneità linguistica. Questo però, non ha impedito un'amalgamazione sociale di tale popolazione che ha sempre considerato la multietnicità come la normalità e ha sempre attribuito ad ogni "etnia" un ruolo sociale integrato all'interno del sistema Fergana. Popolazioni di lingua e cultura persiana e sedentaria e popolazioni di lingua e cultura turca, sedentaria o nomade hanno sempre condiviso, ognuna con il proprio ruolo sociale, una vita comunitaria all'interno della regione e questa è sicuramente la caratteristica principale del Regionalismo culturale del Fergana. Questo equilibrio cambiò con la perdita di sovranità politica della regione, con l'istituzione dei nazionalismi e la conseguente spartizione della regione tra tre dei cinque nuovi Stati nazionali dell'Asia centrale sovietica. In questo capitolo verranno analizzate le principali rappresentazioni nel tempo dell'attore Regionalismo culturale e come esso si sia opposto agli altri attori territoriali, soprattutto all'attore Nazione. La seconda parte di questo lavoro è stata dedicata all'impatto che gli attori territoriali hanno oggi nella valle del Fergana, soprattutto nelle sue aree di frontiera. Questa parte è il risultato delle interviste e delle osservazioni sul campo effettuate in Asia centrale e in particolare nel Fergana nelle spedizioni del 2007, 2009 e del 2010. Nel primo capitolo verrà analizzata la frontiera di questa regione dal punto di vista teorico, in particolar modo con l'analisi del Fergana come" prima o ultima linea di difesa". Nel secondo capitolo, all'interno di un contesto di base: la differenza tra la frontiera all'epoca sovietica e all'epoca dell'indipendenza, ci sarà un approfondimento della definizione di frontiera centrasiatica, l'esame della burocrazia di frontiera, del posto di blocco e dei documenti del soggetto transfrontaliero. Saranno trattate, inoltre, le tematiche relative alle relazioni commerciali transfrontaliere, come i "tre" Fergana riescono ancora ad interagire malgrado la crescente rigidità delle frontiere e verranno studiate le relazioni sociali transfrontaliere sempre all'interno del panorama ferganiano di oggi. In questo contesto, verranno considerate le interviste svolte nel Fergana, le opinioni riguardo le difficoltà di passaggio e di comunicazione nella valle ed analizzeremo la presenza dei tre attori geopolitici che tuttora giocano un ruolo fondamentale nelle relazioni e nei conflitti di frontiera. Il terzo capitolo sarà dedicato ai centri urbani del Fergana; la loro storia, il rapporto dei ferganiani con le città e soprattutto le rappresentazioni interne ed esterne che i centri urbani hanno assunto all'interno di una regione oggi del tutto transfrontaliera. Il quarto capitolo si concentrerà sulle evoluzioni demografiche della popolazione: il Fergana, che durante gli anni zaristi e sovietici era terra di immigrazione, con l'indipendenza e dunque con la concretizzazione delle frontiere, si ritrova terra di emigrazione. Il quinto capitolo sarà dedicato al Fergana delle infrastrutture: come la strada ferrata e la rete stradale influiscono e sono influenzate dalle mutazioni frontaliere di questa regione. Il sesto capitolo riprenderà degli interrogativi teorici posti all'inizio del lavoro, con un analisi conclusiva sull'odierno "Fergana delle frontiere". La conclusione di questa ricerca, in realtà, è una vero e proprio capitolo di analisi, dove si farà il punto della situazione e si constaterà la persistenza dell'attore Regionalismo culturale, la sua evoluzione e il suo rapporto attuale con gli altri attori geopolitici. Un punto di arrivo fondamentale della ricerca è il fatto che la regione Fergana è cambiata, sotto differenti punti di vista e la popolazione ferganiana ha nuovi punti di riferimento culturali, politici e sociali. Differenti forme politiche e nuove strutture culturali hanno portato la popolazione del Fergana, nel tempo, a mutare la propria immagine e la propria identità: "russa, musulmana, ferganiana", in seguito "sovietica, uzbeca (o tagica o kirghiza), atea, ferganiana" e infine "uzbeca (o tagica o kirghiza), laica, ferganiana". Il territorio, le sue frontiere e la società che lo abita sono cambiati, ma vedremo che, nonostante i forti ostacoli posti dall'attore Nazione, il Regionalismo culturale riuscirà a sopravvivere, adattandosi alle nuove tendenze e ai nuovi modi di interpretare il Fergana. Come ultimo studio sul territorio, faremo degli esempi riguardanti gli eventi più recenti concernenti il Fergana (massacro di Andijan nel 2005, scontri ad Osh nel giugno 2010) ed analizzeremo questi fenomeni alla luce delle rivalità di potere geopolitiche che ancora persistono nella regione. ; Cette thèse de Doctorat propose une analyse géopolitique d'une région transfrontalière de l'Asie centrale, la vallée du Ferghana, aujourd'hui divisée entre les Républiques d'Ouzbékistan, du Tadjikistan et du Kirghizistan. Des séjours sur le terrain répartis sur trois ans ont constitué la base de la recherche, au travers de l'analyse des frontières, de la cartographie analytique, d'entretiens qualitatifs avec experts et habitants, et de recherches bibliographiques dans le Ferghana ainsi que dans la capitale ouzbèke Tachkent – notamment près l'Institut Français d'Etudes sur l'Asie Centrale (IFEAC). Ces périodes de terrain ont été complétées par un séjour de recherche en France, articulé principalement autour d'un approfondissement théorique à l'Institut Français de Géopolitique (IFG) de l'Université Paris VIII-Vincennes et de recherches bibliographiques à la Bibliothèque Nationale de France. L'objet de ce travail est donc l'analyse des rivalités de pouvoir entre les acteurs territoriaux sur l'enjeu territorial de la vallée du Ferghana, bassin fertile à la position stratégique dans le contexte géopolitique centrasiatique élargi. Si le Ferghana a toujours constitué un enjeu disputé par différents acteurs territoriaux, les rivalités des acteurs actuels jouent aujourd'hui surtout au niveau frontalier et transfrontalier. Ce faisant, cette thèse introduit un nouvel acteur dans le schéma d'analyse géopolitique classique: le Régionalisme culturel. Le Régionalisme culturel en tant qu'acteur territorial y fait donc l'objet d'une présentation approfondie ainsi que d'une évaluation de son importance passée et actuelle. Concentrée d'abord sur le contexte centrasiatique et les particularités qui découlent de ses frontières, l'introduction présente ensuite « l'enjeu » Ferghana et ses ressources physiques et économiques, qui expliquent l'importance de ce territoire. Elle se poursuit sur un rapide point théorique sur la géopolitique et la justification du choix de l'école de pensée géopolitique de Yves Lacoste comme cadre théorique de cette recherche, avant de s'achever sur une première analyse de l'espace Ferghana à l'aune des catégories de frontières et de confins. La thèse est structurée en deux grandes parties. La première, à dominante théorique, analyse à tour de rôle les trois acteurs territoriaux qui rivalisent pour le pouvoir sur le Ferghana: il s'agit de la Nation, de la Religion, et du Régionalisme culturel. La présentation des acteurs, de leurs différentes incarnations et de leurs représentations respectives du territoire ferghanien sont ainsi abordés selon un ordre conceptuel ; des évènements s'étant produits simultanément ne sont ainsi pas analysés chronologiquement mais séparément, en tant qu'ils se rapportent aux acteurs évoqués. Le premier chapitre est consacré à l'acteur Nation. Par cette expression nous entendons non seulement l'entité effective Etat-Nation et ses trois incarnations (Ouzbékistan, Tadjikistan, Kirghizistan), mais aussi la Nation comme idéologie qui agit sur le territoire au travers de politiques nationalistes. La force de légitimation de l'acteur Nation n'est pas étrangère à l'accroissement de son importance sur ce territoire, qui l'a sans aucun doute mené au sommet de la hiérarchie des acteurs géopolitiques dans cette région. Ce chapitre analyse les représentations du Ferghana définies et mises en oeuvres par l'acteur Nation depuis son apparition dans les années 1920. La vallée du Ferghana est en effet devenue une région transfrontalière à cette époque, avec son intégration à l'Union des Républiques Socialistes Soviétiques (URSS) et sa partition entre trois des cinq Républiques Socialistes Soviétiques nouvellement créées en Asie Centrale. Dans les années 1990, avec la chute de l'URSS et l'indépendance des trois Républiques, les frontières qui divisaient le Ferghana ne sont plus simplement internes, mais deviennent bel et bien internationales. Parmi les représentations majeures qui font l'objet d'une étude dans ce chapitre, une attention particulière est portée aux frontières nationales, leur création et leur évolution. Le chapitre s'intéresse également aux relations entre les différents Etats-Nations, qui constituent un acteur unique lorsqu'ils rivalisent contre les autres acteurs territoriaux – la Religion et le Régionalisme culturel – mais aussi trois acteurs différenciés lorsqu'ils se disputent le territoire Ferghana entre eux. Le deuxième chapitre est consacré au deuxième acteur territorial, la Religion. La vallée du Ferghana est l'une des régions d'Asie centrale les plus croyantes et pratiquantes, et la religion islamique y a toujours eu un rôle important dans la gestion de la société. Ce chapitre propose d'abord une analyse des représentations de la religion dans le Ferghana : le soufisme autochtone et la "géographie sacrée" des hauts lieux de ce courant de l'Islam dans le Ferghana ; l'Islam traditionnel de la période soviétique, devenu une arme légale utilisée par Moscou pour combattre l'orthodoxie soufie du Ferghana ; le fondamentalisme wahabbite récemment apparu, importé d'Afghanistan, du Pakistan et d'Arabie Saoudite à la suite de l'invasion de l'Afghanistan par les Soviétiques en 1979 et de la rencontre qui s'en est ensuivie entre les musulmans soviétiques et les moudjahiddines afghans. Ensuite est examinée la manière dont les différentes variantes de l'acteur Religion se sont opposées, au cours des années, à l'acteur Nation pour le contrôle du pouvoir et des ressources du territoire Ferghana. Nous y voyons comment la rivalité géopolitique entre deux acteurs varie du tout au tout selon que l'on parle de l'acteur Nation au cours de la période Soviétique ou bien au cours de l'ère ayant succédé à l'indépendance. Une attention particulière est portée au phénomène de politisation de l'acteur Religion et à la manière dont cette politisation a amené la Religion à assumer un rôle de protagoniste dans de nombreux évènements du Ferghana. Le troisième acteur est le Régionalisme culturel. Avec cette expression nous faisons référence à l'identité géo-culturelle de cet ensemble régional, qui persiste malgré les pressions nationalistes et religieuses. Car aussi loin que remonte son existence en tant que lieu, la vallée du Ferghana a toujours constitué un ensemble géographique, politique et social à part entière. Bien que sa population se soit distinguée au cours des derniers siècles par une grande multiethnicité et hétérogénéité linguistique, cela n'a pas empêché un amalgame sociétal de cette population qui a toujours considéré la multiethnicité comme normale, et toujours a attribué à chaque « ethnie » un rôle social déterminé au sein du système Ferghana. Qu'elles soient de langue et de culture persane et sédentaire, de langue et de culture turque et sédentaire, ou bien de langue et de culture turque et nomade, ces populations ont toujours partagé, chacune dans son propre rôle social, une vie communautaire au sein de la région, et ce phénomène est la caractéristique principale de ce que nous appelons le Régionalisme culturel du Ferghana. Cependant, cet équilibre change avec la perte de souveraineté politique de la région, l'avènement du nationalisme sous l'action de l'URSS, et la partition de l'espace entre trois Etats nations de l'Asie centrale soviétique. Ce chapitre analyse ainsi les principales représentations de l'acteur Régionalisme culturel au cours du temps, et comment il s'est opposé aux autres acteurs territoriaux, en particulier à l'acteur Nation. La seconde partie de ce travail est dédiée aux manifestations actuelles des acteurs territoriaux dans la vallée du Ferghana, plus spécialement dans ses zones de frontière. Cette partie est le résultat des entretiens et des observations de terrain réalisés en Asie centrale et dans le Ferghana au cours de séjours en 2007, 2009 et 2010. Le premier chapitre analyse la frontière de cette région du point de vue théorique, à la lumière notamment des catégories géostratégiques de "première ligne de défense" ou "dernière ligne de défense". Dans le contexte d'une modification de la frontière entre l'époque soviétique et celle de l'indépendance, le deuxième chapitre approfondit la définition de frontière centrasiatique, au travers principalement de l'analyse de la bureaucratie de frontière, des postes de contrôle et des documents requis pour le passage de la frontière. Les thématiques liées aux relations commerciales transfrontalières y sont examinées : comment les "trois" Ferghana parviennent encore à interagir malgré la rigidité croissante des frontières, quelles relations sociales transfrontalières subsistent au sein du Ferghana d'aujourd'hui. Les entretiens qualitatifs réalisés dans le Ferghana jouent un rôle majeur pour recenser les difficultés de passage et de communication dans la vallée et déceler, dans les descriptions et jugements recueillis, la présence des trois acteurs géopolitiques qui toujours jouent un rôle fondamental dans les relations et conflits de frontière. Le troisième chapitre est dédié aux centres urbains du Ferghana : leur histoire, le rapport que les Ferghaniens entretiennent avec eux, et surtout les représentations internes et externes que les centres urbains assument au sein d'une région désormais tout à fait transfrontalière. Le quatrième chapitre se concentre sur les évolutions démographiques de la population. Jusque là terre d'immigration tout au long des années tsaristes et soviétiques, le Ferghana est devenu une terre d'émigration avec l'indépendance et la concrétisation des frontières. Le cinquième chapitre s'intéresse au Ferghana des infrastructures, notamment les réseaux ferré et routier, et leur rapport d'influence réciproque mutations frontalières de cette région. Le sixième chapitre reprend les interrogations théoriques posées dans l'introduction et développe une analyse conclusive sur le Ferghana des frontières aujourd'hui. La conclusion de cette recherche dresse le bilan actuel du Ferghana et des rapports entre les différents acteurs géopolitiques, et observe la persistance de l'acteur Régionalisme culturel. Force est de constater l'existence de changements dans la région Ferghana à différents points de vue. La population ferghanienne dispose de nouveaux cadres de référence culturels, politiques et sociaux qui ont pris une importance majeure. Des nouvelles formes politiques et de structures culturelles ont eu un impact sur son image d'elle-même, sur son identité: "russe, musulmane,ferghanienne", puis "soviétique, ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), athée, ferghanienne", et enfin "ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), laïque, ferghanienne". Cependant, bien que le territoire, ses frontières et la société qui l'habite aient changé, et malgré les obstacles forts posés par l'acteur Nation, que Régionalisme culturel a réussi à survivre, en s'adaptant aux nouvelles tendances et aux nouveaux modes d'interprétation du Ferghana. La conclusion s'achève sur les évènements les plus récents du Ferghana; massacre d'Andijan en 2005 et affrontements à Osh en juin 2010, qui sont analysés à la lumière des rivalités de pouvoir géopolitique qui persistent encore dans la région. ; This PhD dissertation proposes a geopolitical analysis of a centrasiatic transborder region, the Ferghana Valley, which is today divided between the Republics of Uzbekistan, Tajikistan and Kyrgyzstan. A basis of the research, field trips spread over the past three years enabled the development of instruments such as border analysis, analytical cartography, qualitative interviews with experts and inhabitants, and bibliographical research in the Ferghana as well as the Uzbek capital city Tashkent – noticeably at the French Institute for Central Asian Studies (IFEAC). As a complement to the field trips in Central Asia, a research period in France permitted both a consolidation in geopolitical theory at the French Institute of Geopolitics (IFG) of the University of Paris 8-Vincennes, and additional bibliographical research at the French National Library (BNF). The topic of the research is hence the analysis of power rivalries between "territorial actors" over the "territorial stake" of the Fergana Valley, a fertile basin of strategical location within the larger geopolitical context of Central Asia. Always a stake disputed by various territorial actors over time, the Fergana Valley now experiences power rivalries from contemporaneous territorial actors first and foremost on the border and transborder levels. By doing so, the dissertation introduces a new actor in the classical geopolitical pattern of analysis: the cultural regionalism. The dissertation hence offers a detailed presentation of the cultural regionalism as well as an evaluation of its past and current importance. First focusing on the centrasiatic context and the peculiarities which stem from its borders, the introduction presents the "stake" Fergana and its economic and physical resources which explain its importance as a territory. A rapid summary of the theory of geopolitics follows, with the justification of the choice of the French Lacostian school as the theoretical frame of this work. The introduction closes on a first analysis of the Fergana as a space of border or frontier. The thesis is structured in two main parts. The first, more theoretical, analyses each of the three territorial actors which aim for power over the Fergana: the Nation, the Religion, and the Cultural Regionalism. The presentation of the actors, of their respective embodiments and of their manifestations within the ferganian territory is organised according to a conceptual rationale; events that occurred simultaneously are thus not considered following a chronological