Introduzione Il fine di questa ricerca è quello di individuare i luoghi in cui Apollo viene chiamato in causa e la funzione filosofica che questi richiami al dio assumono. Apollo, benchè in modo complesso e plurivoco, incarna un preciso tipo di ideale che non solo ha avuto una decisiva risonanza nella filosofia antica, ma rappresenta ed ha rappresentao un modello, un riferimentoper la divinazione e la sapienza oracolare, un paradigma di saggezza. Dunque, il mio intento è quello di individuare nel contesto platonico in che modo questa plurivocità di aspetti sia impegnata come strumento filosofico da Platone ogniqualvolta Apollo sia richiamato nei dialoghi. Emergerà che, benchè in modo complesso, Platone sembra isolare e impiegare maggiormente una dimensione dell'apollineo, quella forse più pura, legata all'ordine, alla razionalità, e a ciò che non a caso oggi si definisce "apollineo" di individuare nel contesto letterario, ogni qual volta l'apollineo si manifesta, dimostrando il modo in cui lo stesso strumento filosofico-letterario del dialogo utilizzato da Platone, corrisponda alla stessa concezione ordinata e razionale che si incarna nell'apollineo. Chiarezza e forma sono due elementi che hanno pienamente a che fare con l'intento di quella parte di grecità che ha abbandonato l'ebrezza dionisiaca per aspirare al raggiungimento di un equilibrio. Un primo passo necessario di questa idagine consiste nello stabilire alcune linee guida che gettino luce sul ruolo che Apollo ha nella cultura greca. Essa, in effetti, è permeata in innumerevoli aspetti - dalla musica, all'arte, alla poesia, alla scultura,- da caratteristiche proprie dell'ideale apollineo. Più nello specifico il capitolo primo riassume brevemente la leggenda mitologica della nascita di Apollo sull'Isola di Delo, avvenuta dopo i vagabondaggi della madre Latona perseguitata da Era, gelosa di Zeus e della sua permanenza nella terra degli Iperborei. Apollo è inoltre legato a varie figure mitologiche come Helios, Marsia ed anche Pitone, il serpente da lui sconfitto, a lui fanno capo differenti appellativi a seconda delle sue qualità via via attribuitegli nel tempo: il "raggiante", il "soccorritore dei mali". Apollo è inoltre il dio della musica, della danza, colui che soccorre dalle sventure, ma ne è anche foriero: la duplicità è un elemento di forte fascino, che colpisce colui il quale, scoprendo questa divinità, non potrà fare a meno di imbattersi in questa sua caratteristica. Il canto cultuale di Apollo è il Peana, canto risanatore intonato per la prima volta a Delo per celebrare la vittoria del Dio sul mostro mitologico, Pitone. Apollo è il kuros, il giovane bello e scolpito nelle sculture classiche, la sapienza a lui consacrata è una delle più antiche nella nostra cultura: la fondazione del tempio di Delfi a lui consacrato risale al 1400 a.C e nello stadio a fianco si svolgevano i famosi Giochi Pitici, che seguivano tre anni l'Olimpiade e prendevano il nome dalla Pizia, la sacerdotessa che pronunciava gli oracoli in nome di Apollo. Apollo è il più bell'esempio di un dio che esercitò per lungo tempo la massima influenza sulla vita religiosa della Grecia, pur senza far uso del suo potere per opprimere gli altri. Le due sezioni conclusive del primo capitolo sono dedicate rispettivamente: la prima agli edifici sacri e la seconda ad Asclepio, mitologico figlio di Apollo e divinità medica, legato al padre da molti aneddoti. Tali aneddoti in maniera interessante, anche per questo nostro elaborato, individuano una più ampia paternità apollinea: Apollo avrebbe creato Platone per curare i mali dell'anima con la sua filosofia e Asclepio, medico del corpo, per alleviare la