Il volume offre la ricostruzione del sistema di concessione della cittadinanza napoletana nel corso del Cinquecento. È stato studiato, in particolare, il ruolo svolto dalla Regia Camera della Sommaria, la massima magistratura fiscale del Regno di Napoli, nella valutazione delle richieste e nell'attribuzione della patente di cittadinanza, che consentiva l'accesso ai consistenti privilegi fiscali e giurisdizionali della città capitale. La politica del governo spagnolo rispetto a questi ultimi è basata sulla prudenza e sull'attenzione agli equilibri politici e sociali di una capitale fondamentale e complessa come Napoli. La Sommaria, tuttavia, riesce ad affermare un sistema di controllo e di governo dei privilegi, che rende in buona parte la cittadinanza napoletana un prodotto dello stato; anche sottraendo competenze in materia al governo municipale della città.
ITALIANO: Il volume offre la ricostruzione del sistema di concessione della cittadinanza napoletana nel corso del Cinquecento. È stato studiato, in particolare, il ruolo svolto dalla Regia Camera della Sommaria, la massima magistratura fiscale del Regno di Napoli, nella valutazione delle richieste e nell'attribuzione della patente di cittadinanza, che consentiva l'accesso ai consistenti privilegi fiscali e giurisdizionali della città capitale. La politica del governo spagnolo rispetto a questi ultimi è basata sulla prudenza e sull'attenzione agli equilibri politici e sociali di una capitale fondamentale e complessa come Napoli. La Sommaria, tuttavia, riesce ad affermare un sistema di controllo e di governo dei privilegi, che rende in buona parte la cittadinanza napoletana un prodotto dello stato; anche sottraendo competenze in materia al governo municipale della città. / ENGLISH: The book illustrates the reconstruction of the system of granting Neapolitan citizenship during the sixteenth century. In particular, the role played by the 'Regia Camera della Sommaria', the highest tax magistrature of the Kingdom of Naples, in the evaluation of requests and in the assignment of the citizenship licenses, which allowed access to the substantial tax and jurisdictional privileges of the capital city. The policy of the Spanish government with respect to these privileges is based on prudence and attention to the political and social balance of a fundamental and complex capital as Naples is. The 'Sommaria', however, manages in establishing a system of control and government of privileges, which makes the Neapolitan citizenship for a large part a product of the state; also subtracting expertise in the field to the city's municipal government.
[English]:The book illustrates the reconstruction of the system of granting Neapolitan citizenship during the sixteenth century. In particular, the role played by the 'Regia Camera della Sommaria', the highest tax magistrature of the Kingdom of Naples, in the evaluation of requests and in the assignment of the citizenship licenses, which allowed access to the substantial tax and jurisdictional privileges of the capital city. The policy of the Spanish government with respect to these privileges is based on prudence and attention to the political and social balance of a fundamental and complex capital as Naples is. The 'Sommaria', however, manages in establishing a system of control and government of privileges, which makes the Neapolitan citizenship for a large part a product of the state; also subtracting expertise in the field to the city's municipal government. / [Italiano]: Il volume offre la ricostruzione del sistema di concessione della cittadinanza napoletana nel corso del Cinquecento. È stato studiato, in particolare, il ruolo svolto dalla Regia Camera della Sommaria, la massima magistratura fiscale del Regno di Napoli, nella valutazione delle richieste e nell'attribuzione della patente di cittadinanza, che consentiva l'accesso ai consistenti privilegi fiscali e giurisdizionali della città capitale. La politica del governo spagnolo rispetto a questi ultimi è basata sulla prudenza e sull'attenzione agli equilibri politici e sociali di una capitale fondamentale e complessa come Napoli. La Sommaria, tuttavia, riesce ad affermare un sistema di controllo e di governo dei privilegi, che rende in buona parte la cittadinanza napoletana un prodotto dello stato; anche sottraendo competenze in materia al governo municipale della città.