order, but separately, according to their respective relations with the actors evoked. The first chapter focuses on the actor Nation. By this word we understand not only the effective entity of the Nation-State, and its three embodiments (Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzstan), but also the Nation as an ideology which acts upon the territory through nationalistic policies. The force of legitimation of the actor Nation did certainly not have a neutral role in the rise of this actor in the Ferganian landscape, a process which led the Nation to the top of the geopolitical actors' hierarchy in the region. This chapter also analyses the representations of the Fergana which are defined and implemented by the actor Nation since its birth in the 1920s. In fact, the Fergana valley first became a transborder region only in these years, through its integration to the Union of the Socialist Soviet Republics (USSR) and its partition between three of the five newly created Socialist Soviet Republics in Central Asia. In the 1990s, following the fall of the USSR and the independence of the three Republics, the borders which divided the Ferghana stopped being only internal, but became real and proper international borders. Among the main representations that this study looks at, a particular attention is devoted to the study of the national borders , their creation and their evolution. The chapter also looks at the relations between the different Nation-States, which form a unique actor when they rival against the other territorial actors – the Religion and the Cultural Regionalism –, but three well different ones when they rival among themselves. The second chapter concentrates upon the second territorial actor, the Religion. The Fergana valley is one of the most pious and practicing region of Central Asia, and the Islamic religion always played a major role in the society's administration and organization. The chapter proposes first an analysis of the religion's representations in the Fergana: the autochthonous sufism and its sacred geography within the Fergana valley ; the traditional Islam of the soviet times, which became a legal weapon used by Moscow to fight the sufi orthodoxy in the Fergana ; the recently appeared wahabbite fundamentalism, imported from Afghanistan, Pakistan and Saudi Arabia following the Soviet invasion of Afghanistan in 1979 and the encounter it induced between the soviet muslims and the afghan mujaheddins. It is then examined how the different variations of the actor opposed themselves to the actor Nation, over the years, for the control over the power and the resources of the Fergana. We look at how the geopolitical rivalries vary dramatically from the soviet era to that of the independence. A special attention is devoted to the phenomenon of politization of the actor Religion and the way this led the Religion to endorse a role of protagonist in many of the Fergana's events. The third actor is the Cultural Regionalism. It is hereby referred to the geo-cultural identity of this regional entity, which persists in spite of nationalistic and religious pressures. In fact, as long as the Fergana has existed as a place, it has always constituted a geographical, political and social whole. Although its population has been characterized during the past centuries by high levels of multiethnicity and linguistic heterogeneity, this did not prevent the societal amalgamation of populations which always held multiethnicity as normality, and always attributed to each "group" a specific social role within the system Fergana. Be they of language and culture persian and sedentary, turk and sedentary or turk and nomadic, these populations always shared, each in its own social role, a common life within the region. This very phenomenon is the main characteristic of what we call the Cultural Regionalism of the Fergana. However, this equilibrium changes with the loss of political sovereignty of the region and the rise of nationalism under the soviet sovereignty. This chapter analyzes the main representation of the actor Cultural Regionalism over time, and how it took stand against the other territorial actors, especially the Nation. The second part of the dissertation as dedicated to the current manifestations of the territorial actors in the Fergana valley, particularly in its border zones. This part results from the interviews and field observation undertaken in Central Asia and the Fergana in 2007, 2009 and 2010. The first chapter analyzes the border of this region from a theoretical point of view, especially in the light of the geostrategical categories of "first line of defence" or "last line of defence". In the context of a transformation of the border from the soviet era to that of the independence, the second chapter explores the definition of the centrasiatic border, mainly through the analysis of border bureaucracy, control posts and documents required to cross the border. The chapter looks at themes connected to the commercial transborder relations : how the "three" Fergana still manage to interact despite growing border rigidity, which social relationships subsist today. The qualitative interviews led in the Fergana are a major source in this process of reviewing the difficulties of passage and communication within the valley, and of tracking the actual presence of the three geopolitical actors which play a major role in the border relations and conflicts. The third chapter focuses on the Ferganian urban centres: their history, the relations that the Ferganians have with them, et above all the internal and external representations of these centres in a now fully transborder region. The fourth chapter concentrates on the demographical evolutions of the Ferganian population. Up until then a land of immigration, the Fergana became a land of emigration following the independence and the materialization of the borders. The fifth chapter deals with the Ferganian infrastructures, especially the rail and road networks, and their relationship of reciprocal influence with the mutation of the borders in the region. The sixth chapter builds on the theoretical interrogations evoked in the introduction of the dissertation and develops a conclusive analysis of the Fergana of the borders nowadays. The conclusion of this research depicts the current Fergana, the relations between the different geopolitical actors and underscores the persistence of the actor Cultural Regionalism. It establishes the existence of tremendous changes in the region Fergana from various viewpoints: the Ferganian population has new frames of cultural, political and social reference whose importance increased dramatically ; new political forms and cultural structures influenced its self-image, its very identity: "russian, muslim, ferganian", then "soviet, uzbek (or tajik or kyrgyz), atheist, ferganian", finally "uzbek (or tajik or kyrgyz), secular, ferganian". However, although the territory, its borders and inhabitants changed, and despite the strong obstacles set by the actor Nation, the cultural regionalism succeeded in maintaining itself, by adapting to the new tendencies and ways of interpretation of the Fergana. The conclusion ends with the most recent events of the Fergana, the Andjian massacre in 2005 and the Osh clash in 2010, which are both analysed in the light of the geopolitical power rivalries which persist in the region. ; XXIII Ciclo
Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese, Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella seconda metà dell'Ottocento – l'autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità radicalmente democratiche che l'ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, "una crisi mai superata" che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un'attitudine docile e disponibile all'obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta l'arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile, l'esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno Billy uccide l'uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di un'esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della rivoluzione continui ad agitare le acque dell'oceano Atlantico. Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se "la rivoluzione si trasformò essa stessa in tirannia", allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo – che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della storia, ma quella del continuo circolare dello "spirito rivoluzionario", come dimostra nell'estate del 1797 l'esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d'un solo colpo la bandiera della monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà "nella rossa meteora di una violenta e sfrenata rivoluzione". Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine. L'ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che "l'orgoglio nazionale e l'opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia". Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l'esperienza della Rights of Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all'asprezza della competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande successo di Common Sense, quando muove da un'esperienza di lavoro all'altra in modo irrequieto alla ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all'avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare fortuna in America. Così come Paine rivendica l'originalità del proprio pensiero, il suo essere un autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi, anche Billy ha "quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo della sapienza". Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma interiore di Billy replica dunque l'esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo senso come un "violento accesso di febbre contagiosa", destinato a scomparire "in un organismo costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla". Non viene però meno la speranza: quella della rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese – "non riescono a far luce nei recessi oscuri dell'animo umano". Rimane dunque uno spiraglio, un angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l'ipoteca del ricorso alla forza contro l'insurrezione: c'è chi come l'ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c'è chi come Billy viene impiccato, c'è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato, da relegare sul fondo della storia atlantica. Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio Ottocento è esattamente quello del trionfo dell'autore di Common Sense e Rights of Man nell'aver promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico. Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da una sponda all'altra dell'oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti dell'ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall'esperienza rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di riassumerne il pensiero politico nell'ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l'intero mondo atlantico nel corso della rivoluzione. Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789, individuando nell'illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all'altra dell'Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non intendiamo stabilire l'influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare l'influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L'obiettivo non è quello di sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l'hanno tradito, condannandolo virtualmente a morte. Né è quello di confermare l'americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta piuttosto di considerare il mondo atlantico come l'unico scenario nel quale è possibile leggere Paine. Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell'ultimo decennio, sviluppato in modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica. Certo, Paine vede fallire nell'esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l'interpretazione arendtiana della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un 'eccezionalismo' americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore, mentre l'America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che investe l'intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all'altra dell'oceano, Paine non ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell'oceano non solo nella circolazione del linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio, del possesso della proprietà e del lavoro, dell'arricchimento e dell'impoverimento. Con Paine, America e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell'oceano come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica. Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non esplicitamente dichiarata, l'incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come l'origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata repubblicana per l'indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d'indipendenza che temono una possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato. La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico l'affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d'ideologia proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società. L'affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale. Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non può più essere ridotta al momento repubblicano o all'affermazione senza tensione del liberalismo: lo studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell'insieme di pratiche e discorsi che mirano all'incisiva trasformazione dell'esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con l'intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su quella inglese dell'Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per troppo tempo l'hanno consegnato tout court all'elogio del campo liberale o al silenzio di quello repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte d'indagine dal quale esce ridimensionata l'interpretazione della rivoluzione come rivoluzione esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l'eccezionale successo americano contro la clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell'Atlantico mostrano una società in transizione: la costruzione della finanza nazionale con l'istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro, costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a doppio filo con la rivoluzione politica. Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all'altra dell'Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza ombra di dubbio un salto di qualità nell'interpretazione storiografica perché spiega in modo convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro, a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia, leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l'assenza dell'antico ordine 'cetuale' europeo, esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità dipendono anche dall'esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l'attenzione su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a democratizzare la concezione del commercio indicando nell'indipendenza personale la condizione comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per l'indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare l'immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono contemporaneamente politiche e sociali. Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto competere l'uno contro l'altro per esercitare un'influenza egemone nella costruzione del governo rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per l'indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell'indipendenza assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del repubblicanesimo in continuità con la letteratura d'opposizione del Settecento britannico, o in alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779) Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la società americana. La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva. Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l'accumulazione del capitale disperso nelle periferie dell'America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la costruzione dell'ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma confederale a quella federale dell'unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in tensione con un'attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un presupposto indispensabile all'affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all'altra dell'Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione atlantica deve determinare nel progresso dell'umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell'esperienza repubblicana francese nel Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale. La tendenza all'accumulazione non è quindi l'unica qualità della società commerciale in transizione. Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione sociale, quello dell'affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa. Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall'Europa egli discute, critica e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l'America indipendente sia caratterizzata da un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di stabilizzazione che esclude la democrazia dall'immediato orizzonte della repubblica americana. Senza successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania rivoluzionaria degli anni settanta. E' allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga stroncata su entrambe le sponde dell'oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono direttamente parola contro l'agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d'Anglas e John Quincy Adams – spostano l'attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate dal possesso di proprietà e dall'affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e culturale favorevole all'affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società alla futura innovazione industriale. Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell'oceano Atlantico compare nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i lavoratori delle prime manifatture compongono l'agenda radicale che Paine lascia in eredità in un linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d'attualità, anche in America. Ciò consente in conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare quell'approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o di un'ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell'oceano, dove attraverso Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall'orizzonte immediato della rivoluzione, nell'arco di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell'oceano – con le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l'organismo costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che il 1776 apre potrebbe essere chiamata "the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte -…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit". Non può però essere chiamata "the Age of Reason", perché è l'epoca di Paine: "whether any man in the world has had more influence on its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine" -…- there can be no severer satyr on the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a career of mischief. Call it then the Age of Paine".
