Il tema dell'internazionalizzazione occupa nel contesto socio-culturale attuale una posizione di trasversalità privilegiata. Si tratta di un concetto che si pone in diretta ed immediata relazione sia con l'orizzonte amplissimo della globalizzazione, poiché ha le stesse coordinate storico-geografiche, sia con il fenomeno dei flussi migratori. L'esperienza della migrazione, con la sua ricaduta sociale oggi particolarmente problematica, fa parte da sempre, in realtà, della vicenda umana. A più riprese, dall'epoca del patriarcato, le contraddizioni della dialettica tra nomadi e stanziali si sono manifestate in una relazione complicata ulteriorimente dalla coincidenza storico-geografica che ha visto ritrovarsi negli stessi luoghi e negli stessi anni gruppi stanziali e gruppi nomadi. E' chiaro che solo dalla coincidenza di questi due fattori può configurarsi quel fenomeno sociologico che ha visto mutare nel tempo le relazioni tra indigeni e migranti e porre le basi concettuali del paradigma interculturale tanto più fiorente quanto più critica nel tempo si è rivelata le convivenza di gruppi diversi. Non è sempre stato difficile come oggi per i popoli abitare lo stesso luogo e lo stesso tempo. La memoria di un medioevo lungamente oscurato da una storiografia ostile sta lentamente riassumendo caratteri di luminosità nel proporsi come l'epoca della felice isola di un sincretismo dimenticato fatto di dialoghi tra le sponde del Mediterraneo, tra i confini più lontani e le arti più disparate. Se oggi appare superficialmente rivoluzionario parlare di globalizzazione e di internazionalismo, è proprio a causa dell'amnesia che ha occultato alla comune percezione storica il peso che l'idea di nazione ha esercitato sulla storia moderna. Dall'insorgenza delle monarchie nazionali al fenomeno imperialista per arrivare ai totalitarismi che hanno condotto al disastro della seconda guerra mondiale, lo stato nazionale, nato sul presupposto dell'omogeneità culturale di lingua, razza, religione come da relative tracce nel pensiero fichtiano, non ha cessato di difendere la sovranità del limite elevando la sacralità del confine, al punto di farne una vera e propria religione. In questo arco temporale, si può solo sostenere di aver rimosso la memoria di un internazionalismo che appartiene alla storia dei popoli e quindi presentarne il concetto con la sua istanza non ingenuamente innovatrice o innovativa, ma solo con la sua connotazione restauratrice, per così dire, di una dimensione già vissuta in molti momenti della storia dell'umanità. Il suo carattere apparentemente innovativo, senz'altro legato alla rivoluzione tecnologica, quella sì, originale, non riflette oggi che la necessità di tornare a dialogare pacificamente per culture che altri paradigmi hanno separato, messo le une contro le altre, posto in discussione concettualizzando ad hoc un'ideologia culturale ancora dura da mettere definitivamente da parte, nonostante il dibattito relativista. La risposta è nella formulazione di un nuovo concetto di cittadinanza, compito che lasciamo ai giuristi, ma che qui rimane al centro della riflessione in virtù del legame che lega in ogni paese la scuola, la carta costituzionale e la costituzione europea ad oggi parzialmente concretizzata nel Trattato di Lisbona. Al confine tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sovranazionale siede la complessità del problema in questione: internazionalizzare la scuola per tutti senza tradire i patrimoni nazionali e senza rinunciare alla costruzione di un'identità e di un orizzonte di senso comuni. 2. L'Unione Europea, il corpo diplomatico e l'internazionalismo La storia dell'Unione Europea e dello sviluppo delle sue istituzioni è la traccia più evidente oggi di questa necessità: un bisogno che si è manifestato nella sua massima forza proprio nell'immediato postbellico degli anni successivi al 1945, un progetto di pace statuito nella Dichiarazione Schumann e simbolicamente fondato sulla condivisione delle risorse minerarie che sono state la causa dei ripetuti conflitti franco-tedeschi al quale madri e padri dell'Europa hanno partecipato con il loro contributo economico, diplomatico e intellettuale ponendosi al servizio dei governi in grado di determinare un nuovo orientamento unitario nella politica mondiale capace di salvaguardare a lungo gli equilibri totalmente sconvolti dalle due guerre del XX secolo. In tal senso, emerge chiaramente il ruolo delle diplomazie internazionali e la necessità di un lavoro alacre in questa direzione. Il corpo diplomatico vanta un prestigio e un ruolo che affonda le sue origini in età rinascimentale, quando tra una corte e l'altra della penisola frammentata si rendevano necessari interventi di mediazione politica e di dialogo. I negoziati, spesso condotti da grandi personalità del mondo della cultura, dovevano rivelarsi capaci di tutelare gli interessi dei governanti e di garantire la prosperità delle loro signorie. Si trattava di missioni che all'epoca solo chi fosse già in possesso di lauti mezzi di sussistenza poteva permettersi, dal momento che avevano un costo elevato, non finanziato dalle corti, dovuto alla condizione del viaggio. E si trattava di compiti che da soli bastavano ad aumentare il prestigio personale di coloro che accettavano di mettersi a disposizione dei signori per tali incarichi. Tra questi personaggi, in Italia, si contano numerose figure legate agli ambienti letterari. La diplomazia ha un posto importante in ogni discorso che riguardi l'internazionalità e l'internazionalizzazione e anche in questa sede costituisce la cerniera tra la prima e la seconda parte del saggio che si intende qui presentare sinteticamente. Negli anni Cinquanta, con lo sviluppo delle prime istituzioni europee, sono nate, infatti, esigenze legate alle professioni diplomatiche che si svolgono per loro stessa natura all'interno di quelle che definiamo per comodità coordinate migratorie, caratteristiche stabili dell'orizzonte esistenziale di chi le svolge: periodica mobilità, segmentazione dei percorsi di vita, sradicamento, prestigio economico e sociale. I diplomatici sono parte di una carovana migrante elitaria e, nel loro flusso, portano con sé esperienze e relazioni particolari, legate al mix culturale che oggi sembra l'eccezione, ma che in altri tempi era la regola. Famiglie dove normalmente si parlano due o tre lingue, figli bilingui o trilingui con percorsi educativi segmentati e spesso insoddisfacenti dal punto di vista affettivo, nuclei ricchi di altro, ma privi di una stabilità di cui bambini e adolescenti hanno bisogno per strutturare e sviluppare su basi solide la propria identità di persone e di parlanti. Per loro il rapporto tra l'identità e il linguaggio assume dimensioni non trascurabili, soprattutto perché si trovano ad affrontare situazioni di mobilità ripetuta e non priva di disagi. Una volta costruite le basi per la costruzione di una storia familiare propria, spostarsi non è stato facile nemmeno per i diplomatici di più antica tradizione familiare. 3. Le Scuole Europee di Bruxelles E' così che, nel cuore dell'Europa, si è pensato di dare loro un incentivo alla mobilità che non fosse solo di carattere economico salariale, ma che tendesse proprio alla risoluzione pratica di un problema: quale educazione per la prole europeista? Quale sistema di riferimento per allievi privi di riferimenti stabili, certi, continui e durevoli? Ecco, dunque, nel 1953, nascere la prima Scuola Europea nello Stato di Lussemburgo, il primo di una serie di istituti che apriranno nel tempo per intercettare e rispondere a questo bisogno e che costituiranno una vera e propria minirete dell''istruzione internazionale. Diverse dalle Scuole Internazionali e dalle scuole di paesi presenti sul suolo di altri stati, le Scuole Europee, ad oggi 15 tra quelle di tipo I e quelle di tipo II e III, si ispirano a un modello europeista più tendente a valorizzare le differenze nell'omogeneità dell'offerta formativa rispetto al modello americano più teso all'omologazione filo-occidentalista. Tutti gli altri tipi di scuole sono legate agli istituti di cultura nazionali di origine e fanno capo, di concerto, ai rispettivi ministeri dell'educazione e degli esteri. Di fatto, costituiscono il riferimento educativo delle famiglie che, dal loro paese, sono migrate in un altro, ma che desiderano mantenere nelle generazioni un legame con la tradizione culturale da cui provengono. Questa rete di scuole classificata sotto la denominazione di Scuole Europee di Bruxelles nasce, in primo luogo, per tutelare la differenza linguistica, dunque per garantire un insegnamento nella lingua madre degli allievi iscritti, armonizzando i programmi scolastici in modo che gli stessi contenuti siano affrontati parallelamente in tutte le sezioni linguistiche differenti. E' dall'analisi della struttura pedagogica e amministrativa, passando per programmi didattici, curricoli e materiali in adozione, ma anche per regolamenti inerenti la politica delle iscrizioni e il reclutamento del personale docente e educativo, che si evincono punti di forza e di debolezza rispetto agli obiettivi dichiarati nella Convenzione recante statuto delle Scuole Europee che ne sta a fondamento 4. Teoria, strumenti e metodi Per quanto riguarda la teoria, gli strumenti e i metodi adottati in questa ricerca, i punti di riferimento dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesi-membri dell'Unione Europea sono gli stessi ai quali sono stati ancorati gli strumenti pensati per osservare le Scuole Europee di Bruxelles: parametri di carattere pedagogico e normativo utilizzati nelle statistiche degli osservatori educativi internazionali, infatti, vengono analizzati e posti in relazione alle teorie di pensatori come il francese Durkheim de L'éducation morale, Education et Sociologie, L'évolution pédagogique en France, De la division du travail social, come l'americano Dewey di Le fonti di una scienza dell'educazione, The school&Society, Democracy and Education, come il belga Decroly di Le programme d'une école dans la vie o come Kymlicka de La cittadinanza multiculturale: autori ed opere selezionati secondo un criterio tematico piuttosto che monografico. D'altro canto ne vengono analizzate le specifiche e gli obiettivi raggiunti anche attraverso l'analisi secondaria dei dati ufficiali del Segretariato Generale delle Scuole Europee, del Sistema Statistico Europeo, Eurostat, Istat, dei rapporti Ocse e del Consiglio d'Europa, dei dati Eurydice nonché degli osservatori nazionali sull'internazionalizzazione della scuola e sull'intercultura. L'attenzione ai dati si integra e completa con la raccolta di interviste biografiche nel convincimento che il metodo quali-quantitativo sia il più adeguato alla costruzione di un quadro il più esaustivo possibile, ma anche per sopperire alle limitazioni di cui ha sofferto la rilevazione delle informazioni nel corso della ricerca sul campo. 5. Analisi dei sistemi educativi nazionali dell'Unione Europea L'intento comparativo della ricerca, tenendo fisso lo scopo della maturazione della cittadinanza europea, si fonda su un secondo cardine, quello dell'analisi dei sistemi educativi nazionali dei paesimembri dell'Ue nei loro aspetti amministrativi e didattici e si concentra in particolare sui contenuti, sulla misura e sugli strumenti delle discipline umanistiche previste nei curricoli con attenzione alle lingue straniere. In questo quadro, emerge un margine di flessibilità curricolare che costituisce, come nel caso delle Scuole Europee, un'apertura positiva verso il migliore raggiungimento del risultato, anche se, ad oggi, l'attenzione a spostare l'asse educativo verso l'acquisizione di competenze di cittadinanza sovranazionale è ancora carente. Si tende più facilmente, infatti, a risolvere il problema mediante l'aggiunta di materie di contenuto civico ad ambiti disciplinari che le comprendano anche dal punto di vista di una valutazione globale di area e comunque ancorate ai paradigmi ordinamentali nazionali. Si tratta di una soluzione di compromesso nata dalle tensioni conseguenti all'adozione del metodo intergovernativo che genera frizioni, competizioni e attitudini di chiusura tra stati costantemente sulla difensiva e poco disposti a porre in discussione il proprio canone culturale di riferimento. Poiché l'aspetto più interessante ai fini di questa ricerca è l'accessibilità a un sistema educativo europeizzante e inclusivo, perché tutti gli allievi possano tramite i suoi curricoli diventare futuri cittadini europei, pare opportuno considerare con maggiore attenzione la fascia della scuola dell'obbligo, le diverse tipologie di indirizzi nella scuola secondaria compresi nell'obbligatorietà e le fonti di finanziamento pubblico anche nel caso degli stati in cui la scuola di riferimento è quella privata. 6. Politica e educazione nell'Unione Europea Nel corso dello studio di questa tematica, la forbice filosofica tra le società della conoscenza così come viene delineata nel Trattato di Lisbona e la società della cittadinanza europea rappresenta lo stesso gap che esiste oggi tra l'Europa finanziaria e l'Europa sociale. E' per questo che viene offerta altresì una panoramica della storia politica europea, dei cambiamenti che nel quadro educativo hanno prodotto gli avvicendamenti delle maggioranze e dei punti di vista che si sono confrontati nei dibattiti interni alla Commissione, al Parlamento Europeo e all'organizzazione internazionale cui inizialmente era stato affidato lo sviluppo di un dibattito che favorisse l'integrazione delle culture dei paesi d'Europa e non solo, il Consiglio d'Europa. Lo sviluppo delle azioni e dei programmi successivi debitamente sostenuti è stato anche il risultato di un'elaborazione condivisa che ha condotto al consolidamento del ricorso alla mobilità, dello scambio e delle buone pratiche non solo al livello di utenza, ma al livello di comunità scolastica, dove cioè anche la formazione dei docenti e dei dirigenti ha il suo ruolo. E' un cammino di datazione trentennale dal quale la riflessione sullo sviluppo della scuola europea per tutti non può prescindere nonostante l'esigenza di fondarsi su basi più stabili e radicate sia ormai alle porte non solo per restare in vetta alla classifica del mercato mondiale, ma soprattutto perché le opportunità offerte dal mercato comune, dall'internazionalizzazione dei percorsi personali e professionali sia ampliata trasversalmente a tutte le classi sociali e non limitata alle esclusive capacità economiche di una borghesia medio-alta. L'anno europeo delle lingue, come ogni altra iniziativa legata alla diffusione delle L2 e L3, ha rappresentato un'occasione storica in tal senso e costituisce la premessa di un potenziamento del monte ore delle lingue nei curricoli nazionali anche in corso di riforma nonché di una definitiva, articolata e diffusa applicazione del clil-teaching, ossia dell'insegnamento di discipline non linguistiche in una L2 veicolare, nelle scuole di ogni ordine e grado con particolare attenzione al segmento dell'obbligo. 7. Una scuola europea inclusiva per i cittadini europei di domani In questo senso la strada da percorrere è lunga e necessita di svariati interventi di diversa natura. Una proposta curricolare di facile adozione e adattabilità ai patrimoni culturali nazionali dell'Europa a 27 viene avanzata e sottoposta all'attenzione degli ipotetici decisori politici nonostante resti aperto un problema di metodi mutuati dalla storia della diplomazia del continente e di competenze determinate da scelte politiche. In questo quadro, un progresso significativo si è concretizzato con la nascita e con l'ampliamento degli uffici della Direzione Generale Istruzione e Cultura della Commissione Europea che rappresenta in qualche modo le istanze discusse e dibattute in altri luoghi di elaborazione privi di forza istituzionale. Il cammino verso un sistema educativo internazionale è aperto e l'obiettivo della cittadinanza europea come risultato dell'unità nella diversità sempre più vicino.
Le relazioni tra gli Stati Uniti d'America e la Repubblica Islamica dell'Iran hanno infiammato la scena della politica internazionale degli ultimi anni. Sono ancora fresche le parole dichiarate dal presidente Bush nel 2002 che includeva l'Iran nel famigerato "Asse del male", mentre il Dipartimento di Stato americano classifica lo stato dell'Iran al primo posto nella lista dei paesi sostenitori del terrorismo a partire dai primi anni ottanta del XX secolo1. A dieci mila chilometri di distanza da Washington, a Teheran, città in cui i poster dell'ayatollah Khomeini si trovano ad ogni angolo di strada, echeggia ancora l'attacco del leader spirituale della rivoluzione che definiva gli USA come il "Grande Satana, il nemico numero uno dei popoli oppressi, che succhia il sangue dei popoli indifesi". E mentre i media occidentali da qualche anno considerano probabile l'ipotesi della preparazione di un piano di attacco militare americano nei confronti dell'Iran come reazione al suo programma nucleare, niente meno che davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente iraniano Ahmedinejad tuonava nel 2012 dichiarando al mondo che "nessuno può farci prediche sul nucleare"2. Indubbiamente si tratta di un antagonismo tra due stati che hanno un enorme peso politico ed economico nell'arena mondiale. Degli Stati Uniti d'America e del suo ruolo di superpotenza globale ormai si conosce quasi tutto. Nei giorni nostri gli USA si trovano in una situazione politica ed economica che, di fatto, garantisce a loro il ruolo di assoluta superpotenza mondiale. Tale posizione risulta rafforzata negli ultimi anni, e viene giustificata da molti fattori, tra i quali la posizione di paese vittorioso nelle due guerre mondiali, il ruolo di leader del blocco occidentale durante la Guerra Fredda, l'espansione dopo la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS con successiva sparizione della ex- superpotenza in contrasto costante con gli USA. Per capire il peso e l'importanza degli Stati Uniti d'America, basterebbe prendere in considerazione due dati; quelli economici e militari. L'economia degli USA si considera la più grande economia statale del pianeta in termini di Prodotto Interno Lordo (PIL). Il PIL degli Stati Uniti nel gennaio del 2014 era pari a 15.684,80 miliardi di dollari americani, rappresentando così più di un quarto dell'intera economia globale, (esattamente il 25.30 percento3) pari a circa la somma totale del PIL combinato di tutti i paesi dell'Unione Europea. Mentre il budget americano dedicato alle spese militari nel 2013 era pari a 612,50 miliardi di dollari, considerato un budget tanto grande quanto l'intera somma delle spese militari affrontata da tutti gli altri stati del mondo messi insieme4. Il peso politico degli USA si riflette anche nel ruolo determinante che svolgono all'interno delle istituzioni internazionali. Forti del loro status di superpotenza, gli USA svolgono il ruolo di leader nell'Organizzazione delle Nazioni Unite, in qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Hanno una stimata posizione all'interno dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OSCE), sono il principale contribuente della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale5, e partecipano in tantissime altre organizzazioni internazionali. Nella loro politica estera storicamente gli Stati Uniti guidano il blocco dei paesi occidentali, hanno come alleati i più importanti stati dell'Europa, avendo una relazione speciale con la Gran Bretagna, ma l'influenza americana si sente in tutto il globo, inclusi i paesi in via di sviluppo. La leadership statunitense viene difesa e alimentata dall'incredibile potenza militare. Gli USA guidano attualmente l'alleanza nordatlantica dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) ed hanno una presenza militare in quasi tutte le parti del globo. La loro capacità militare è stata continuamente dimostrata in vari conflitti globali, tra i quali l'intervento nell'ex - Yugoslavia, le guerre contro Saddam in Iraq e il recente conflitto in Afganistan. Dall'altro lato, anche l'Iran si profila come uno stato molto importante, ma che si trova in una situazione del tutto diversa. Si tratta indubbiamente di un paese con una storia antica e gloriosa, ma che nei giorni nostri si colloca in una posizione internazionale alquanto difficile e isolata. L'Iran possiede grandi risorse energetiche di petrolio e di gas, risorse che lo mettono al centro d'interessi economici globali, anche in considerazione del fatto che l'Iran è uno degli stati membri dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC). Tuttavia queste risorse energetiche, che hanno contribuito per anni al mantenimento dell'economia interna, sono la fonte quasi esclusiva di entrate per l'economia del paese, la quale non è stata mai in grado di svilupparsi adeguatamente anche in settori alternativi. L'Iran è un paese con alcune particolarità, un paese che fa parte del Medio Oriente ma che da questo differisce in quanto persiano e non arabo; islamico sì, ma non sunnita come la maggioranza dei mussulmani, ma bensì sciita; legato alla civiltà occidentale ma comunque orgoglioso della propria cultura. Come afferma Riccardo Redaelli; "L'Iran è sempre imprevedibile. In positivo e in negativo, si tratta di un paese e di un popolo che hanno la capacità di stupire storici, analisti e semplici appassionati di quella cultura"6. La sua posizione politica di peso in Medio Oriente è riconosciuta da tutti, anche in considerazione del fatto che è l'unico paese nel Golfo Persico in cui domina l'islam sciita, esercitando così una influenza notevole su quasi un quarto della popolazione musulmana. Dalla rivoluzione islamica del 1979 ad oggi, l'Iran si trova in una posizione di estremo antagonismo politico con gli USA e in rapporti difficili non solo con l'Europa e l'Occidente, ma anche con gli stessi paesi arabi limitrofi. L'Iran ha combattuto una guerra lunga e sanguinosa con l'Iraq, ha rapporti tesi con l'Arabia Saudita, e sicuramente viene considerata una serie minaccia da parte di Israele. Tuttavia in politica estera il paese ha cercato di trovare partner alternativi, stringendo nuove relazioni con Russia, la Cina, la Turchia e l'India. L'Iran ha discreti rapporti economici con alcuni paesi dell'Unione Europea, soprattutto con Italia e Germania. Nonostante questo, in precedenza gli USA e l'Iran per molti anni hanno avuto delle ottime relazioni politiche. Prima della rivoluzione islamica del 1979 l'Iran era considerato uno dei migliori alleati degli USA uno dei pilastri della politica americana in Medio Oriente, al quale erano riservati ingenti e continui aiuti economici e forniture militari da parte di Washington. Durante il regno dell'ultimo Scià della dinastia Pahlavi, Mohammad Reza, a Washington e Teheran atterravano aerei presidenziali con a bordo i leader dei due paesi. Dal 1979, invece, le relazioni diplomatiche si sono del tutto interrotte e la politica tra i due paesi è diventata infuocata. Lo scopo di questa tesi, è quello di riuscire a sintetizzare un'analisi completa dei rapporti tra USA e Iran, attraverso uno studio storico e politico delle situazioni che si sono verificate sopratutto dalla seconda metà del XX secolo, sino ai giorni nostri. Naturalmente, una tale analisi non può concentrarsi esclusivamente sui meri rapporti bilaterali tra questi Stati, ma deve includere nelle sue considerazioni anche l'esame dettagliato di altri fattori rilevanti e complementari. Tra questi fattori si possono annoverare lo sviluppo della politica estera americana nel globo ed in particolare nel Medio Oriente, il rapporto dei due paesi con gli stati arabi e le altre "potenze" del mondo, il fattore Israele, il peso economico del petrolio e le risorse energetiche dell'Iran nel mercato globale nonché aspetti legati alla religione e alle differenze culturali.