Il saggio esamina il sistema delle scritture pragmatiche in adozione nel Principato di Taranto in età orsiniana (prima metà del XV secolo), non tuttavia mediante l'analisi diretta dei registri contabili e della produzione normativa superstiti ma attraverso una speciale lente di ingrandimento: la descrizione delle minute, molteplici pratiche di devoluzione del principato attuata alla morte di Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1463) da un équipe di razionali della Sommaria, inviati in missione in Salento con lo scopo precipuo di riconnettere al demanio regio i beni patrimoniali, giurisdizionali e fiscali del principato. Lo sguardo retrospettivo del carteggio, la fonte qui specificamente oggetto d'esame, prodotto dall'interazione tra i razionali napoletani e i poteri politici locali del dominio ormai dissolto (amministratori, gestori di diritti, comunità, signori, ecc.) consente così di cogliere dall'interno e nel concreto del suo funzionamento, strutture e meccanismi d'azione dell'ordinamento scritturale orsiniano. Offrendone, al contempo, una messa in rilievo delle complesse logiche generative, in definitiva: misurare, attingere, inventariare, e poi marcare e archiviare in una enorme base dati scritta entità, quantità, equivalenze numeriche e costituzione socio-economica dei luoghi (città, terre, casali, saline, masserie) della vasta compagine territoriale infeudata dalla fine del Trecento ai del Balzo Orsini.
Il saggio esamina il sistema delle scritture pragmatiche in adozione nel Principato di Taranto in età orsiniana (prima metà del XV secolo), non tuttavia mediante l'analisi diretta dei registri contabili e della produzione normativa superstiti ma attraverso una speciale lente di ingrandimento: la descrizione delle minute, molteplici pratiche di devoluzione del principato attuata alla morte di Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1463) da un équipe di razionali della Sommaria, inviati in missione in Salento con lo scopo precipuo di riconnettere al demanio regio i beni patrimoniali, giurisdizionali e fiscali del principato. Lo sguardo retrospettivo del carteggio, la fonte qui specificamente oggetto d'esame, prodotto dall'interazione tra i razionali napoletani e i poteri politici locali del dominio ormai dissolto (amministratori, gestori di diritti, comunità, signori, ecc.) consente così di cogliere dall'interno e nel concreto del suo funzionamento, strutture e meccanismi d'azione dell'ordinamento scritturale orsiniano. Offrendone, al contempo, una messa in rilievo delle complesse logiche generative, in definitiva: misurare, attingere, inventariare, e poi marcare e archiviare in una enorme base dati scritta entità, quantità, equivalenze numeriche e costituzione socio-economica dei luoghi (città, terre, casali, saline, masserie) della vasta compagine territoriale infeudata dalla fine del Trecento ai del Balzo Orsini. ; The essay focuses on the system of current public records used in the principality of Taranto during the Orsini rule (first half of the 15th century). The research does not work directly on the surviving accounts or the legislative sources, but is based on the analysis of a peculiar source, produced in the crucial moment of the devolution of the principality to the crown after the death of the last prince of Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1463). In the late spring 1464 king Ferrante sent to the Salento an équipe of razionali of the Sommaria (the central financial office of the kingdom) to analyze and register all the practices and the passages of the devolution of the Tarentine principality through the inspection of the existing account books, in order to take control of the patrimonial, jurisdictional and financial resources of the principality. This operation produced a considerable amount of letters written by the razionali in a couple of months: these sources are the result of the interaction between the Neapolitan officers and the local political powers of the vanished principality, and allow us to get concretely and day by day into the inner mechanism of production and functioning of a whole documentary system. This system, when in use, offered an articulated map of the territory and its resources through the sophisticated elaboration of a multiple-level complex of accounts, inventories, local and central archives. At the same time, it elaborated what we can call a real, huge data-base both of men, places, revenues and of written records.