2006/2007 ; Inventario dei luoghi di culto della zona falisco-capenate. Sunto. La raccolta delle fonti relative alla vita religiosa della zona falisco-capenate è stata finalizzata, in primo luogo, all'individuazione di luoghi di culto sicuramente identificabili come tali. Dove questo non fosse stato possibile, soprattutto in presenza di documenti epigrafici isolati e di provenienza non sempre determinabile, si è comunque registrata la presenza del culto. Attraverso la documentazione raccolta si intende cercare di delineare una storia dei culti dell'area considerata, a partire dalle prime attestazioni fino all'età imperiale. La zona presa in esame, inserita nella Regio VII Etruria nel quadro dell'organizzazione territoriale dell'Italia augustea, è compresa entro i confini naturali del lago di Bracciano e del lago di Vico a ovest, del corso del Tevere a est, mentre i limiti settentrionale e meridionale possono essere segnati, rispettivamente, dai rilievi dei Monti Cimini e dei Monti Sabatini. I centri esaminati sono quelli di Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri e Nepi. La comunità capenate occupava la parte orientale del territorio, un'area pianeggiante, dominata a nord dal massiccio del monte Soratte, e delimitata a est dall'ansa del Tevere. Il suo fulcro era costituito dall'abitato di Capena, l'odierno colle della Civitucola, cui facevano capo una serie di piccoli insediamenti, ancora poco indagati, dislocati in posizione strategica sul Tevere, o in corrispondenza di assi stradali di collegamento al fiume. Il principale di essi risulta essere localizzabile nel sito della moderna Nazzano, occupato stabilmente a partire dall'VIII sec. a.C., e posto in corrispondenza dell'abitato sabino di Campo del Pozzo, sull'altra sponda del Tevere. Il comparto falisco si articola, invece, attraverso una paesaggio di aspre colline tufacee, incentrato attorno al bacino idrografico del torrente Treia, affluente del Tevere, che percorre il territorio in direzione longitudinale. Lungo il corso del fiume si svilupparono i due più antichi e importanti centri falisci di Falerii Veteres e Narce, un sito nel quale la più recente tradizione di studi tende a riconoscere, sempre più convincentemente, la Fescennium nota dalle fonti, l'altro abitato falisco, oltre a Falerii, di cui sia tramandato il nome; lungo affluenti del Treia sono ubicate Nepi e Falerii Novi. Pur nella specificità culturale progressivamente assunta da Falisci e Capenati, la collocazione geografica del territorio da essi occupato lo rende naturalmente permeabile a influenze etrusche e sabine, rilevabili attraverso la documentazione archeologica, e rintracciabili in alcune notizie delle fonti antiche, rivalutate dalla più recente tradizione di studi. Una posizione differente era, invece, maturata dopo le prime indagini condotte nella regione, tra la fine dell''800 e l'inizio del '900, che avevano portato a enfatizzare i caratteri culturali specifici delle popolazioni locali, sottolineando la sostanziale autonomia di queste rispetto agli Etruschi, soprattutto sulla base delle strette analogie tra la lingua falisca e la latina. Tale percezione fu dominante fino alla seconda metà degli anni '60 del '900, quando la pubblicazione dei primi dati sulle necropoli veienti mise in luce gli stretti rapporti con le aree falisca e capenate, tra l'VIII e il VII sec. a.C. Gli studi sul popolamento dell'Etruria protostorica condotti a partire dagli anni '80 del '900 hanno sempre più focalizzato l'attenzione su un coinvolgimento di Veio nel popolamento dell'area compresa tra i Monti Cimini e Sabatini e il Tevere nella prima età del Ferro, trovando conferma anche dalle recenti analisi dei corredi delle principali necropoli falische, che hanno evidenziato, nell'VIII e all'inizio del VII sec. a.C., importanti parallelismi con usi funerari veienti, ma anche aspetti specifici della cultura locale. Il corpus di iscrizioni etrusche proveniente dalle necropoli di Narce dimostra, per tutto il VII e VI sec. a.C., la continuità stanziale di etruscofoni, che utilizzano un sistema scrittorio di tipo meridionale, riconducibile a Veio, di cui Narce sembra costituire un avamposto in territorio falisco. Già dall'inizio del VII sec. a.C., tuttavia, si fanno evidenti i segni di una più specifica caratterizzazione culturale delle aree falisca e capenate, anche attraverso la diffusione di un idioma falisco, affine a quello latino, documentato epigraficamente per il VII e VI sec. a.C. soprattutto a Falerii Veteres. Un ulteriore elemento di contatto culturale col mondo latino è rappresentato, in questo centro, dal rituale funerario delle inumazioni infantili in area di abitato. Tale uso, che trova numerosi confronti nel Latium vetus, mentre risulta estraneo all'Etruria, è documentato a Civita Castellana, in località lo Scasato, da due sepolture di bambini, databili tra la fine dell'VIII e la prima metà del VII sec. a.C. A Capena sono state rilevate, a partire dal VII sec. a.C., notevoli influenze dall'area sabina, soprattutto attraverso la documentazione archeologica fornita dalle necropoli, mentre, da un punto di vista linguistico, un influsso del versante orientale del Tevere è stato colto, in particolare, attraverso un'analisi del nucleo più nutrito delle iscrizioni epicorie, che risale al IV-III sec. a.C. La ricettività nei confronti degli apporti delle popolazioni limitrofe e la capacità di elaborazioni originali, attestate archeologicamente sin dalle fasi più antiche della storia dei popoli falisco e capenate, possono offrire un supporto documentario alla percezione che già gli scrittori antichi avevano dell'ethnos falisco, trovando riscontro, in particolare, nelle tradizioni che definivano i Falisci come Etruschi, oppure come ethnos particolare, caratterizzato da una propria specificità anche linguistica, un dato, quest'ultimo, che tradisce il ricordo di contatti col mondo latino. Un terzo filone antiquario, che si intreccia a quello dell'origine etrusca, rivendica ai Falisci un'ascendenza ellenica, e più propriamente, argiva, e sembra, invece, frutto di un'elaborazione erudita maturata in un momento successivo. La notizia dell'origine argiva risale, per tradizione indiretta, alle Origines di Catone, e si collega a quella della fondazione di Falerii da parte dell'eroe Halesus, figlio di Agamennone, che avrebbe abbandonato la casa paterna dopo l'uccisione del padre. Ovidio e Dionigi di Alicarnasso attribuiscono all'eroe greco l'istituzione del culto di Giunone a Falerii, il cui originario carattere argivo sarebbe conservato nel rito celebrato in occasione della festa annuale per la dea. L'importanza accordata al culto di Giunone nell'ambito di tale tradizione ha portato a ipotizzare che questa possa essersi sviluppata proprio a partire dal dato religioso della presenza a Falerii di una divinità assimilabile alla Hera di Argo. Dall'esame linguistico del nome del fondatore, il quale non ha combattuto a Troia e non ha avuto alcun ruolo nel mondo ellenico, si è concluso che dovesse trattarsi di un eroe locale, e che la formazione dell'eponimo sia precedente alla metà del IV sec. a.C., quando è documentata l'affermazione del rotacismo in ambiente falisco. L'elaborazione della leggenda di Halesus deve essere collocata, dunque, in un momento precedente a questa data, che, si è pensato, possa coincidere con la presenza a Falerii di maestranze elleniche o ellenizzate, attive nel campo della ceramografia e della coroplastica, a partire dalla fine del V sec. a.C. Questa tradizione si collega a quella sull'origine etrusca attraverso la notizia di Servio, secondo cui Halesus sarebbe il progenitore del re di Veio Morrius. Il ricordo di una discendenza dalla città etrusca è comune anche a Capena, dove, secondo una notizia di Catone, riportata da Servio, i luci Capeni erano stati fondati da giovani veienti, inviati da un re Properzio, nel cui nome, peraltro, è stata ravvisata un'origine non etrusca, ma italico-orientale. A livello storico, l'accostamento tra Veio, Falisci e Capenati sarà documentato dalle fonti attraverso la costante presenza dei due popoli, al fianco della città etrusca, nel corso degli scontri con Roma tra la seconda metà del V e l'inizio del IV sec. a.C. Di tale complesso sistema di influenze partecipa anche la sfera religiosa dell'area in esame. È interessante notare, a questo proposito, che la massima divinità maschile del pantheon falisco-capenate, il dio del Monte Soratte, Soranus Apollo, costituisca l'esatto corrispettivo dell'etrusco Śuri, come da tempo dimostrato da Giovanni Colonna. La particolarità del culto del Soratte, tuttavia, è determinata dalla cerimonia annua degli Hirpi Sorani, che camminavano indenni sui carboni ardenti e il cui nome, nel racconto eziologico sull'origine del rito, tramandato da Servio, è spiegato in relazione a hirpus, il termine sabino per indicare il lupo, in perfetta coerenza col carattere "di frontiera" di questo territorio. Di origine sabina è la divinità venerata nell'unico grande santuario noto nell'agro capenate, il Lucus Feroniae. La diffusione del culto a partire dalla Sabina, già sostenuta da Varrone, è largamente accolta dalla critica recente, sia sulla base dell'analisi linguistica del nome della dea, sia per la presenza, in Sabina, dei centri principali del culto (Trebula Mutuesca, Amiternum), da cui questo si irradia, oltre che presso Capena, in Umbria e in area volsca. Le attestazioni di Feronia in altre zone, come la Sardegna, il territorio lunense, Aquileia, Pesaro sono generalmente da collegare con episodi di colonizzazione romana. Il carattere esplicitamente emporico del Lucus Feroniae, affermato da Dionigi di Alicarnasso e Livio, che lo descrivono come un luogo di mercato frequentato da Sabini, Etruschi e Romani già dall'epoca di Tullo Ostilio, rende perfettamente conto della varietà di frequentazioni e di influenze, che caratterizzano il santuario almeno dall'età arcaica. Pur in assenza di documentazione archeologica relativa alle fasi più antiche, sembra del tutto affidabile la notizia della vitalità del culto capenate già in età regia. Feronia, infatti, a Terracina, risulta associata a Iuppiter Anxur, divinità eponima della città volsca, il che sembra far risalire l'introduzione del suo culto all'inizio della presenza volsca nella Pianura Pontina, cioè ai primi decenni del V sec. a.C., fornendo, inoltre, un possibile indizio di una provenienza settentrionale, da area sabina, dell'ethnos volsco. È ipotizzabile, dunque, che la dea fosse venerata nel santuario tiberino, prospiciente la Sabina, ben avanti il suo arrivo nel Lazio tirrenico. Al di là della semplice frequentazione del luogo di culto e del mercato, un ruolo di primo piano rivestito dalla componente sabina presso il Lucus Feroniae, in epoca arcaica, sembra suggerito dall'episodio del rapimento dei mercanti romani, riferito da Dionigi di Alicarnasso. I rapitori sabini compiono una ritorsione nei confronti dei Romani, che avevano trattenuto alcuni di loro presso l'Asylum, tra il Capitolium e l'Arx, il che fa pensare che i Sabini esercitassero una sorta di protettorato sul santuario tiberino, e avessero, su di esso, una capacità di controllo analoga a quella che i Romani avevano sull'Asylum romuleo. La vocazione emporica del Lucus Feroniae è naturalmente legata alla sua collocazione topografica, nel punto in cui i percorsi sabini di transumanza a breve raggio attraversano il Tevere, tra i due grandi centri sabini di Poggio Sommavilla e Colle del Forno, per dirigersi verso la costa meridionale dell'Etruria. La dislocazione presso il punto di arrivo dei principali tratturi dell'area appenninica, popolata da genti sabelliche, è, peraltro, una caratteristica comune ai più antichi luoghi di culto di Feronia, come Trebula Mutuesca e Terracina, che condividono col Lucus Feroniae capenate anche la collocazione all'estremità di un territorio etnicamente omogeneo. È stato osservato come, in questi santuari, l'attività emporica marittima si intrecciasse con quella legata allo scambio del bestiame, e, nell'ottica di un'apertura verso l'economia pastorale dei Sardi, è stata inquadrata la fondazione romana, nel 386 a.C., di una Pheronia polis in Sardegna, presso Posada. Da questa località proviene, inoltre, una statuetta bronzea, databile tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a.C., raffigurante un Ercole di tipo italico, divinità di cui è noto il legame con la sfera dello scambio, anche in rapporto agli armenti. L'epoca dell'apoikia sarda ha portato a ipotizzare un collegamento col Lucus Feroniae capenate, dato che già tra il 389 e il 387 a.C. nel territorio di Capena erano stanziati coloni romani, misti a disertori Veienti, Capenati e Falisci. La filiazione del culto sardo da quello tiberino sembra, inoltre, perfettamente compatibile con le pur scarne attestazioni relative a una presenza di Ercole nel santuario capenate. A questo proposito è interessante notare che su una Heraklesschale, ancora sostanzialmente inedita, proveniente dalla stipe del santuario, il dio è rappresentato con la leonté e la clava nella mano sinistra, e lo scyphus di legno nella mano destra. Questi due ultimi attributi di Ercole erano conservati nel sacello presso l'Ara Maxima del Foro Boario, a Roma, e lo scyphus, usato dal pretore urbano per libare nel corso del sacrificio annuale presso l'ara, compare anche nella statua di culto di Alba Fucens, nella quale, per vari motivi, si è proposto di riconoscere una replica del simulacro del santuario del Foro Boario. Il richiamo iconografico a questi elementi, in un santuario-mercato ubicato lungo percorsi di transumanza, come era il Lucus Feroniae, non sembra casuale, ma potrebbe, in un certo senso, evocare il culto dell'Ara Maxima, e, in particolare, un aspetto fondamentale di esso, rappresentato dal collegamento con le Salinae ai piedi dell'Aventino. Queste, ubicate presso la porta Trigemina, e dunque prossime all'Ara Maxima, erano il luogo di deposito del sale proveniente dalle saline ostiensi, e destinato alla Sabina, e, in generale, alle popolazioni dell'interno dell'Italia centrale, dedite a un'economia pastorale. L'Ercole del Foro Boario, che tutelava le attività economiche collegate allo scambio del bestiame, sovrintendeva anche all'approvvigionamento del sale, e in questo senso va spiegato anche l'epiteto di Salarius, attestato per il dio ad Alba Fucens, dove, come è stato visto, il santuario di Ercole aveva la funzione di forum pecuarium. La dislocazione di santuari-mercati lungo i tratturi garantiva, dunque, ai pastori, dietro necessario compenso, la possibilità di rifornirsi di sale, e lo stesso doveva verificarsi presso il Lucus Feroniae. Questo sembra confermato dal fatto che, come è stato di recente dimostrato, la via lungo cui sorge il santuario, l'attuale strada provinciale Tiberina, vada, in realtà, identificata con la via Campana in agro falisco, menzionata da Vitruvio, in relazione a una fonte letale per uccelli e piccoli rettili. Il nome della via va spiegato, infatti, in relazione al punto di arrivo, costituito dal Campus Salinarum alla foce del Tevere, dove erano le saline. Nel comparto falisco, l'analisi della documentazione relativa ai luoghi di culto ha evidenziato una più marcata influenza di Veio rispetto all'area capenate. Questa risulta particolarmente rilevante in un centro come Narce, segnato, sin dall'inizio della sua storia, da una netta impronta veiente, e il cui declino coinciderà con gli anni della conquista della città etrusca. Per limitarci alla sfera del sacro, già da un primo esame dei materiali rinvenuti nel santuario suburbano di Monte Li Santi-Le Rote, di cui si attende la pubblicazione integrale, è stata segnalata, dall'inizio del V sec. a.C., epoca in cui comincia la frequentazione dell'area sacra, la presenza di prototipi veienti, che sono all'origine di una produzione locale di piccole terrecotte figurate. A un modello veiente sono riconducibili le cisterne a cielo aperto, che affiancavano l'edificio templare in almeno due dei principali santuari di Falerii Veteres, quello di Vignale e quello dello Scasato I, da identificare entrambi come sedi di un culto di Apollo. Più problematico risulta, invece, l'accostamento ad esse degli apprestamenti idrici rinvenuti presso un'area sacra urbana, recentemente individuata presso la moderna via Gramsci, nella parte meridionale del pianoro di Civita Castellana, e solo da una vecchia notizia d'archivio della Soprintendenza sappiamo di un'analoga cisterna rinvenuta presso Corchiano all'inizio del '900. Nei casi meglio documentati di Vignale e dello Scasato, tali impianti idrici risultano coevi alla fase più antica del santuario, e rispondono a uno schema che, a Veio, ricorre presso il santuario di Apollo al Portonaccio, presso il tempio a oikos di Piazza d'Armi, nel santuario di Menerva presso Porta Caere, e nel santuario in località Casale Pian Roseto. Non è facile determinare l'esatto valore da attribuire, di volta in volta, a tali cisterne, ma l'enfasi topografica ad esse accordata nell'ambito dei santuari non pare permetta di prescindere da un collegamento con pratiche rituali. Per gli impianti di Falerii si è pensato a un collegamento col santuario del Portonaccio, anche sulla base della corrispondenza cultuale incentrata sulla figura di Apollo, e la piscina