Il senso dell'identità personale è forse il prodotto sociale più significativo del processo di modernizzazione/secolarizzazione che ha investito la società occidentale almeno a partire dal XV secolo. Il Soggetto moderno ha conosciuto più di un momento di crisi. Due di questi sembrano particolarmente cruciali: il primo, nel periodo di passaggio dal XIX secolo al XX, il secondo nel passaggio dal secondo al terzo millennio. La prima di queste crisi si verifica ad inizio Novecento; la seconda al volgere del millennio – quest'ultima con un significativo anticipo verso la fine degli anni Sessanta del XX secolo. Questi momenti di "catastrofe" del Soggetto sono in relazione a fasi in cui si agglutinano e precipitano gli effetti del mutamento sociale, negli ultimi cento anni grazie anche agli sviluppi e alle trasformazioni nelle tecnologie della comunicazione, e in cui si incrina la coerenza fra i sistemi di senso affermati socialmente e i significati percepiti individualmente; di questo ne danno prova e sintomo le produzioni estetiche, oltre che quelle critiche. Ci siamo rivolti alle une e alle altre per provare a tracciare una mappa del percorso del Soggetto, facendo particolarmente attenzione al ruolo che le tecnologie della comunicazione hanno avuto e continuano ad avere. In questa prospettiva gli anni a cavallo fra XIX e XX secolo sono stati il periodo in cui il romanzo come forma elettiva della narrazione moderna del Sé ha raggiunto i suoi apici e si è avviato verso al sua dissoluzione. Mettendo fra parentesi opere capitali come l'Ulisse di James Joyce o la Recherche di Marcel Proust è stata la cultura di lingua tedesca a produrre la maggiore quantità di opere significative. Opere che mettono – tutte, probabilmente per una serie di condizioni "privilegiate" – al centro la profonda crisi vissuta dalla società e dall'individuo dell'epoca. Alcuni scrittori, come Franz Werfel o Stefan Zweig, hanno scritto del crollo di un sistema politico e dell'intero universo simbolico di cui questo faceva parte. Altri, come Thomas Mann, Robert Musil, Hermann Broch, Franz Kafka, Robert Walser, si sono interrogati attraverso i personaggi messi in scena direttamente del destino dell'individuo loro contemporaneo. Di seguito, Elias Canetti, Gottfried Benn hanno esplorato percorsi che conducono ad esiti di incomunicabilità e di annullamento del Soggetto come approdo estremo della crisi del Sé moderno. La dissoluzione del romanzo borghese come forma specifica di espressione del Soggetto moderno – che riflette la crisi di questo – lascia il posto ed è generata dall'affermarsi di altri formati comunicativi, in particolare quelli audiovisivi: cinema, radio, fumetto, ma prima di tutto il cinema, poi quelli in cui si esprime la dimensione della serialità, anche se naturalmente la forma romanzo non sparisce. È in queste dimensioni, in parte "nuove", in parte rimediazioni di quelle classiche, che ritroviamo le riflessioni – più o meno consapevoli, esplicite – sulla condizione del Sé nel contemporaneo, un periodo che parte dagli anni immediatamente successivi alla II guerra mondiale per spingersi fino ad oggi. Abbiamo provato a trovare nella narrativa contemporanea di lingua tedesca, in autori come Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch, nei romanzi della science fiction di Philip K. Dick e James G. Ballard e ancora, nella narrativa postmoderna di David Foster Wallace e in alcune pellicole la conferma dei possibili parallelismi, delle eventuali analogie nella percezione dell'identità e della sua relazione con la realtà sociale circostante fra i due periodi – o, in alternativa, eventuali differenze. Oggi, come all'inizio del XX secolo, si sommano per alcuni di noi, i nati dopo la II guerra mondiale, due accelerazioni del tempo, quella sociale e quella personale, che si traducono però in una compressione dello stesso, e quindi nel rischio di percepire una stasi assoluta, cieca. Una palude temporale stagnante, sterile, terminale. Perso – insieme alle "grandi narrazioni" della tradizione sopravvissuta (la religione) e dell'utopia modernista (la rivoluzione, il progresso), se vogliamo proprio offrirci una sponda al malessere che viviamo – il senso del "vivere in prospettiva", privi di direzione, percepiamo una crisi radicale, insanabile. Ci rendiamo conto che questa condizione è – anche – il riflesso di una perdita, quella della prospettiva di un mondo più egualitario, "giusto", "libero". Che la propria "visione del mondo" provenga da una prospettiva religiosa o laica, liberale o marxista, si percepisce comunque il fallimento delle promesse implicite nelle "grandi narrazioni". Dal modello dell'uomo nato dall'Umanesimo, Amleto, al campione della tarda modernità descritto in tanti romanzi e film, intravediamo un unico filo di un lungo crepuscolo, ormai diventato tramonto, che marca il fallimento dell'illusione della libertà e della potenza dei moderni, sul piano individuale quanto su quello collettivo. Umanesimo, illuminismo, liberalismo, marxismo come forme di emancipazione collettiva ed individuale si ribaltano e si abbattono sulla considerazione di sé dei rappresentanti delle élite intellettuali, inermi e rassegnati di fronte al disastro delle loro aspettative e illusioni. Possiamo considerare questo aspetto come un'ulteriore articolazione del senso di alienazione che provano gli intellettuali, anche in questo separati da un ruolo che hanno sentito a lungo come proprio: l'impossibilità ad agire nei confronti della sofferenza, del dolore, dell'ingiustizia – di cui il proprio disagio esistenziale è una declinazione, forse anche imbarazzante di fronte all'abisso dell'oppressione, dello sfruttamento, della schiavitù. L'essenza della condizione umana rimanda comunque alla parabola del soggetto moderno e ai suoi esiti terminali, così come sono stati espressi attraverso la saggistica e la letteratura del Novecento, di cui noi abbiamo preso a prestito alcuni protagonisti come idealtipi, come casi paragonabili a individui reali da interrogare sulla propria vita, sulla curva discendente percorsa dal soggetto moderno, sulla sua caduta. Assistiamo quindi a come il senso di questa caduta si rappresenta nella consapevolezza di coloro che la descrivono attraverso i personaggi che mettono sulla scena dei loro romanzi e dei loro film. Sfumato l'orizzonte del sacro, partecipando della condizione del dolore e dello sterminio che sembra di tutto l'umano, rimane ben poco cui far riferimento, cui ancorarsi. Di qui la possibile tentazione di "sparire a se stessi", di risolvere l'enigma della morte con un rilancio sulla posta in gioco, attraverso la trasformazione in qualcos'altro. Da qui, forse, arrivati al traguardo di un pressoché completo di dissipazione dell'individualità e di "disincantamento del mondo", sembra di leggere gli indizi di un suo "reincanto": attraverso le declinazioni triviali, superficiali, certo, delle varie articolazioni della galassia New Age, o la dimensione decisamente più profonda delle interazioni con il mondo digitale, la Rete e gli universi sintetici che questi alimentano e propongono; ma, ancor di più, attraverso il ritorno del tutto laicizzato, "disincantato", all'uso di categorie arcaiche, primordiali, come il caso, il destino, la necessità, ma rese impersonali, astratte, aliene, per spiegarsi e giustificare gli eventi percepiti come significativi nelle biografie individuali. Forze cieche, prive di intenzioni e di scopo – e per questo a maggior ragione incontrollabili, imprevedibili, fatali. Ma utili a imbastire una plausibile, forse rassicurante, "narrazione del Sé" che ridia "senso" a posteriori agli eventi di cui è stata costellata la nostra vicenda personale e allontanino l'incombere della morte, che rimane comunque inesorabile sullo sfondo della nostra consapevolezza, irriducibile, indecifrabile, eterna.
2007/2008 ; La vita in Europa è diventata con ogni anno che passa più florida, più soddisfacente e pacifica grazie ad un forte impegno degli stati europei e grazie alla creazione di un'entità politica ed economica unica al mondo: L'Unione Europea. La creazione di un mercato unico, di una moneta unica, di una cittadinanza e di un'identità europea, di una strategia comune contribuiscono al raggiungimento degli obbiettivi comuni come quello di far diventare UE l'economia più competitiva al mondo ed un levato benessere dei suoi cittadini . Un contesto multiculturale, in cui la diversità e le lingue rappresentano un nostro vantaggio, mentre le nostre vite vengono guidate dai principi importanti come ad esempio l'uguaglianza tra le persone a prescindere dalla razza, etnia, genere, religione oppure orientamento sessuale. L'Europa di oggi è per tutti noi sinonimo di cooperazione, democrazia, rispetto dei diritti, modernizzazione e prosperità. L'appartenenza all'Unione Europea significa automaticamente la libera scelta di condividere valori e principi comuni, mentre l'istituzione di una cittadinanza europea ha messo la persona al centro delle azioni comunitarie. L'identità europea, anche se ancora un concetto ambiguo, si rivela assolutamente indispensabile per incrementare la legittimità ed il buon funzionamento dell'Unione Europea. Oltre la stabilità politica, economica e militare, l'UE deve ai suoi cittadini una vita dignitosa in cui la libertà, solidarietà, giustizia ed eguaglianza sono principi validi ed attivi. Nel contesto di un quadro legislativo che promuoveva la non-discriminazione e l'eguaglianza , l'adozione della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea ha creato per tutti i cittadini europei la garanzia di un insieme di diritti e libertà fondamentali . Viene naturale a pensare che di questi diritti usufruiscono indistintamente tutti coloro che risiedono sul territorio dell'Unione Europea. Tuttavia, circa dieci milioni di persone per di più cittadini europei, vengono ogni giorno privati di questi diritti, vittime della discriminazione, dell'indifferenza e della più estrema povertà. Il numero elevato potrebbe far pensare che si tratta della popolazione di un intero stato membro come Austria, Bulgaria, Portogallo, Belgio oppure la Svezia. In realtà si tratta della più grande minoranza europea: i rom. Oggi chiamati rom, nel passato conosciuti come zingari, un popolo con una storia triste e difficile, vittime sempre di qualche ingiustizia: esclusione, isolamento e diffidenza dopo l'arrivo in Europa dal nono al quindicesimo secolo; schiavitù per centinaia di anni nel medio evo; deportati o sterminati durante la Seconda Guerra Mondiale; vittime dell'assimilazione forzata nel periodo socialista; in preda alla disperazione, alla discriminazione e alla povertà al giorno d'oggi. Non appartengono a nessuno stato e non hanno mai rivendicato niente, nessuna pretesa territoriale o di altro genere. Contenti di vivere nelle loro comunità, senza mischiarsi con gli altri, in armonia e serenità con le popolazioni che li ospitano. Con gli ultimi allargamenti, l'Unione Europea ha aperto le frontiere a più di 100 milioni di persone tra cui circa otto milioni di etnia rom. L'attribuzione del recente concetto di una "vera minoranza europea" riflette sia il carattere transnazionale sia il suo ruolo importante nel processo d'integrazione nell'Europa dell'Est. C'è uno stretto rapporto tra il processo di allargamento, d'integrazione nell'Unione Europea e le politiche per le minoranze. Anche se lo status di paese candidato oppure membro, è condizionato dall'adozione delle politiche e norme legislative verso la minoranza rom, in pratica poco è stato fatto per un concreto miglioramento delle condizioni di vita dei rom. Il profondo incremento della povertà dei rom nel periodo post-socialista nei paesi est e centro europei, ha portato all'interno dell'Unione tutti i problemi che esso comporta. Dispersi in tutta l'Europa, i rom non hanno un paese di origine e non sono nemmeno mobilizzati dal punto di vista politico ciò che li rende assolutamente dipendenti dalle politiche statali. I rom si trovano in un circolo vizioso dovuto alla interconnessione delle varie difficoltà che si può sintetizzare come segue: povertà – discriminazione - scarsa preparazione scolastica e professionale - povertà. Sono vittime della discriminazione in tutti i settori: istruzione, lavoro, abitazioni, giustizia, salute, mentre la popolazione maggioritaria manifesta nei loro confronti un atteggiamento di esclusione ed allontanamento come conseguenza dei vari pregiudizi. Accusano frequentemente il fatto di essere stigmatizzati e le loro tradizioni, costumi e caratteristiche culturali non vengono riconosciute. La discriminazione nell'ambito dell'istruzione e dell'occupazione è la causa principale della situazione precaria delle comunità rom e del vicolo cieco da cui non riescono ad uscire. Gli elementi responsabili delle difficoltà riscontrate della minoranza rom sono intercollegate ed interdipendenti , generando cosi l'impossibilità di integrarsi senza un impegno esterno congiunto tra le varie autorità. La questione rom, soprattutto nel contesto della nuova configurazione dell'UE, è diventata un problema europeo se non uno dei problemi più gravi dell'Unione Europea a livello sociale. Già dal 1993 l'argomento è stato formalmente individuato come europeo tramite la Risoluzione 1203 del Consiglio dell'Europa che ha dichiarato la popolazione rom una "vera minoranza europea". Gli standard di vita dei rom sonno diventati un segnale d'allarme dal punto di vista umanitario ed hanno sollevato preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani. In aggiunta all'aspetto morale ed umanitario, le difficoltà delle comunità rom generano problematiche a livello sociale ed economico. Pertanto la questione deve interessare sia gli stati nazionali, membri e candidati, sia l'Unione Europea nel suo intero in quanto la disoccupazione e la povertà a lungo termine, nel futuro metterà a repentaglio la competitività. Inoltre nei paesi dove i rom costituiscono popolazioni considerevoli ed in continua crescita, la loro emarginazione ed esclusione minaccerà la stabilità e la coesione sociale . La presente tesi propone due ipotesi riguardo all'argomento trattato: Il problema rom, nell'attuale contesto dell'Unione Europea allargata e beneficiaria dei vantaggi della libera circolazione, è diventato un problema transfrontaliero, lo spostamento dei rom da un paese ad altro alla ricerca di una vita migliore generando seri problemi sia per le stesse comunità rom sia per i paesi ospitanti. Di conseguenza, la questione oltrepassa il livello nazionale presentandosi con un'evidente dimensione europea, richiedendo un approccio diverso da parte dell'Unione Europea che dovrebbe avere un ruolo attivo con delle azioni pratiche, in sostanza un ruolo che va oltre il coordinamento e le raccomandazioni. data la complessità del problema e la profonda diversità tra i rom e le popolazioni maggioritarie ma allo stesso tempo anche tra le varie comunità rom, si rivela un'incompatibilità tra queste due società; questa incompatibilità, generata dalla diversità e dalla presenza delle problematiche specifiche , porta a vari difficoltà come la discriminazione, razzismo, scarse opportunità, povertà. Si sostiene quindi la necessità prima di tutto di un intervento di natura educativo, rivolto ugualmente agli individui rom che ai non rom. L'approccio deve essere vincolante quasi coercitivo previsto dalla legge in tale maniera da imporre la frequentazione della scuola ai bambini rom, limitando le loro tradizioni quando si tratta di violazioni della legislazione in vigore . Dall'altra parte le autorità e le istituzioni – media compresi – devono sensibilizzare la popolazione non rom fornendo un'immagine reale della situazione di questa minoranza e fornendo un tipo di educazione civica che promuove principi come l'eguaglianza, la non discriminazione e la solidarietà. La situazione della minoranza rom è un argomento complicato, complesso ed allo stesso tempo molto controverso. Per poter offrire delle soluzioni e delle raccomandazioni, si deve innanzitutto comprendere ed analizzare. In questo senso, la presente tesi ha fissato una serie di obiettivi elencati di seguito: I rom si devono conoscere. Chi sono i rom, da dove vengono, quali sono le loro tradizioni, che tipo di vita conducono, quali sono le loro condizioni di vita sono domande a cui tanti di noi non sanno rispondere. Abbiamo un'immagine in cui prevalgono gli stereotipi ed i pregiudizi. La distanza sociale imposta dalle popolazioni maggioritarie è indiscutibilmente collegata anche ad una paura di fronte a queste comunità in pratica ignote. Quindi, in queste circostanze, un quadro descrittivo dei rom e delle loro problematiche risulta assolutamente indispensabile. Si intende di presentare sia un quadro della storia dei rom, sia una descrizione delle loro tradizioni insistendo però sulle attuali condizioni di vita delle comunità rom residenti nei paesi membri. La questione rom ha superato i confini nazionali. I problemi dei singoli paesi membri sono oggi affrontati a livello comunitario in virtù di una politica comune basata sull'unità e sulla solidarietà. Sia per la gravità della situazione, sia per le sue elevate dimensioni, la questione è diventata una vicenda europea. Dunque si intendono individuare gli aspetti e le conseguenze transfrontaliere dell'argomento focalizzando una significante attenzione sulle responsabilità ai vari livelli. Gli impegni non mancano. È importante avere un quadro completo delle iniziative e degli impegni che sono stati fatti, principalmente per poter identificare che cosa delle misure prese non ha funzionato, oppure cosa ha funzionato meglio. Di conseguenza, per i motivi suindicati, ma anche per facilitare la formulazione delle raccomandazioni conclusive, si intende provvedere ad una comprensiva presentazione degli impegni dei governi nazionali, dell'Unione Europea, delle organizzazioni internazionali, organizzazioni non governative e delle stesse comunità rom. È inoltre necessaria un'analisi storica delle politiche destinate ai rom durante la storia. Sono state adottate delle leggi. Dunque si desidera fornire una panoramica sulla legislazione in vigore in modo da diffondere i diritti umani e delle minoranze, ed allo stesso tempo i doveri delle autorità. Un piccolo contributo alla raccolta dei dati. Uno degli ostacoli più gravi nella gestione della problematica rom è costituito dalla mancanza dei dati. Pertanto uno degli obiettivi principali della tesi è di fornire più informazioni possibili sulla questione in modo da poter facilitare le future ricerche nel campo. I rom sono vittime dei pregiudizi e degli stereotipi. Si elaborerà una ricerca che intende da una parte identificare i pregiudizi e gli stereotipi che la popolazione maggioritaria associa più frequentemente ai rom, e da un'altra parte identificare la presenza degli atteggiamenti discriminatori. Un altro obiettivo è di analizzare le particolarità delle comunità rom oppure delle loro problematiche nei principali paesi europei dove risiedono importanti popolazioni di quest'etnia. La minoranza rom è stata dichiarata in assoluto la più povera e vulnerabile dell'Europa. Le problematiche collegate all'etnia rom sono le più svariate e per di più interconnesse tra di loro. Sebbene tradizionalmente e storicamente una delle popolazioni più povere dell'Europa, l'ulteriore collasso della qualità della vita dei rom ha portato ad una situazione insostenibile senza precedente. Dopo la caduta dei regimi socialisti, le condizioni di vita dei rom sono peggiorate in modo allarmante ed i loro diritti sono stati sempre più spesso violati attirando l'attenzione della comunità internazionale ed europea. La povertà dei rom, paragonabile alle comunità del terzo mondo, è strettamente correlata con altre difficoltà che loro affrontano: le lacune in materia di istruzione, la disoccupazione, mancanza di abitazioni ed assistenza sanitaria. I rom hanno un limitato accesso al mercato di lavoro dovuto principalmente ad una scarsa preparazione e poi anche all'isolamento geografico ed alla discriminazione. I bassi livelli di istruzione sono da una parte anche loro dovuti ad un elevato livello di discriminazione nelle scuole e di negazione della loro cultura ed identità. Da un'altra parte, lo scarso accesso ai servizi pubblici, l'emarginazione geografica e l'impossibilità di sostenere le spese scolastiche influiscono altrettanto negativamente l'istruzione dei rom. Il circolo vizioso in cui i rom si trovano intrappolati inizia con la povertà e discriminazione, continua con la scarsa istruzione, la disoccupazione chiudendosi sempre e sfortunatamente con povertà e discriminazione. È ovvio che le comunità rom devono affrontare un complesso processo di modernizzazione attraverso un cambiamento culturale e con l'utilizzo indispensabile degli strumenti come l'istruzione e la formazione professionale. L'emancipazione delle comunità rom deve inoltre garantire ai bambini un'istruzione di qualità ed alle donne l'indipendenza economica. L'intervento, pur coordinato ai livelli istituzionali, deve assolutamente coinvolgere i rappresentanti della minoranza rom senza i quali, il dialogo tramite i rom e i gadje, risulta impossibile. L'accesso all'istruzione ed alla formazione deve tradursi in un obbligo legale in modo che le generazioni rom future ma anche quelle di oggi possano beneficiare di un'educazione, formazione pari al resto delle popolazioni. Dall'altra estremità si trova l'atteggiamento discriminatorio delle popolazioni maggioritarie che ostacola in pratica ogni tentativo di integrazione dei rom al loro interno. In questa direzione sembra sia nata una "coalizione" tra i cittadini, i media e le autorità con lo scopo di segregare e mantenere in condizioni disumane i rom cioè milioni di persone diverse. Una "coalizione" del genere rende impossibile ogni progetto di inclusione dei rom. La colpa è sempre attribuita alla scarsa volontà e coinvolgimento della popolazione rom nel processo integrativo. In pratica, dato l'alto livello della discriminazione di cui sono vittime i membri delle comunità rom, l'integrazione fallirebbe pur avendo la certezza della buona volontà. Dovrebbe istaurarsi un processo di conciliazione mediato dalle autorità pubbliche in cui i lo scopo è di assumere i valori comuni e di educare i rom ed i non rom a come convivere in maniera armoniosa. La presenza degli stereotipi e dei pregiudizi nei mezzi di comunicazione di massa aumenta ingiustamente l'intolleranza e la discriminazione perciò dovrebbe essere regolamentata tramite un efficace intervento legislativo. Inoltre, la creazione dei corsi di educazione civica nelle scuole e delle campagne mediatiche risulta assolutamente necessaria per sensibilizzare i "gadje" sui diritti umani e delle minoranze, far conoscere le vere problematiche rom e generare un'educazione che promuova la tolleranza e l'uguaglianza. La diversità – valore centrale dell'identità europea - deve essere più di un concetto espresso a livello europeo. Deve essere vista per quello che è veramente: una fonte di ricchezza di cui possiamo beneficiare tutti al di là della razza, religione, appartenenza etnica o orientamento sessuale. L'integrazione dei rom deve prevedere una vera e propria convivenza tra questi e le società maggioritarie evitando completamente formule di tipo segregatorio. Il modello di vita europeo, basato sui nostri valori comuni, per poter essere assunto deve essere prima di tutto conosciuto quindi i rom devono essere ammessi nelle scuole, nelle classi con tutti gli altri bambini, negli ospedali nelle stanze insieme ai pazienti romeni, italiani, oppure slovacchi, devono lavorare negli ambienti lavorativi di tutti noi e devono condividere gli spazi per il tempo libero come tutti gli altri cittadini europei. Finche saranno isolati, esclusi continueranno a vivere in condizioni di estrema povertà guidati dai costumi inadeguati al giorno d'oggi. La difficoltà della problematica è generata proprio della convinzione di infallibilità di ogni parte – i rom ed i non rom – e di come far comprendere l'inattendibilità dei propri atteggiamenti. In una situazione in cui tutti pensano di avere ragione e tutti pensano di essere vittime, l'educazione è l'unica strada per una convivenza serena basata sui valori e principi comuni. ; XX Ciclo