Il mediatore commerciale svolge una funzione chiave all'interno dei meccanismi di mercato : facilita l'incontro tra domanda e offerta e si rende garante della bontà degli affari nei confronti delle parti contraenti. Proprio perché interviene nella determinazione dei costi di transazione, svolgendo per di più funzioni di tipo notarile, la professione del mediatore fu investita piuttosto precocemente da responsabilità pubbliche. Il controllo sulla correttezza deontologica degli operatori fu dapprima assicurata entro l'ordine corporativo, per poi diventare, nell'età del mercantilismo, uno dei compiti che lo stato avrebbe fatto proprio, anche per ragioni fiscali. In Italia l'evoluzione dei meccanismi istituzionali di controllo ha seguito percorsi diversi a seconda delle tradizioni mercantili delle differenti città. Nel caso di Livorno, la città nuova creata dai Medici, i privilegi del portofranco e la struttura sociale, caratterizzata dal « comunitarismo cosmopolita » delle « nazioni », impedirono alle leggi dello stato di intervenire efficacemente nella disciplina della professione. Al momento del passaggio della Toscana alla nuova dinastia, l'intermediazione commerciale era ormai un settore professionale del tutto fuori controllo. La lotta che fu intrapresa dagli Asburgo Lorena contro l'abusivismo e per il contenimento del numero dei mediatori incontrò numerose battute d'arresto, e potè giungere a dei risultati solo nel momento in cui gli attori economico-sociali direttamente interessati furono coinvolti nell'azione di riforma. La scelta della « concertazione », perseguita con convinzione dal Consiglio di Reggenza presieduto dal Botta Adorno, segnò una breve stagione politica, durante la quale furono gettate le basi del più energico riformismo leopoldino degli anni 1770 e 1780.
International audience ; Les chartes de franchises communales intéressent depuis de longues décennies déjà tant les historiens du droit que leurs collègues médiévistes. De sorte que, dans le ressort des anciens Etats de Savoie, leur inventaire semble aujourd'hui aussi exhaustif que quasi définitif et que le catalogue typologique qui a pu être proposé naguère de ces différentes concessions de libertés, (de la charte urbaine proprement dite à la simple charte de reconnaissance des communautés rurales), n'engendre plus la moindre polémique.Or, on l'oublie trop souvent, la situation géographique de la plupart des villes franches, à la différence notoire de celle de la multitude des paroisses rurales indistinctes, révèle certes presque sans coup férir les anciennes régions frontalières généralement très disputées de la mosaïque territoriale féodale contemporaine de leur consécration, mais également tout aussi invariablement le tracé des principaux itinéraires, en l'espèce transalpins, qui conditionnent l'existence (ou la relative indépendance) de nombreuses puissances seigneuriales d'importance. Ainsi, puisqu'ils ont aux lendemains de l'an mil scellé leur destin à l'exploitation obstinée de ce passage alpin qu'ils prétendent contingenter, tout au moins dans les Alpes occidentales du Nord, les premiers princes de la Maison de Savoie y ont-ils consenti de haute antiquité de notables libéralités à un chapelet de localités qu'ils égrènent le long des routes menant, sur chaque versant du massif, aux cols des Grand et Petit-Saint-Bernard et du Mont-Cenis tandis qu'ils s'efforçaient parallèlement de promouvoir sur ces mêmes cols, l'implantation ou le maintien de fondations hospitalières monastiques.Cependant, toutes ces bourgades affranchies entre la fin du XIIe et l'entame du XVe siècle par l'autorité comtale tant en Bresse, en Bugey, en Combe de Savoie, en Maurienne, en Tarentaise, en Chablais, en Pays de Vaux, en Valais, en Val d'Aoste et en Val de Suse, jusqu'aux portes de Turin, généralement devenues conjointement le ...