è stata spiegata, dunque, in relazione a rituali di purificazione, legati a un culto oracolare. Dopo la sconfitta di Veio Falerii si trovò non solo a tener testa a Roma sul piano militare, ma dovette dimostrarsi non inferiore anche per prestigio e capacità autorappresentativa, essendo l'altro grande centro della basse valle del Tevere. Questo aspetto è stato colto, in particolare, sulla base della decorazione templare della città falisca, che conosce, intorno al secondo-terzo decennio del IV sec. a.C., un rinnovamento generalizzato, dovuto alla nascita di un'importante scuola coroplastica, la cui attività si riconosce anche nel frammento isolato di rilievo fittile rappresentante una Nike, da Fabrica di Roma. Una diversa reazione alla presa di Veio è attestata per l'altro importante centro falisco, quello di Narce, anche attraverso la documentazione fornita dal santuario di Monte Li Santi-Le Rote. Il luogo di culto continua a essere frequentato anche dopo la crisi dell'insediamento urbano, riscontrata attraverso una consistente contrazione delle necropoli a partire dal IV sec. a.C., ma nella prima metà del III sec. a.C. è attestata una contrazione del culto in vari settori del santuario, contestualmente all'introduzione di nuove categorie di ex-voto, quali i votivi anatomici, i bambini in fasce, le terrecotte raffiguranti animali. Questi mutamenti sono stati messi in relazione con la vittoria romana sui Falisci nel 293 a.C., mentre un secondo momento di contrazione del culto sembra coincidere con la definitiva conquista romana del 241 a.C. Dall'inizio del III sec. a.C. anche nei depositi di Falerii vengono introdotti nuovi tipi di votivi, cui si è fatto cenno precedentemente, e, come anche nel santuario di Monte Li Santi-Le Rote, si registra la presenza di monetazione di zecca urbana, che entra a far parte delle offerte. Tale dato diventa ancora più eloquente, se si considera l'assenza di monetazione locale nei contesti di epoca preromana, che sembra tradire l'indifferenza delle popolazioni falische verso tale tipo di offerta. È evidente, dunque, anche per Falerii, un'influenza del mercato romano dopo gli eventi bellici che segnarono la vittoria di Spurio Carvilio sui Falisci. La città, tuttavia, sembra fronteggiare la crisi, tanto da non mettere in pericolo le sue istituzioni, come dimostrano le dediche falische poste, nel Santuario dei Sassi Caduti, a Mercurio, dagli efiles, l'unica carica attestata per la città. Del resto, anche con la costruzione del nuovo centro di Falerii Novi, la documentazione relativa alla sfera religiosa attesta la conservazione, a livello pubblico, della lingua e della grafia falisca, tramite la dedica a Menerva posta dal pretore della città, nella seconda metà del III sec. a.C. (CIL XI 3081). Quanto sappiamo sui culti di età repubblicana di Capena e del suo territorio si limita al santuario di Lucus Feroniae, dove praticamente quasi tutti i materiali e le fonti epigrafiche sono inquadrabili nel corso del III sec. a.C., e a un paio di dediche di III sec. a.C. La capitolazione di Capena subito dopo la presa di Veio (395 a.C.) rende, in questa fase, la presenza romana ormai stabile da circa un secolo, dunque non sorprende che le iscrizioni sacre utilizzino un formulario specificamente latino, anche con attestazioni piuttosto precoci di espressioni che diventeranno correnti nel corso del II sec. a.C. Uno dei primi esempi attestati di abbreviazione alle sole iniziali della formula di dedica d(onum) d(edit) me(rito) è in CIL I², 2435, provenente dalla necropoli capenate delle Saliere. La documentazione archeologica più antica riguardo alla vita religiosa dell'area presa in esame proviene da Falerii Veteres. In ordine cronologico, la prima divinità attestata epigraficamente è Apollo, il cui nome compare inciso in falisco su un frammento di ceramica attica dei primi decenni del V sec. a.C. dal santuario di Vignale. È notevole che si tratti in assoluto della più antica attestazione conosciuta del nome latinizzato del dio, che indica la sua precoce assimilazione nel pantheon falisco, dove, già da quest'epoca, bisogna riconoscere come avvenuta l'identificazione con Apollo del locale Soranus. Il culto del dio del Soratte, attestato per via epigrafica solo in età imperiale, attraverso due dediche a Soranus Apollo, può essere coerentemente collocato tra le più antiche manifestazioni religiose del comprensorio falisco-capenate, e probabilmente la sede cultuale del Monte Soratte doveva fungere da tramite tra le due aree. Nel territorio falisco la presenza del dio lascia tracce più consistenti, attraverso la duplicazione del culto di Apollo a Falerii Veteres, e una dedica di età repubblicana da Falerii Novi, mentre sembra affievolirsi in area capenate, dove ne resta traccia solo in due dediche ad Apollo della prima età imperiale da Civitella S. Paolo, e in una controversa notizia di Strabone, che, apparentemente per errore, ubica al Lucus Feroniae le cerimonie in onore di Sorano, che si svolgevano, invece, sul Soratte. Anche questa notizia, tuttavia, si inserisce in un sistema di corrispondenze cultuali, che associa a una dea ctonia, della fertilità, un paredro di tipo "apollineo", cioè una divinità maschile, giovanile, con aspetti inferi e mantici. Non sembra casuale, in questo contesto, che il santuario per cui è attestata una più antica frequentazione a Falerii Veteres sia quello di Giunone Curite, una divinità che sembra rispondere allo schema di dea matronale e guerriera (era una Giunone armata, ma anche protettrice delle matrone) per la quale, pure, è attestata l'associazione cultuale con un giovane dio, della stessa tipologia di Sorano. Anche se non sono attestati direttamente rapporti tra Iuno Curitis e Sorano Apollo non sembra da trascurare il dato che l'unica statuetta di Apollo liricine, di IV sec. a.C., rinvenuta a Falerii Veteres provenga proprio dal santuario della dea; inoltre quando essa fu evocata a Roma dopo la presa di Falerii nel 241 a.C., insieme al suo tempio, in Campo, fu costruito quello di Iuppiter Fulgur, una divinità parimenti evocata dal centro falisco, e per la quale, pure, si possono istituire dei parallelismi con Soranus, attraverso l'assimilazione con Veiove. Nell'agro falisco, come in quello capenate, le più antiche attestazioni cultuali si riferiscano, dunque, a una coppia di divinità che, pur nelle differenze maturate in aspetti specifici del culto, sembra rispondere a esigenze cultuali piuttosto omogenee. Con l'età imperiale, infine, il panorama dei culti della zona considerata sembra diventare più omogeneo, inserendosi, peraltro, in una tendenza piuttosto generale. La manifestazione più appariscente è costituita, naturalmente, dal culto imperiale, attestato molto presto in Etruria meridionale. Da Nepi proviene la più antica testimonianza nota in Etruria, costituita da una dedica in onore di Augusto da parte di quattro Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'iscrizione è databile al 12 a.C., anno della fondazione del collegio di Nepi, e dell'istituzione, a Roma, del culto del Genius di Augusto e dei Lares Augusti, venerati nei compita dei vici della città. Altri esempi di una piuttosto precoce diffusione del culto imperiale vengono da Falerii Novi (CIL XI, 3083, databile tra il 2 a.C. e il 14 d.C.; CIL XI, 3076, età augustea); da Lucus Feroniae, dove intorno al 31 d.C. è attestato per la prima volta l'uso della formula in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295). Il fatto che la diffusione del culto imperiale in agro falisco-capenate avvenga praticamente negli stessi anni che a Roma, sembra legato anche ai rapporti che legarono Augusto e la dinastia giulio-claudia a questo territorio. Dopo Anzio veterani di Ottaviano ottennero terre nell'Etruria meridionale, lungo il corso del Tevere, e non è un caso che l'Augusteo di Lucus Feroniae, l'unico in Etruria meridionale, che sia noto, oltre che epigraficamente, anche attraverso i suoi resti, sia stato eretto tra il 14 e il 20 d.C. da due membri della gens senatoria, filoagustea, dei Volusii Saturnini. Augusto stesso e membri della dinastia parteciparono direttamente alla vita civile dei centri della regione: Augusto fu pater municipii a Falerii Novi, Tiberio e Druso Maggiore furono patroni della colonia a Lucus Feroniae, tra l'11 e il 9 a.C. Inoltre la presenza, nel territorio capenate, di liberti imperiali incaricati dell'amministrazione del patrimonio dell'imperatore, fa pensare all'esistenza di fundi imperiali. La documentazione di età imperiale è costituita, inoltre, da una serie di iscrizioni che difficilmente possono farci risalire a specifici luoghi di culto, e dalle quali, in molti casi, si evince soprattutto una richiesta di salute e di fertilità alla divinità, come avveniva in età repubblicana, tra il IV e il II sec. a.C., attraverso l'offerta nei santuari di votivi anatomici. Sono note anche alcune attestazioni di culti orientali (Mater Deum e Iside, anche associate, da Falerii Novi e dal suo territorio; una dedica alla Mater Deum da Nazzano, in territorio capenate), che rientrano nell'ambito della devozione privata, tranne nel caso del sacerdozio di Iside a Mater Deum attestato a Falerii Novi. ; Inventaire des lieux de culte de la zone falisco-capenate. Résumé. Le recueil des sources historiques relatives à la vie religieuse de la zone falisco-capenate a eut comme but, tout d'abord, la localisation des lieux de culte identifiables avec certitude comme tels. Lorsque cela s'est avéré impossible, particulièrement en présence de documents épigraphiques isolés et d'origine incertaine, on a tout de même enregistré l'existence du culte. On veut reconstruire, au moyen de la documentation récoltée, une histoire des cultes de la zone considérée depuis les premières apparitions jusqu'à l'âge impérial. La zone considérée, insérée dans la Regio VII Etruria dans le cadre de l'organisation territoriale de l'Italie augustéenne, est comprise dans les limites naturelles du lac de Bracciano et du lac de Vico à l'ouest, du cours du Tibre à l'est, tandis que les limites septentrionale et méridionale sont délimitées, respectivement, par les reliefs des Monts Cimini et des Monts Sabatini. Les centres examinés sont ceux de Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri et Nepi. La communauté capenate occupait la partie orientale du territoire, un zone de plaine, dominée au nord par le massif du Mont Soratte, et délimitée à l'est par l'anse du Tibre. Son centre était constitué par l'habitat de Capena, l'actuel Col de la Civitucola, dont dépendaient une série de petits sites, encore peu étudiés, disséminés en position stratégique sur le Tibre, ou en correspondance d'axes routiers de liaison au fleuve. Le principal de ces derniers est localisé sur le site de l'actuelle Nazzano, occupé de manière permanente à partir du VIIIème siècle av. J.-C., et situé en correspondance de l'habitat sabin de Campo del Pozzo, sur l'autre rive du Tibre. La zone falisque s'articule, par contre, sur un paysage d'âpres collines de tuf, disposées autour du bassin hydrographique du torrent Treia, affluent du Tibre, qui parcourt le territoire en direction longitudinale. Le long du cours d'eau se développèrent les deux plus antiques et importants centres falisques de Falerii Veteres et Narce, un site que les plus récentes recherches tendent à reconnaître, et de manière toujours plus convaincante, comme la Fescennium connue dans les sources historiques, le deuxième habitat falisque, outre à Falerii, dont on reporte le nom; le long d'affluents du Treia sont situées Nepi et Falerii Novi. Malgré la spécificité culturelle progressivement développée par falisques et capenates, la situation géographique du territoire occupé le rend naturellement perméable aux influences étrusques et sabines, aspect relevé par la documentation archéologique et par quelques informations dans les sources antiques, réévaluée par les plus récentes études. Une position différente s'était par contre imposée après les premières recherches effectuées dans la région entre la fin du XIXème et le début du XXème siècle : celles-ci avaient mis l'accent sur les caractères culturels spécifiques des populations locales, en soulignant la substantielle autonomie de ces populations par rapport aux Etrusques, surtout sur la base des grandes similitudes entre les langues falisque et latine. Une telle perception fut dominante jusqu'à la deuxième moitié des années Soixante du Vingtième siècle, lorsque la publication des premières données sur les nécropoles de Véies mirent en lumière les rapports étroits avec les zones falisque et capenate entre le VIIIème et le VIIème siècle av. J.-C. Les études sur le peuplement de l'Etrurie protohistorique, conduites à partir des années '80 du XXème siècle ont focalisé l'attention sur une implication de Véies dans le peuplement de la zone comprise entre les Monts Cimini et Sabatini d'une part et le Tibre d'autre part, et cela au début de l'Âge du Fer, études confirmées par les récentes analyses des trousseaux des principales nécropoles falisques, qui ont prouvé qu'il existait au VIIIème et au début du VIIème siècle av. J.-C. d'importants parallèles avec les habitudes funéraires de Véies, bien que certains aspects spécifiques de la culture locale y fussent conservés. Le corpus d'inscriptions étrusques provenant de la nécropole de Narce démontre, pour tout le VII et le VIème siècle ac. J.-C., la présence continue de populations parlant la langue étrusque, qui utilisent un système d'écriture de type méridional, reconductible à Véies, dont Narce semble avoir constitué un avant-poste en territoire falisque. Déjà au début du VIIème siècle av. J.-C. cependant, on remarque les signes évidents d'une plus spécifique caractérisation culturelle des zones falisques et capenates, et cela au travers, entre autre, de la diffusion d'un idiome falisque, semblable au latin, documenté par des épigraphes au VIIème et au VIème siècle av. J.-C., surtout à Falerii Veteres. Ultérieur élément de contact culturel avec le monde latin est représenté, dans ce centre, par le rituel funéraire des inhumations infantiles dans la zone habitée. Une telle habitude, qui trouve de nombreuses comparaisons dans le Latium vetus, est étrangère à l'Etrurie, alors qu'elle est documentée à Cività Castellana, en localité «lo Scasato», par deux sépultures d'enfants datables entre la fin du VIIIème siècle et la première moitié du VIIème siècle av. J.-C. A Capena a été remarqué, à partir du VIIème siècle av. J.-C., une grande influence provenant de l'aire sabine, surtout à travers la documentation archéologique fournie par les nécropoles, tandis que du point de vue linguistique un influence du versant oriental du Tibre a été remarquée, en particulier par une analyse du noyau plus consistant des inscriptions relatifs aux nouveaux-nés, qui remonte au IV – IIIème siècle av. J.-C. La réceptivité vis-à-vis des nouveautés des populations limitrophes et la capacité d'élaborations originales, prouvées archéologiquement déjà depuis les phases les plus antiques de l'histoire des peuples falisques et capenates, peuvent offrir une aide documentaire à la perception que les écrivains antiques avaient de l'ethnos falisque, en trouvant un équivalent dans les traditions qui définissaient les Falisques comme des Etrusques, ou bien comme un peuple à soi, caractérisé par une spécificité propre, aussi linguistique. Cette dernière donnée trahit la mémoire de contacts avec le monde latin. Un troisième filon antique, qui se mêle à celui d'origine étrusque, revendique pour les falisques une ascendance grecque, plus précisément de l'Argolide et semble le fruit d'une construction d'érudits élaborée successivement. L'information de l'origine argolide remonte, par tradition indirecte, aux Origines de Caton, et se relie à celle de la fondation de Falerii de la part du héros Halesus, fils d'Agamemnon, qui aurait abandonné la maison paternelle après l'assassinat de son père. Ovide et Denys d'Halicarnasse attribuent au héros grec l'institution du culte de Junon à Falerii, dont le caractère originel argolide serait conservé dans le rite célébré en occasion de la fête annuelle de la déesse. L'importance accordée au culte de Junon au sein d'une telle tradition a amené à supposer que celui-ci se soit développé précisément à partir de la donnée religieuse de la présence à Falerii d'une divinité semblable à Héra d'Argos. Grâce à l'examen linguistique du nom du fondateur, qui n'a pas combattu à Troie et qui n'a eut aucun rôle dans le monde grec, on a conclu qu'il devait s'agir d'un héros local, et que la formation de l'éponyme ait été précédent à la moitié du IVème siècle av. J.-C., lorsque l'affirmation du rhotacisme est documenté dans la culture falisque. L'élaboration de la légende de Halesus doit donc être située à un moment précédent cette date qui, comme on l'a pensé, puisse coïncider avec la présence à Falerii d'artistes grecs ou hellénisés, actifs dans la céramographie et dans la choroplastique, à partir de la fin du Vème siècle av. J.-C. Cette tradition se relie à celle sur l'origine étrusque, par l'information de Servius, selon lequel Halesus serait le grand-père du roi de Véies Morrius. Le souvenir d'une descendance de la ville étrusque est commune aussi a Capena où, d'après une nouvelle de Caton, rapportée par Servius, les luci Capeni avaient été fondés par des jeunes de Véies, envoyés par un roi Properce, dans le nom duquel a été identifié une origine non étrusque, mais bien italico-orientale. Du point de vue historique, le rapprochement entre Véies, falisques et capenates sera documenté dans les sources par la présence constante des deux peuples au flanc de la ville étrusque au cours des luttes contre Rome entre la deuxième moitié du Vème et le début du IVème siècle av. J.