Le relazioni tra cultura e rappresentazioni sociali sono state profondamente indagate dagli psicologi sociali. Al contrario, esistono rarissimi contributi, oltre quello della Larrue (1972), che considerano la cultura come oggetto di rappresentazione sociale. Parafrasando Abric (1998), in effetti, è possibile affermare che la cultura ha tutte le caratteristiche per essere un oggetto di rappresentazione sociale, in quanto è socialmente rilevante, costituisce materia di scambio sociale, non è isolata, ma si iscrive in una costellazione di relazioni con altri oggetti sociali e, infine, si riferisce a norme e a valori ad essa strettamente collegati. In questa tesi verranno presentate tre ricerche che fanno parte di ampio e articolato filone di ricerca, varato circa dieci anni fa e coordinato dalla Prof.ssa Ida Galli. I tre casi di studio si focalizzano sulla "cultura" come oggetto di rappresentazione sociale e sono stati condotti su tre tipologie di partecipanti, tramite l'ausilio di diversificate tecniche di rilevazione e analisi di dati. Il primo studio è stato svolto con un gruppo di partecipanti appartenenti ad alcune scuole primarie del Comune di Napoli. Da un punto di vista metodologico è stato utilizzato un questionario per le associazioni libere e l'analisi è stata svolta con la Tecnica delle evocazioni gerarchizzate. Lo scopo di questa ricerca era conoscere la rappresentazione sociale della Cultura di un campione di alunni appartenenti ad alcune scuole primarie del Comune di Napoli. I partecipanti sono stati reclutati con un campionamento di convenienza e divisi in due gruppi, sulla base della scuola di appartenenza. Un primo sottocampione era costituito da 70 partecipanti (32 di sesso femminile e 38 di sesso maschile), di età compresa tra i 9 e i 10 anni, provenienti da scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-basso, ubicate nei quartieri Stella e Avvocata della città di Napoli. Un secondo sottocampione era, invece, costituito da 91 partecipanti (45 di sesso femminile e 46 di sesso maschile), di età compresa tra gli 8 e i 10 anni, provenienti da scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-alto, ubicate nei quartieri del Vomero e di Chiaia della stessa città. Le differenze tra le due sottodimensioni relative al contesto socio-economico sono state individuate servendosi del set di indicatori messi a punto dall'Amministrazione Comunale per la stesura del "Profilo di comunità della città di Napoli" (Comune di Napoli, 2012). Nel secondo studio è stato coinvolto un gruppo di partecipanti appartenenti ad alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Napoli. Questa ricerca è stata portata avanti tramite l'impiego di due differenti metodologie. La prima è stata condotta tramite l'utilizzo di un questionario per le associazioni libere analizzato mediante la Tecnica delle evocazioni gerarchizzate. La seconda metodologia d'indagine prevedeva la Tecnica del disegno e l'analisi del contenuto (categoria-frequenza). Questa ricerca è divisa in due fasi. Nella prima fase dello studio, il campione è costituito da alunni appartenenti ad alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Napoli ed è diviso in due sottocampioni, selezionati in base alla scuola d'appartenenza. Per la sua costruzioni si è scelto di utilizzare un campionamento a scelta ragionata non-probabilistico. Un primo sottocampione era costituito da 95 soggetti (44 di sesso femminile e 51 di sesso maschile), di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, studenti di due scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-basso, ubicate nei quartieri di San Giuseppe e di San Lorenzo della città di Napoli. Un secondo sottocampione era costituito da 78 soggetti (34 di sesso femminile e 44 di sesso maschile), di età compresa tra gli 11 e i 12 anni, studenti di due scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-alto, ubicate nei quartieri del Vomero e di Chiaia della stessa città. La divisione del campione in due sottogruppi, appartenenti a scuole secondarie di primo grado (scuole medie) appartenenti ad un contesto socio-economico medio-basso e medio-alto, è stata fatta per indagare le differenti modalità di intendere la cultura a partire dalla variabile status. Nella seconda fase dello studio, il campione è formato da alunni appartenenti ad alcune scuole secondarie di primo grado del Comune di Napoli ed è diviso in due sottocampioni selezionati in base alla scuola d'appartenenza. Per la costruzione di questo campione si è scelto di utilizzare un campionamento è a scelta ragionata non-probabilistico. Un primo sottocampione era costituito da 90 soggetti (F. = 45 e M. = 45), di età compresa tra gli 11 e i 12 anni, scelti tra gli studenti di due scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-alto, ubicate nei quartieri del Vomero e di Chiaia. Un secondo sottocampione era, invece, costituito da 87 soggetti (F. = 46 e M. = 46), di età compresa tra gli 11 e i 13 anni, scelti tra gli studenti di due scuole appartenenti ad un contesto socio-economico medio-basso, ubicate nei quartieri di San Giuseppe e di San Lorenzo. La divisione del campione in due sottogruppi, appartenenti a scuole secondarie di primo grado (scuole medie inferiori) afferenti ad un contesto socio-economico medio-basso e medio-alto, è stata compiuta per indagare con la Tecnica del disegno, le differenti modalità di intendere la cultura a partire dalla variabile status (contesto socio-economico, c.s.e.). La terza ricerca è stata condotta su di un gruppo di studenti appartenenti all'Università degli Studi di Napoli "Federico II". In questa ricerca è stata utilizzata la Tecnica degli Stimoli Iconografici, una nuova tecnica di rilevazione di dati messa a punto dalla Prof.ssa Galli, che può essere considerata come l'evoluzione della sua precedente Tecnica degli Stimoli Prototipici. In uno studio preliminare, realizzato appositamente per la costruzione dello strumento di rilevazione qui utilizzato, è stato chiesto a 20 giudici indipendenti di fornire le 10 icone, a loro modo di vedere le più rappresentative della cultura. L'insieme delle 200 icone raccolte è stato categorizzato nelle 18 aree semantiche di seguito elencate: riferimenti ai libri, alle biblioteche e alla lettura (A); globalizzazione, mondializzazione e relazioni tra culture (B); teatro e diverse forme di spettacolo (C); web, rete e tutte le relazioni che ne scaturiscono (D); giornali e informazione a mezzo stampa (E); tradizioni popolari, feste di paese e manifestazioni folkloristiche (F); mass media, in particolare la televisione (G); pratiche di scrittura (H); musica (I); arti visive, in particolare la pittura (L); riferimenti alla religione (M); pratiche sportive (N); scienza e ricerca scientifica (O); identità nazionale e bandiera (P); politica e organismi di rappresentanza (Q); nuove tecnologie e computer (R); scuola e istruzione (S); cibo, in tutte le sue multiformi espressioni (T). Agli stessi giudici è stato chiesto di eliminare tutte le immagini polisemiche, duplicate o fortemente simili tra loro e, infine, di eleggere l'icona più rappresentativa per ciascuna delle 18 aree semantiche da essi stessi identificate. L'esito di tale selezione, effettuata a partire dall'accordo espresso da almeno l'80% dei giudici sulla medesima icona, è stato randomizzato e integrato in un questionario costruito ad hoc per questa ricerca e somministrato ad un campione di 620 studenti (età media 22.09, deviazione standard 2.67), bilanciati per genere e settore disciplinare di appartenenza. I risultati ottenuti, al contrario di quanto ci si attendeva, hanno mostrato una estrema coerenza nella struttura delle rappresentazioni studiate. Il nucleo centrale delle rappresentazioni prodotte dai sei sottocampioni di studenti intervistati, trae la propria origine e, dunque, la propria stabilità, dall'importanza del sapere contenuto e tramandato attraverso il libro scritto. Una tale sovrapponibilità e univocità dei prodotti rappresentazionali, spingerebbe addirittura a ricercare la natura di questi materiali sociali, nell'idea durkheimiana di rappresentazione collettiva: qualcosa di stabile, diffuso e immutabile, che sovrasta l'agire comunicativo dei suoi stessi produttori.
2009/2010 ; L'analisi della strategia e della geopolitica di Israele evidenzia, a dispetto delle ridotte dimensioni fisiche e demografiche, come lo Stato ebraico sia una potenza regionale con interessi globali, le cui politiche interne e di sicurezza hanno un impatto mondiale, quasi quelle di una superpotenza. Le ragioni di tale situazione si possono ricondurre essenzialmente a fattori geopolitici, la posizione geografica e le iconografie radicate nella civiltà e cultura ebraica nonché la storia e la geografia dei luoghi. L'ubicazione di Israele nella zona di convergenza dell'emisfero orientale, la storia millenaria del popolo ebraico, la presenza di una religione a vocazione monoteistica rivoluzionaria, l'esistenza di comunità diasporiche ebraiche nel mondo e l'esistenza di luoghi sacri delle principali religioni monoteistiche, nell'attuale territorio dello Stato israeliano, sono fra i fattori che danno luogo ad un modello unico di complessità geopolitica. In tale ambito, partendo dalla definizione di geopolitica quale studio delle relazioni internazionali da una prospettiva spaziale o geografica, in cui l'elemento caratterizzante la disciplina è l'approccio multifattoriale ed olistico nelle interazioni fra lo spazio, il territorio e la manifestazione del potere, in altri termini, l'influenza reciproca fra geografia e politica, considerando principio fondante la materia il fatto che il luogo, la geografia, assume un ruolo significativo nel determinare come gli Stati agiranno, con continuità nel tempo (nell'ambito della politica estera), si è potuto constatare come i fattori geografici condizionanti lo Stato di Israele continuino ad essere sempre gli stessi, la ridotta estensione territoriale, la possibilità di operare per linee interne, la particolare sensibilità ad egemoni regionali od imperi in fase espansiva, situati al di là dei suoi confini. Corollario e conseguenza della complessità geopolitica è la strategia militare, in cui gli elementi politico-militari ed operazionali si fondono insieme ai fattori condizionanti (di natura eminentemente geopolitica), per originare un approccio particolare e caratteristico ai problemi di sicurezza, legato alla mancanza di profondità strategica e tattica ed a risorse umani e materiali limitate. Le esigenze di sicurezza, prioritarie sin dalla formazione statuale contemporanea del 1948, hanno fortemente influenzato le modalità di nation building, andando a condizionare i rapporti di forza demografici con l'elemento arabo e la stessa presa di possesso del territorio e delle risorse idriche, fondamentali per la realizzazione della comunità ebraica in Palestina. In questa situazione, si è inserito l'elemento nucleare, la realizzazione di un'opzione atomica in grado di assicurare l'esistenza ultima della presenza ebraica in Medio Oriente dai rischi esistenziali connessi al conflitto arabo-israeliano (con l'appendice conflittuale israelo-palestinese) ancora irrisolto. La visione di Ben Gurion, la costruzione di un'opzione nucleare, è andata progressivamente affinandosi nel tempo, dando vita ad una particolare modalità di politica atomica detta opacità, che rappresenta il contributo fondamentale di Israele alla strategia nucleare, con cui lo Stato ebraico ha ammantato, dietro il velo dell'ambiguità, delle rivelazioni e delle fughe di notizie controllate, la costruzione di un arsenale nucleare sofisticato e diversificato. Solamente la rigida politica di segretezza, di fatto, ha impedito la reale percezione dell'entità e delle caratteristiche dell'armamento a disposizione, mezzo di deterrenza ultima. La costruzione di armamenti atomici, di fatto, ha impedito la distruzione di Israele da parte araba, consentendo, invece, specialmente durante il periodo del mandato del Primo Ministro Menachem Begin, la realizzazione di politiche espansioniste e di compellence, derivanti dall'esistenza dello strumento nucleare. Il sogno della grande Israele, vagheggiato dal Premier del Likud, di fatto è stato sostituito dalla prospettiva di un Israele potenza egemone ed in fase espansionista, in grado di fronteggiare l'Unione Sovietica ed imporre una pressione notevole sulle Amministrazioni statunitensi. L'efficacia del deterrente nucleare, quindi, è stata duplice, a livello strategico e militare ha eliminato, almeno a medio termine, il rischio di un confronto convenzionale totale col fronte arabo, a livello politico, invece, ha permesso ad Israele di fruire di un peso politico ben maggiore di quello realmente esprimibile dal piccolo Stato ebraico. L'impresa atomica ha rappresentato un volano tecnico e scientifico fondamentale, costituendo l'innesco per la ricerca e lo sviluppo tecnologico-militare, che ha portato le aziende e le istituzioni israeliane a primeggiare nei settori dell'Hi Tech, nelle tecnologie elettroniche ed informatiche e nella ricerca applicata. Le ricadute in tali settori, a loro volta, sono risultate ulteriori elementi per implementare le strategie militari, con la particolare enfasi per l'approccio indiretto, la velocità operativa, la sorpresa e l'offensiva, finalizzate alla salvaguardia del fattore umano e del terreno. L'elemento atomico, quindi, pur non potendo influenzare i fattori demografici e delle risorse materiali, ha permesso un'accelerazione nello sviluppo israeliano, concretizzando quell'ombrello di sicurezza, pensato da Ben Gurion alla fine degli anni '40, realizzazione ultima del periodo sionista di nation building israeliano. L'arsenale non convenzionale ha originato un insieme di conseguenze, positive, che si sono riverberate sul fronte arabo opposto, limitando le spinte conflittuali delle masse, data la consapevolezza dell'èlite circa l'esistenza dell'opzione finale ebraica. In tal senso, il monopolio nucleare di Israele ha causato l'attenuazione delle tensioni esistenti nel mondo arabo fra le diverse componenti conservatrici e rivoluzionarie, wahabite e laiche, fra sciiti e sunniti e fra arabi e non arabi, giacché, proprio l'esistenza di un conflitto irrisolto tuttavia non risolvibile militarmente, ha costituito un elemento di coesione e di legittimità per governi autoritari, apparentemente portatori di interessi comuni ma, in realtà, profondamente divisi. La prospettiva di una rottura del monopolio israeliano definita dal progetto nucleare iraniano, sconvolgerebbe la situazione e lo status quo, di fatto, riaprendo i contrasti interni alla compagine islamica, con il rischio di una nuova corsa regionale agli armamenti, non solo convenzionale ma anche nucleari. Il pericolo sciita sembra abbia cementato la frammentata monarchia saudita, il cui attivismo non si è solo rivelato in campo religioso, con l'opera di proselitismo dei missionari wahabiti, ma anche in campo politico con le pressioni sul Libano e la Siria, tese e contenere l'espansionismo iraniano. Per Israele, esistenziale o meno, un Iran nucleare rappresenterebbe una sfida di notevole livello, in cui il rischio di un'azione militare diretta sembra essere costantemente presente, mentre il rischio di una reciproca deterrenza nucleare è oggetto di continua analisi e valutazione da parte dei vertici politici e militari. La situazione appare complessa e dinamica, il deterrente israeliano rischia di dover uscire dall'ombra e, conseguentemente, la dottrina nucleare parrebbe in evoluzione verso il modello interazionale tipico del confronto bipolare delle Grandi Potenze, con tutti i rischi connessi a situazioni apparentemente eguali, ma storicamente, culturalmente e politicamente differenti. Per il momento, l'evoluzione strategica sembra delineare la formazione di una triade nucleare e di capacità sia di deterrenza by punishment che di warfighting, nondimeno, attesa la mancanza di politiche nucleari aperte ed ufficiali, le ipotesi possono essere smentite in qualsiasi momento. Geopoliticamente la situazione israeliana appare fluida; demograficamente il rischio di bilanciamento fra popolazione araba ed ebraica introduce un elemento di pericolo, cui la separazione fisica (barriera), le politiche di incentivazione dell'immigrazione ebraica, con la contestuale ricerca di comunità dimenticate nel mondo o di passata ebraizzazione, sembrano parzialmente funzionare. Il nodo irrisolto della definizione di Israele quale Stato ebraico e democratico, infatti, rappresenta l'elemento fondamentale, in un contrasto fra visioni di Israele quale fortezza od Israele quale punto di unione fra mondo occidentale ed orientale. Le politiche di discriminazione della popolazione araba israeliana, inoltre, paiono alimentare un nuovo focolaio di tensione, in cui la disuguaglianza socio-economica può collegarsi a spinte fondamentaliste e nazionaliste, in entrambi gli schieramenti ; XXIII Ciclo
"Mi sia concesso di cominciare con una confessione piuttosto imbarazzante: per tutta la mia vita nessuno mi ha dato piacere più grande di David Bowie. Certo, forse questo la dice lunga sulla qualità, della mia vita. Non fraintendetemi. Ci sono stati momenti belli, talvolta persino insieme ad altre persone. Ma per ciò che riguarda una gioia costante e prolungata attraverso i decenni, nulla si avvicina al piacere che mi ha dato Bowie." (Simon Critchley, Bowie) Quelli che non conoscono l'opera di Bowie, temo, avranno provato un po' d'irritazione per la quantità di cose dette e scritte dopo la sua morte nel gennaio scorso. O perlomeno stupore, viste le innumerevoli sfaccettature per cui è stato ricordato. Come ha scritto giustamente Francesco Adinolfi su Il manifesto del 12 gennaio, "non c'è un solo Bowie, e ognuno ha il suo Bowie da piangere". C'è ovviamente il Bowie che tra la fine dei '60 e i primi anni '70 porta in scena la libertà contro la soffocante pubblica morale, mescolando generi ed identità sessuali in canzoni e concerti, ostentando i suoi personaggi scandalosi per sbatterli in faccia a family day di ogni sorta. Lo scrittore Hanif Kureishi, per esempio, ricorda la canzone "Rebel rebel" (1974) come una spinta che lo porta a desiderare di andarsene dal monotono perbenismo del sud di Londra. Il filosofo Simon Critchley descrive l'impatto di "Rock'n'roll suicide" (1972), dove l'urlo "You're not alone!" ("Non sei solo"!) diventa detonatore emotivo per una generazione di giovani a disagio con se stessi e con il mondo, spingendoli a cercare di diventare qualcos'altro – "qualcosa di più libero, più queer (traducibile con 'eccentrico', e anche 'omosessuale'), più sincero, più aperto, e più eccitante." Ma questo Bowie, l'icona del gender bending, è stracitato. Molto meno noto è il Bowie dall'animo irriducibilmente politico. Intendiamoci, anche dal punto di vista politico Bowie è stato molte cose. Nel 1975 rilascia alcune dichiarazioni di simpatia verso il nazismo, che saranno poi rettificate e (molto parzialmente) giustificate con la sua pericolosa dipendenza dalle droghe di quel periodo. Il clamore è amplificato da una fotografia in cui sembra fare il saluto romano a una folla di fan che lo attende a Victoria Station (ma osservando il filmato dell'evento su Internet, pare che il fotografo abbia preso lo scatto proprio nel momento in cui il braccio si tende in un normalissimo saluto). Si tratta di un aspetto delicato ancora da chiarire completamente, in cui anche critici raffinati come Critchley non si avventurano troppo. E che comunque ha finito per offuscare, secondo me, la figura di Bowie cantore degli ultimi e dei margini. Il nodo cruciale di questo suo aspetto è l'album Scary Monsters (1980), alla fine di un decennio segnato da una serie di album memorabili, dal glam rock alle sperimentazioni berlinesi – storicamente, la fine delle utopie e l'inizio del cosiddetto riflusso. Nel brano "Ashes to ashes" Bowie riprende il personaggio che l'aveva portato al successo, il Maggiore Tom, astronauta che in "Space oddity" (1969) celebrava l'allunaggio ma al contempo si perdeva stranamente a galleggiare nello spazio. Seguendo una parabola analoga agli ideali bruciati di quel periodo, nel 1980 Major Tom ricompare travolto dalle droghe pesanti, schiavo dei mostri che lo perseguitano nello spazio: I want an axe to break the ice, I want to come down right now Ashes to ashes, funk to funky We know Major Tom's a junkie strung out in heaven's high hitting an all-time low Voglio un'ascia per rompere il ghiaccio, voglio venir giù subito Cenere alla cenere, funk al funky Lo sappiamo che Major Tom è un tossico sperso nell'alto dei cieli caduto in una depressione storica Ma anche la realtà in cui Major Tom desidera tornare non promette nulla di buono. In Scary Monsters si manifesta uno dei punti più alti della critica socio-politica nei testi di Bowie, che assume toni quasi profetici. Mi riferisco alla canzone che apre l'album, "It's no game (no. 1)": Silhouettes and shadows watch the revolution No more free steps to heaven and it's no game (…) Documentaries on refugees couples 'gainst the target (…) Draw the blinds on yesterday and it's all so much scarier Put a bullet in my brain and it makes all the papers Profili e ombre guardano la rivoluzione Niente più passi facili verso il paradiso e non è un gioco (…) Documentari su rifugiati coppie nel mirino (…) Chiudi la finestra sul passato ed è tutto più spaventoso Sparami un colpo in testa e ne parleranno tutti i giornali Qui Bowie sembra svelare quella che sarà la faccia oscura degli anni '80 e oltre: la questione dei rifugiati e delle vittime civili dei conflitti (come suonano profetici quei due versi…), l'oblio degli ideali del passato, lo sguardo onnipresente ma banalizzante dei mass media. E' importante ascoltare "It's no game (no. 1)" anche perché Bowie canta questa canzone a squarciagola, a voce quasi stridula, come se lo stessero torturando; l'insieme è reso più complesso dall'alternanza con una voce femminile che canta in giapponese una traduzione del testo, in tono aggressivo. Secondo Critchley, "il genio di Bowie risiede nell'armonizzare minuziosamente parole e musica attraverso il mezzo della voce". I versi finali della canzone introducono poi un riferimento più esplicitamente politico, forse riferendosi alla polemica menzionata sopra: So where's the moral? People have their fingers broken To be insulted by these fascists – it's so degrading And it's no game E allora dov'è la morale? La gente ha le dita spezzate Venir insultati da 'sti fascisti – è così degradante E non è un gioco La voce di Bowie si contorce soprattutto quando pronuncia il titolo della canzone, "non è un gioco": il dramma della 'fine delle ideologie' sta nel poter non prendere più nulla sul serio, neanche le grandi tragedie. C'è una coincidenza curiosa, a questo proposito. L'anno seguente Giorgio Gaber mette in scena il recital Anni affollati, e nel pezzo parlato "Il presente" offre (ovviamente con Sandro Luporini) una caustica riflessione sul nuovo clima dei primi anni '80, dove i più bravi e geniali riescono a togliersi di dosso la pesantezza di qualcosa che ingombra per dedicarsi allo 'smitizzante'. Perché di fronte all'idiozia dei vecchi moralisti, preferisco vedere l'uomo di cultura che si fa fotografare nudo su un divano a fiori. Eh sì, per questa sua capacità di saper vivere il gioco. Sto parlando insomma di quelli veramente colti, che con sottile ironia hanno riscoperto… l'effimero. Ecco che cos'è il presente: l'effimero. E devo dire che per della gente come noi, che non crede più a niente, questo è perfetto. (…) La cosa più intelligente da fare è quella di giocare d'astuzia con i segnali del tempo. Ma attenzione, perché tra l'avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria, e il muovercisi dentro perfettamente a proprio agio, esiste la stessa differenza che c'è tra l'avere il senso del comico ed essere ridicoli… La canzone di Bowie non finisce qui, perché Scary Monsters ha una struttura circolare e si chiude con "It's no game (no. 2)" ("Non è un gioco, parte seconda"), dove viene riproposto lo stesso motivo – o quasi. Questa versione accentua la critica sociale (e la visionarietà profetica) aggiungendo una strofa finale sullo sfruttamento del lavoro minorile: Children 'round the world put camel shit on the walls Making carpets on treadmills, or garbage sorting And it's no game Bambini in tutto il mondo mettono cacca di cammello sui muri Fanno tappeti su macchinari, o frugano in discariche E non è un gioco Ma soprattutto, i versi di questa "parte seconda" sono cantati in modo radicalmente diverso, con voce lenta, calda, modulata, quasi da crooner in stile Frank Sinatra, quasi a voler dire: guardate che anche i miei pezzi apparentemente più commerciali possono essere qualcosa di più di semplici canzoni orecchiabili. E' una caratteristica dei suoi testi che viene colta anche dalla genialità sregolata di Lars Von Trier, il cui durissimo film Dogville (2003), sulla brutalità del sogno americano, si conclude con la scena del massacro di un intero villaggio e uno stacco improvviso sui titoli di coda: una sequenza di immagini di povertà e degrado statunitense con in sottofondo il pezzo "Young Americans" (1975), dal ritmo allegro ma con un sottotesto che accenna alla sterilizzante massificazione degli individui: We live for just these twenty years, do we have to die for the fifty more? Viviamo solo per questi vent'anni, dobbiamo morire per altri cinquanta? Questa ambivalenza è riscontrabile soprattutto nei dischi immediatamente successivi a Scary Monsters, quelli segnati da un disimpegno che per la prima volta fanno diventare Bowie un fenomeno commerciale