In the Modern Age the relationship between ecclesiastical architecture and the city was regulated by symbolic and material boundaries. These were aimed at reaffirming the sacredness of the physical place, connected to the real presence of Christ in the sacrament of the Eucharist, according to the dictates of the Council of Trent. Such boundaries also identified jurisdictional, proprietary and fiscal privileges. In fact, ancient rights of immunity, considered inviolable, characterized the ecclesiastical spaces: rights of real immunity, which excluded ecclesiastical property from the payment of tax burdens; rights of local immunity, linked to the ancient privilege of asylum. Walls, gates, doors, parvises, steps, were therefore configured as real borders, around which the political-legal action of secular magistrates concentrated, intended to defend the prerogatives of the sovereign on the territory and cities. This study proposes a reflection about the relationship between the presence of the sacred, space border and forms of representation in the Modern age. For this purpose, the essay will consider eighteenth-century Savoyard State as field of observation. In such a context, the relationship between State and Church and the political struggle against privileges and immunities generated tensions, which, in turn, were projected on ecclesiastical spaces. ; In Età Moderna il rapporto tra architettura ecclesiastica e città è regolato da limiti simbolici e materiali, atti tanto a riaffermare la sacralità del luogo fisico – connessa alla presenza reale del Cristo nel sacramento dell'Eucarestia, secondo i dettami del Concilio di Trento – quanto a identificare privilegi di natura giurisdizionale, proprietaria e fiscale. Sugli spazi ecclesiastici, infatti, si addensano diritti di immunità antichi e ritenuti inviolabili: diritti di immunità reale, che sottraggono i beni ecclesiastici al pagamento dei carichi fiscali; diritti di immunità locale, connessi al privilegio, antico, dell'asilo. Murature, cancelli, porte, sagrati, gradini si configurano pertanto come veri e propri confini, attorno ai quali si concentra l'azione politico-giuridica esercitata dalle magistrature secolari, impegnate a difendere le prerogative del sovrano sul territorio e sulle città. Il presente studio propone una riflessione sul rapporto tra dispositivi di interdizione dello spazio, presenza del Sacro e forme di rappresentazione in Età Moderna, adottando, come campo di osservazione privilegiato, lo Stato sabaudo del XVIII secolo, un contesto in cui sugli spazi ecclesiastici si proiettano tensioni che investono, in un senso più ampio, le relazioni tra Stato e Chiesa, e la lotta contro privilegi e immunità.
International audience ; Les chartes de franchises communales intéressent depuis de longues décennies déjà tant les historiens du droit que leurs collègues médiévistes. De sorte que, dans le ressort des anciens Etats de Savoie, leur inventaire semble aujourd'hui aussi exhaustif que quasi définitif et que le catalogue typologique qui a pu être proposé naguère de ces différentes concessions de libertés, (de la charte urbaine proprement dite à la simple charte de reconnaissance des communautés rurales), n'engendre plus la moindre polémique.Or, on l'oublie trop souvent, la situation géographique de la plupart des villes franches, à la différence notoire de celle de la multitude des paroisses rurales indistinctes, révèle certes presque sans coup férir les anciennes régions frontalières généralement très disputées de la mosaïque territoriale féodale contemporaine de leur consécration, mais également tout aussi invariablement le tracé des principaux itinéraires, en l'espèce transalpins, qui conditionnent l'existence (ou la relative indépendance) de nombreuses puissances seigneuriales d'importance. Ainsi, puisqu'ils ont aux lendemains de l'an mil scellé leur destin à l'exploitation obstinée de ce passage alpin qu'ils prétendent contingenter, tout au moins dans les Alpes occidentales du Nord, les premiers princes de la Maison de Savoie y ont-ils consenti de haute antiquité de notables libéralités à un chapelet de localités qu'ils égrènent le long des routes menant, sur chaque versant du massif, aux cols des Grand et Petit-Saint-Bernard et du Mont-Cenis tandis qu'ils s'efforçaient parallèlement de promouvoir sur ces mêmes cols, l'implantation ou le maintien de fondations hospitalières monastiques.Cependant, toutes ces bourgades affranchies entre la fin du XIIe et l'entame du XVe