-C. D'un tel système complexe d'influences participe aussi la sphère religieuse de la zone en question. Il est intéressant de noter, à ce propos, que la principale divinité masculine du panthéon falisco-capenate, le dieu du Mont Soratte, Soranus Apollon, constitue le correspondant exact de l'étrusque Śuri, comme l'a démontré Giovanni Colonna. La particularité du culte de Soratte, toutefois, est déterminée par la cérémonie annuelle des Hirpi Sorani, qui marchaient indemnes sur des charbons ardents et dont le nom, dans le récit étiologique sur l'origine du rite transmis par Servius, est expliqué en relation à hirpus, le nom sabin pour «loup», parfaitement cohérent avec la caractéristique frontalière de ce territoire. D'origine sabine est aussi la divinité vénérée dans le seul grand sanctuaire connu dans le territoire capenate, le Lucus Feroniae. La diffusion du culte à partir de la Sabine, version soutenue déjà par Varron, est largement acceptée par la critique récente, sur la base d'une part de l'analyse linguistique du nom de la déesse et d'autre part vu la présence sur le territoire sabin des principaux centres de culte (Trebula Mutuesca, Aminternum), d'où ceux-ci se diffusent, outre à Capena, vers l'Ombrie et le territoire volsque. Les attestations de Feronia dans d'autres zones, comme en Sardaigne, en territoire de Luni, à Aquilée et à Pesaro sont généralement à mettre en relation avec des épisodes de colonisation romaine. Le caractère explicitement commercial du Lucus Feroniae, affirmé par Denys d'Halicarnasse et par Tite-Live, qui le décrivent comme un lieu de marché fréquenté par les sabins, les étrusques et les romains déjà à l'époque de Tullius Ostilius, rend parfaitement compte de la variété des fréquentations et des influences qui caractérisent le sanctuaire à partir de l'Âge archaïque. Bien que n'ayant pas de documentation archéologique relative aux phases les plus antiques, l'information sur la vitalité du culte capenate déjà à l'époque royale semble fiable. Feronia, en effet, est couplée, à Terracina, à Iuppiter Anxur, divinité éponyme de la ville volsque, ce qui semble faire remonter l'introduction de son culte au début de la présence volsque dans la plaine pontine, c'est-à-dire vers les premières décennies du Vème siècle av. J.-C. Cela fournit, en plus, un indice possible d'une provenance septentrionale de l'ethnos volsque depuis la zone sabine. Il est donc envisageable que la déesse ait été adorée dans le sanctuaire tibérien, en face de la Sabine, bien avant son arrivée dans le Latium tyrrhénien. Au-delà de la simple fréquentation du lieu de culte et du marché, un rôle de premier plan joué par l'élément sabin pour le Lucus Feroniae en époque archaïque semble suggéré par l'épisode de l'enlèvement de marchants romains relaté par Denys d'Halicarnasse. Les ravisseurs sabins effectuent une rétorsion contre les romains, qui avaient enfermé certains des leurs sur l'Asylum, entre le Capitole et l'Arx, ce qui fait penser que les sabins exerçaient une sorte de protectorat sur le sanctuaire tibérien et qu'ils avaient sur celui-ci une capacité de contrôle semblable à celui que les romains avaient sur l'Asylum romuléen. La vocation commerciale du Lucus Feroniae est naturellement liée à son emplacement topographique, à l'endroit où les parcours sabins de transhumance à courte distance traversent le Tibre, entre les deux grands centres sabins de Poggio Sommavilla et Colle del Forno, pour se diriger vers la côte méridionale de l'Etrurie. La dislocation près du lieu d'arrivée des principaux sentiers de la zone apennine, habitée de peuplades sabelliques, est, en outre, une caractéristique commune aux plus anciens lieux de culte de Feronia, comme par exemple Trebula Mutuesca et Terracina, qui partagent avec le Lucus Feroniae capenate l'emplacement à l'extrémité d'un territoire ethniquement homogène. Il a été observé combien, dans ces sanctuaires, l'activité commerciale maritime était liée à l'échange du bétail et il faut prendre en compte l'ouverture à l'économie pastorale sarde pour comprendre la fondation romaine en 386 av. J.-C. d'une Pheronia polis en Sardaigne, près de Posada. De cette localité provient, en outre, une statuette en bronze, datable entre la fin du Vème et les premières décennies du IVème siècle av. J.-C., qui représente un Hercule de type italique, divinité dont on connaît le lien avec la sphère de l'échange, et surtout son rapport avec les troupeaux. L'époque de l'apoikia sarde a amené à envisager une relation avec le Lucus Feroniae capenate, vu que déjà entre 389 et le 387 av. J.-C. dans le territoire de Capena des colons romains s'étaient établis, unis à des déserteurs provenant de Véies, Capena et Falerii. La filiation du culte sarde à partir du culte tibérien semble, en outre, parfaitement compatible avec les rares attestations relatives à une présence d'Hercule dans le sanctuaire capenate. A ce sujet il est intéressant de remarquer que sur une Heraklesschale, encore inédite, provenant du dépôt votif du sanctuaire, le dieu est représenté avec la leonté et la massue dans la main gauche, et le skyphos en bois dans la main droite. Ces deux derniers attributs d'Hercule étaient conservés dans le sacellum près de l'Ara Maxima du Forum boarium, à Rome, et le skyphos, utilisé par le préteur urbain pour faire les libations au cours du sacrifice annuel auprès de l'Ara, apparaît aussi dans la statue de culte d'Alba Fucens, dans laquelle, en raison de nombreuses similitudes, on a proposé de reconnaître une réplique du simulacre du sanctuaire du Forum boarium. La répétition iconographique de ces éléments dans un sanctuaire-marché situé le long des voies de la transhumance, comme était le Lucus Feroniae, ne semble pas un hasard et pourrait d'ailleurs, dans un certain sens, évoquer le culte de l'Ara Maxima et en particulier un aspect fondamental de celui-ci, représenté par la liaison avec les Salinae aux pieds de l'Aventin. Celles-ci, situées près de la porta Trigemina, et donc proches de l'Ara Maxima, étaient le lieu de dépôt du sel provenant des salines d'Ostie destiné à la Sabine, et en général aux populations établies à l'intérieur de l'Italie centrale et vouées à l'économie pastorale. L'Hercule du Forum boarium, qui protégeait les activités économiques liées aux échanges de bétail, gouvernait aussi à l'approvisionnement du sel, et c'est en ce sens que doit aussi s'expliquer l'épithète de Salarius, attesté pour le dieu à Alba Fucens où, comme on l'a vu, le sanctuaire d'Hercule avait la fonction de forum pecuarium. La dislocation de sanctuaires-marchés le long des voies de transhumance garantissait donc aux pasteurs, après compensation nécessaire, la possibilité de se pourvoir en sel, et la même chose devait advenir au Lucus Feroniae. Ceci semble confirmé par le fait que, comme il a été démontré récemment, la route le long de laquelle se dresse le sanctuaire, l'actuelle route provinciale Tiberina, doive en réalité être identifiée comme la via Campana en territoire falisque, mentionné par Vitruve, en relation avec une source mortelle pour les oiseaux et les petits reptiles. Le nom de la route s'explique, en effet, en relation à son point d'arrivée, le Campus Salinarum situé à l'embouchure du Tibre, où se trouvaient les salines. Dans la zone falisque, l'analyse de la documentation relative aux lieux de culte a mis en évidence une influence majeure de Véies par rapport à la zone capenate. Cela résulte particulièrement important dans un centre comme Narce, marqué, depuis le début de son histoire, par une nette influence de Véies, et dont le déclin coïncidera avec les années de la conquête de la ville étrusque. Pour nous limiter à la sphère du sacré, déjà à partir d'un premier examen du matériel retrouvé dans le sanctuaire suburbain de Monte Li Santi – Le Rote, dont on attend la publication intégrale, on a signalé, à partir du Vème siècle av. J.-C., époque à laquelle commence la fréquentation de l'aire sacrée, la présence de prototypes provenant de Véies, qui sont à l'origine d'une production locale de petites terre cuites figurées. A un modèle de Véies sont reconductibles les citernes à ciel ouvert, qui flanquaient l'édifice templier dans au moins deux des principaux sanctuaires de Falerii Veteres, celui de Vignale et celui de Scasato I, tous deux à identifier comme lieux de culte dédiés à Apollon. Plus difficile est par contre le rapprochement de celles-ci aux citernes fermées retrouvées proche d'une aire sacré urbaine, récemment identifiée dans la moderne rue Gramsci, dans la partie méridionale du plateau de Civita Castellana, tandis que c'est seulement grâce à une vieille note des archives de la Surintendance que nous savons de l'existence d'une citerne semblable retrouvée près de Corchiano au début du Vingtième siècle. Dans les cas mieux documentés de Vignale et de Scasato, de tels systèmes hydrauliques résultent contemporains à la phase la plus antique du sanctuaire, et correspondent à un schéma qui revient à Véies dans le sanctuaire d'Apollon au Portonaccio, proche du temple à oikos de la Piazza d'Armi, dans le sanctuaire de Menerva près de la Porta Caere, ainsi que dans le sanctuaire situé en localité Casale Pian Roseto. Il n'est pas facile de déterminer la valeur exacte à attribuer, selon les cas, à de telles citernes, mais l'emphase topographique qu'on leur accorde dans le cadre des sanctuaires ne semble pas permettre de pouvoir exclure une relation avec les pratiques rituelles. Pour le site de Falerii on a pensé à une relation avec le sanctuaire de Portonaccio, entre autre sur la base d'une correspondance des cultes centrée sur la figure d'Apollon, et la piscine a ainsi été expliquée en relation à des rituels de purification liés à un culte oraculaire. Après la défaite de Véies, Falerii dut faire face non seulement à Rome du point de vue militaire, mais elle dut aussi se montrer non inférieure par prestige et capacité d'autoreprésentation, étant l'autre grand centre de la basse vallée du Tibre. Cet aspect a été noté, en particulier, sur la base de la décoration des temples de la ville falisque, qui connaît vers la deuxième – troisième décennie du IVème siècle av. J.-C. un renouveau général dû à la naissance d'une importante école choroplastique, dont l'activité se reconnaît aussi dans le fragment isolé de relief d'argile représentant une Nike, provenant de Fabrica di Roma. Une autre réaction à la prise de Véies est attestée dans l'autre important centre falisque, celui de Narce, aussi grâce à la documentation fournie par le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote. Le lieu de culte continue à être fréquenté après la crise de la ville, comme le démontre une consistante contraction des nécropoles à partir du IVème siècle av. J.-C., mais dans la première moitié du IIIème siècle une ultérieure réduction du culte est prouvée dans de nombreux secteurs du sanctuaire, en parallèle à l'introduction de nouvelles catégories d'ex-voto, comme les ex-voto anatomiques, les nouveaux-nés enveloppés dans des bandes, les terre cuites représentant des animaux. Ces changements ont été mis en relation avec la victoire romaine sur les Falisques en 293 av. J.-C., alors qu'un deuxième moment de contraction du culte semble coïncider avec la définitive conquête romaine de 241 av. J.-C. Depuis le début du IIIème siècle av. J.-C., on assiste aussi dans les dépôts votifs de Falerii à l'introduction de nouveaux types d'ex-voto, dont on a parlé précédemment, et, comme pour le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote, on enregistre la présence de pièces de monnaie romaines, qui commencent à constituer des offrandes. Une telle donnée devient encore plus éloquente lorsqu'on considère l'absence de monnaies locales dans les contextes préromains, qui semble trahir l'indifférence des populations falisques envers un tel type d'offrande. Il est donc évident aussi pour Falerii une influence du marché romain après les évènements belliqueux qui marquèrent la victoire de Spurius Carvilius sur les Falisques. La ville semble toutefois réussir à affronter la crise, au point de ne pas mettre en danger ses institutions, comme le démontrent les dédicaces falisques adressées à Mercure, dans le Sanctuaire dei Sassi Caduti, par les efiles, seuls magistrats attestés en ville. Par ailleurs, aussi avec la construction du nouveau centre de Falerii Novi, la documentation relative à la sphère religieuse prouve la conservation, au niveau public, de la langue et de la graphie falisque, par exemple dans la dédicace à Menerva effectuée par le préteur de la ville, pendant la deuxième moitié du IIIème siècle av. J.-C. (CIL XI 3081). Ce que nous savons sur les cultes de l'époque républicaine se limite au sanctuaire de Lucus Feroniae, où pratiquement tout le matériel et les sources épigraphiques peuvent être situés durant le IIIème siècle av. J.-C., et à deux dédicaces du IIIème siècle av. J.-C. La capitulation de Capena immédiatement après la chute de Véies (395 av. J.-C.) rend, à cette période, la présence romaine stable depuis environ déjà un siècle, et on ne se surprend donc pas du fait que les inscriptions sacrées utilisent un formulaire spécifiquement latin, avec même une présence plutôt précoce d'expressions qui deviendront courante au cours du IIème siècle av. J.-C. Un des premiers exemples attestés d'abréviations aux seules initiales de la formule de dédicace d(onum) d(edit) me(rito) se trouve dans CIL I, 2435, et provient de la nécropole capenate de Saliere. La plus antique documentation archéologique sur la vie religieuse de la zone prise en examen provient de Falerii Veteres. En ordre chronologique, la première divinité présente épigraphiquement est Apollon, dont le nom apparaît gravé en langue falisque sur un fragment de céramique attique remontant aux premières décennies du Vème siècle av. J.-C., qui provient du sanctuaire de Vignale. Il est intéressant de noter qu'il s'agit dans l'absolu de la plus antique attestation connue du nom latinisé du dieu, ce qui indique son assimilation précoce dans le pantheon falisque où, déjà à partir de cette époque, il faut reconnaître comme déjà effectuée l'identification entre Apollon et le dieu local Soranus. Le culte du dieu de Soratte, attesté épigraphiquement seulement à l'époque impériale, à travers deux dédicaces à Soranus Apollo, peut être situé de manière cohérente parmi les plus antiques manifestations religieuses du territoire falisco-capenate, et probablement le centre du culte du Mont Soratte devait servir de point de jonction entre les deux zones. Dans le territoire falisque la présence du dieu laisse des traces plus consistantes, à travers la duplication du culte d'Apollon à Falerii Veteres et une dédicace d'époque républicaine venant de Falerii Novi, tandis qu'elle semble s'affaiblir dans l'aire capenate, où on en trouve trace seulement dans deux dédicaces à Apollon, datant de la première époque impériale à Civitella S. Paolo, et dans un passage controversé de Strabon qui, apparemment par erreur, situe au Lucus Feroniae les cérémonies en l'honneur de Sorano, qui étaient au contraire célébrées sur le Mont Soratte. Cette information toutefois s'insère dans un système de correspondances cultuelles qui, associées à une déesse chtonienne, de la fertilité, et à un parèdre de type « apollinien », c'est-à-dire une divinité masculine, jeune, d'aspect infernal et mantique. Ce n'est pas un hasard, dans ce contexte, que le sanctuaire pour lequel est attestée une plus antique fréquentation à Falerii Veteres soit celui de Iuno Curitis, une divinité qui semble répondre au schéma de déesse matronale et guerrière (il s'agissait d'une Junon armée, mais aussi protectrice des matrones) pour laquelle, en outre, on a la preuve de l'association cultuelle avec un jeune dieu, de la même typologie que celle présente à Sorano. Même si on n'a pas d'attestations directes de l'existence de rapports entre Iuno Curitis et Sorano Apollo, il semble qu'il ne faille pas délaisser le fait que l'unique statuette d'Apollon jouant de la lyre, du IVème siècle av. J.-C., retrouvée à Falerii Veteres provienne justement du sanctuaire de la déesse; en outre lorsqu'elle fut évoquée à Rome après la prise de Falerii en 241 av. J.-C., en même temps que son temple situé in Campo, un autre temple fut construit, celui de Iuppiter Fulgur, une divinité du centre falisque pareillement évoquée, et pour laquelle on peut établir des parallèles avec Soranus, au travers de l'assimilation avec Veiove. Dans le territoire falisque comme dans celui capenate, les plus anciennes attestations cultuelles se réfèrent donc à un couple de divinités qui, tout en ayant des différences dans des aspects spécifiques du culte, semblent répondre à des exigences cultuelles plutôt homogènes. Durant l'époque impériale, enfin, le panorama des cultes de la zone considérée semble devenir plus homogène, en suivant par ailleurs une tendance générale. La manifestation plus évidente est formée, naturellement, par le culte impérial, présent très tôt en Etrurie méridionale. Le plus antique témoignage du culte impérial connu en Etrurie provient de Nepi, et il est constitué d'une dédicace en l'honneur d'Auguste de la part de quatre Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'inscription est datable à 12 av. J.-C., année de la fondation du collège de Nepi et de l'institution à Rome du culte du Genius d'Auguste ainsi que des Lares Augusti, vénérés dans les compita des vici de la ville. D'autres exemples d'une diffusion plutôt précoce du culte impérial viennent de Falerii Novi (CIL XI, 3083, datable entre 2 av. J.-C. et l'an 14 ; CIL XI, 3076, époque augustéenne); de Lucus Feroniae, où vers 31 av. J.-C. l'usage de la formule in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295) est documenté pour la première fois. Le fait que la diffusion du culte impérial dans le territoire falisco-capenate ait commencé pratiquement dans les mêmes années qu'à Rome semble aussi lié aux rapports qu'eurent Auguste et la dynastie julio-claudienne avec ce territoire. Après Anzio les vétérans d'Octave obtinrent des terres en Etrurie méridionale, le long du cours du Tibre, et ce n'est pas un hasard si l'Augusteum de Lucus Feroniae, le seul en Etrurie méridionale connu outre que de manière épigraphique aussi grâce à ses vestiges, ait été érigé entre 14 et 20 apr. J.-C. par deux membres de la gens sénatoriale, filo-augustéenne, des Volusii Saturnini. Auguste lui-même et des membres de la dynastie participèrent directement à la vie civile des centres de la région: Auguste fut pater municipii à Falerii Novi, Tibère et Druse Majeur furent les patrons de la colonie à Lucus Feroniae, entre 11 et 9 av. J.-C. La présence, en outre, d'affranchis impériaux sur le territoire capenate, chargés de l'administration du patrimoine de l'empereur, fait penser à l'existence de fundi impériaux. La documentation d'époque impériale est formée d'une série d'inscriptions qui difficilement peuvent nous faire remonter à des lieux de cultes bien précis, et desquelles dans de nombreux cas, on déduit surtout une demande de santé et de fertilité à la divinité, comme il était fréquent à l'époque républicaine, entre le IV et le IIème siècle av- J.-C., qui s'exprime au moyen d'offrandes d'ex-voto anatomiques dans les sanctuaires. On connaît aussi quelques attestations de cultes orientaux (Mater Deum et Isis, parfois associées, provenant de Falerii Novi et de son territoire ; une dédicace à la Mater Deum de Nazzano, en territoire capenate), qui entrent dans le cadre d'une dévotion privée, sauf dans le cas du sacerdoce d'Isis à Mater Deum présent à Falerii Novi. ; The list of documentary sources concerning the religious life of the falisco-capenate area aim at findings the places of worship that can be identified with certainty. Whenever this has not been possible we have signalled the worship anyway. Through these documents we intend to reconstruct the history of the cults of the area examined, from its beginning to imperial age. The examined area, included in the Regio VII Etruria of the territorial organisation of Augustean Italy, is enclosed within the natural limits of the Bracciano lake and Vico lake at west, of the Tiber at east; the northern and southern limits are marked, respectively, by the Cimini mounts and Sabatini mounts. The sites considered are Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutrium et Nepet. ; XIX Ciclo ; 1977