mainstream, e che molti fan ancora rifiutano. Mi riferisco innanzi tutto a Let's Dance (1983), ovviamente, ricordando il videoclip della canzone omonima che mette in primo piano la condizione degli aborigeni australiani; come scrive Nicholas Pegg nel suo enciclopedico The Complete David Bowie, "prendendo spunto solo marginalmente dal testo della canzone per sposare la causa dei diritti degli aborigeni, il video costituisce il primo (sic) sostanziale esempio del ruolo da militante sociopolitico che Bowie cominciava a ritagliarsi negli anni '80." Sempre in Let's Dance, il brano "Ricochet" ("Pallottola di rimbalzo") è pervaso da un senso di totale sacrificabilità delle vite umane; come in "It's no game", i versi sembrano già descrivere il lato oscuro della globalizzazione neoliberista: Like weeds on a rock face waiting for the scythe (…) These are the prisons, these are the crimes teaching life in a violent new way (…) Early, before the sun, they struggle off to the gates in their secret fearful places, they see their lives unraveling before them (…) But when they get home, damp-eyed and weary, they smile and crush their children to their heaving chests, making unfullfillable promises. For who can bear to be forgotten? Come erbacce sulla roccia in attesa della falce (…) Queste sono le prigioni, questi i crimini che insegnano la vita con nuova violenza (…) Presto, prima del sole, sgomitano verso i cancelli nei loro spaventosi luoghi segreti, vedono la propria vita che gli si dipana di fronte (…) Ma quando arrivano a casa, stanchi e con occhi umidi, sorridono e si stringono i figli al petto ansante, facendo promesse inesaudibili. Perché chi può sopportare di venir dimenticato? Buona parte di questi versi sono parlati con voce metallica, come da un megafono, rimarcando così l'idea di omologazione oppressiva della società contemporanea. Su questi temi Bowie ritorna periodicamente anche nei dischi incisi dopo Let's Dance, dalla fine degli anni '80 fino a pochi anni fa – album quasi sempre di gran qualità, che le commemorazioni dello scorso gennaio hanno praticamente ignorato. Va menzionato, dall'album Tin Machine (1989) il brano "I can't read" ("Non so leggere"), che tratta di deprivazione culturale in un mondo dove "money goes to money heaven / bodies go to body hell" (" i soldi finiscono nel paradiso dei soldi / i corpi nell'inferno dei corpi"). Lo stesso LP contiene una cover di "Working class hero" ("Eroe della classe operaia") di John Lennon (1970), inno anti-sistema cantato da Bowie con voce carica di rabbia: When they've tortured and scared you for twenty-odd years then they expect you to pick a career when you can't really function you're so full of fear (…) Keep you doped with religion and sex and TV and you think you're so clever and classless and free but you're still fucking peasants as far as I can see (…) There's room at the top they're telling you still but first you must learn how to smile as you kill Dopo che ti hanno torturato e terrorizzato per una ventina d'anni poi si aspettano che tu ti scelga una carriera mentre non riesci neanche a pensare tanto sei pieno di paura (…) Ti drogano di religione, sesso e TV e ti credi d'essere così furbo e oltre le classi e libero ma sei ancora un cazzo di bifolco, mi sembra (…) C'è ancora posto là in cima, ti continuano a dire Ma prima, mentre uccidi, devi imparare a sorridere Una diffusa alienazione sociale emerge anche in "Dead man walking" ("Morto che cammina", 1997), un pezzo contaminato da sonorità drum'n'bass che martellano immagini come questa: an alien nation in therapy sliding naked, anew like a bad-tempered child on the rain-slicked streets una nazione aliena in terapia che scivola nuda, di nuovo come un bambino intrattabile per strade viscide di pioggia Due anni dopo, in "Seven", riprende la figura del fratello maggiore Terry, sofferente di schizofrenia e suicida nel 1985, tornando così ad un altro tema per lui ricorrente, quello dei meccanismi sociali che riproducono la malattia mentale: I forgot what my brother said I forgot what he said I don't regret anything at all I remember how he wept On a bridge of violent people I was small enough to cry I've got seven days to live my life or seven ways to die Ho scordato cosa diceva mio fratello ho scordato che diceva Non rimpiango davvero nulla mi ricordo come piangeva Sopra un ponte di gente violenta ero abbastanza piccolo da strillare Ho sette giorni per vivere la mia vita o sette giorni per morire L'attenzione di Bowie verso le vittime della Storia si può ritrovare, comunque, già prima del 1980. Quando ancora cantava ballate alla Bob Dylan, il pezzo "Little bombardier" ("Il piccolo artigliere", 1967) narra di un reduce solo, spaesato e affamato di affetti: War made him a soldier, little Frankie Mear. Peace made him a loser, a little bombardier La Guerra lo fece un soldato piccolo Frankie Mear La pace lo fece un perdente, un piccolo artigliere Per sua grande gioia, diventa amico di due bambine, ma si farà cacciare perché sospettato di pedofilia: Leave them alone or we'll get sore. We've had blokes like you in the station before Lasciale stare o cominceremo a seccarci. Ne abbiamo già avuti come te alla stazione di polizia. Pur puntando esplicitamente il dito contro l'autorità costituita, questa storia malinconica è musicata, scrive Pegg, con un "nostalgico valzer da fiera di paese (…) uno dei pochissimi brani di Bowie scritti in 3/4". Il testo è ispirato al racconto "Uncle Ernest" (1959) di Alan Sillitoe, uno dei più felici narratori del nuovo realismo proletario nel secondo dopoguerra. In quanto a temi socio-politici, Bowie tocca spesso anche l'imperialismo statunitense e la natura repressiva delle religioni istituzionali (si veda ad esempio lo 'scandaloso' videoclip di "The next day", 2013). Ma il Bowie che ho voluto ricordare qui è l'artista che non ha mai chiuso gli occhi di fronte alle ingiustizie, alla sofferenza degli ultimi. Potrà suonare paradossale, ma mi viene da pensare ad un altro grande cantore dei margini come Enzo Jannacci. Bowie torna spesso su ciò che in "Under pressure" ("Sotto pressione", 1981) definisce "the terror of knowing what this world is about" ("il terrore di sapere di cosa è fatto questo mondo"), mentre Love dares you to care for the people in the streets the people on the edge of the night L'amore ti sfida a prenderti cura della gente per le strade la gente al margine della notte Certo, è difficile accostare i maglioni sudati di Jannacci al Bowie che ha creato e curato la propria immagine, cui il prestigioso Victoria and Albert Museum di Londra ha dedicato una mostra di grande successo nel 2013. E la voce di Jannacci, sempre apparentemente sul punto di esaurire il fiato, condivide poco con le virtuosità bowiane. Dietro ad entrambi vedo però una sensibilità comune, e un simile atteggiamento di insofferenza verso ogni inquadramento, ogni norma imposta dall'alto. Per me, i testi di Bowie hanno rappresentato l'inizio di una passione per la letteratura in lingua inglese, e per la natura indecifrabile, sfuggente e mai omologabile che è propria della poesia. Critchley nota che, a partire dal periodo berlinese, i suoi versi diventano meno intellegibili e narrativi, e che "colpiscono maggiormente quando sono più indiretti. Siamo noi a doverli completare con la nostra immaginazione, col nostro desiderio." Continuo a citare Critchley anche perché mi ritrovo profondamente nel percorso del suo libro, purtroppo non ancora tradotto in italiano. Il volumetto si conclude con una frase che sottoscrivo, e che rappresenta il motivo per cui non ho ancora trovato il coraggio di ascoltare Blackstar, l'ultimo album uscito solo due giorni prima della morte: "Non voglio che Bowie finisca. Ma lo farà. E anche io."
La presente ricerca si è proposta di evidenziare le strategie di integrazione ovvero le pratiche di cittadinanza adottate in favore di un particolare segmento dei fenomeni migratori internazionali attuali: quello dei minori stranieri che soli varcano le frontiere del nostro paese alla ricerca di generiche migliori condizioni di vita. La conoscenza del loro patrimonio culturale e l'analisi delle procedure di accoglienza e di integrazione adottate nelle società di accoglienza, rappresentano una sfida stimolante nella prospettiva della disciplina antropologica, da sempre considerata la scienza 'dell'altro' e della 'differenza culturale' (Callari Galli, 2005). In generale, l'importanza di tale studio è resa evidente certamente dai numeri sempre più consistenti di minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro paese, ma ancor più dalla necessità di ridefinire le strategie dell'integrazione sociale complessive se non si vuole alimentare quella che già dagli anni 70 è stata definita da alcuni criminologi come una "una bomba sociale a scoppio ritardato" (Bovenkerk 1973, cit. in Barbagli 2002, p. 31); tanto è la posta in gioco. Sebbene la letteratura sulle seconde generazioni e in particolare quella sui minori stranieri non accompagnati sia ormai cospicua tanto in Italia quanto a livello internazionale, mancano ancora monografie antropologiche su singole nazionalità immigrate soprattutto che siano capaci di accedere, investigare ed indagare il controverso universo emozionale dei minori. La presente ricerca nasce dall'esigenza di colmare questo gap esperienziale assumendo come protagonisti una frangia specifica della categoria minorile: i giovani di origine marocchina che si innescano su uno specifico segmento delle attuali tratte migratorie transnazionali, l'asse Khourigba – Roma. In accordo con le recenti acquisizioni degli studi antropologici (Persichetti, 2003; Riccio; 2007; Capello, 2008) si è ritenuto inoltre opportuno procedere con uno studio multisituato capace di ricomprendere al suo interno i due aspetti del binomio migratorio: il contesto di partenza e quello di arrivo dei giovani migranti. "Prima di diventare un immigrato, il migrante è sempre innanzitutto un emigrato" scrive il sociologo algerino Abdelmalek Sayad (2002) intendendo con tale affermazione che emigrazione ed immigrazione sono due facce della stessa realtà. Uno studio dei fenomeni migratori cioè dimentico delle condizioni di origine si condanna ad offrire degli stessi solo una versione parziale e connotata etnocentricamente. L'etnografia, iniziata nel 2006 e terminata nel 2008, è stata quindi integrata da due viaggi in Marocco con l'intenzione appunto di cogliere quella parte di vissuto fatto anche di suoni, colori, immagini altrimenti non "accessibile" e non "trasmissibile" nel solo contesto di accoglienza. Chiaramente si è fatto largo uso di metodologie qualitative (osservazione partecipante, focus group, interviste in profondità) in quanto maggiormente adatte ad indagare in profondità le complesse dinamiche caratterizzanti i vissuti esperienziali; a cogliere le sfumature di contesto e di restituire per queste stesse ragioni un quadro vivo e frastagliato fuori da logiche pre- costituite. La restituzione delle testimonianze raccolte - grazie a un capillare lavoro di conoscenza della realtà romana dell'immigrazione e a un 'patto' etnografico molto forte intrattenuto con i giovani testimoni nonché con gli operatori che in molte occasioni se ne fanno carico - fa risaltare gli aspetti non solo politico-culturali della questione, ma anche l'intreccio di emotività e fragilità che si cela al centro della loro condizione di minori non accompagnati. La particolare condizione di vulnerabilità di cui sono vittima deriva certamente da una condizione giuridica fortemente "incerta", ma anche dal doppio ruolo sociale che il minore straniero non accompagnato assume su di sé: come "minore" è soggetto di un tradizionale percorso pedagogico, come "straniero" è un pericolo per l'ordine pubblico. La tutela "naturale" viene in questo modo costantemente infranta o finisce per dissolversi in uno spazio che non può essere indirizzato o controllato su logiche o prassi proprie dell'ordine nazionale. Soggetto "anomalo" e "sovversivo"quindi, il minore straniero non accompagnato, spesso relegato negli ambiti bui e marginali delle metropoli odierne, con la sua stessa presenza pone seri interrogativi rispetto alla capacità della nostre società di accoglienza di produrre coesione sociale e di riformulare le regole del gioco di un sistema che sia realmente inclusivo delle parti. Adolescenti (e) immigrati la cui vita si svolge su rotte transnazionali. Il loro percorso è intessuto di piccole casualità - incontri, parole, piccoli gesti - che ne determinano l'intrigo. Sono storie fatte di alternanza di successi e sbandamenti, integrazione e devianza, intreccio di trame che si snodano sul confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Minori al "bivio", dunque, qualcuno dice, "tra integrazione e rimpatrio". Questi giovani, figli di una diaspora migratoria che ha tessuto legami sociali internazionali in vari continenti, tendono a pensarsi come cittadini del mondo e possono immaginare il loro futuro in Italia, nel paese d'origine, così come in un altro luogo, conoscono la fatica dell'adattamento, e stanno imparando a gestirlo; sanno che la loro "differenza", le loro conoscenze di un'altra lingua, cultura e religione, il loro aspetto, le loro esperienze non sempre facili di socializzazione, potranno rivelarsi un limite o una risorsa. E' questa nuova consapevolezza che si sta faticosamente facendo strada oggi tra le coscienze a far sperare oggi in un destino per loro diverso da quello vissuto dai loro coetanei delle banlieues francesi o delle inner cities britanniche, dove l'essere cresciuti in quartieri in cui problemi sociali e esistenziali simili tendono a sovrapporsi, ha portato molti giovani a sentirsi collettivamente parte di una generazione tradita e sacrificata, maturando così rancore sociale e desiderio di imporsi, attraverso un'identità fiera o desiderosa di ricreare una sua purezza. La scommessa di una integrazione sociale riuscita per i giovani stranieri cresciuti nel nostro paese, ma ancora più per i minori stranieri non accompagnati, si gioca essenzialmente quindi nelle reti dell'assistenza sociale e quindi nella scuola. Tale scelta pur essendo molto lontana dal conseguimento degli obiettivi economici, e quindi dall'ottemperamento del mandato migratorio, consente di rivendicare principi e ragioni di "somiglianza – uguaglianza" con i compagni di scuola autoctoni; confronto prima pressoché impossibile data la clandestinità cui sono di sovente costretti i minori stranieri non accompagnati e la peculiarità del tipo di lavoro svolto dai marocchini, quello ambulante, per sua natura itinerante e fortemente stigmatizzato dall'opinione comune. Nonostante le evidenti lacerazioni che questa scelta comporta in termini di: rottura con vecchi schemi di comportamento; ridefinizione dei ruoli all'interno della famiglia, nell'ambito societario di arrivo, così come in quello di appartenenza; riapporpiazione della propria identità, questa strada sembra a tutt'oggi l'unica in grado di preservare questi giovani migranti o di stornarli dal destino di devianza e marginalità che spesso si apre loro come scelta obbligata. La ricerca consta di due parti: la prima rende conto della letteratura in materia di seconde generazioni e la seconda restituisce i risultati dell'etnografia. In particolare il primo capitolo affronta i termini generali della questione con l'intenzione di chiarire i diversi misunderstanding che costellano il dibattito in materia di immigrazione attraverso una lettura critica della letteratura nazionale e internazionale. Il secondo e il terzo capitolo si occupano rispettivamente della normativa europea e italiana. Quanto al primo contesto sono evidenziate le diverse pratiche adottate in materia di ingresso dei minori stranieri non accompagnati all'interno dei confini di alcuni Paesi membri di vecchia e nuova immigrazione (Francia, Inghilterra, Germania, Belgio e Spagna) e posti in luce i gaps presenti così come le falle del sistema; quanto al contesto italiano, si mettono in rilievo le criticità che gli apparati giuridici presentano rispetto a una realtà concreta del fenomeno caratterizzata, come è ovvio, da straordinaria fluttuanza e informalità. Il quarto capitolo è stato dedicato alla scuola in quanto considerata la vera fucina del cambiamento sociale per la sua capacità di rappresentare l'occasione primaria di formazione linguistica, di costruzione di reti interne al Paese di accoglienza, di apprendimento di concetti e modalità didattiche ad esso omogenee; un paragrafo a parte è stato riservato all'inserimento lavorativo essendo questo il principale movente della migrazione di questi giovani. Infine il quinto capitolo si è prefisso di indagare il contesto di provenienza dei minori intervistati, il Marocco, ricostruendo l'eredità del passato coloniale, le scelte economiche del Marocco Indipendente, i fattori di push and pull dietro i flussi migratori di ieri e di oggi. Il quadro finale ha permesso di sondare la salute del sistema. Riconoscere diritto di parola e di ascolto dell'infanzia e dell'adolescenza ha significato fare un passo importante in avanti nella comprensione della loro soggettività, consentendo di fare emergere tutti quegli aspetti di conformità, progressivo adattamento ovvero di riottosità rispetto tanto alla propria comunità di appartenenza quanto alla società di arrivo. Considerare i minori come "soggetti di diritto" ha significato in altre parole ripensare sotto un altro punto di vista l'organizzazione e le strutture profonde che quella società regolano con il merito di porre in luce aspetti e problemi inediti, frizioni interne al gruppo normalmente sfuggevoli e molto riposte ed elementi di scarto rispetto a un modello omogeneo e granitico di una data cultura. Occorre sobriamente riconoscere che non si danno più né immigrati né emigrati, ma "pari" cittadini (o spiranti tali) che tessono relazioni effettivamente ed affettivamente collegate in un unico destino interdipendente. La consapevolezza di questo richiede competenza, intelligenza, impegno e determinazione nelle scelte operative da intraprendere; l'altra faccia della medaglia è solo devianza ed emarginazione. ; The following research is aimed to underline the strategies of integration and the practices of citizenship utilized in favor of a particular segment of the actual international migratory phenomenon: the one about foreign minors who alone pass the borders of our country to search for better conditions of life. The knowledge of their cultural background and the analysis of the procedures of the ways in which one is welcomed and the integration adopted by the receiving countries represent a stimulating challenge from the anthropological perspective, always considered the science of "cultural differences" (Callari Galli, 2005). The importance of this study is obviously given forth by the increasing numbers of "separated" minors in our country, but moreover by the necessity to re-define the strategies of social integration tout court if we don't want to feed what has, since 1970, been defined by some criminologists as a real "time bomb" (Bovenkerk 1973, cit. in Barbagli 2002, p. 31). Although nowadays both of the international and Italian literature, about the second generation and in particular those that talk of separated minors are conspicuous, we are still missing anthropological monographs on single nationalities of immigrants able to access, investigate and inquire into the complex emotional world of these minors. The following research was born from the necessity to fill in this experiential gap assuming as its subject a specific part of the category of minors: youth of Moroccan origin that are situated on a particular segment of the transnational migratory trades, the axis Khourigba- Rome. According to the recent anthropological acquisition (Persichetti, 2003; Riccio; 2007; Capello, 2008) it became appropriate to proceed with a multi-situated study able to embrace both of the aspects of the migrants lives: the context of origin and the context of arrival of the young migrants. "Before becoming an immigrant, the migrant is always an emigrant" wrote the Algerian sociologist Abdelmalek Sayad (2002), intending by this affirmation that immigration and emigration are both faces of the same reality. A study of the migrant phenomenon that forgets or leaves behind the condition of origin of immigrants people is condemned to offer only a partial and ethnocentric version of this phenomenon. The ethnography, started in 2006 and finished in 2008, has been integrated by two journeys in Morocco with the purpose to investigate those part of lives – made principally also by sounds, colors and images - not "accessible" and "communicable" in the receiving countries. Clearly the research has required a large use of qualitative methodologies (participant observation, focus group, interview in depth, etc) because of their characteristic to be more adapted to investigate the complex dynamics typical of the lived experience; to catch the shades of content and to give back, for these same reasons, a lively and unusual picture out of rules and schemes prior established. The feedback from the gathered stories – by a meticulous work which consisted in the knowledge of the Roman immigrants reality and a strong ethnographical "pact" with the minors on one hand and the social operators on the other – has brought to light not only the political and cultural aspects of the phenomenon, but moreover the tangle of sensitiveness and fragility hidden behind their condition of separated minors. The particular condition of vulnerability of which they are victims firstly came from an "uncertain" juridical condition, but more so by the double rule that the separated minor assumes on himself: as a "minor" he is subject to a traditional pedagogic approach and as a "stranger" he is considered dangerous to the public order. The natural guardianship which they should enjoy is continuously breached and threatened and dissolves in vague promises and empty rituals. Separated minors are "anomalous" and "subversive" subjects who too often are relegated to the dark and marginal spheres of the actual metropolis. Furthermore, their own presence, even if it is made invisible by the viewpoint of the system, impose serious and urgent questions to contemporary society; in respect of our capacity to produce social cohesion and re-formulate the rules of a game which has to be really inclusive in all its parts. It compromises the global issues of our society. Adolescents (and) immigrants who are living their lives on transnational routes. Their course is woven together by many little causalities - encounters, words and simple gestures that determine its outcome. These are stories made up of alternations of successes and disbandment, integration and deviance, a tangle of plots that lie on the border of what is licit and what is not. Minors on a "crossroad", some say, between "integration and repatriation". These young, son of numerous migratory diasporas that have banded together into international social links in many continents, tend to think themselves as citizens of the world and are able to imagine their future in Italy, in their own country or everywhere. They have lived the fatigue of adaptation and are learning to manage it. They know that their "difference" - the knowledge of another tongue, culture, religion, their physical appearance, their experiences of socialization, not always so simple and immediate - can be either a limit or a resource. Is this new consciousness - that nowadays is hardly rousing our consciences - to leave us the hope in a different destiny from that lived by their residing in the French banlieues or in Britain's inner cities. These communities, where to be brought up in districts in which social and existential problems tend to overlap, has brought many young persons to feel part of a generation betrayed and sacrificed and to foster social resentment and wishes of revenge through an identity that is proud and intent on recreating its original purity. The bet of a successful social integration for the young people growing up in our country, but moreover for the separated minors, is played on the circuits of social assistance and then on the capacity of school to create cohesion as an agency of socialization. This choice, though it is really far away from the fulfillment of their economic objectives and then from the attainment of the migratory cause, allows them to claim principles and reasons of " similarity – equality" with their coetaneous friends of school. This is a kind of comparison that was impossible before because of the irregular condition to which separated minors are often obliged and the peculiar characteristics of the type of job done by Moroccan people, usually pitchmen, from its nature an itinerant job hardly stigmatized by common opinion. Although the evident lacerations that this choice implies in terms of breaking old schemes of behaviours; redefinition of rules in the family, in the society of arrival (as well as in the society of origin); re-appropriation of one's own identity; this road appears uniquely to be able to preserve these young migrants from the solitude of a destiny otherwise made up of deviance and marginality. The research consists of two parts: the first one proposes a general framework about second generation literature and the second one provides the results of the ethnography. In particular, the first chapter copes with these questions in general terms with the intent to clarify the different misunderstandings in the debate about immigration, through a critical reading of national and international literature. The second and third chapters talk respectively of the European laws concerning separated minors and the Italian ones. In regard to the first context, it underlines the different practices adopted about the entry of separated minors in the territories of several old and new European immigration countries (such as France, Britain, Germany, Belgium and Spain) and point out the gaps and problems of these systems. As regards the Italian context, instead, emphasize is put on the critical points of the actual juridical systems in respect to a reality of the phenomenon characterized, as obviously it is, by remarkable unbalance and changeability. The fourth chapter has been dedicated to the school because it is considered the real forge of the social changing in its capacity to represent the primary occasion of: linguistic training, constructing of intern links in the receiving countries, learning of concepts and didactic modalities homogenous to it. A specific paragraph has been reserved to the introduction to the working environment because it is the main reason of the migration of these young people. The fifth chapter is aimed to investigate the context of provenience of minors interviewed, the Moroccan Country, reconstructing the heredity of the colonial past, the economic choices of the Independent Morocco, and the factors of push and pull behind the migratory flows of yesterday and today. The final picture is used to verify the health of the system. Recognizing the right of "speech" and "listening" to infancy and adolescence has meant to make an important step forward in the knowledge of their individuality, making arise all aspects of conformity and progressive adaptation or, on the contrary, their rebelliousness to their own culture as well as to the receiving society. In other worlds, considering minors "subjects of right" has meant rethinking the organization and obscure structures that manage the same societies in which they live, with the merit to point out aspects and elements of forsaking respect to a homogenous and given model of a culture. Nowadays more than ever it is necessary to admit that there are no more immigrants or emigrants, but "equal" citizens (or aspirant ones) who weave together elements of every type in a unique interdependent destiny. The consciousness of this claim calls for competence, intelligence, dedication and determination in the choice to engage; the rest is made by deviance, frustration, marginalization. ; Dottorato di ricerca in Tutela e Promozione dei Diritti dell'Infanzia (XXII ciclo)