siècle par l'autorité comtale tant en Bresse, en Bugey, en Combe de Savoie, en Maurienne, en Tarentaise, en Chablais, en Pays de Vaux, en Valais, en Val d'Aoste et en Val de Suse, jusqu'aux portes de Turin, généralement devenues conjointement le siège d'un péage ou d'un office de châtellenie révélateurs de la solide structure administrative de l'Etat savoyard en cours de consolidation, relèvent peu ou prou uniformément du genre urbain. Qu'il s'agisse au demeurant de localités anciennes ou, a fortiori, de villes neuves, sans égard à leur protection souvent symbolique mais oh combien prestigieuse le cas échéant, par une forteresse comtale. Exception notable, sur le versant tarin de l'une des routes majeures des grandes Alpes, un seul de tous ces sites d'étape bénéficiaires de telles largesses princières, sans même constituer une paroisse autonome, ne dépasse toujours pas plus la taille d'un modeste hameau de montagne d'à peine quelques dizaines de feux à l'heure de la liquidation de ce statut ancestral par la législation d'abolition de la féodalité tant sarde (1770) que française (après 1792), que lors de sa consécration paradoxale en ville franche : Saint-Germain-de Séez.Comment expliquer cette curiosité à l'aune des Etats de Savoie ? Sinon par la lecture même de la charte concernée et la mention de l'obligation faite aux communiers afférents d'assurer en toute saison l'ouverture et la sécurité d'un itinéraire — celui de la vieille voie augustéenne des Gaules assise autrefois in alpe graia — alors vital aux échanges internes des possessions savoyardes s'il souffre déjà incontestablement de la concurrence ancienne d'un Mont-Cenis sur lequel s'est déporté dès la fin du haut Moyen-Age le gros du transit transalpin des hommes et des marchandises à destination atlantique. Spécificité hors norme puisqu'un statut dérogatoire de type voisin sera même reconduit à l'avantage des faisants feu de Saint-Germain par les autorité turinoises de la Restauration à 1860, qui permet par conséquent l'illustration, s'il en était besoin, du caractère "routier" indéniable du complexe institutionnel savoyard, de longs siècles durant, en vertu de la politique volontariste initiée en la matière par les premières générations de princes de la Maison de Savoie.
International audience ; Les chartes de franchises communales intéressent depuis de longues décennies déjà tant les historiens du droit que leurs collègues médiévistes. De sorte que, dans le ressort des anciens Etats de Savoie, leur inventaire semble aujourd'hui aussi exhaustif que quasi définitif et que le catalogue typologique qui a pu être proposé naguère de ces différentes concessions de libertés, (de la charte urbaine proprement dite à la simple charte de reconnaissance des communautés rurales), n'engendre plus la moindre polémique.Or, on l'oublie trop souvent, la situation géographique de la plupart des villes franches, à la différence notoire de celle de la multitude des paroisses rurales indistinctes, révèle certes presque sans coup férir les anciennes régions frontalières généralement très disputées de la mosaïque territoriale féodale contemporaine de leur consécration, mais également tout aussi invariablement le tracé des principaux itinéraires, en l'espèce transalpins, qui conditionnent l'existence (ou la relative indépendance) de nombreuses puissances seigneuriales d'importance. Ainsi, puisqu'ils ont aux lendemains de l'an mil scellé leur destin à l'exploitation obstinée de ce passage alpin qu'ils prétendent contingenter, tout au moins dans les Alpes occidentales du Nord, les premiers princes de la Maison de Savoie y ont-ils consenti de haute antiquité de notables libéralités à un chapelet de localités qu'ils égrènent le long des routes menant, sur chaque versant du massif, aux cols des Grand et Petit-Saint-Bernard et du Mont-Cenis tandis qu'ils s'efforçaient parallèlement de promouvoir sur ces mêmes cols, l'implantation ou le maintien de fondations hospitalières monastiques.Cependant, toutes ces bourgades affranchies entre la fin du XIIe et l'entame du XVe siècle par l'autorité comtale tant en Bresse, en Bugey, en Combe de Savoie, en Maurienne, en Tarentaise, en Chablais, en Pays de Vaux, en Valais, en Val d'Aoste et en Val de Suse, jusqu'aux portes de Turin, généralement devenues conjointement le siège d'un péage ou d'un office de châtellenie révélateurs de la solide structure administrative de l'Etat savoyard en cours de consolidation, relèvent peu ou prou uniformément du genre urbain. Qu'il