sofferenza fisica all'umanità. Il secondo capitolo è dedicato alle fonti, in particolare ai poeti di età arcaica, le cui opere sono ausilio importante per rintracciare la storia di questa divinità e l'influenza che essa ebbe all'interno della cultura scritta e orale greca. La prima fonte ad essere presa in considerazione sono alcune sezioni dell'Iliade, dalla quale deriva la maggior parte delle nostre conoscenze letterarie sulla mitologia greca e nelle quali l'intervento di Apollo si fa importante permettendo di riflette su quello che abbiamo già detto essere il duplice volto della divinità. Esaminando Gli Inni Omerici, in particolare due che sono dedicati ad Apollo: l'Inno III e XXI insieme a l'Inno Alle Muse, notiamo che essi comprendono alcune tra le pagine più belle della letteratura greca e corporazioni di poeti (soprattuto i cosiddetti Omeridi) li andarono recitando per secoli in Asia Minore, e in Grecia, per rallegrare le feste dove si radunavano i greci. Passando alla lirica corale, faremo riferimento a Pindaro (Tebe 518 a.C circa, Argo 438 a.C). Le sue opere, Olimpiche, Pitiche (dedicate ai giochi per Apollo), Inni e Peani, sono ricche di riferimenti ad Apollo, divinità spesso al centro di espisodi mitologici al centro dei componimenti poetici di Pindaro. Da Omero a Pindaro erano fiorite intense stagioni di poesia e insieme discussioni radicali sui "generi": se in Pindaro ritroviamo una mistione di epos e lirica, di attualità e mito, in Omero si assisteva ad una pura ed estensiva narrazione mitologica, come anche negli Inni è presente l'invocazione al nume e l'evocazione delle sue gesta che si avvicendavano naturalmente. Spesso, infatti, Pindaro tocca un motivo epico al volo, ci ritorna a volte con impegno più profondo e lo sviluppa ariosamente. Tuttavia, non verrà trascurata la storiografia, in particolare Erodoto (Alicarnasso 484 a.C- Turi 430 a.C): storico greco fondamentale per la lettura della storia dei popoli esaminati nelle sue Storie, è indubbiamente utile per rintracciare l'importanza di Apollo e soprattutto della sapienza filosofico-oracolare a lui consacrata. Conclusi questi due capitoli, i quali hanno una funzione introduttiva dal punto di vista della tematica, si entra nel vivo della argomentazione che ritengo centrale: l'analisi delle sezioni dei Dialoghi platonici nei quali entra a fare parte Apollo. Il capitolo III "Apollo all'interno dei dialoghi platonici", sarà un breve excursus tra i Dialoghi, tra quelli in cui Apollo si manifesta, ed il suo mostrarsi noteremo che non avverrà in maniera casuale bensì in maniera strategica, a seconda della tematica affrontata nel dialogo. Si comincia con l'Apologia , nella quale, quasi all'inizio, il dio enigmatico di Delfi rivela a Socrate, tramite l'oracolo, che proprio lui, il più sapiente degli uomini, in quanto, il filosofo, "sapendo di non sapere", è consapevole che la vera sapienza sia solo raggiungibile pienamente dalla divinità e all'uomo è dato sperimentarla solo in parte, cercando di raggiugerla con l'esercizio filosofico. Nel Protagora, si cerca di dimostrare che la prassi educativa utilizzata dai cosiddetti sofisti sia inconsistente. Apollo qui non compare ma, Socrate, cita il tempio Delfico e la celebre massima del "conosci te stesso" incisa su la sua parete. All'interno dell'Eutidemo, il dialogo che si occupa della critica dell'eristica (arte di "battagliare" con le parole) Apollo compare in primo luogo, in maniera indiretta, venendo nominata la sua statua crisoelefantina di Delfi ed in secondo luogo è definito patrio da Socrate: secondo gli ateniesi infatti Apollo era ritenuto padre di Ione, antenato degli ateniesi, dunque capostipite degli