Maritime piracy is still one of the most interesting manifestations of human activity by reason of the fact that it has, directly or indirectly, a number of points of contact between different problems of social, religious, political, economical and, of course, historical matter. Specifically, South-east Asia is a great example of how history, politics and religion are strongly and crucially imbued with the maritime banditry phenomenology. During the era of great maritime political entities exercising dominion along the Malay and Indonesian coasts, predation assumed character of endemicity going to fit firmly within the society, politics and economy networks. Inside Zhu Pan Zhi, the reports of the Song Dynasty about the barbarian peoples, is it possible to read about the piracy in the Great Southern Ocean (Nanyang) «the foreign ships were often attacked by pirates. The captives were the favourite of pirates, one captive can sell for 2 liang or 3 liang gold, the piracy prevents the merchants from visiting the ports» . Of great interest it is also the description of piracy in waters near Singapore (Temasek) and south of the straits that, in 1349, appeared in these terms: «The Dragon-teeth Strait (longyamen) is between the two hills of Temasek barbarians, which look like dragon's teeth'. Through the centre runs a waterway. The fields are barren and rice harvest is poor. The climate is hot with heavy rain in April and May. The inhabitants are addicted to piracy […] when junks sail to the European Ocean (Indian Ocean), the local barbarians allow them to pass unmolested, but when the junks reach the Auspicious Strait (Jilimen) on their return voyages, some 200-300 pirate prahus (boats) will put out to attack the junks for several days, the crew of junks have to fight with their arms and setting up cloth screen as a protection against arrows. Sometimes, the junks are fortunate enough to escape with a favouring wind; otherwise, the crews are butchered and the merchandise becomes pirates' booty» . As can be seen from the text, also the physical elements (water, poor soil, distress sea routes, monsoon climate) play an important role in explaining the aforementioned endemicity of pirate phenomenon: in one of the most relevant work by Anthony Reid, a supporter of the Braudelian method of historical investigation, it is reported that few major areas of the world have been so deeply marked by nature such as South-east Asia, going to emphasize the importance of geography in the study of human activities. During the first part of my research, a question to which I have tried to answer was to understand the extent to which individuals, who are placed in a given geographical and historical context, act in a manner consistent with that particular geo-cultural system and how, external elements in that system, can help to change the perspective of action; in essence, I have tried to study how and to what extent India, China and Europe (Western Culture) have affected the history of the indigenous population of South-east Asia and the Straits of Malacca and Singapore in particular. The constitution of the great European colonial empires stretched from the Malacca Straits to the South China Sea, marked the beginning of a progressive modification process of maritime piracy both in terms of objectives to be achieved and also procedures to be followed; Nicholas Tarling lucidly points out in this regard "the old empires decayed, but were not replaced, and with their boundaries marauding communities appared, led by the adveturous Sharifs, or deprived aristocracies, or hungry chiefs" . The main ethnic groups who practiced piracy, the Riau-Lingga Malay, Bugis and Dayak of East Malaysia and Brunei, and Ilanun Balangingi from the southern Philippines and the Sulu sea, became corsairs in the pay of the colonial authorities and all those princes or sultans deprived of their possessions. However, alongside the politically motivated piracy, continued to resist a kind of maritime banditry conducted by fishing associations, outcasts or Chinese immigrants and so-called nomads people of the sea (Orang Laut), clanic and personalistic in nature whose cultural substrate was made up of bonds of friendship, kinship and blood. The remarkable fact is that the two types of piracy are not mutually exclusive but, on the contrary, represented the two faces of a coin and it was not unusual for pirates and corsairs to exchange roles when political or economic contingencies were changed. Interesting in this regard it was been the reading and examination of archival documents found at the National Archives in London (The National Archives) showing exchanges of correspondence and minute of some of the leading authorities of the British Straits Settlements between the first and second half of the nineteenth century. A set of letters that, given its enormous historical and political significance I decided to bring entirely, contains the correspondence (1863-67) between the Straits Settlements Governor Orfeur Cavenagh, Abu Bakar ibn Temenggong Daing Ibrahim Temenggong of Johor and Inche Wan Ahmed, exiled prince of Pahang become rebellious and pirate. Proceeding with the analysis of the phenomenon and given the interest of the international community for the sea routes passing into the Straits of Malacca and Singapore, the next questions concerned what was the real impact of piracy on maritime trade, what costs in human and social terms it produced, which law enforcement measures riparian states and foreign countries (in colonial and post-colonial age) have come into force; in addition to these I had tried to understand who is the pirate, what are the main reasons for his actions, what is the connection, if does exist, between piracy, terrorism and organized crime. In this direction, starting from the definitions of piracy given by the International Maritime Organization and the International Maritime Bureau, I examined most of the international conventions and regional agreements in which the issue of maritime security and cooperation between states and supranational bodies is addressed, placing special attention to the rules and clauses contained in the treaties able to activate those mechanisms for cooperation and burden sharing (burden-sharing) indispensable to the solution or, more realistically, the containment of the problem. Of great relevance to this line of analysis it has proved useful the socio-anthropological approach by Carolin Liss on the links between maritime banditry, criminal syndicates and terrorist groups (criminal syndicate) and the statistical and methodological approach by Karsten von Hoesslin focused on quantity, quality and type of assaults committed at sea. Concluded the second part of the thesis, I went to compare what is written in both historical and contemporary perspective to understand what kind of conclusion emerged from the results of my research; I asked myself, therefore, a further question: taking as a fixed point the thought of Braudel and Reid, following the method of analysis of Liss and Hoesslin, examine the archival documents and translations of ancient texts on the subject (the Sejarah Melayu and Suma Oriental of Tome Pires), given the availability (more or less declared) from South-east Asian newly established states (post-independence) to cooperation and given the interest of third actors in the straits, is it conceivable and correct to sustain now, in the first half of the new millennium, the possibility of a modification of the ancient customs and traditions and entrenched rivalry between neighboring countries on the basis of a new collective consciousness directed to a harmonious resolution, conveyed by a general law, of the phenomenon of maritime piracy? Or are we facing with a false hub of history, with a point that falsely or inappropriately is considered the turnaround from a tradition that has its roots in the coastal kingdoms of the sixth century and which is the sub-cultural layer of those population who have made the sea their source of wealth and power? To say it once again with Braudel, has the longue durée history undergone a change of route or will it repeat and renew her cycle again and again, sweetened by new technological tools and new forms of politics and economics? And if a change is in place, why now and how does it happen? Will history repeat itself? To give an answer, as thoroughly as possible, to this question I tried to define some of those steps that the countries of ASEAN should follow in order to effectively combat maritime piracy, terrorism widespread locally and organized crime; what could be the milestones in the process of construction of a shared legal system able to provide answers to many of the legal issues including the lack of a common legislation on maritime security. The watchword in the near future will have to be 'mutual legal assistance' in view of the implementation, in national legal corpora, of all those rules necessary to give effect to the directions contained in international conventions. Eventually, I propose a different and further reading of all those theories that track in failure or in the great inefficiency of coordinating policies in the field of maritime safety, the proliferation of piracy. Though I substantially agree with some of those interpretations, two points are critical and deserves attention: the lack of a proper historical and historiographical perspective of analysis and what I have called the axiom of the ultimate solution.
E' a seguito di numerose calamità naturali verificatesi dal dopoguerra ad oggi che il 24 febbraio 1992 con la legge n° 225 ,veniva istituito il servizio Nazionale della Protezione Civile. Quella legge sanciva la competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito al coordinamento ed alla promozione delle attività legate alla Protezione Civile. Da quella "storica" data ai giorni nostri molto è cambiato in seno alla Protezione Civile; tante le leggi che si sono succedute, per arrivare dapprima alla riforma Bassanini (legge.300) che nel 1999 ha istituito l'Agenzia della Protezione Civile e poi alla Legge n°401 del novembre 2001 che sopprimeva l'agenzia stessa per assegnare tutte le competenze ad un apposito dipartimento della Protezione Civile. Oggi la Protezione Civile è strutturata in questo modo: A coordinare le attività a livello nazionale è il Dipartimento della Protezione Civile posto alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le strutture di cui si avvale sono quelle del Corpo Nazionale dei vigili del Fuoco, delle Forze armate, delle Forze di Polizia Italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, i servizi tecnici nazionali, i gruppi di ricerca scientifica, l'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la C.R.I. il soccorso alpino , il S.S.N. e le organizzazioni di volontariato. Le Regioni partecipano all'organizzazione delle attività di Protezione Civile assicurandone lo svolgimento delle attività ad essa collegate. Predispongono ed attuano programmi regionali di previsione e prevenzione su direttive nazionali. Le Provincie assicurano lo svolgimento dei compiti relativi alla rilevazione, alla raccolta ed alla elaborazione dei dati interessanti alla Protezione Civile e predispongono dei programmi provinciali di previsione e prevenzione contro le calamità in armonia con i dettami nazionali e regionali. Il Prefetto sulla base di questi programmi di previsione e prevenzione predispone il piano per fronteggiare l'emergenza su tutto il territorio provinciale e ne cura 'attuazione. Il principale modello di intervento a seguito di calamità è il Metodo Augustus, uno strumento di riferimento per la pianificazione nel campo delle emergenze utilizzato dal Dipartimento della Protezione Civile. Sulla base di questo metodo un piano di emergenza viene schematizzato in tre parti: A) la raccolta di informazioni(Dati di Base); B) l'individuazione degli obiettivi da salvaguardare; C) la realizzazione di un modello di intervento operativo sul territorio. Al momento dell'evento calamitoso viene istituita immediatamente la DI.COMA.C.(direzione di comando e controllo), quindi il C.C.S.(Centro Coordinamento Soccorsi), il C.O.M.(Centro operativo misto) e il C.O.C(centro operativo Comunale) che è una struttura decentrata sul territorio e quindi più vicina alla popolazione. Il Metodo Augustus si compone di 15 funzioni: F1- Tecnica Scientifica e di pianificazione; F2- Sanità, assistenza e veterinaria; F3-Mass-media ed informazione; F4-Volontariato; F5-Materiali e Mezzi; F6-Trasporto, circolazione e viabilità; F7- Telecomunicazioni; F8- servizi essenziali; F9-Censimento danni a persone o cose; F10- Strutture operative e S.A.R.; F11- Enti Locali; F12- Materiali pericolosi; F13-Assistenza alla Popolazione: F14-Coordinamento dei centri operativi; F15-tutela dei beni culturali. Il Polo di Protezione della Provincia della Spezia nasce di fatto il 25 agosto 2007 quando i referenti di alcuni gruppi di volontari si riuniscono presso i locali del Centro Integrato di Protezione Civile di Santo Stefano Magra e costituiscono il Coordinamento dei Volontari di Protezione Civile della Provincia della Spezia. Lo scopo che si prefiggono è quello di coordinare le attività dei gruppi aderenti al coordinamento, partecipare quando richiesti, ad interventi di soccorso in ambito locale e nazionale, promuovere l'addestramento dei volontari di Protezione Civile ed incentivare lo spirito del volontario di protezione civile attraverso apposite manifestazioni. Successivamente alla costituzione del "Polo" presso le strutture di Santo Stefano Magra ha trovato una apposita sede parte della Colonna mobile regionale Ligure e d attualmente trovano ricovero numerosi automezzi tra cui cinque Land Rover Defender, due pulmini a nove posti, due furgoni Ducato allestiti SCAM, un ufficio mobile, una cucina mobile, un carrello mobile con servizi igienici, cinquanta tende dalla capacità di 6/8 posti letto, un potabilizzatore con insacchettatrice ed un generatore con container. Il primo grande intervento dei volontari liguri senza l'ausilio dell'esercito, dopo l'abolizione della leva militare, è stato quello relativo al terremoto in Abruzzo. All'indomani della prima grande scossa tellurica del 6 aprile 2009 che aveva distrutto il territorio Aquilano la colonna mobile della Liguria era pronta alla partenza. I volontari del Ponente Ligure partiti dall'Aeroporto Panero di Villanova d'Albenga giunti a Santo Stefano Magra si erano uniti a quelli del Levante ligure ed insieme si erano mossi per le zone terremotate. Quattordici interminabili ore di viaggio, una lunghissima colonna di mezzi e materiali, scortati dalla Polizia per tutto il viaggio necessario per raggiungere Tione degli Abruzzi e le frazioni di Goriano Valli e Santa Maria del Ponte dove erano stati incaricati dell'allestimento di tre tendopoli. A quella missione in Abruzzo avevano preso parte 258 volontari, 27 tra medici, paramedici ed agenti del Corpo Forestale dello Stato della Liguria. La Colonna mobile Ligure aveva organizzato gestito tre tendopoli fornendo pasti e un tetto caldo a circa 450 sfollati. L'opera dei volontari liguri era stata molto apprezzata dalla popolazione locale; il sindaco del paese sottolineava il "grande impegno del contingente ligure a Tione degli Abruzzi e si augurava che il contributo di amicizia e solidarietà fosse continuato nel tempo". Ancora oggi un solido legame di amicizia cimenta i rapporti tra la popolazione del paese Abruzzese e i volontari del Polo di Protezione Civile di Santo Stefano Magra. Il territorio del Comune di Arcola(SP) il 23 dicembre 2010 è stato colpito da un violento nubifragio che ha provocato danni ingenti al territorio arcolano. L'abitato di Romito, cosi come quello di Ressora e il Piano di Arcola sono rimasti completamente allagati. Numerose sono le frane attivate, fanno paura quelle sui fianchi della montagna in località Ressora e quella che è scesa dalla collina di Trebiano. I volontari , dopo l'apertura del C.O.C. in località Romito hanno prima provveduto a mettere in sicurezza le persone intrappolate dalle acque e successivamente hanno cominciato a spalare fango nelle varie frazioni per permettere il ripristino della circolazione e le normali attività. Le operazioni si sono protratte per diversi giorni; ogni sera un breefing al C.O.C. per valutare e coordinare le attività del giorno successivo; i volontari sopraggiunti da ogni parte della Liguria e dalla vicina Toscana hanno lavorato alacremente fino al termine dell'emergenza che si è protratto fino alla prima decade del gennaio 2011. Con la crisi dei governi dell'area Mediterranea Africana, dei paesi del Magreb è cresciuta l'emergenza profughi al punto che è diventata una emergenza nazionale. Gli sbarchi sulle coste italiane sono aumentate a dismisura ed il Canale di Sicilia è diventato improvvisamente una autostrada del mare attraverso la quale centinaia di migliaia di profughi hanno tentato di raggiungere l'Europa ricca e opulenta. A seguito di questo continuo esodo il 6 aprile 2011 tra Governo Italiano, Regioni, Provincie autonome ed Enti Locali era stato firmato un accordo che conferiva alla Protezione Civile Nazionale di pianificare l'accoglienza degli ospiti in strutture dedicate. Era stato così che a La Spezia presso il "Polo" di Protezione Civile erano stati alloggiati 35 ospiti provenienti da diversi paesi Africani e dal Bangladesh e dalle diverse professioni religiose. Far convivere Cristiani e Mussulmani non era cosa facile; gli usi, i costumi , le tradizioni religiose sono molto diverse tra le due grandi religioni monoteistiche, tuttavia nessuno tra gli ospiti ha mai rivendicato il diritto ad una predominanza religiosa rispetto all'altra. Anzi durante quel periodo il Camerunense Fotso Calvin aveva abbracciato la religione cattolica facendosi battezzare. I profughi erano stati seguiti dai volontari della Protezione Civile fino al 25 ottobre 2011 quando una grave alluvione aveva colpito il territorio Spezzino. L'alluvione aveva dirottato il personale volontario verso l'emergenza ed il supporto ai migranti era stato affidato alla cooperativa Maris. Il 25 ottobre 2011 circa 600 millimetri d'acqua sono caduti in poche ore sulle Cinqueterre, sulla Val di Vara e sulla Val di Magra provocando morte e distruzione. Le comunicazioni erano totalmente interrotte ed i volontari del Polo di Protezione Civile si sono resi immediatamente disponibili per interventi sul territorio. Vernazza e Monterosso al Mare erano due paesi spettrali con enormi colate di ghiaia che arrivavano fino al mare. Pignone, Brugnato e Borghetto Vara apparivano distrutte e tutta la pianura alluvionale dei fiumi Vara e Magra risultava fortemente allagata con il ponte della Colombiera in località Cafaggio di Ameglia crollato sotto la forza della piena. I volontari Spezzini si sono subito impegnati per soccorrere le popolazioni ferite ed in difficoltà. Importante è stato anche l'intervento delle colonne mobili del volontariato delle Regioni confinanti che sono scese nel territorio ligure per dare una mano, ripulire i paesi e ripristinare la viabilità. Il piazzale del "Polo" in quei giorni era diventato un immenso deposito di viveri e materiali stoccati in attesa di essere distribuiti alle popolazioni. C'erano numerosi elicotteri che planavano , caricavano merci e derrate alimentari per poi ripartire verso le località colpite. E' stato un lavoro immane e continuo per le migliaia di volontari che da tutta l'Italia sono accorsi nello spezzino ed in Lunigiana per far fronte all'emergenza alluvione. La scossa di terremoto che ha colpito l'Emilia Romagna la notte del 20 maggio 2012 ha scosso di fatto tutto il Nord Italia. Numerosi i morti ed i capannoni distrutti. La colonna mobile della Liguria con cinquanta tende, cucine da campo ha allestito in località San Biagio nel Comune di San Felice Sul Panaro una tendopoli per dare assistenza alle popolazioni colpite. All'interno del campo 250 sfollati di cui 60 bambini , ma soprattutto 15 etnie. C'erano le diverse attività ludiche per i numerosi bambini ospitati ma anche molte difficoltà per fare coesistere le molte religioni che per certi versi erano in contrasto tra loro. Tra le altre cose quello era il periodo del Ramadan e quindi molti assistiti mangiavano e bevevano solamente dopo il tramonto del sole. La Colonna Mobile Regionale Ligure è rimasta a San Biagio nel Comune di San Felice sul Panaro fino al 29 Luglio 2012 quando la Protezione Civile della Provincia Autonoma di Trento è subentrata nella gestione della Tendopoli Conclusioni: L'obiettivo condiviso dalle associazioni di volontariato di Protezione Civile associate al Centro Integrato della Protezione Civile di Santo Stefano Magra è stato quello di creare in ogni zona di territorio della Provincia della Spezia, un servizio di pronta risposta alle esigenze della popolazione. All'interno delle varie associazioni esistono tutte le professionalità della società moderna, insieme a tutti i mestieri e questo mix costituisce una grande risorsa, fondamentale nelle grandi emergenze, quando il successo degli interventi dipende dal contributo delle varie specializzazioni(medici, ingegneri, infermieri, cuochi, falegnami etc). L'impegno di ogni volontario è una risorsa preziosa e vitale, non solo per il territorio spezzino ma, per tutto il territorio nazionale. La gratifica più grande per un volontario di protezione civile è il cittadino che ti dice "Grazie", anche dopo aver spalato per una intera giornata fango dalla sua abitazione. Mentre la risorsa è una sola: "La voglia di fare qualcosa per se e per gli altri".