s'agisse au demeurant de localités anciennes ou, a fortiori, de villes neuves, sans égard à leur protection souvent symbolique mais oh combien prestigieuse le cas échéant, par une forteresse comtale. Exception notable, sur le versant tarin de l'une des routes majeures des grandes Alpes, un seul de tous ces sites d'étape bénéficiaires de telles largesses princières, sans même constituer une paroisse autonome, ne dépasse toujours pas plus la taille d'un modeste hameau de montagne d'à peine quelques dizaines de feux à l'heure de la liquidation de ce statut ancestral par la législation d'abolition de la féodalité tant sarde (1770) que française (après 1792), que lors de sa consécration paradoxale en ville franche : Saint-Germain-de Séez.Comment expliquer cette curiosité à l'aune des Etats de Savoie ? Sinon par la lecture même de la charte concernée et la mention de l'obligation faite aux communiers afférents d'assurer en toute saison l'ouverture et la sécurité d'un itinéraire — celui de la vieille voie augustéenne des Gaules assise autrefois in alpe graia — alors vital aux échanges internes des possessions savoyardes s'il souffre déjà incontestablement de la concurrence ancienne d'un Mont-Cenis sur lequel s'est déporté dès la fin du haut Moyen-Age le gros du transit transalpin des hommes et des marchandises à destination atlantique. Spécificité hors norme puisqu'un statut dérogatoire de type voisin sera même reconduit à l'avantage des faisants feu de Saint-Germain par les autorité turinoises de la Restauration à 1860, qui permet par conséquent l'illustration, s'il en était besoin, du caractère "routier" indéniable du complexe institutionnel savoyard, de longs siècles durant, en vertu de la politique volontariste initiée en la matière par les premières générations de princes de la Maison de Savoie.
[ita] La presente tesi si concentra sui processi di decentramento in Italia e Spagna, analizzando l'impatto dei mutamenti del quadro giuridico europeo sull'autonomia finanziaria regionale. L'ordinamento finanziario sovranazionale è stato infatti ampiamente modificato negli ultimi anni (specialmente con riferimento alla c.d. "Eurozona") per affrontare le pressanti sfide di natura macroeconomica derivanti dalla crisi del debito sovrano, che ha coinvolto svariati Stati Membri. L'analisi del tema proposto viene effettuata con il metodo della comparazione, prendendo in considerazione gli ordinamenti italiano e spagnolo. Tale scelta metodologica riposa essenzialmente su due elementi, che integrano il requisito della comparabilità tra i due ordinamenti: a) la vicinanza strutturale e l'influenza reciproca che storicamente si è verificata tra i due modelli di decentramento (che vengono usualmente riportati alla forma – o tipo – di Stato regionale); b) la comune soggezione ai vincoli finanziari derivanti dall'ordinamento europeo, unita a una condizione di grave difficoltà finanziaria che coinvolge il sistema regionale in generale, e – in maniera più acuta – le Regioni e Comunidades Autónomas (d'ora in poi, CC.AA.) che sono state (o sono) colpite da fenomeni di mala gestio. Si presenterà ora brevemente la struttura del lavoro. I primi due capitoli parlano dello Stato regionale in Italia e in Spagna, ossia il contesto, lo "sfondo", nel quale si inserisce il tema dell'autonomia finanziaria, seguendo la contrapposizione astratto/concreto, statico/dinamico: da un lato i modelli elaborati dalla dottrina, dall'altro l'evoluzione storica delle esperienze regionali, in entrambi i casi con particolare riferimento ai profili finanziari. Il primo capitolo descrive dunque la modellistica che viene generalmente utilizzata rispetto alle forme di distribuzione territoriale del potere politico (unione di stati, confederazione, stato federale, stato regionale, stato unitario), con un particolare approfondimento per la problematica categoria dello Stato regionale e, rispetto ad esso, registrando sia le posizioni critiche sull'utilità della categoria sia la particolare rilevanza che il livello di autonomia finanziaria regionale può avere a fini classificatori. Il secondo capitolo tratta invece partitamente le due linee storiche che si incrociano nella tematica in esame. Da un lato, lo sviluppo del regionalismo in Spagna e in Italia e le varie fasi dell'autonomia finanziaria nei due ordinamenti: non sfugge infatti a chi scrive che l'attuale stato delle finanze pubbliche territoriali sia in entrambi i casi il frutto di un complesso processo di evoluzione; tuttavia – ai fini