La mia tesi è suddivisa in due parti: la prima parte è un'introduzione al pensiero di David Messer Leon e più in generale all'ambiente in cui l'autore si è formato intellettualmente e filosoficamente, presentando, in questo modo, il quadro generale del rapporto tra filosofia ebraica e filosofia del Rinascimento in Italia. La seconda parte è invece un'analisi e un commento alla prima parte sezione del manoscritto "Magen David" ovvero lo Scudo di David. Prima parte. La prima parte della mia tesi è dunque dedicata all'approfondimento di alcune questioni fondamentali della vita di David Messer Leon. Ad oggi esiste soltanto una monografia su questo autore, scritta da Hava Tirosh-Rothschild "Beetwen worlds. The life and thought of Rabbi David ben Judah Messer Leon" State University of New York Press, New York 1991. Ho dunque apportato alcune modifiche rispetto allo studio della Hava Tirosh-Rothschild, a mio avviso infatti è possibile fornire delle nuove informazioni proprio attraverso la lettura del Magen David, confrontando l'opera di David Messer Leon con altri suoi manoscritti come ad esempio, al 'Ein ha- Qore (L'Occhio del lettore) e il Kevod Hachamim (L'Onore dei Sapienti) ma soprattutto approfondendo le fonti secondaria che in realtà mi hanno permesso di ricostruire, attraverso dei piccoli indizi, la vita e il contesto dell'autore. Il pensiero di David Messer Leon non è assolutamente frutto di un lavoro originale, al contrario la struttura della sua opera sembra essere semplicemente un lavoro di "copiatura" quasi antologica di testi a cui David Messer Leon poteva avere accesso. Il Magen David , ad ogni modo, è una testimonianza di come un filosofo ebreo può approcciarsi allo studio della filosofia e della Qabbalah in ambiente cristiano. Ho suddiviso questa prima sezione in quattro capitoli ognuno dei quali tratterebbe alcuni tra gli aspetti fondamenali del rapporto tra David Messer Leon e il pensiero filosofico e cabbalisto. Capitolo primo: - Cenni biografici. La vita di David Messer Leon. Un breve excursus sulla vita di David Messer Leon con particolare attenzione alla questione della sua data di nascita e la sua città natale, indicando come prima referenza il folio 1 verso del Magen David, è qui che lo stesso autore ci informa della sua nascita a Venezia. - Le opere. Ho suddiviso questa sezione in due sottosezioni ovvero tutti quei manoscritti1 che sono giunti a noi e tutte le opere che sono andate perdute ma che sono state citate dal nostro autore. Ho cercato di ordinare il corpus dell'autore in ordine cronologico seguendo gli spostamenti e I viaggi di David Messer Leon per la penisola italiana sino ad arrivare ai territori dell'Impero Ottomanno. Ogni manoscritto è accompagnato da una breve descrizione del suo contenuto, e anche nel caso dei manoscritti smarriti, ho cercato di ricostruirne il soggetto attraverso le diverse citazioni che l'autore stesso indica nei manoscritti che ci sono noti. - David Messer Leon e la famiglia da Pisa. In questo paragrafo affronto il rapporto tra la famiglia di Messer Leon e la famiglia da Pisa. In questa mia ricerca appaiono fondamentali le testimonianze e i carteggi dell'autore in cui, oltre a mostrare gli aspetti più intimi della sua vita privata (Cod. Laur. Plut. 88, 12), emergono anche alcuni degli aspetti più importanti del suo pensiero filosofico. In uno scambio epistolare tra David Messer Leon e David da Tivoli (marito della figlia di Yehiel da Tivoli, uno dei più famosi banchieri Toscani e mecenate dei più illustri pensatori che ruotano nell'ambiente ebraico di fine quattrocento), David da Tivoli chiede espressamente all'amico alcune delucidazioni e addirittura un commento alla Guida dei Perplessi di Maimonide. È probabilmente grazie al suggerimento di David da Tivoli che David Messer Leon scrive il Magen David (Cod. Laur. Plut. 88). In seconda analisi in questo paragrafo ricostruisco storicamente la situazione degli ebrei in Toscana e I primi rapporti dei pensatori ebrei italiani con I cabalisti spagnoli che Yehiel da Pisa accoglierà nella suo "circolo intellettuale". - Ritorno a Napoli. In questo paragrafo affronto gli ultimi anni di David in Italia, tra l'ambiente ebraico napoletano e quello della corte aragonese fino all'arrivo delle truppe francesi di Carlo VIII. Nel 1495 David e suo padre Yehudah sono costretti a fuggire dal Regno di Napoli a causa della persecuzione anti-ebraica messa in atto dalla politica dei d'Angiò. - Viaggio verso l'Impero Ottomanno. Questo paragrafo è dedicato all'ultimo viaggio di David Messer Leon tra Costantinopoli, Salonicco, Corfù e Valona città in cui diviene rabbino capo. Dopo una breve introduzione storica sugli ebrei in Turchia dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II, e dopo aver analizzato le nuove istituzioni all'interno delle comunità ebraiche dell'Impero Ottomano, ho riportato tutte le notizie che lo stesso David ci fornisce attraverso il Kevod Hachamim ponendo l'accento sui difficili rapporti tra le comunità ebraiche dopo l'Espulsione del 1492. David diviene prima di tutto Marbitz Torah presso Salonicco e Corfù e solo successivamente ricoprirà il ruolo di rabbino a Valona (chiamato a esercitare questo ruolo proprio dagli ebrei fuggiti dal Regno di Napoli, che David Messer Leon chiama "pugliesi"). La partenza da Valona a causa di una scomunica e la morte di David Messer Leon. Secondo Capitolo: - L'educazione di David Messer Leon. L'educazione nel mondo Cristiano. L'inizio di questo paragrafo è dedicato all'educazione nell'Italia del Rinascimento, rispetto alla tradizione Scolastica. - Il fenomeno della Translatio-studiorum. Ovvero la diffusione delle traduzioni, dei commenti e di nuovi manoscritti in ambiente ebraico-arabo e cristiano. - La ricezione delle arti liberali e il concetto di hacham collel: Yehudah Messer Leon e la sua yeshiva. David ben Yehudah Messer Leon è una delle personalità più eclettiche e rappresentative della filosofia ebraica del Rinascimento. La figura di Yehudah Messer Leon è descritta nel primo paragrafo di questo secondo capitolo. illustre filosofo e talmudista ebreo autore ed interprete di numerose opere sulla logica e trattati di retorica (come lo stesso David Messer Leon scrive in un'epistola a David da Tivoli, suo padre ha redatto una grammatica ebraica, un compendio di logica, un trattato di retorica, un commento alle Isagoge di Porfirio, un commento alla Categorie di Aristotele, un commento alla Fisica di Aristotele attraverso l'interpretazione di Averroè – in realtà è il Commento Medio alle Metafisica di Aristotele- e un commento alla Bibbia ), fondatore di una delle yeshivot (scuole religiose) più importanti dell'Italia del XV secolo, nella quale oltre agli studi religiosi tradizionali, come l'insegnamento del Talmud e dei Tosafot2, venivano proposti agli studenti gli studia humanitas ovvero il trivium e il quadrivium. Fine conoscitore dei più eminenti autori e pensatori ebrei come Moshe Maimonide, Saadia Gaon, Gersonide (David Messer Leon sarà infatti il primo autore nel Magen David a riferirsi a Levi ben Gershon come Gersonides in latino) e dei filosofi arabi : l'influenza di Ibn Rushd e Ibn Sina è sicuramente presente nei suoi scritti. Una delle caratteristiche che lo contraddistingue dagli altri autori ebrei suoi contemporanei è il suo interesse per il sistema Tomistico che spesso viene messo a confronto con il pensiero di Maimonide. In questo paragrafo ho anche individuato e analizzato le personalità e i pensatori che più hanno influenzato l'ambiente culturale ebraico in Italia. Da una parte gli autori italiani e dall'altra i pensatori ebrei in fuga dalla Spagna e dal Portogallo che hanno inesorabilmente inciso sul piano filosofico e culturale. Yochanan Alemanno e la famiglia da Pisa; Menachem da Recanati; Isaac Mor (o Mar) Hayyim. Terzo Capitolo: - La ricezione di Platone nell'opera di David ben Yehudah Messer Leon: La ricezione dei dialoghi di Platone nel pensiero medievale. Una breve introduzione alla ricezione di Platone in ambiente cristiano, arabo ed ebraico. - David Messer Leon, Platone e il Platonismo : Platone e Geremia. Le cui informazioni su Platone tra il Quattrocento e il Cinquecento sono ancora frammentarie, le opere del filosofo greco sono conosciute parzialmente e soprattutto mediate dai commentatori neoplatonici e giudeo-arabi. Possiamo pensare che verosimilmente David Messer Leon possa essere venuto in contatto con le traduzioni ad opera di Ficino e dell'Accademia Platonica ? Questa mia ipotesi si sviluppa proprio a partire da un passaggio del Magen David in cui Platone viene chiamato Aplaton ha-Elohi3 ovvero "il divino Platone" epiteto che più volte ricorre nelle traduzioni ficininiane: numerosi esempi si possono addurre, pensiamo al Dialogo sopra lo Amore (il Simposio), alla Teologia Platonica, ma soprattutto alla traduzione delle opere magiche in cui Platone non solo viene definito come divino ma la sua figura è accostata addirittura a quella di Mosè il Profeta. David Messer Leon riprenderà una tradizione di matrice strettamente "cristiana" risalente ad Ambrogio ed Agostino in cui la figura di Platone a quella del profeta Geremia. La difficoltà nel risalire alla fonte della sua informazione è che l'autore indicherebbe L'Incoerenza dell'Incoerenza come testo di riferimento, dovremmo perciò credere che David abbia consultato il Plato Arabus e non le nuove traduzioni ma nel libro di Averroé non c'è alcun riferimento a questa tradizione. David Messer Leon affermerà in questo stesso passaggio che gli insegnamenti di Platone si avvicinano a quelli della più antica tradizione ebraica ovvero la Qabbalah «perché chiunque studi i suoi libri troverà in questi i divini misteri e tutti quegli insegnamenti che sono identici agli insegnamenti della vera Qabbalah.» Quarto capitolo: - La Qabbalah. Breve introduzione storica sulla Qabbalah. In riferimento alla posizione di David Messer Leon - L'opposizione alle dottrine cabbalistiche: Yehudah Messer Leon. All'inizio del Magen David (fol. 1 verso) David Messer Leon descriverà tutte le difficoltà e le ostilità incontrate nell'intraprendere lo studio della Qabbalah : « Ho studiato questa disciplina segretamente, perchè il mio maestro, mio padre [.] non mi ha permesso di studiarla [.] La maggior parte dei filosofi e dei fisici, cui noi studiamo I loro testi ogni giorno, rifiutano questa scienza, io non sono d'accordo con loro ». Emerge dunque, anche da questa testimonianza, che Yehudah Messer Leon si è dimostrato sempre ostile all'interpretazione e alla "appropriazione" della Qabbalah ebraica da parte degli autori cristiani dalle forti influenze neoplatoniche. - Il segreto del Nome. David Messer Leon e l'essenza divina: le Sefirot come essenze e come strumenti In questo paragrafo ho analizzato uno degli argomenti centrali trattati nel Magen David e che rappresenterebbe una delle tematiche più studiate e sviluppate anche da altri autori sia medievali che contemporanei a David Messer Leon. I primi fogli del manoscritto sono consacrati alla descrizione dei Nomi di Dio, David Messer Leon ha interamente copiato questa parte sovrapponendo due opere di un rabbino e grammatico spagnolo dell'XIIesimo secolo Abraham ben Ezra (ovvero il Commento al Pentateuco e il Sefer ha-Shem, Il libro del Nome). Al Commento al Pentateuco di ben Ezra viene affiancato anche il Commento di Nachmanide (rabbino esegeta spagnolo il cui Commento alla Torah nasconde riferimenti alla mistica e al pensiero cabalistico). La questione sui Nomi di Dio è una vera e propria introduzione alla tematica centrale della prima parte del Magen David: la natura delle sefirot. David Messer Leon considera le sefirot come l'essenza di Dio. Per validare la propria opinione utilizzerà un linguaggio non propriamente religioso ma applicherà, ad una tematica così strettamente legata alla sfera religiosa, un linguaggio filosofico infatti la questione centrale che l'autore affronterà è la differenza tra sostanza/essenza/ esistenza tra Dio e le sefirot (che in questo caso non possono essere lette come emanazione divina). In questo caso David utilizzerà come fonte principale il testo di Gikatilla, lo Sha'are Orah, e citerà molti passi dello Zohar il Libro dello Splendore. - David Messer Leon è possibile parlare di plagio ? Scorrendo il Magen David appare chiaro a noi contemporanei quali siano le fonti che David Messer Leon utilizza nello sviluppo della sua opera, come abbiamo visto nel corso di questo capitolo la maggior parte delle opere che David Messer Leon cita sono tra quelle più conosciute anche dai suoi contemporanei, oltre ai "classici" del pensiero cabbalistico troviamo anche Commenti al Pentateuco e opere filosofiche come quelle di Maimonide. In altri passaggi del Magen David l'autore omette quali siano le opere di riferimento, ad esempio appare chiaro che la distinzione delle dieci sefirot derivi dal trattato sull'Ordinamento della Divinità anche se David non cita espressamente l'opera, probabilmente proprio perché la diffusione tra i cabbalisti e i pensatori rinascimentali avrebbe permesso di comprendere quale fosse la fonte senza molti sforzi. Così come i passaggi dello Zohar sono quelli noti agli ebrei italiani, dunque David citerebbe non il testo originale ma con molta probabilità i passaggi già noti e commentati da altri cabbalisti, proprio perché non sembra apportare alcuna novità rispetto allo Zohar conosciuto nell'Italia del Rinascimento. Risulta però particolare il fatto, come ha sottolineato Hava Tirosh-Rothschild, che David Messer Leon abbia ricopiato un'intera sezione del Derek ha-emunah di Avraham Bibago, senza mai citare il suo nome, chiamandolo "questo studioso" e modificando la prima persona utilizzata da Bibago nella sua opera con la terza persona singolare. Ma è ancora più strano confrontare la posizione di David Messer Leon con quella del cabbalista spagnolo Mar Hayyim, Gottlieb ha infatti sottolineato come David si sia "appropriato" di alcune dottrine dello spagnolo4. In realtà possiamo leggere nel Magen David le stesse posizioni di Mar Hayyim che si troverebbero nell'Epistola inviata a Yehiel da Pisa ma David affermerebbe di averle lette nel ספר היחוד ( in realtà mancherebbe uno iod nella trascrizione del copista ). Seconda parte. Traduzione e commento di passi scelti del Magen David. ff. 1r. -14 v. Il Magen David è composto da 176 fogli; a partire dal foglio 102, il manoscritto è scritto per mano di un altro copista (in questa seconda parte è infatti possibile riconoscere la scrittura calligrafica ebraica italiana del Rinascimento). Le prime pagine sono fortemente corrotte, sicuramente dopo il foglio 5 verso mancano alcune pagine perché il soggetto trattato da David Messer Leon cambia repentinamente.
E' stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E' stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l'evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più "efficiente". Sotto quest'ultimo aspetto l'attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un'attività produttiva o di un'impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull'evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l'obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l'esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l'ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l'azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l'ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull'Analisi Costi-Benefici e sull'Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all'attività di regolazione dell'economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un'autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l'orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l'unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un'applicazione in "salsa cinese" del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l'evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L'evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l'obiettivo dell'efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie "Post-Chicago". Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell'evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l'attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l'istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l'analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell'analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l'Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull'applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l'ampiezza dell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell'effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell'art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall'applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l'implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell'esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione "progresso tecnico ed economico", impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell'efficienza, giustificando così quell'eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell'Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell'applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l'art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all'elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l'organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l'assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell'utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all'art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l'occasione per recepire nella disciplina comunitaria l'attribuzione della facoltà di ricorrere all'efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell'art. 81(3). Il capitolo attesta anche l'attenzione verso l'istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l'innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un'attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L'analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall'ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un'autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell'adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall'ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all'interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere "ibrido" che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all'introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l'adozione e l'implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell'intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l'assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l'elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell'autorità indipendenti, e l'ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell'assistenza delle autorità nazionali. Dall'altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l'attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall'ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all'analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell'efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell'efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l'evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell'attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall'eterogeneità degli obiettivi che l'Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall'incapacità (o dall'impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell'efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell'applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l'OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l'evoluzione in questo senso dell'Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un'analisi teorica dell'esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell'impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l'organizzazione interna dell'impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l'approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l'impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un'analisi dettagliata dell'attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l'esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell'impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d'altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all'altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un'analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell'ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall'analisi svolta emerge innanzitutto come l'assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all'erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite "alleanze", collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell'Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l'impossibilità per l'autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all'attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L'opera si chiude con l'individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell'ambito dell'attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l'intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell'attuale configurazione dell'intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l'autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell'Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall'altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell'applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l'evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni'70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L'effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l'intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l'estensivo ricorso all'essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell'efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l'ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E'stata infine sottolineata l'inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E' di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull'economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l'applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall'elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l'efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l'ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
Come, dunque, studiare Ernesto Basile oggi e quale ambito della sua copiosa produzione analizzare? Alla luce dello stato degli studi odierni si potrebbe ritenere che possa essere stato detto tutto. Tuttavia, ci sono diversi ambiti che si offrono a ulteriori indagini, a nuove letture e ricerche. Tra questi, vi è quello dei viaggi, non irrilevante, per diverse ragioni. Una prima motivazione, che vale per Ernesto Basile così come per altri architetti, è quella più interna ed è strettamente legata alla natura stessa dell'architettura e dei luoghi, alla formazione continua dell'architetto e al ruolo che hanno i viaggi nel processo di costruzione o assimilazione del patrimonio di immagini e dei portati teorici. Solo entrando dentro gli spazi, girandoci attorno, osservando il mutare delle ombre col variare della luce, cogliendo il colore dei materiali e dei contesti, osservando la gente muoversi e "modificare lo spazio", si può fare un'esperienza attiva, formativa, sincera e diretta, riducendo i filtri posti tra il fruitore e l'opera architettonica. In questo senso e per l'arco cronologico di cui questa tesi di dottorato si occupa, è esplicativo e fa da guida lo studio di Fabio Mangone sugli architetti nordici in Italia dal 1850 al 1925. Mangone li definisce «viaggiatori specialistici» e mette in evidenza nuove tendenze rispetto all'immaginario e alla pratica più ampia e antica del classico Grand Tour, già documentato da numerosissimi esempi di letteratura odeporica e studi odeporici. Un'altra, non meno importante e di carattere metodologico, è quella legata ai concetti di transfers culturel, cultural exchanges e histoire croisée, introdotti negli Anni Ottanta da Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, applicabili a diversi ambiti dello studio storico, e in particolar modo agli studi sui viaggi degli architetti. Possiamo riassumere cosa si intende per transfert culturel, cultural exchanges e histoire croisée, attraverso le parole di Michael North che, in un suo saggio sulla storia economica, ne fa un'analisi comparativa: «Cultural exchange and cultural transfers have become an independent field of research in the last 20 years. This began in the 1980s, when Michel Espagne and Michael Werner coined the term "transfers culturels" to refer to the transfer of elements of a "French National Culture" to Germany and its reception there during the eighteen and nineteen centuries. Espagne, Werner and their followers focussed on national cultures in order to avoid some of the shortcomings of comparative history by contextualizing questions of transfer, reception, and acculturation». Sulla scia delle sollecitazioni avviate anche dai contributi di Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, le riflessioni attuali nell'ambito storiografico vertono sempre più sul rapporto fra la realtà delle vicende nazionali o regionali e quelle più ampie e di carattere internazionale o generale, quindi su cosa è al centro e cosa è periferico. Questo tipo di analisi può essere usato come filtro di indagine per rispondere ad alcune questioni fondamentali nel caso Basile, cioè per sapere quanto, in cosa e in che modo il suo modernismo è debitore a realtà "extraterritoriali" e quanto, in cosa e in che modo, al contrario, il "fenomeno Basile" sia invece il frutto di particolari condizioni ambientali locali, portatrici di istanze identitarie fondamentali, attraverso lo studio dei suoi viaggi. Un'ulteriore lente di ingrandimento con cui potere osservare aspetti specifici all'interno del più ampio fenomeno dei viaggi specialistici e dei contatti internazionali è quello dei legami con gli espatriati, in forma privata, come nel caso della corrispondenza ad esempio, o in via ufficiale nella partecipazione a concorsi internazionali con il ruolo di giurato, come accade a Ernesto Basile. Se non è difficile sapere, attraverso le letture consultate da Basile, di quale patrimonio di immagini egli disponesse, al contrario, pur sapendo che ha viaggiato, andando in luoghi che potremmo chiamare "strategici" per le vicende architettoniche europee a lui contemporanee, nelle quali - è opportuno dire - si trovava dentro, non è stato, ad oggi, documentato in modo sistematico quali architetture e spazi egli abbia effettivamente visitato e chi abbia incontrato nelle sue mete. Lo studio dell'archivio di Ernesto Basile (che nonostante alcune lacune - si pensi all'esigua quantità di corrispondenza a noi pervenuta - è uno dei più cospicui fra quelli del Novecento italiano) ha consentito di potere avviare un'indagine sugli spostamenti, le mete di viaggio, le impressioni, le tappe, gli appuntamenti, puntualmente annotati nei taccuini e nelle agende personali. Basile stesso parla di viaggi e ne organizza. Egli ne scrive, ad esempio, quando fornisce un reportage dall'Esposizione di Parigi del 1878, oppure quando, in un modo per certi aspetti ancora più significativo, racconta di "Un viaggiatore italiano del secolo XVI", che parte «dall'estremo della Sicilia al lembo delle Alpi», scritto dal quale lo studio dei suoi viaggi ha inizialmente tratto spunto. Un'attenzione particolare all'interno del tema generale, è stata certamente richiesta dall'occasione del viaggio del 1888 a Rio de Janeiro, che vede Basile incaricato della progettazione per la Nuova Avenida de Libertação, nella capitale brasiliana, a ridosso del cambio di regime, a seguito del quale questo importante lavoro viene interrotto. Per questo motivo gli studi sono stati estesi alla cartografia di Rio de Janeiro e alla storia urbanistica della città. Le carte storiche di Barcellona, Parigi e di altre mete europee, per il solo periodo relativo ai viaggi esteri di Basile, quindi per un periodo compreso fra gli anni 1876 e 1900, rientrano tra gli utili strumenti di questo lavoro. L'indagine è stata svolta su tutto l'arco di attività - dal 1876, anno del primo viaggio di studio documentato, ed effettuato con il padre Giovan Battista Filippo Basile, alla volta di Parigi, passando per diverse città italiane, al 1932 anno della sua morte – e ha avuto come principale sfida metodologica la sua profonda natura multidisciplinare. In prima istanza coinvolgendo la storia dell'architettura, la scienza archivistica e l'odeporica, quindi molte altre discipline. Si è analizzata la produzione scritta di Ernesto Basile relativamente ai viaggi, evidenziandone le continuità e le discontinuità in relazione alla più vasta produzione architettonica. In merito a quest'ambito, esce fuori un quadro che getta una luce soprattutto sugli esordi e il clima particolarmente favorevole per una classe di giovani artisti e professionisti, che si raduna nel triennio 1878-1880 intorno alla redazione del periodico scientifico, letterario e artistico palermitano «Pensiero ed Arte», e che si fa strada, a volte guidata per mano dai predecessori, altre in opposizione alle voci più ufficiali e tradizionali delle accademie. La funzione di guida, in questo caso, è certamente quella del padre, Giovan Battista Filippo Basile, ma questa guida viene affiancata da altre figure di rilievo, quali ad esempio quella di Gaetano Giorgio Gemmellaro, di cui si documenta puntualmente una delle attività laboratoriali svolte per la Regia Scuola di Applicazione per gl'Ingegneri di Palermo. I primi viaggi sono viaggi di esplorazione e studio lungo il territorio italiano, con qualche puntata a Parigi, dove il giovane Ernesto conosce Garnier. Anche l'esperienza del militare viene usata dall'appena laureato Ernesto Basile come pretesto per un lungo e approfondito sopralluogo nell'Italia centrale, tra la Campania e l'Abruzzo, alla ricerca di segni di "antico", e ogni genere di traccia storica sul paesaggio costruito. Gli appunti sono numerosissimi e vengono accompagnati da disegni tanto piccoli quanto accurati, delle miniature, poste a margine delle lettere che egli spedisce alla famiglia. Appena qualche anno dopo, questo bagaglio di immagini, unito al desiderio di un approfondimento, lo spingerà a indirizzare le escursioni tecniche della Regia Scuola Romana, avendone la facoltà in qualità di docente incaricato, dando un grande contributo in Italia al filone degli studi sul vernacolare, l'architettura "spontanea" e sui centri minori. E' così che dalla pratica delle escursioni tecniche si passa ai veri e propri viaggi d'istruzione, documentati dagli annuari di quegli anni. La figura di Ernesto Basile come viaggiatore procede quindi di pari passo con quella del professionista, dell'architetto che va dove gli incarichi lo chiamano e dove egli ritiene davvero opportuno andare. I tempi e gli spostamenti sono generalmente lunghi e prendono una media di venti giorni per ogni viaggio estero. Sono anni che lo vedono andare in posti particolarmente caldi per l'architettura contemporanea, con un tempismo da vero professionista, quale è. Con dei colpi fortunati, anche, come capita per la sosta a Barcellona nel 1888 sulla via del Brasile. E con dei colpi mirati; è questo il caso emblematico dell'ancora misterioso viaggio a Vienna nel 1898, l'anno della Secessione Viennese. La conoscenza di quello che accadeva era veicolata dagli articoli sulle riviste, come si sa, ma certamente anche dai rapporti con altri artisti e professionisti che hanno tra i propri fulcri culturali Roma, città a cui Ernesto Basile resterà legato per tutta la vita, se consideriamo anche l'enorme e lunghissimo incarico di Montecitorio. E' lungo le vie della ricerca dell'antico e del contemporaneo che Ernesto Basile dipana tutta la sua vicenda progettuale e indirizza gli studi, le escursioni, le letture. Il contatto con l'antico, da buona tradizione post-illuminista e positivista, è sempre diretto, egli non si accontenta di superficiali acquisizioni frutto dello sguardo altrui. E' ovviamente un grande lettore, ma la scuola palermitana di cui è pienamente figlio lo aveva iniziato alla cultura del disegno come scienza, come mezzo di indagine, come strumento per la resa dell'idea, sulla via della realizzazione. E un altro incarico emblematico lo metterà sulla strada dell'antico, portandolo dapprima in Egitto, quindi in Grecia, nel 1895. I viaggi analizzati sono ampi, eterogenei e documentati, anche se non sempre in modo omogeneo : a volte lo sono con le parole sotto forma di diario, in altre attraverso liste di posti visitati, in altre ancora con le immagini dei suoi schizzi di viaggio. Il ragionamento e l'indagine sono articolati in quattro momenti, che seguono un ordine cronologico e tematico, andando dai viaggi del periodo della formazione (1876-1880) a quelli della piena maturità (1898-1900). Il percorso si muove lungo un binario principale, quello della ricerca sui viaggi esteri, con una strada parallela che si dipana nel territorio italiano nell'arco di tempo analizzato. La città di Parigi ha un ruolo cardine perché apre e chiude la lunga ma discontinua stagione dei viaggi esteri: dal primo viaggio a Parigi, effettuato nel 1876 con il padre, all'ultimo viaggio a Parigi, in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, passano ventiquattro anni. Dopo quella data non si riscontrano altri viaggi fuori dall'Italia. Fulcro di tutti questi spostamenti è sempre e comunque Roma, anche dopo il 1892 e il ritorno a Palermo come residenza principale. La lettura delle agende ha evidenziato che dal 1893 al 1932 Basile passa almeno un mese a Roma ogni anno e generalmente almeno un altro mese in viaggio per altre località italiane, tra queste la seconda città più visitata è certamente Napoli. Del periodo della formazione vengono studiati due viaggi e un'escursione scientifica. I due viaggi sono in qualche modo l'uno la continuazione dell'altro e sono affini per lo studio dell'architettura storica italiana. Se nel primo caso, quando l'allievo Ernesto Basile va a Parigi e in alcune città italiane, Giovan Battista Filippo Basile, suo padre e maestro, è fisicamente presente, facendogli da guida e introducendolo anche in ambienti accademici (a Roma) e professionali (a Parigi), nel secondo viaggio, quello del militare, egli è comunque presente in modo costante nei pensieri e nell'attività di ricerca del giovane Ernesto che gli indirizza un centinaio di lettere in cui descrive minuziosamente ogni architettura vista, individuata, "classificata" e ritratta. Questo viaggio del militare, che pure è un viaggio accidentale e in qualche modo obbligatorio, è tuttavia il primo lungo, consapevole tour italiano che Ernesto Basile compie volutamente, ampliando il bagaglio di conoscenze acquisito nel 1876 accanto a Giovan Battista Filippo Basile. Tra queste due significative esperienze viene documentata e descritta un'escursione scientifica di un solo giorno che apre un breve spaccato sulla rigorosa preparazione tecnica in seno alle attività formative previste nel corso di studi per gli allievi ingegneri e architetti della Regia Scuola di Applicazione di Palermo. La ricerca prosegue seguendo il binario dei viaggi internazionali con un saggio su quello che accade otto anni dopo. Anche in questo caso i viaggi predominanti sono due: il primo è quello in Svizzera, previsto nell'attività didattica della Regia Scuola d'Applicazione di Roma, dove Basile è docente a contratto, il secondo è quello in Brasile, dove si reca all'improvviso per progettare su incarico diretto uno dei nuovi principali assi stradali della città di Rio de Janeiro. Questi due viaggi sono accomunati dalla motivazione del viaggio (in entrambi i casi due incarichi professionali, come docente e come progettista) e dal tipo dai soggetti rappresentati negli schizzi di viaggio: architetture storiche dei secoli precedenti, eccezione fatta per la torre dell'ascensore a Bahia. Lungo il tragitto vi è la visita alla città di Barcellona durante l'Esposizione Universale del 1888, una fortunata sosta fra le altre previste lungo la rotta fra Genova e il Brasile. Nell'ultimo periodo analizzato (1895-1900) si svolgono quindi gli altri viaggi esteri di Basile, anche questi legati a due incarichi, questa volta di natura istituzionale. Nel 1895 Basile avrà l'occasione di visitare l'Egitto, chiamato a fare parte della giuria internazionale per il concorso al Museo di antichità egizie del Cairo e la Grecia, sulla strada del ritorno. Dal 1898 al 1900, veloci e purtroppo poco documentati, si svolgono i viaggi nell'Europa centrale, con Parigi come polo di attrazione per l'Esposizione Universale del 1900, dove è membro della Commissione reale. Questa esperienza chiude definitivamente il ciclo dei viaggi esteri ma non quello dei viaggi italiani che continuano, costantemente lungo tutto l'arco di attività, fino ad un ultimo viaggio a Roma a maggio del 1932, anno della morte.