Uno dei problemi maggiori nello studio degli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni umane è senza dubbio il carattere fortemente multidisciplinare, che richiede un'analisi del fenomeno che incroci competenze e conoscenze che appartengono a diversi campi del sapere, come le scienze ambientali, per quanto riguarda i fattori scatenanti e le scienze sociali e giuridiche, per quanto riguarda le sue conseguenze. Alla luce di questi motivi il tema dei profughi climatici rappresenta un campo di ricerca interessante e ricco di molti spunti di riflessione, ma allo stesso tempo un'analisi complessa e non priva di una molteplicità di problemi epistemologici. Le principali difficoltà risiedono nella scarsità di documentazione e di letteratura sull'argomento. Nonostante non manchino gli studi ed i documenti prodotti dalle principali organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente e migrazioni internazionali in tutte le forme e varianti, il mondo scientifico, e in modo particolare quello italiano, non sembra aver ancora preso seriamente in considerazione il tema delle migrazioni internazionali causate dal mutamento delle condizioni climatiche, sia per cause naturali che per il degrado dell'ambiente prodotto dall'inquinamento e da un uso distorto delle risorse terrestri. La complessità estrema del fenomeno pone una serie di interrogativi riguardo all'individuazione dei soggetti che possono essere ricondotti alla categoria suddetta e in merito alla possibilità di riconoscere una qualche forma di tutela giuridica internazionale a questa categoria di persone, per le quali, sul piano strettamente giuridico è ancora improprio l'utilizzo del termine 'rifugiati' per identificarli. Ad aumentare le difficoltà già elencate vi è poi la scarsa attenzione dimostrata sull'argomento dai paesi economicamente sviluppati in genere, ed in particolare i principali inquinatori, e la sempre crescente difficoltà da parte dell'occidente a rispondere ai problemi generati dai movimenti forzati di massa. Il mancato riconoscimento internazionale dei profughi climatici complica ulteriormente la questione. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi "nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato" definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Il termine 'rifugiato ambientale', accettato orami a livello internazionale nel linguaggio comune, appare quindi improprio alla luce di questa considerazione e all'interno della comunità scientifica mondiale non è stato ancora sciolto il nodo di una definizione più propria soprattutto per la difficoltà di stabilire un legame diretto tra fattori ambientali e diversi casi di migrazioni internazionali massive. D'altra parte il termine "refugee" ha antica origine e diffusa circolazione: il fatto che dal 1951 implichi uno status non crea monopoli linguistici. Si può convenzionalmente accettare il suo utilizzo disciplinare critico e il suo utilizzo istituzionale limitato allo status connesso. Il suo significato resta sinonimo di "displaced", migrante forzato o costretto, con le sole specificazioni istituzionali dell'aver superato il confine e delle costrizioni previste dalla Convenzione nel 1951. L'aggettivo "environmental" non aiuta la definizione delle migrazioni e soprattutto non aiuta a chiarire la loro dimensione forzata. Rifugiato si, ma non "ambientale". La difficoltà forse sta proprio nel sostantivo, ambiente, che ha troppi usi e sinonimi nell'insostenibile sviluppo in cui siamo immersi. Le ricerche multidisciplinari sul fenomeno migratorio devono molto rivalutare la dimensione "ambientale" delle migrazioni. Le espressioni "environmental refugee" o "environmental migrants" o "environmental displaced people" possono essere utilizzate per sottolineare o distinguere la spinta a migrare connessa alle varie forme di inquinamento e di degrado ambientale, per le quali il riconoscimento scientifico della costrizione non è certo e il margine di libera scelta dei momenti e delle modalità è parzialmente maggiore. L'espressione "displaced people" diventa quella descrittiva di ogni migrazione forzata, qualunque sia lo Stato entro cui avviene o quanti e quali che siano gli Stati interessati. L'aggettivo "environmental" può invece risultare ridondante o superfluo, non classifica; meglio chiarire quale contesto geografico o climatico e quale specifica contestuale ragione socio ambientale. Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e all'assistenza di profughi climatici. Sulla via del riconoscimento internazionale dei rifugiati climatici si frappone inoltre il timore di compromettere la sensibilità che già è stata acquisita nei confronti dei rifugiati tradizionali e il timore da parte di governi ed istituzioni di trovarsi in difficoltà nel mettere in atto misure di protezione e di reinserimento dei rifugiati provenienti da zone degradate e dovendo provvedere al loro sostentamento economico. Già nel 1999, con la pubblicazione del libro Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena , Norman Myers, professore di economia ambientale e consulente per le Nazioni Unite, metteva il luce le difficoltà incontrate dalla comunità scientifica mondiale sulla via di una definizione sia del fenomeno, sia del livello di tutela giuridica internazionale che dovrebbe essere riservata a questa categoria di persone. In particolare, per quanto riguarda la definizione, egli pone l'accento sulla necessità di soffermarsi sulla differenza tra " persone in condizioni modeste ma tollerabili in patria che cercano altrove la possibilità di una vita in condizioni economiche migliori" e quelle persone che migrano perché sono "spinte da fattori di base del degrado ambientale" condizione che appare come la caratteristica principale per definire il concetto di rifugiato ambientale. Sono stati proposti numerosi termini alternativi per classificare i rifugiati ambientali, tra cui "persone sfollate per motivi ambientali" e "emigranti costretti da motivi ambientali", che pur essendo precisi risultano assai meno efficaci e, in effetti, sono quasi ridondanti. Altri suggerimenti spaziano da "eco-migranti" e "eco-evacuati" a "eco-vittime"; però i primi due termini non connotano l'idea di migrazione coatta, mentre l'ultimo non suggerisce affatto l'emigrazione. Ad ogni modo queste persone, comunque le si voglia designare, sono un'ampia componente fra tutti gli altri rifugiati e, entro la prossima metà del secolo, potrebbero addirittura superare di varie volte il numero degli altri rifugiati. Myers propone quindi la seguente definizione: "I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta". Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico dei sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da errati o mancati interventi dell'uomo. Possono concorrere fattori aggiuntivi che inaspriscono i problemi ambientali e che spesso, in parte, derivano da problemi ambientali: crescita demografica, povertà diffusa, fame e malattie pandemiche. Altri fattori ancora comprendono carenze delle politiche di sviluppo e dei sistemi di governo che 'marginalizzano' le persone in senso economico, politico, sociale e legale. In determinate circostanze, alcuni fattori possono fungere da 'scatenanti immediati' della migrazione, per esempio colossali incidenti industriali e costruzioni di dighe smisurate. Molti di questi fattori possono agire in concomitanza, spesso con effetti cumulativi. Di fronte ai problemi ambientali, le persone coinvolte ritengono di non avere alternative alla ricerca di sostentamento altrove, sia all'interno del loro paese che in altri paesi, sia su base semipermanente che su base permanente. Non c'è alcun motivo di pensare che chi fugge da condizioni di privazione estrema in conseguenza di collassi ambientali su vasta scala abbia una più attenuata percezione della propria marginalità sociale e una disperazione minore rispetto a chi fugge da oppressioni politiche o religiose. Non sta forse anch'egli cercando la stessa forma di sicurezza nel senso più definitivo del termine, ossia una sicurezza in grado di farlo sentire nuovamente accettato dalla società, in qualche luogo? Per decenni la scena è stata dominata dalle categorie di rifugiati che definiamo "convenzionali", ma ora è giunto il momento di abbandonare formule e definizioni che si rivelano troppo restrittive. Di fronte ai mutamenti che avvengono nel mondo reale non dovrebbero cambiare allo stesso modo anche le nostre categorizzazioni? Alla fine di questo primo approccio a ciò che si connota come un vero e proprio esodo ambientale, siamo già in grado di formulare una considerazione fondamentale: è necessario agire sui sintomi, prima che il problema inizi a causare effetti collaterali cui sarà tremendamente più difficile porre rimedio. Di diversa opinione appare invece il rapporto sul tema pubblicato dall' Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che sottolinea l'importanza di non utilizzare il termine rifugiati per indicare categorie di persone diverse da quelle previste nella Convenzione di Ginevra. A livello italiano, si è parlato del fenomeno in relazione della mancata tutela giuridica di coloro che sono costretti ad emigrare per questo genere di cause e possono essere quindi oggetto di provvedimenti di espulsione, e nel caso dell'Italia del possibile trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione che precedono il rimpatrio. E' certo che storicamente vi è sempre stata una qualche correlazione tra cambiamenti climatici, disastri naturali, modificazioni del clima e flussi migratori, ma molti sono convinti che il deterioramento dell'ambiente prodotto dal cambiamento climatico porrà negli anni a venire il tema del 'rifugiato' climatico al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica e degli organismi internazionali. Questo è un elemento di novità che in relazione alla rapidità con la quale si sta evolvendo il processo di cambiamento climatico, rende un fenomeno millenario ricco di spunti di ricerca, di riflessione e di azione mirata. Le vittime delle conseguenze del surriscaldamento sono una categoria di migranti ancora sconosciuta ai più, priva di uno statuto ufficiale, ma destinata a crescere rapidamente. E a pagarne lo scotto ancora una volta sono i paesi più poveri ed in primis le zone costiere e le isole del Sud-est asiatico, in particolare il Bangladesh come vedremo, così come le aree in via di desertificazione dell'Africa sub sahariana. Senza più casa, costretti ad abbandonare la propria terra perché a rischio o perché modificata nella struttura e composizione, stravolta dai processi di desertificazione, stress idrico o innalzamento del livello del mare, e in attesa di futuro incerto fatto di piani di trasferimento e re-insediamento. La nuova ferita apertasi sulla pelle di questo millennio allarma e fa discutere, per poi scivolare nuovamente nel dimenticatoio mediatico, assecondato da un'opinione pubblica oramai sempre più immune al dramma del disastro. Si vuole quindi invitare alla presa di coscienza e alla riflessione non solo sul disastro ecologico irrefrenabile ma anche sulle conseguenze che lo stesso sta provocando e quindi su possibili riconoscimenti e nuove possibilità di sopravvivenza per queste persone al fine di permettere loro una vita sicura e dignitosa.
Le motivazioni che mi hanno spinto a redigere questo elaborato sono diverse. Una su tutte il senso di responsabilità verso una frase di H., pastore palestinese e leader della resistenza nonviolenta nelle colline a sud di Hebron, che ho sentito particolarmente ispirante: "il vostro ruolo qui è molto importante, ma è più importante in Italia". Molte sono state le spinte che ho ricevuto in questo senso durante la mia esperienza in Palestina/Israele della primavera scorsa, quando, tramite Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, mi sono recato in qualità di volontario di breve periodo nella parte meridionale della Cisgiordania, nelle colline a sud di Hebron. Su queste colline ho trascorso tre mesi vivendo ad At-Tuwani, il villaggio più grande dell'area, situato nella zona denominata come Masafer Yatta. Questa esperienza, valida anche come tirocinio formativo del corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti, mi è stata utile, soprattutto, per conoscere la verità su quanto accade nei territori palestinesi occupati. Dopo aver conosciuto la triste situazione di precarietà che vivono le famiglie palestinesi della comunità delle South Hebron Hills e dopo aver visto con i miei occhi la prassi nonviolenta che hanno deciso di adottare come metodo di resistenza attiva all'occupazione militare e civile israeliana, in questo elaborato ho provato a trovare il risvolto pratico e "tornare alla teoria" di quanto studiato in Teoria dei conflitti. Le asimmetrie dei conflitti, le teorie e le strategie di resistenza e le differenze di approccio ai conflitti, dopo esser stato immerso totalmente all'interno di una comunità palestinese periferica, sono state ancor più nitide e trasparenti. Oltre ad aver ascoltato numerose testimonianze di volontari internazionali ed essermi informato mediante la lettura di articoli di giornale, saggistica e siti internet, ho conosciuto la situazione israelo-palestinese attraverso i racconti di tre ragazzi provenienti da altrettante famiglie palestinesi: Bashar, Khaled e Hassan. Quattro anni fa, tra il settembre 2008 e il febbraio 2009 ho studiato per sei mesi – tramite il programma Erasmus svolto all'interno del mio precedente ciclo di laurea triennale – presso l'università di Brno, in Repubblica Ceca. In quel luogo ho avuto la possibilità di conoscere giovani provenienti da tutto il mondo e stringere una forte amicizia con i tre ragazzi, due giordani e un siriano. Nel dicembre del 2008, durante i tristi giorni della violenta campagna militare israeliana su Gaza denominata "Piombo Fuso", mi sono trovato così a comprendere ciò che accadeva al di là del Mediterraneo, attraverso coloro che avevano, in un certo modo, subito le stesse sofferenze. Fu per me molto forte condividere quella situazione attraverso i racconti dei figli dei profughi palestinesi. Attraverso il quotidiano aggiornamento delle notizie, gli approfondimenti, le discussioni, le manifestazioni di piazza, la visione di documentari e filmati, audio, sessioni in arabo ed inglese di Al Jazeera e soprattutto mediante numerosi racconti personali di storie raccontategli a sua volta dai genitori e parenti, profughi del '48 e del '67, mi resi conto, in quei mesi, delle forti ingiustizie che avevano luogo in quello spicchio di terra, che prima, per me, non aveva un cosi forte significato. Avendo conosciuto la questione di "Palestina/Israele" tramite questi giovani e le storie delle loro famiglie, ho trovato le giuste motivazioni per svolgere, tre anni e mezzo più tardi, un esperienza con Operazione Colomba nei territori palestinesi. L'esperienza all'estero – anche se per soli tre mesi – è stata fondamentale per la scrittura di questo elaborato poiché ha stravolto il mio modo di vedere e leggere quella ingarbugliata situazione. I pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron non hanno il linguaggio tipicamente geopolitico che spesso si sente nei salotti televisivi o nelle discussioni europee mentre si argomenta riguardo la questione israelo-palestinese. La lingua della gente è quella della dignità e della resistenza, chiede a gran voce la tutela dei più elementari diritti di cui vengono privati ogni giorno e mostra in maniera pratica la possibilità che nei salotti televisivi non viene mai presa in considerazione: la rivoluzione nonviolenta e la trasformazione del conflitto. É questa la ragione, dopo aver esser stato volontario di Operazione Colomba, che mi ha suscitato l'intenzione di redigere questa tesi di laurea. Sentendo forte la necessità di aiutare quella resistenza nonviolenta anche in Italia, ho provato a concedergli lo spazio meritato all'interno di una discussione accademica e ho tentato di farla rientrare a pieno diritto all'interno delle categorie teoriche studiate nella Teoria dei conflitti. Per cercare di non focalizzare l'attenzione solo su una dimensione del conflitto, ho deciso di avvalermi di molteplici strumenti. Ho utilizzato i diari dei volontari, report e articoli scritti sui vari siti delle associazioni che lavorano "sul campo", classici manuali e saggi, documentari, film e interviste video e audio. Oltre alla mia esperienza e al mio diario, ho avuto il prezioso aiuto di alcuni volontari di Operazione Colomba che, attraverso una breve intervista composta da tre domande, hanno riflettuto e poi descritto quelle che sono, secondo il loro parere, le caratteristiche del Corpo Civile di Pace con cui sono partiti per un esperienza all'estero e la metodologia di intervento. Nel redigere questo elaborato, ho provato, come richiede una tesi di laurea magistrale, ad essere oggettivo nel descrivere in maniera analitica tutte le dimensioni, anche quelle che ho vissuto in prima persona. Da italiano e quindi da "parte terza" nel conflitto israelo-palestinese, ho cercato di essere imparziale, pur sapendo le difficoltà in cui incorre qualsiasi autore che redige un determinato documento, accademico o giornalistico che sia. Il mio desiderio è stato quello di cercare l'imparzialità e l'oggettività del narratore, seguendo il modello tracciato dalla nuova storiografia israeliana di T. Segev, B. Morris e I. Pappe. La storia – come sostiene un opuscolo pubblicato da un'associazione di Siena – va ricercata "nelle mani di chi coltiva la speranza, negli sguardi di chi è ebbro di vita, nella fatica di chi ara la terra e accudisce l'olivo"1. L'imparzialità nell'analisi della situazione israelo-palestinese, dal punto di vista grammaticale, è resistita sino alla fine del quarto capitolo, poiché, nella quinta ed ultima sezione, intervistando volontari con cui ho vissuto ad At-Tuwani o che comunque ho conosciuto di persona, raccontando e analizzando anche la mia esperienza personale con la Colomba, non son riuscito a trattenere il mio spirito di forte partecipazione. Se non son riuscito ad essere completamente oggettivo nella descrizione della storia e delle vicende di israeliani e palestinesi significa che sono stato colto da errore e me ne assumerò le responsabilità. Essendo quello su cui ho argomentato un conflitto – come molti altri – ricco di mitologia, le narrazioni presentate al grande pubblico sono quasi sempre solo due e sempre polarizzate una dall'altra. La realtà dei fatti è che entrambe le storie omettono molti passaggi ed eventi diventando così faziose. Il mio tentativo è stato quindi quello di cercare di andare oltre a questa dicotomia e raccontare la storia il piu veritiera e obiettiva possibile. "Lo storico francese Fernand Braudel ha ideato una teoria che paragona il processo storico a un fiume. Ciò che si trova in superficie scorre a grande velocità mentre ciò che si trova sott'acqua si sposta lentamente. Gli avvenimenti scorrono veloci ma nello stesso tempo si nota anche una grande stabilità delle vecchie strutture e dei vecchi modi di pensare. Questi ultimi cambiano molto più lentamente."2 Con questo concetto ben stampato nella mente, anch'io ho cercato di comprendere avvenimenti "di superficie" e i cambiamenti delle "vecchie strutture". Nel primo capitolo ho analizzato gli eventi storici in maniera alternativa, cercando di raccontare i fatti tramite le parole dei protagonisti e provando a ricostruire gli eventi attraverso una pluralità di informazioni. Non mi sono documentato solo dai classici manuali di saggistica, ma ho deciso di avvalermi anche di video-documentari, filmati, report di associazioni, articoli di giornale e siti internet. Inoltre non ho solo incrociato le fonti bibliografiche ma ho cercato di informarmi sottolineando le discrepanze tra le diverse letture che ho svolto. Avendo riflettuto molto sulle parti riportate in questo capitolo e non volendo rinunciare a segnalare alcun autore, forse, il risultato ne è stata una variante un po' troppo estesa. Mi sono prolungato sugli eventi dal 1880 in poi, perché ho considerato necessario soffermarmi su alcuni nodi storici per comprendere meglio la complessità della quotidianità palestinese e israeliana. Ho cercato di rappresentare alcuni aspetti e dimensioni della storia di tutta l'area dando un peso particolare alla questione della terra e delle risorse, evidenziando, quando ne ho avuto la possibilità, la situazione delle popolazioni periferiche, della situazione scolastica, e di coloro che svolgono un lavoro legato a pastorizia, allevamento e agricoltura. Ho tentato di analizzare maggiormente queste dimensioni per comprendere alla radice le cause dei problemi attuali che vivono i pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron. La situazione di quest'area periferica l'ho analizzata nel secondo capitolo, proponendo un percorso storico dal 1948 in poi, dal 1967 con l'occupazione militare, l'insediamento delle colonie e degli avamposti ebraici, fino ad arrivare alla divisioni in aree degli accordi di Oslo, sino alle ultime dinamiche ed eventi accaduti ai giorni nostri. Ho utilizzato esempi provenienti dalla quotidianità della politica di occupazione militare e civile israeliana e come agisce privando i palestinesi che vivono la zona dei più elementari diritti. La situazione paradossale che si crea in quell'area, che secondo gli accordi di Oslo è area C quindi a completa amministrazione militare e civile israeliana è ancora più forte se si pensa alla situazione dei bambini delle South Hebron Hills che, dal 2005 ad oggi, dopo una decisione della Commissione per i diritti dell'infanzia della Knesset, il parlamento israeliano, devono aspettare tutte le mattine e tutti i pomeriggi, una scorta armata dell'IDF che li protegga dagli attacchi dei coloni per poter fare in sicurezza il tragitto da casa a scuola, e viceversa. I capitoli tre e quattro rappresentano il nocciolo della questione, poiché rappresentano quanto mi ero proposto di analizzare e argomentare, espressione del titolo dell'elaborato. Nel terzo ho descritto la situazione di vita complessa e difficile e come viene ribaltata dalla scelta nonviolenta che ha adottato la comunità palestinese che abita le colline a sud di Hebron e del Comitato di Resistenza Popolare, nato nel 2000. Una resistenza, quella di questi palestinesi, che non ha nulla a che vedere con le immagini che i maggiori media nazionali ed internazionali propugnano alla televisione. Una paziente e quotidiana resistenza, che è attiva e decisa nel combattere le ingiustizie e che proviene, in prima istanza, dall'essenza