della comparazione – pare opportuno privilegiare l'aspetto sincronico a quello diacronico, concentrandosi sull'ultimo stadio di questo percorso, nel suo intreccio con un sistema normativo e decisionale sempre più complesso, nazionale e sovranazionale. Dall'altro lato, si fa appunto un quadro dell'evoluzione della governance finanziaria europea sotto l'impatto della crisi economico-finanziaria che si è originata a livello globale a partire dal 2008. Tale evoluzione costituisce infatti il presupposto dei mutamenti costituzionali e normativi che si vogliono analizzare nel presente lavoro. Il terzo capitolo, che è il più ampio del lavoro, descrive l'ordinamento finanziario di Regioni e CCAA nel quadro di un sistema normativo che ormai affonda le sue radici nel livello sovranazionale. Obiettivo di questa parte del lavoro è tanto dare conto del sistema delle fonti dell'autonomia finanziaria da un punto di vista formale, quanto esporre ed analizzare le scelte normative compiute in concreto. Al suo interno, il capitolo è tripartito: ordinamento UE, ordinamento italiano e ordinamento spagnolo. La ragione di una trattazione separata dei due Paesi sul piano delle fonti è evidente: si tratta di sistemi peculiari e non sovrapponibili. In Spagna il metodo di finanziamento delle CCAA è determinato da due importanti leggi organiche, la LOFCA (Ley Orgánica de Financiación de las Comunidades Autónomas) e la LOEPSF (Ley Orgánica de Estabilidad Presupuestaria y Sostenibilidad Financiera): diventa dunque essenziale approfondire natura e ambito di competenza di ciascuna di esse, assieme al discusso problema del rapporto tra leggi organiche e Statuti delle CCAA nel sistema delle fonti del diritto. In Italia il quadro delle fonti si è fatto nel tempo sempre più articolato: basti ricordare la previsione di una specifica legge rinforzata da parte della nuova formulazione dell'art. 81, c.6, Cost. e il ruolo della legge delega sul federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009) nel condizionare il contenuto dei relativi decreti legislativi di attuazione. All'interno dei paragrafi relativi all'uno e all'altro Paese si cerca di porre in luce i due versanti dell'autonomia finanziaria già esplicitati in precedenza, entrata e spesa. Rispetto al''autonomia di entrata, si dà conto tanto dello spazio concesso alla potestà impositiva di Regioni e CCAA – e quindi il potere di istituire tributi propri regionali e i ccdd. tributos cedidos anche dal punto di vista normativo nel caso spagnolo – quanto del problema centrale del finanziamento delle autonomie territoriali mediante risorse derivanti dai tributi statali, nelle forme della compartecipazione al gettito degli stessi e dei trasferimenti statali. Il profilo dell'autonomia di spesa riceve poi una considerazione altrettanto approfondita. In sistemi regionali in cui la decisione sulle entrate è ancora sostanzialmente in mano al livello di governo centrale, è chiaramente l'autonomia di spesa a concretare più direttamente l'autonomia finanziaria regionale, fino a spingere taluno a coniare la categoria del federalismo fiscale "di spesa". Proprio sull'autonomia di spesa hanno però impattato in maniera più diretta la crisi economico- finanziaria, i vincoli finanziari europei e la loro attuazione a livello interno: quest'ultima è avvenuta non soltanto tramite provvedimenti del legislatore statale volti a porre un limite globale alla spesa delle autonomie, al fine di garantire il rispetto dei vincoli sovranazionali da parte del complesso dei soggetti che compongono la c.d. finanza pubblica allargata (limiti diretti all'autonomia di spesa), ma anche tramite norme di legge che incidevano su ambiti rientranti nella competenza delle Regioni, fra i quali gli aspetti ordinamentali, giustificati dallo scopo di contenimento della spesa pubblica (limiti indiretti). Il quarto capitolo approfondisce il tema delle relazioni finanziarie fra Stato e Regioni/CCAA sul piano dei principi costituzionali: a differenza del capitolo precedente, la trattazione viene svolta trasversalmente fra i due ordinamenti, nella convinzione che vi siano alcune linee fondamentali in comune fra di essi. Si delinea quindi un vero e proprio statuto costituzionale dell'autonomia finanziaria nello Stato regionale che si sostanzia nei seguenti principi: autonomia finanziaria e corresponsabilità fiscale; solidarietà; sufficienza finanziaria (connessione risorse-funzioni); coordinamento finanziario; equilibrio di bilancio e sostenibilità finanziaria; leale