La presente indagine intende esaminare i caratteri ed il ruolo assunti dall'istituto del rinvio pregiudiziale e dall'attivazione in funzione consultiva delle Corti internazionali rispetto all'impatto sull'ordinamento giuridico cui si rivolgono le competenze dell'organo giurisdizionale sovranazionale. L'occasione per l'elaborazione di una nuova indagine in materia, è sorta in virtù dell'avvenuta approvazione da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del Protocollo n. 16 alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, il 10 luglio del 2013 . Il Protocollo introduce la previsione di un nuovo potere consultivo da attribuire alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, permettendo alle più alte Corti di un'Alta Parte contraente di richiedere alla Corte di Strasburgo pareri consultivi su questioni di principio inerenti l'interpretazione o l'applicazione dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dai protocolli allegati. L'istituto del parere consultivo introdotto dal Protocollo in parola presenta profili di somiglianza ed altri di differenziazione rispetto all'istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, contemplato ai sensi dell'articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea. L'indagine adotta il metodo comparatistico per esaminare i modelli di rinvio pregiudiziale contemplati rispetto alle organizzazioni internazionali considerate, avendo cura di analizzare il ruolo assunto dal rinvio pregiudiziale nel rafforzamento del meccanismo di cooperazione tra giudici nazionali e giurisdizioni internazionali. L'esigenza di dar conto della varietà delle esperienze giurisdizionali nell'abito delle quali è in discussione l'esercizio della funzione consultiva, giustifica l'opportunità di estendere l'oggetto di cognizione del presente lavoro di tesi a sistemi giuridici nell'ambito dei quali l'attivazione in funzione consultiva della Corte internazionale non può dirsi attuativa di alcun rapporto dialogico tra giudice domestico e giurisdizione sovranazionale; è in questa prospettiva che si è trattato della funzione consultiva attribuita alla Corte Interamericana dei diritti dell'uomo ed alla Corte Internazionale di Giustizia, non attivabili per iniziativa dell'organo giurisdizionale nazionale. Quanto precisato è funzionale alla soddisfazione dello scopo ultimo del presente elaborato: fornire una valutazione comparata dell'impatto che tanto il rinvio pregiudiziale alle Corti internazionali quanto la loro attivazione in funzione consultiva, producono sul rafforzamento del processo di integrazione delle organizzazioni internazionali di riferimento. La presente indagine non ha la presunzione di esaurire l'analisi delle esperienze maturate rispetto ai modelli di attribuzione della funzione consultiva all'organo giurisdizionale sovranazionale, né rispetto all'istituto del rinvio pregiudiziale di cui si dotino le organizzazioni internazionali; si pone invece l'obiettivo di esaminare i connotati che, in sede di applicazione dell'istituto del rinvio pregiudiziale o di attivazione in funzione consultiva, siano espressione delle specificità caratterizzanti i sistemi considerati ovvero consentano di rilevare l'esistenza di modelli giuridici efficienti, perciò altrove applicabili. Non sarebbe stato possibile, per ragioni che addicono allo scopo del presente elaborato, oltreché per la varietà dei modelli predisposti con riferimento all'istituto del rinvio pregiudiziale ed all'attivazione in funzione consultiva delle Corti internazionali, fornire un esame complessivamente esaustivo delle esperienze in materia sviluppate. La scelta dei modelli da esaminare ha tenuto conto dei sistemi giuridici la cui trattazione meglio consentisse di orientare questo lavoro di tesi all'obiettivo volto a fornire una valutazione comparata ed evidente dell'impatto che il rinvio pregiudiziale alle Corti internazionali e la loro attivazione in funzione consultiva, riverberano sul consolidamento del processo di integrazione delle organizzazioni internazionali di riferimento. A questo proposito, ad esempio, non si è provveduto all'esame della competenza pregiudiziale riconosciuta al Tribunale andino, pressoché equiparabile alla competenza pregiudiziale riconosciuta alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Per l'esiguità numerica e la scarsa significatività delle pronunce pregiudiziali emesse, non si è invece dato conto della competenza pregiudiziale attribuita alla Corte Centroamericana di giustizia; è opportuno precisare, al contrario, che l'esiguità numerica delle opinioni rese dal Tribunale Permanente di Revisione, non ha costituito ragione di esclusione dal presente elaborato della funzione consultiva attribuita Tribunale, specie in forza dell'esistenza del progetto presentato dal Parlamento del MERCOSUR, volto alla creazione di una vera e propria Corte di Giustizia, a tale organo giurisdizionale si intende attribuire il ruolo di interprete uniforme del diritto dell'integrazione. A fronte del ruolo concretamente marginale assunto dal rinvio pregiudiziale, l'analisi della Corte Caraibica di Giustizia è apparsa opportuna in relazione al carattere imprescindibile del contributo apportato dal rinvio pregiudiziale rispetto all'elaborazione di principi capaci di incidere sul processo di integrazione, manifestamente arretrato nell'esperienza regionale assunta a modello. Le esperienze maturate nell'ambito delle organizzazioni internazionali sorte nel continente europeo e nel continente americano, sono state capaci di dar vita a meccanismi giurisdizionali più evoluti e sofisticati, in quanto riconducibili a tempi più estesi di gestazione. Esperienze di competenza pregiudiziale o di attivazione dell'organo giurisdizionale sovranazionale in funzione consultiva, tuttavia, si sono certamente avviate anche con riferimento ai sistemi giurisdizionali riconducibili alle organizzazioni regionali appartenenti ad altre aree geografiche, quali, ad esempio, quelle del continente africano. Sul piano dell'attivazione in funzione consultiva, è possibile ricordare la procedura di consultazione facoltativa della Corte comune di giustizia ed arbitrato istituita nell'ambito della Organisation pour l'harmonisation en Afrique du droit des affaires (OHADA), competente ad assicurare l'interpretazione e l'applicazione uniforme del diritto commerciale nell'ambito degli ordinamenti degli Stati parte dell'organizzazione. Tuttavia, non è all'attivazione in funzione consultiva della Corte comune di giustizia, preclusa agli organi giurisdizionali nazionali statuenti in Cassazione, che si rimette il processo di uniforme applicazione del diritto regionale, quanto invece all'esercizio della funzione tipicamente giurisdizionale: qualora nell'ambito del processo per cassazione dinanzi alla suprema corte nazionale sia sollevata una questione di interpretazione o applicazione del diritto OHADA, l'organo giurisdizionale nazionale dovrà sospendere il processo e rimettere la questione alla Corte comune di giustizia ed arbitrato, competente in quel caso a conoscere l'intero ricorso per cassazione. Quanto ai modelli di competenza pregiudiziale maturati nel continente africano, possono essere ricordate la procedura di rinvio pregiudiziale facoltativo alla Corte di Giustizia della Economic Community of Western African States (ECOWAS), la procedura di rinvio pregiudiziale obbligatorio al Tribunale istituito nell'ambito della Southern African Development Community (SADC), cui si associa la mancata previsione di procedure di infrazione volte a sanzionare violazioni del dovere di rinvio pregiudiziale. Sono altresì investite della funzione pregiudiziale, il cui esercizio fa seguito al rinvio pregiudiziale obbligatorio: la Corte di giustizia dell'Africa orientale, istituita nell'ambito della East African Community (EAC), la Corte di giustizia del Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), la Corte di giustizia della Union économique et monétaire ouest-africaine (UEMOA), la Corte di giustizia istituita nell'ambito della Communauté Économique et Monétaire de l'afrique centrale (CEMAC); nell'ambito delle appena menzionate esperienze di integrazione regionale, sono contemplate procedure di infrazione azionabili in caso di violazione del dovere di rinvio pregiudiziale . L'elaborato si articolerà in quattro capitoli. Il capitolo primo sarà dedicato all'esame della funzione consultiva che il Protocollo n. 16 allegato alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ha attribuito alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ed al corrispettivo istituto del parere consultivo; provveduto alla contestualizzazione delle ragioni che hanno condotto all'adozione dello strumento in parola, l'elaborato esaminerà le conseguenze che deriverebbero dalla ratifica del presente Protocollo, sia con riferimento agli effetti sui procedimenti giurisdizionali nazionali pendenti, sia alla luce del precario equilibrio che connota il funzionamento del sistema giurisdizionale della Corte di Strasburgo. Il capitolo intenderà altresì prospettare l'impatto che l'attivazione in funzione consultiva della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sarebbe suscettibile di produrre sulla relazione intercorrente tra la Corte di Strasburgo ed il giudice domestico e discuterà della possibilità di ravvisare nel Protocollo in parola, il meccanismo di raccordo tra la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Il capitolo secondo sarà dedicato al confronto tra il ruolo assunto dal rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea e gli effetti dell'attivazione in funzione consultiva della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; tramite l'individuazione delle specificità connotanti i rispettivi istituti, verrà esaminato l'impatto che l'emissione del rinvio pregiudiziale o del parere consultivo, producono sul giudice remittente oltreché rispetto alla formazione di definiti indirizzi giurisprudenziali, validi in funzione orientativa per gli organi giurisdizionali che in futuro siano investiti della soluzione di analoghe questioni. Il capitolo terzo si proporrà di esaminare le specificità che connotano il rinvio pregiudiziale e l'attivazione in funzione consultiva nel panorama di altre Corti internazionali, con riferimento al ruolo a questo proposito assunto dall'organo giurisdizionale sovranazionale nel sistema dell'organizzazione internazionale di riferimento. Il terzo capitolo sarà articolato in sei paragrafi. Il paragrafo primo del capitolo terzo esaminerà l'istituto del rinvio pregiudiziale nell'ambito delle funzioni giurisdizionali assunte dalla Corte di Giustizia del BENELUX; tracciati gli aspetti connotanti dell'istituto, indicati i soggetti legittimati alla proposizione del rinvio e gli effetti che si producono in seguito al rilascio del provvedimento emesso all'esito del meccanismo pregiudiziale, l'esame sarà condotto avendo cura di confrontare l'istituto in parola con l'istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo e con la funzione consultiva attribuita dal Protocollo n. 16 alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo alla Corte di Strasburgo. Il paragrafo secondo fornirà la complessiva trattazione dei caratteri e del ruolo assunto dalla funzione consultiva di cui è investita la Corte EFTA, nell'ambito delle funzioni giurisdizionali di cui l'organo è investito; a questo proposito l'elaborato intenderà rilevare la relazione tra l'adozione di provvedimenti giurisdizionali contrastanti con le determinazioni tracciate dal parere e l'apertura della procedura di infrazione da parte dell'Autorità di sorveglianza EFTA, a fronte del carattere non coercitivo del parere consultivo reso. Sarà altresì ravvisata l'opportunità di contestualizzare l'azione di rafforzamento costante ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche che intercorrono le Parti contraenti, nella prospettiva volta ad includere la tutela dei diritti fondamentali rispetto all'azione interpretativa dell'Accordo Istitutivo dello Spazio Economico Europeo. Il paragrafo terzo sarà dedicato alla trattazione dell'istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte Caraibica di Giustizia; l'elaborato condurrà l'indagine esaminando gli effetti che la pronuncia pregiudiziale produce rispetto all'elaborazione di principi capaci di incidere sul consolidamento del processo di integrazione regionale, dunque sulla relazione di cooperazione con i giudici nazionali, a fronte dell'impostazione dualista degli ordinamenti degli Stati membri dell'organizzazione di integrazione. Il paragrafo quarto del presente capitolo, nell'ambito dell'organizzazione di integrazione regionale del MERCOSUR, esaminerà il ruolo assunto dall'attivazione in funzione consultiva del Tribunale Permanente di Revisione, in quanto occasione per affermazioni di principio che definiscano la relazione tra l'ordinamento dell'organizzazione di integrazione e gli ordinamenti degli Stati che sono ne sono membri. Fornirà altresì menzione del progetto di revisione di origine parlamentare volto all'istituzione della Corte di Giustizia del MERCOSUR, ossia capace di rafforzare il processo di integrazione regionale, attraverso la previsione dell'istituto del rinvio pregiudiziale, perciò irrobustendo i meccanismi di relazione che intercorrono tra l'organo giurisdizionale domestico ed il Tribunale Permanente di Revisione. Il paragrafo quinto si proporrà di contestualizzare la funzione consultiva di cui è investita la Corte Interamericana dei diritti dell'uomo nel processo diretto al rafforzamento del raccordo tra il sistema convenzionale e gli ordinamenti interni; l'elaborato a tal fine rileverà i tratti connotanti del modello penetrante con cui l'organo giurisdizionale interviene adottando determinazioni interpretative del diritto di integrazione, preservando o promuovendo azioni di revisione democratica dell'ordinamento degli Stati ed il principio dello Stato di diritto, imprescindibili presupposti per lo sviluppo del processo di integrazione in sé orientato alla protezione ed alla promozione dei diritti umani. Il paragrafo sesto ed ultimo del capitolo terzo, esaminerà la funzione consultiva attribuita alla Corte Internazionale di Giustizia, nell'ambito dei mezzi giurisdizionali di soluzione delle controversie di diritto internazionale. Esporrà le ragioni che conducono ad assumere la giurisdizione consultiva a strumento indispensabile per l'accertamento delle regole di diritto internazionale, circoscrivendo la funzione accertativa agli ambiti di competenza giurisdizionale suscettibili di investire la Corte Internazionale, la cui determinazione dipende dall'identità del soggetto dotato di legittimazione attiva che intenda investire della questione l'organo giurisdizionale. Il capitolo quarto ed ultimo sarà dedicato all'esame comparato dei modelli considerati, esporrà le risultanze del processo di indagine trasversale compiuta sui modelli giuridici che contemplano l'esercizio della funzione consultiva ovvero l'istituto del rinvio pregiudiziale. Il capitolo quarto si strutturerà in tre paragrafi. Il paragrafo primo esaminerà l'istituto del rinvio pregiudiziale e la funzione consultiva attribuita alle Corti internazionali, rispetto ai soggetti legittimati all'attivazione in funzione consultiva dell'organo giurisdizionale sovranazionale ovvero alla richiesta di rinvio pregiudiziale. Il paragrafo secondo interesserà il confronto tra i modelli esaminati rispetto all'oggetto ed alla natura del pronunciamento richiesto in sede di attivazione dell'organo giurisdizionale in funzione consultiva ed in sede di proposizione del rinvio pregiudiziale. Il terzo paragrafo del capitolo quarto, sarà dedicato all'esame degli effetti prodotti dall'esercizio della funzione consultiva attribuita alle Corti internazionali considerate ed agli effetti prodotti all'esito del procedimento aperto dal rinvio pregiudiziale su l rafforzamento del processo di integrazione delle organizzazioni internazionali e con riferimento allo sviluppo del dialogo che intercorre tra il giudice domestico e l'organo giurisdizionale sovranazionale, quando allo sviluppo di quel meccanismo di cooperazione, giovi l'attivazione in funzione consultiva dell'organo in parola ovvero il provvedimento emesso all'esito del rinvio pregiudiziale, ossia nelle ipotesi in cui siano i giudici nazionali a domandare l'intervento della Corte internazionale. L'indagine si articolerà distinguendo il ruolo assunto dalla giurisdizione consultiva e dall'istituto del rinvio pregiudiziale nel processo di conservazione e rafforzamento delle organizzazioni in sé orientate alla regolamentazione degli spazi economici comuni dal ruolo assunto dalla giurisdizione consultiva e dall'istituto del rinvio pregiudiziale nel processo di rafforzamento delle organizzazioni in sé orientate alla protezione ed alla promozione dei diritti fondamentali.