pacifica dei pastori stessi. Alla minaccia di arresto da parte dei soldati o agli attacchi e alle provocazioni dei coloni ai danni di un palestinese su un dato territorio loro rispondono tornando su quell'area organizzando marce e manifestazioni pacifice. Alle demolizioni di strutture o danni ai caseggiati, i nonviolenti palestinesi rispondono ricostruendo quanto distrutto e denunciando le ingiustizie subite presso gli enti preposti. Ai danni degli oliveti e dei campi di grano che sono dislocati su tutte le colline intorno ai villaggi, i palestinesi replicano facendo rinascere la vita, piantando nuovi ulivi e seminando grano per l'anno successivo. Il Comitato, ente preposto per l'organizzazione della resistenza, ha anche il ruolo di organizzare marce per la pace, azioni nonviolente, training di formazione alla nonviolenza e ha avuto l'appoggio di numerosi gruppi di attivisti israeliani e internazionali che vivono e lavorano nell'area. Essendo quella nonviolenta una scelta di massa e popolare, i palestinesi che vivono ad At-Tuwani e nei villaggi vicini hanno avuto l'opportunità, oltre a ricevere in visita numerose delegazioni di israeliani, attivisti e non, di accogliere due gruppi di internazionali, i Christian Peacemaker Team e Operazione Colomba. Oltre alla solidarietà e al supporto, dal 2004 i due gruppi vivono nell'area, condividendo i pericoli e le ostilità quotidiane e accompagnando i pastori palestinesi che pascolano i loro greggi sulle colline. In particolare, sul finire del capitolo ho focalizzato l'attenzione su come il Comitato Popolare delle South Hebron Hills si inserisce nelle questioni nazionali e sulla forza delle donne del villaggio e il loro prezioso ruolo nella resistenza nonviolenta e nelle dinamiche della vita del villaggio. Nel quarto capitolo ho cercato di sintetizzare la resistenza nonviolenta all'interno delle categorie tipiche della Teoria dei conflitti: il conflitto asimmetrico e la risoluzione del conflitto mediante un cambiamento di paradigma. La trasformazione nonviolenta del conflitto, almeno per quanto concerne la situazione nelle South Hebron Hills, è partita dal circuito virtuoso scatenato dalla scelta nonviolenta della comunità palestinese. Le relazioni tra palestinesi e israeliani sono cominciate a differire e il cambiamento pacifico, descritto da Miall in Emergent Conflict and Peaceful Change, ha cominciato a mostrare sin da subito i risultati. Oltre a questioni teoriche legate al conflitto e alla sua trasformazione ho concentrato gli sforzi nel ripercorrere gli anni precedenti la nascita dello stato d'Israele e in particolare nell'accezione nonviolenta, culturale e religiosa di un tipo di sionismo, che con la nascita dello stato Ebraico non ha saputo vincere il braccio di ferro con il sionismo politico di Herzl e Ben Gurion. Infine ho portato altri esempi di prassi nonviolenta e possibili scenari futuri di pace per Palestina/Israele. Nel paragrafo intitolato "Immaginare un altro Israele", ho analizzato uno scambio di missive che è avvenuto sul finire degli anni '30 tra Gandhi e due intellettuali ebrei, seguaci del sionismo culturale, Martin Buber e Judah Magnes. In questo carteggio ho riscontrato differenze sostanziali tra i tre pensatori nonviolenti che ho poi sintetizzato sottolineando in particolare l'importante aspetto della relazione tra politica e religione nelle tre diverse accezioni. Nel quinto ed ultimo capitolo ho mi sono soffermato su Operazione Colomba, le attività che svolge in Palestina/Israele e negli altri luoghi in cui è presente attualmente. Ho portato alla luce la storia del Corpo Nonviolento di Pace che nel 2012 ha festeggiato i primi vent'anni di vita e i tre pilastri fondamentali con cui è intervenuto in zone di conflitto: la scelta nonviolenta, la condivisione della vita con le vittime della guerra e la neutralità dell'intervento o equivicinanza tra le parti. Mi sento orgoglioso del paragrafo "Essere una Colomba" poiché credo fermamente nell'azione di questa organizzazione e nel suo modo di agire. Con l'aiuto di alcuni volontari che ho intervistato, ho riflettuto sul significato di essere una Colomba, all'estero e in Italia e sulla forza della nonviolenza attiva. Infine ho preso ad esempio il lavoro di Operazione Colomba per rilanciare il discorso – ultimamente accantonato – sui Corpi Civili di Pace. La necessità di tale istituzione è, secondo la mia modesta opinione, un'urgenza e un bisogno impellente. Proveniendo dal corso di laurea di Scienze per la pace, ho avuto la possibilità di studiare in maniera interdisciplinare i parametri giuridici e la cornice burocratica all'interno della quale si dovrebbe vedere la nascita di tali Corpi Nonviolenti di Pace, il cui ruolo sarà decisivo per il raggiungimento di quell'obiettivo sancito nella costituzione repubblicana, che è la difesa della Patria con altri mezzi. Infine, ho trovato necessario concludere il mio elaborato, senza assumermi la responsabilità di mettere il punto finale ad una storia, che è ancora in divenire. Ho scelto quindi di chiudere il mio elaborato e il mio percorso di studi, tramite delle conclusioni (o nonconclusioni) dal finale aperto, perchè in corso di scrittura. Ho predisposto, in allegato all'elaborato, alcune mappe geografiche per poter comprendere meglio le complicate questioni dibattute in precedenza.
Il lavoro intende approfondire la disciplina dell'adozione internazionale vigente nel nostro ordinamento, focalizzando l'attenzione sui profili problematici derivanti dalla c.d. kafalah e la sua compatibilità con l'ordine pubblico interno e il diritto italiano più in generale. Solo negli ultimi anni tale istituto – anche per ragioni di ordine culturale e di flussi migratori – ha visto crescere l'attenzione degli studiosi nei suoi confronti, sulla spinta di taluni (invero, sporadici) arresti giurisprudenziali. Di sicuro interesse è il profondo dibattito sulla qualificazione dell'istituto islamico della kafalah non solo nell'ambito della disciplina delle adozioni internazionali ma anche in materia di immigrazione, in particolare del ricongiungimento familiare. Invero, molto si discute –e molto si discuterà– circa il diritto di cittadinanza (pieno, nullo o affievolito) che la kafalah può ottenere nel nostro ordinamento giuridico. --- Il cuore del problema è, infatti, costituito dalla possibilità o meno di sussumere la kafalah sotto gli istituti tipici di "protezione del minore" o, comunque, sotto uno dei fatti che, ai sensi della vigente normativa, rilevano ai fini della protezione del "nucleo familiare". Si è evidenziato che difficilmente può pervenirsi ad una soluzione accettabile del problema se ci si àncora a criteri meramente formali. --- Dopo una breve analisi dell'evoluzione storica della disciplina dell'adozione, si è analizzata la disciplina della stessa nell'età moderna focalizzando l'attenzione sull'adozione internazionale. Giungiamo in tal modo alla normativa attuale: la legge 4.5.1983, n. 184, "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori" che ha disciplinato le adozioni nazionali ed internazionali per quasi vent'anni sino all'intervento della l. 31.12.1998, n. 476, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni internazionali", che ha particolarmente inciso rispetto alla disciplina delle adozioni internazionali, e successivamente dalla l. 20.3.2001, n. 149, che è intervenuta quasi esclusivamente sul regime delle adozioni nazionali modificando, tra l'altro, il titolo della l. 184 del 1983, divenuto "diritto del minore ad una famiglia". Pertanto le fonti principali della disciplina delle adozioni internazionali nel nostro ordinamento sono la Convenzione de L'Aja del 29.5.1993 ed il titolo III della L. 184/1983, così come modificato dalla l. 476/1998 (che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione). Doveroso un accenno alle altre convenzioni internazionali tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20.11.1989. Essa, peraltro, è utile al corretto inquadramento dell'istituto della kafalah, ove al suo art. 20 sembra trovare una sorta di "legittimazione" internazionale: "Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambito familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti speciali dello Stato. Gli Stati Parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale. Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo di sistemazione in una famiglia, della kafalah di diritto islamico, dell'adozione o, in caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l'infanzia. Nell'effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità dell'educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica". La Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, richiama espressamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del minore del 20 novembre 1989. Essa enuncia gli essenziali obiettivi di garantire nell'adozione internazionale la realizzazione del miglior interesse del bambino ed il rispetto dei suoi diritti fondamentali, di creare un sistema di cooperazione tra gli Stati aderenti finalizzato a tale realizzazione, di garantire il riconoscimento in tutti gli Stati aderenti delle adozioni realizzate in conformità dei principi espressi dalla Convenzione Per dare effettiva attuazione ai principi da essa formulati, la Convenzione ha imposto l'obbligo per ogni Stato ratificante della creazione di un'apposita Autorità centrale e di un sistema di enti pubblici e/o privati controllato da tale Autorità, ai quali delegare il compito di coordinare, sorvegliare e realizzare il procedimento adottivo ponendo il divieto dello svolgimento dell'attività di ricerca del minore sia alle coppie, sia ad intermediari privati. In Italia l'Autorità centrale per l'adozione internazionale è rappresentata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali. --- Il 3° cap. affronta la tematica centrale, il cuore, della tesi: il divieto islamico di adozione e la kafalah. L'istituto in questione è inquadrato alla luce delle osservazioni effettuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il punto di partenza è il divieto di adozione vigente nei paesi di religione mussulmana, il quale trova il suo fondamento direttamente nel Corano: "Dio non ha posto nelle viscere dell'uomo due cuori, né ha fatto (…) dei vostri figli adottivi dei veri figli" (Sura XXXIII). Tale divieto sembra avere il fine di preservare la concezione islamica secondo cui la famiglia ha origine divina. Poiché i vincoli di filiazione sono espressione della volontà divina, l'uomo non può artificialmente determinarne la cessazione e costituirne di nuovi al di fuori della generazione biologica; essendo l'adozione un istituto giuridico volto a costituire un rapporto di filiazione indipendente dalla procreazione biologica, esso deve essere vietato". Fortunatamente il divieto di cui sopra non giunge al punto di impedire ogni forma di assistenza in favore di minori che versino in stato di abbandono o comunque di necessità: in queste eventualità viene in soccorso, per l'appunto, l'istituto della kafalah. Con essa un soggetto (kafil) promette davanti a un giudice o a un notaio di curare e mantenere – così come provvederebbe un buon padre di famiglia – un minore (makful) sino al raggiungimento della maggiore età (ma la kafalah è revocabile). Il kafil assume dunque l'obbligo di provvedere alla cura del minore, senza che a tale obbligo consegua alcun vincolo di filiazione o interruzione dei rapporti correnti tra il minore e la famiglia di origine. L'istituto può essere "giudiziale" ovvero meramente "negoziale" e il kafil acquisisce la potestà genitoriale sul makful. Il minore oggetto di kafalah non essendo considerato figlio del kafil non ne assume il nome, ma, nel testamento del kafil può essere equiparato ad uno dei suoi eredi. I profili problematici attengono i concreti effetti della kafalah nel nostro ordinamento anche (ma non solo) ai fini del ricongiungimento a maggiorenni qui residenti di minori ad essi legati da vincoli che conseguono alla kafalah. La kafalah infatti "pur mostrando alcune affinità sia con l'adozione sia con l'affidamento sia con la tutela, non può ovviamente essere identificata con nessuno di essi, a causa dell'esclusione (ad essa connaturata) del sorgere di qualsiasi rapporto di filiazione nonché del carattere (altrettanto immanente) di continuità – ma non di definitività – nella protezione del minore (ossia del raggiungimento della maggiore età)" (Clerici, La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con l'ordine pubblico internazionale, in Fam. e dir., 2009, 208) --- Per avere una cognizione piena del problema si è evidenziata la disciplina che la kafalah ha nel diritto marocchino e algerino. L'istituto de quo pone, con riferimento agli effetti che esso può determinare nel nostro ordinamento, soprattutto (per non dire esclusivamente) due problemi: -il primo, costituito dagli effetti riconducibili alla kafalah ai fini dell'adozione internazionale; -il secondo, rappresentato dall'idoneità della kafalah a consentire il ricongiungimento familiare ai sensi dell'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. E non poco ha pesato, in particolare sulla giurisprudenza, la preoccupazione che l'istituto in esame potesse costituire – sia con riferimento all'adozione internazionale sia con riferimento al ricongiungimento familiare – il "cavallo di Troia" capace di eludere la volontà di legge. Preoccupazione sicuramente giustificata, ma forse eccessiva, alla luce delle considerazioni svolte, soprattutto in dottrina, che appaiono idonee a dar vita ad un'elaborazione giurisprudenziale che sia, al tempo, cauta ed equa. --- La normativa vigente non sembra offrire soluzioni ad alcuni problemi di fondo, tra cui quello costituito dalla possibilità di adottare minori provenienti da paesi islamici, stanti le profonde differenze che a livello giuridico (oltre che, ovviamente, a livello religioso) contraddistinguono gli istituti volti alla tutela dei minori. Il quesito di fondo è il seguente: può la kafalah essere inquadrata, ai fini dell'adozione, in alcuno degli istituti previsti dal vigente ordinamento? La nostra normativa sembra risentire del fatto che la Convenzione de L'Aja del 1993 non fa alcun riferimento all'istituto della kafalah, sì che è comune l'opinione che detta Convenzione non si applichi all'istituto in esame. Infatti, l'art. 2, § 2 stabilisce che essa si applica ai soli rapporti di adozione da cui derivi un rapporto permanente tra padre e figlio, sì che, mentre vanno ricompresi tutti i rapporti così qualificabili (a prescindere dal fatto che essi interrompano del tutto o solo parzialmente il legame di filiazione naturale), non altrettanto può dirsi dei rapporti di diversa natura. Il Rapporto esplicativo della Convenzione dell'Aja del 19.10.1996 (firmata, ma non ratificata dall'Italia), al punto 237, che "il ragazzo che ne beneficia (della kafalah, ndr.) non diviene membro della famiglia del kafil ed è questo il motivo per cui la kafalah non è protetta dalla Convenzione sull'adozione del 29 maggio 1993". Si è evidenziato, peraltro, il ritardo nella ratifica da parte del Parlamento italiano. Il ritardo "politico" non è certo privo di effetti quanto all'eliminazione degli inconvenienti che conseguono all'impossibilità di declinare, secondo moduli sovrapponibili, adozione e kafalah. --- Il sistema cui si è pervenuti successivamente alle modifiche della legge n. 184 del 1983, prefigura – quanto alla possibilità di ottenere il riconoscimento di adozioni avvenute all'estero – tre possibili "scenari": a) nel primo l'adozione riguarda minori che provengono da Paesi che hanno aderito alla Convenzione de L'Aja (in questo caso l'adozione "è riconosciuta"); b) nel secondo il minore proviene da Paesi che non hanno aderito alla detta Convenzione (in questo caso l'adozione "può essere riconosciuta"); c) nel terzo, infine, il minore proviene da Paese nel quale i genitori adottivi hanno avuto residenza per almeno due anni (anche in questo caso, come nel primo, l'adozione "è riconosciuta"). Dunque il Paese di provenienza è fonte, per il giudice italiano, di maggiore o minore discrezionalità. Fondamentale ulteriore parametro può essere ricavato da quanto disposto dagli artt. 35 e 36 (comma 2 e comma 4) della citata legge 184 nel testo modificato. Per quanto concerne i paesi aderenti alla Convenzione de L'Aja, il riconoscimento deve avere ad oggetto o "adozioni" o "provvedimenti" finalizzati a consentire l'adozione nel Paese di destinazione. Nel caso in cui i provvedimenti "possono essere riconosciuti", essi debbono consistere unicamente in adozioni o affidamenti "preadottivi". Nel caso in cui si tratti di Paesi dove i genitori adottivi abbiano avuto residenza per almeno due anni, i provvedimento da riconoscere deve consistere in una "adozione". --- Ci si è chiesto, a questo punto, quale può essere la collocazione della kafalah in tale quadro normativo. Le soluzioni che paiono più convincenti sono le seguenti. -Non sembra, innanzitutto, che la kafalah possa essere "tradotta" in termini tali da consentire di apprezzarla, ai sensi e agli effetti del nostro ordinamento, come adozione o come affidamento preadottivo, non avendone i tratti essenziali e lo scopo loro propri. -Neppure potrebbe essere "convertita" da adozione semplice (della quale ha le caratteristiche) in adozione legittimante, per il semplice fatto che detta "conversione" è possibile solo quando l'adozione sia conforme alla Convenzione, la quale, all'art. 2, § 2, "contempla solo le adozioni che determinano un legame di filiazione". -Quanto all'ipotesi in cui i kafil siano cittadini italiani residenti all'estero da almeno due anni, neppure in questo caso potrebbero prodursi gli effetti di cui all'art. 36, 4 comma, legge 184/1993, atteso che detto articolo parla solo ed esclusivamente di "adozione". La kafalah, pur essendo del tutto incompatibile con l'adozione legittimante, ha tratti che la rendono assimilante all'adozione di cui all'art. 44 legge n. 184/1983 (tale adozione, qualificata dalla legge come "adozione in casi particolari", è anche detta "semplice", "semipiena", "ordinaria", "non legittimante"). In questo tipo di adozione "l'adottato non assume la posizione di figlio legittimo, non tronca il rapporto con la famiglia di origine, della quale mantiene il cognome anche si vi aggiunge quello del genitore adottivo, non perde il proprio status giuridico e la propria cittadinanza, con la conseguenza che se il minore viene trasferito all'estero, continua a sussistere la protezione offerta dal suo Paese di origine. Inoltre, come nel caso della kafalah, il genitore adottivo assume il dovere di educare, istruire e mantenere il figlio, esercita su di lui la patria potestà ed il minore non acquista diritti successori nella famiglia adottiva. A differenza di quanto avviene con la kafala, il minore oggetto di adozione semplice acquisisce i diritti successori nei confronti dell'adottante ed i rapporti giuridici che lo legano a lui non cessano con la maggiore età" (Orlandi). L'applicabilità alla kafalah della normativa concernente l'adozione in casi particolari sembra convincente, ancorché debba precisarsi che siffatta applicabilità non si ricava per dettato esplicito della legge n.184/1983 la quale, sul punto, nulla dice espressamente e dunque esplicitamente non autorizza né vieta la predetta adozione. Sembra potersi concudere che non esista una soluzione pacifica e lineare quanto agli strumenti idonei a "recepire" la kafalah ai fini dell'adozione internazionale dei minori. Pur tuttavia la necessità di trovare una forma di tutela dei minori – in un'ottica di salvaguardia del superiore interesse degli stessi – sembra spingere, del tutto ragionevolmente, verso la ricerca di un excamotage che si presenti in linea con le esigenze minime di coerenza del nostro sistema. A tali esigenze risponde pienamente l'adozione in casi particolari (pur con taluni inconvenienti) che si lascia dunque preferire rispetto ad altri strumenti ipotizzabili. --- La kafalah non pone problemi solo nel suo rapportarsi all'istituto dell'adozione internazionale: analoghe difficoltà sorgono allorché si tenta di sussumere il rapporto tra kafil e makful sotto la previsione normativa di cui all'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Ci si è chiesto se il rapporto creato dalla kafalah possa essere assimilato a qualcuno dei rapporti indicati dalla norma appena citata, la quale, com'è noto, stabilisce che "ai fini del ricongiungimento (…) i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli". La prevalente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha affermato il principio secondo cui la kafalah può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 286/1998. La lettura prevalentemente offerta dalla Suprema Corte dell'art. 29, d.lgs. n. 286/1998 è ispirata ad un'ottica strettamente ancorata ai valori costituzionali presenti nel nostro ordinamento, utilizzando il canone ermeneutico della «esegesi costituzionalmente adeguata», per effetto del quale, ove i valori costituzionali di riferimento appaiano plurimi e antagonisti (come nel caso in esame: esigenza di protezione dei minori e tutela democratica dei confini dello Stato, con conseguente contenimento della immigrazione), la norma ordinaria può dirsi interpretata in maniera «adeguata» solo se sarà realizzato un «equo bilanciamento» di tali valori. Un bilanciamento effettuato «alla luce della scala di valori presupposta dal Costituente», e già operato in più occasioni dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze n. 198 e 295 del 2003) nel segno di una prevalenza del valore di protezione del minore, ovviamente anche straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio e contenimento della immigrazione. Una prevalenza che non può che apparire coessenziale ad una esegesi costituzionalmente orientata della disciplina del ricongiungimento familiare, tenendo in considerazione che «una pregiudiziale esclusione (come quella che pretende l'Amministrazione) del requisito per il ricongiungimento familiare per i minori affidati in "kafalah", penalizzerebbe (anche con vulnus al principio di uguaglianza) tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l'unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». La disposizione di cui all'art. 29, comma 2, d.lgs. 286/1998, deve, pertanto, essere interpretata estensivamente o comunque integrata in via analogica, sulla base della comparazione fra i presupposti e le caratteristiche del rapporto di kafalah e del rapporto di affidamento.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.