collaborazione. Per ciascun principio non si dà conto soltanto dei riferimenti normativi ma soprattutto dell'interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza costituzionale, istanza deputata a far "vivere" i principi nei mutamenti istituzionali e sociali tramite l'interpretazione costituzionale. Il quinto capitolo approfondisce infine un profilo spesso trascurato a livello dottrinale, ossia quello dei sistemi finanziari delle autonomie differenziate, nell'uno e nell'altro ordinamento. Nel caso italiano, il tema è quello della c.d. specialità finanziaria, che configura un percorso originale e peculiare nel quadro del regionalismo italiano. Il tema parrebbe porsi in maniera più complessa nel caso spagnolo, in virtù della potenziale asimmetria che caratterizza il sistema: tuttavia, in virtù della portata omogeneizzatrice della LOFCA, la maggior parte delle comunità autonome presenta un sistema di finanziamento sostanzialmente unitario. La reale differenziazione si coglie piuttosto rispetto al sistema del convenio e concierto autonómico seguito da País Vasco e Navarra, sistema che costituisce il portato di un lungo percorso storico e concreta una delle peculiarità del regimen foral di questi territori. Specialità finanziaria e regime forale presentano tratti di somiglianza e costituiscono esperienze meritevoli di approfondimento: essi sono da un lato oggetto di critica in entrambi i Paesi in quanto considerati "privilegi fiscali", allo stesso tempo non di rado la estensibilità dei sistemi ad alcune (o a tutte le) Regioni viene fatto oggetto di studio. ; [spa] The first two chapters deal about the "regional State" in Italy and Spain. The first chapter describes the categories that are generally used to classify the forms of territorial distribution of political power (union of States, confederation, federal State, regional State, unitary State), with particular attention to the problematic category of the regional State. The second chapter concerns the two historical aspects of the matter. On the one hand, the development of regionalism in Spain and Italy and the various phases of financial autonomy in the two systems; on the other hand, the evolution of European financial governance under the impact of the economic crisis since 2008. This evolution is, in fact, the precondition of the constitutional and legislative changes that the thesis aims to analyse. The third and fourth chapters are devoted to regional financial autonomy according to a general constitutional perspective: the third from the formal point of view, with reference to the system of sources of law, and the fourth from the substantive standpoint (constitutional principles). In particular, the third chapter deals with financial autonomy and, respectively, with tax power and power of expenditure in the Italian and Spanish cases, considering both the European Union and the internal sources of law. In relation to the tax autonomy, the thesis focuses mainly on the problem of the power of Regions and Autonomous Communities to establish their own regional taxes (and their limits), as well as on the taxes assigned by the State to the Autonomous Communities in Spain. Then, the thesis deepens the central problem of financing territorial autonomies through resources derived from State taxes, in the form of revenue sharing and State transfers. The topic of spending power also plays a central role in the research: the European financial rules and their application have a direct impact on regional spending autonomy. The problem of public debt, which is significantly regulated by the new supranational legal context, will also be considered. The fourth chapter is devoted in particular to the constitutional case law on the following principles: the principle of financial autonomy, the principle of financial sufficiency, the principle of coordination, the balance budget principle, the principle of solidarity and its limits, the principle of institutional loyalty and cooperation. Finally, the fifth chapter deals with a matter often neglected at the doctrinal level, which is the financial systems of differentiated autonomies, in both countries. In the Italian case, the Financial Specialty represents an original and peculiar way within the framework of Italian regionalism. In the Spanish case, the most important differentiation is the system of the convenio/concierto autonómico (agreement) of the Basque Country and Navarre.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.