La condizione della donna nella famiglia, e più in generale nel diritto privato, nel vasto arco di tempo che abbraccia il medioevo e la prima età moderna, è stata oggetto, come ben noto, di cospicue ricerche, da parte di una ricchissima storiografia giuridica che spazia dall'Ottocento fino ai giorni nostri. Per l'altomedievo, sono certamente fondamentali gli studi più risalenti di Criscuolo, Schupfer e Besta, accanto a quelli via via più recenti di Falletti, Bellomo, Cortese, di Cavanna, Arcari e Guerra Medici sulla condizione della donna nei diritti germanici e in particolare sulle rovinose conseguenze della discesa in Italia dei longobardi, che pure avevano in parte perso quell'originaria selvatichezza che li aveva fatti apparire, in età augustea, come l'espressione più feroce della ferocia germanica. Dall'Editto di Rotari alle poche norme di Astolfo, come anche nella prassi dei privati è stata infatti colta da un lato la sopravvivenza di antichi costumi di vita, ma anche una certa inclinazione ad un vivere più civile e l'immagine, sempre più nitida, di una nuova dimensione spirituale. E' stato ampiamente messo in luce, anche nelle pagine scritte al riguardo da Padoa Schioppa e Villata, come nel quadro della famiglia longobarda la donna costituiva un valore da tutelare e da difendere come persona fragile e disadatta alle armi ma ancor più come madre o futura madre di guerrieri: un valore che non era determinato da una personale condizione della donna, come avveniva invece per gli uomini, padri o figli che fossero, ma che dipendeva dalla dignità e dalla nobiltà della stirpe del parente più prossimo; la sua vita, in sostanza, non era altro che un riflesso di quella del padre, del fratello, del marito o addirittura del figlio. Tutti costoro avevano un potere su di lei, ma solo uno, normalmente il padre, disponeva del mundio, un potere più specifico, a prevalente contenuto patrimoniale, come hanno dimostrato le ricerche di Cortese, potere che legittimava alla riscossione del prezzo della donna in caso di uccisione o di matrimonio, in tal caso, detto per inciso, pagato dallo sposo con la consegna di un cavallo. E' stato ampiamente messo in luce come il mundoaldo interveniva con il suo consenso in tutti gli affari patrimoniali della donna, che era titolare della capacità giuridica ma non di quella di agire in autonomia. Agli uomini della famiglia in generale spettava invece il potere di uccidere la donna libera che si univa in matrimonio con un servo o che commetteva adulterio, di respingere con giuramento un'accusa di adulterio mossa contro di lei e di intervenire, insieme al mundoaldo, in tutti gli atti di straordinaria amministrazione coinvolgenti i beni femminili. Il padre e il fratello potevano poi costringere la donna al matrimonio, darla in sposa anche prima dell'età legittima di 12 anni e muoverle l'accusa di stregoneria, già allora la più pesante per il genus femminile, come ben evidenziato da Paola Arcari. Priva com'era di una sua distinta e completa personalità giuridica, la figlia era esclusa dalla successione paterna, perlomeno in presenza di fratelli, ma se andava a nozze riceveva dal padre un faderfio, per lo più modesto, da offrire allo sposo. La storiografia ha però anche messo in risalto come molti di questi costumi tradizionali col tempo si affinarono e si ingentilirono, grazie soprattutto all'influenza spiritualizzante e mitigatrice della Chiesa alla quale non fu estranea specialmente l'ultima legislazione longobarda: gli studi di Brandileone, Calasso e Zanetti hanno in particolare evidenziato come si sviluppa una concezione più matura e metafisica del matrimonio, che vede la donna divenire parte attiva nella cerimonia nuziale attraverso il rito suggestivo della subarrhatio cum anulo. Col tempo poi anche il marito comincia ad offrire doni alla moglie in occasione delle nozze, se non altro come pretium pudicitiae, ed evidentemente questo iniziò ad avvenire, in certi casi, con tale larghezza e generosità che Liutprando fu costretto a fissare la misura massima della donazione nuziale consentita nella famosa quarta parte del patrimonio dello sposo. Anche il ruolo del mundoaldo si trasforma nel tempo, tanto che in epoca carolingia si diffonde la nuova denominazione di advocatus e di defensor, a dimostrare con tutta evidenza le funzioni divenute prevalenti, una terminologia destinata a lunga fortuna nell'uso linguistico di molte regioni italiane, come hanno dimostrato le ricerche di Gaudenzi e di Solmi, quelle di Viora e Marongiu e più recentemente gli studi di Bellomo e De Stefano. Al confronto con la donna longobarda, quella che viveva secondo la legge romana godeva in linea di principio di una maggiore libertà: erano scomparsi i vecchi matrimoni cum manu, si era affievolita la straripante autorità paterna, mentre si era ampliata la capacità patrimoniale femminile e definita in senso più favorevole la successione mortis causa. Ma se questo era lo status fissato in una legislazione conosciuta in modo sempre più frammentario e indiretto, è stato messo in luce, in particolare da Vismara e Bellomo, come nella pratica quotidiana anche la vita della donna vivente a legge romana non era certamente né libera né facile, condizionata dalle punte polemiche della predicazione cristiana che la collocava pur sempre in uno stato di inferiorità rispetto all'uomo, ma anche per la sopravvivenza di antiche consuetudini o la formazione di nuove che la costringevano inesorabilmente all'autorità del padre o del marito negli atti e nei momenti determinanti della sua esistenza. Nell'età successiva al Mille, quando il vivere civile comincia ad organizzarsi in forme e modi nuovi, la sfavorevole considerazione della donna non subisce dal canto suo grossi scossoni, sia nel tessuto originale delle istituzioni comunali che nel contesto monolitico del Regno di Sicilia. Abbiamo qui i numerosi studi di Roberti, Torelli, Ungari, quelli di Ullmann, Cammarosano, Tabacco, di Vismara e di Bellomo, fino alle ricerche di Hilaire, Lefebvre, Villata e anche il suggestivo Male moyen age di Duby, che hanno tutti sottolineato come lo status femminile veniva a riflettere, sotto molteplici profili, il ruolo che l'ambiente circostante assegnava ora alla donna nel vivere quotidiano, subordinata agli interessi del gruppo e alla ragion di famiglia, in un'epoca di forte tensione creativa tra le consorterie che davano vita o difendevano i nuovi ordinamenti pubblici. Una ragion di famiglia, come è stato ampiamente messo in risalto, preludio e prima immagine della ragion di Stato; una ragione di famiglia che si affermava non solo per le più ambiziose finalità politiche dell'intero gruppo ma anche in vista di quelle più concretamente economiche. E' stato in proposito posto in rilievo, specialmente da Santarelli, Padoa Schioppa e Piergiovanni, non solo il ruolo della grande tradizione mercantile italiana, ma anche come sullo sfondo e alla base di qualsiasi attività agricola, artigianale e commerciale s'intravvedeva sempre la famiglia, col peso determinante del suo patrimonio immobiliare e della sua posizione sociale. Per una ragione di famiglia che era dunque alimentata da finalità politiche e da interessi economici, la donna non poteva sperare in una considerazione della sua persona e della sua personalità giuridica che non la vedesse subordinata agli obiettivi del casato. Finché restava nella casa paterna era assoggettata al forte potere dei genitori che comportava in generale la facoltà di correggere e di educare la figlia e di esigere da lei la debita reverentia, secondo modalità su cui si è soffermata in particolare l'attenzione di Cavina. Più nello specifico gravava sulla figlia la patria potestas del padre o del nonno, se ancora in vita, con la conseguenza che non poteva disporre di un suo patrimonio ma al limite di un modesto peculium, che comprendeva beni di varia provenienza e godibili in varia misura, in ogni caso non incrementabile con l'esercizio di arti o di mestieri, come avveniva invece per i fratelli, così come hanno sottolineato soprattutto le ricerche di Bellomo. Va da sé che la figlia non poteva acquistare nulla contro il volere paterno. A dispetto poi di una plurisecolare normativa canonistica sul libero consenso matrimoniale, su cui restano sempre basilari i contributi di Esmein e in tempi meno lontani quelli di Gaudemet, era sempre il padre che decideva se e a chi dare la figlia in sposa, in alternativa a chiuderla in convento, decisione spesso presa quando la figlia era ancora in fasce, e in ogni caso senza tenere conto, per lo più, delle sue inclinazioni naturali, ma al solo fine di salvaguardare la compattezza del patrimonio, la preferenza per i figli maschi, il rispetto delle norme sul maggiorasco e la primogenitura e più in generale le superiori esigenze del sistema di cui la famiglia era parte integrante. Una volta entrata nella casa coniugale, a dispetto delle norme romanistiche che la volevano sottoposta a vita alla patria potestas, la donna passava sotto il potere del marito, titolare di uno ius corrigendi che consentiva il ricorso alla frusta oltre che alle mani, sia pure "temperatamente", come puntualizzava la dottrina canonistica sulle orme di S. Agostino. A sua consolazione, però, la donna aveva il diritto, un vero e proprio diritto, di ricevere, generalmente dal padre, una dote, e di solito la riceveva. Vero e proprio pilastro portante del diritto di famiglia tardo medievale e di antico regime, la dote ha attirato l'attenzione di larghissima parte della storiografia giuridica, a partire dai lavori più risalenti di Alibrandi, Ercole, Brandileone, quelli di Vaccari e di Vismara, fino agli studi più recenti di Bellomo, Romano, Pene Vidari e a quelli di Kirshner, Massetto, Storti e Valsecchi. E' così emerso, pur nell'estrema varietà delle normative locali e delle posizioni dottrinali, che la dote doveva essere congrua, cioè confacente alla dignità e alle ricchezze del casato, anche se non di rado, nella pratica, si riduceva ad una misera porzione del patrimonio di famiglia, spesso, per di più, soltanto promessa e mai consegnata, con l'accondiscendenza dello sposo che, pur di vantare una dote, accettava obtorto collo di confessare di averla materialmente ricevuta. Talvolta i beni dotali venivano corrisposti senza stima, ma più spesso se ne stimava il valore per non avere dubbi sul passaggio di proprietà al marito, dubbi che invece rimanevano troppo numerosi nel caso opposto, insieme a tutti i rischi che ne derivavano. La dote rappresentava il sostegno della comune vita familiare, il mezzo ad sustinenda onera matrimonii, come si esprimeva la dottrina, in sostanza la fonte alla quale attingere per le spese necessarie al vivere quotidiano. Ma è stato messo in luce come era anche e soprattutto una garanzia per la moglie di ricevere mantenimento e cure nella casa coniugale, al punto che non pochi giuristi arrivavano a mettere in dubbio l'obbligo del marito di fornire alimenti e medicine alla moglie non dotata o poco dotata; e anche chi ammetteva in ogni caso il dovere del marito al mantenimento, lo faceva per la considerazione che la moglie era pur sempre al suo servizio. Per via della sua destinazione la dote, benché passata nella proprietà del marito, era inalienabile, in forza di un divieto che, in linea di principio, non ammetteva né deroghe né eccezioni. E' stato però chiaramente messo in evidenza come i mariti avessero gioco abbastanza facile nell'aggirare i divieti, coinvolgendo le mogli nell'atto di vendita e convincendole, in un modo o in un altro, a giurare sul vangelo di non impugnare l'atto in futuro. E a scongiurare il rischio di un successivo, plausibile, pentimento della donna, interveniva anche il diritto canonico col divieto dello spergiuro, che veniva così a salvare al tempo stesso l'anima delle mogli pentite e la validità delle vendite concluse dai mariti. Ormai privata degli antichi donativi nuziali, venuti in odio agli statuti, consolata da una dote esigua, consegnata direttamente al marito e passata nella sua proprietà, la donna era tenuta a distanza anche dall'eredità paterna, vittima dell'esclusione per causa di dote, praticata quasi ovunque, tranne rare eccezioni, come hanno dimostrato le numerose ricerche di Viora, Bellomo, Romano, di Guerra Medici, Zorzoli, Danusso e Valsecchi. Se poi la donna sopravviveva al marito, a prescindere dalla presenza di figli comuni, rimaneva generalmente a vivere coi parenti dello sposo, nella migliore delle ipotesi, come evidenziato soprattutto da Vismara, in posizione di domna, domina et usufructuaria a lei assegnata nel testamento del coniuge; una prerogativa che, a condizione di una casta vedovanza, avrebbe dovuto assicurarle una discreta autonomia nell'amministrazione del patrimonio, ma che, in realtà, generava per lo più tensioni, litigi, disagi e solo raramente un quieto vivere. E' anche vero che la donna sopravvissuta al marito poteva fare la scelta di tornare nella casa dalla quale era uscita il giorno delle nozze, ma questo raramente accadeva nella pratica, poiché con la dote aveva perso ogni diritto sul patrimonio paterno e con la vedovanza ogni chance di riavere la dote dai parenti del marito e persino dai suoi stessi figli, come ben chiarito anche in alcuni studi di Massetto. Esclusa quasi del tutto, come abbiamo visto, dalla partecipazione alla vita pubblica e rinserrata tra le mura domestiche, nel ritmo di una vita che si può immaginare sì ricca di affetti, ma certamente anche di rancori, e sicuramente povera di grandi passioni e di grandi ideali, la donna finiva con l'apparire all'occhio impietoso del giurista come attaccatissima alle sue poche cose, patologicamente avara, secondo un epiteto ossessivamente ricorrente nella dottrina di tutta l'età del diritto comune; come pure, nell'immaginario collettivo, le si associava una forte connotazione di astuzia e di malizia che portava a dipingerla come facilissima agli inganni e ai tradimenti. Diverso era invece, come si sa, l'occhio del poeta, rivolto però più ad un modello e ad un ideale assoluto di bellezza e di perfezione, ben incarnato dalla donna cantata dal Dolce stil novo di Dante e Petrarca. Col declino dei comuni centro-settentrionali e al passaggio del Regno di Sicilia nelle mani di angioini e aragonesi, si allenta indubbiamente la tensione politica tipica della famiglia di stampo medievale, come hanno evidenziato specialmente Tamassia un secolo fa, e Barbagli, Klapish Zuber e Brambilla in anni più vicini: non viene certo meno l'unità del gruppo, simboleggiata dal patrimonio e dal blasone, non cede la tradizionale coesione interna, ma subisce un drastico ridimensionamento il ruolo politico del casato, a tutto vantaggio di un'esasperata valorizzazione del suo substrato patrimoniale. E' stato messo in rilievo come la dignitas della famiglia si conservava ormai soltanto per divitias, diminuiva col cadere delle fortune economiche e si perpetuava solo attraverso la persona e le virtù dei maschi. Se dunque era necessario ostentare ricchezze per godere di onore e di decoro, era opportuno che anche le donne di famiglia avessero, o perlomeno, esibissero patrimoni di un certo peso. Da un lato dunque l'esigenza di salvaguardare le apparenze, dall'altro quella di tutelare l'unità e la dignità della famiglia riducendo al minimo le fuoriuscite patrimoniali. Una duplice e contrastante necessità, animata in realtà da una comune radice ideale, che dava vita ai fenomeni tanto curiosi quanto significativi delle doti simulate, delle confessioni non veritiere di doti e delle doti inofficiose, tanto stigmatizzate da Giovan Battista de Luca e ampiamente illustrate da Bellomo oltre che da Tamassia: gli interessi del padre e dello sposo convergevano perfettamente in questi falsi, tutti e due appagati dal fatto che, agli occhi della comunità, la donna data e ricevuta in moglie apparisse dotata più di quanto avrebbe mai potuto sperare. Gradualmente, però, coi tempi che sempre richiedono i grandi cambiamenti, comincia a farsi strada una nuova coscienza civile, destinata a prendere corpo in dottrine volte a promuovere una condizione femminile sempre più coerente coi principi di ragione. Fu evidentemente decisivo l'impulso impresso dal pensiero giusnaturalistico che, tra Sei Settecento, pose la famiglia e le persone al centro di stimolanti riflessioni, diverse tra loro ma tutte ugualmente volte a favorire il delinearsi di nuovi modelli, come hanno evidenziato soprattutto Mochi Onory, Solari, Bellomo e Villata, anche nel recentissimo volume "Diritto e religione tra passato e futuro". In particolare secondo il pensiero di Grozio, che in parte riecheggia anche negli scritti di Pufendorf e di Thomasius, la società familiare sorgeva sulla base di un libero consenso, il potere di entrambi i genitori, dunque anche della madre, era un diritto naturale fondato sulla generazione e i reciproci diritti e doveri dei componenti erano incardinati nel diritto di natura. E' però John Locke il vero restauratore dell'ordine naturale nella famiglia, secondo la felice espressione di Solari, in quanto promotore della sola famiglia naturale anteriore e indipendente dallo Stato, una comunità di affetti in cui il potere domestico spettava in ugual misura ad entrambi i genitori e non nel loro interesse ma in quello esclusivo dei figli e delle figlie. L'uguaglianza permeava i rapporti tra marito e moglie, che costituivano la società coniugale non solo per procreare, mantenere ed educare i figli, ma per stringere tra loro un legame affettivo ed offrirsi reciprocamente aiuto e assistenza. Formulata nel tardo Seicento, fu una concezione veramente anticipatrice, destinata a larga fortuna nell'età dei lumi. Nella Francia dei philosophes Rousseau, Diderot e Voltaire concorderanno sulla necessità di riformare l'organizzazione familiare e di sottrarla al dispotismo religioso e patriarcale. Si faceva però ancora fatica a considerare i rapporti tra marito e moglie come ispirati a piena uguaglianza e si ribadiva il ruolo necessario dell'autorità maritale, salvo condannarne gli eccessi e gli abusi. Una convinzione questa che poggiava sulla pretesa disuguaglianza naturale dei sessi, in nome di una superiorità fisica e spirituale dell'uomo sulla donna, che però, almeno per Voltaire, poteva in certi casi ribaltarsi a favore della donna, se dimostrava di avere "più polso e più spirito di suo marito". In Italia, come si sa, fu Beccaria a criticare più di ogni altro l'organizzazione familiare coeva, mettendo in discussione, come ha rilevato Vismara, non la famiglia quale organismo etico, in cui si esprime l'aspirazione dell'uomo ad amare e ad essere amato, e la libertà e l'uguaglianza dei componenti, ma quel tipo tradizionale di famiglia in cui le funzioni politiche ed economiche avevano sopraffatto la libertà e la parità dei suoi membri, a scapito della vita affettiva. C'era dunque in pieno Settecento aria di rinnovamento e la netta consapevolezza della sua necessità. E sarà ai codici moderni, più che alla poco coerente legislazione settecentesca, che spetterà il compito, non facile, di tentare di realizzare, anche su questo terreno, l'ambizioso progetto di un radicale superamento del mondo medievale.