Ioni, una delle quattro popolazioni elleniche dell'antica Grecia del II millennio. Nel Cratilo, il dialogo dedicato al tema della correttezza dei nomi, viene analizzata l'etimologia del nome delle divinità tra le quali anche Apollo, essa mostra al lettore il suo volto variopinto e nuovamente duplice: distruttore e purificatore ("colui che lava e scioglie"). Così facendo, Apollo è un ausilio che conferma la tesi della concezione naturalistica del linguaggio evinta dal dialogo, ovvero l'identità (di significato) tra nome e cosa nominata. Fedone, racconta le ultime ore della vita di Socrate e porta con sè il celebre tema dell'immortalità dell'anima, in questo dialogo, numerosi sono i riferimenti ad Apollo e al figlio Asclepio: si comincia con il ritorno delle navi recatesi a Delo per celebrare la vittoria della divinità sul Minotauro che fanno rientro ad Atene, ritardando così la morte del filosofo; nel corso del dialogo assisitiamo al discorso di Socrate, il quale si mostra sereno dinanzi alla morte grazie al conforto fornitogli da Apollo, ancilla di una musica altissima (filosofia). Nel Fedone si nota il modo in cui Socrate si assimili ai cigni, animali sacri ad Apollo, che alla fine della loro vita emettono un suono di gioia; questo comportamento è il medesimo del filosofo, che prima della morte appare disteso e sereno come testimoniano coloro che siedono intorno al maestro condividendo con lui le ultime ore della sua vita. Mentre, all'interno del celebre discorso sull'amore, il Simposio, Apollo è introdotto dal "Mito di Aristofane" nel quale si racconta la modalità con la quale avvenne la divisione nell'uomo che provocò in lui una perpetua ricerca della propria metà. La nostra divinità si inserisce nella argomentazione aristofanea come risanatore delle "cicatrici" provocate da suo padre Zeus, nel corpo umano: egli ricuce il ventre dell'uomo con la maestria di un artigiano. Apollo ritorna in seguito come discepolo di Amore il quale, guidandolo, gli ha permesso di esercitare quelle discipline che sono passate alla storia come sue proprie quali: medicina, musica e tiro con l'arco. Nel Fedro, si prende in esame un particolare tipo di sapienza mistica: la mantica. Essa appartiene senza dubbio ad Apollo, egli rende capace i suoi medium (la Pizia, profetessa di Delfi) di "vedere oltre" e lo scopo di Platone, per bocca di Socrate, è andare alla ricerca di questa "sapienza". Ma ciò è possibile solo solo mediante la guida delle Muse, le nove divinità della religione greca che hanno come guida proprio Apollo. Il Timeo, è il dialogo dedicato alla creazione del cosmo ed Apollo è qui personificato con Helios, il sole; si narra infatti che Fetonte sia figlio del sole e che, mal conducendo il suo carro bruciò una parte del cielo, cosicchè si creò la Via Lattea. L'ultimo dialogo che viene affrontato nel Capitolo III è il Crizia, in cui è presente una invocazione ad Apollo e alle nove Muse a lui consacrate per bocca di Ermocrate all'interno di una argomentazione da lui condotta. La modalità con la quale Apollo viene inserito in questo dialogo consente di far luce sulla maniera con la quale il culto apollineo era entrato a far parte a tutti gli effetti della vita degli abitanti della antica Grecia. Nell' Assioco (dialogo pseudo-platonico) Apollo ricorre ben due volte. In primo luogo, nel momento in cui si parla dei due fratelli Agamede e Trofonio, dei quali la leggenda narra avessero edificato il tempio di Apollo Pizio; in secondo luogo, un altro personaggio della mitologia che viene nominato nel dialogo è Anfiarao, indovino protetto da Zues e Apollo. Da questa ampia ricognizione si evince che ad Apollo è attribuito sicuramente un ruolo, che sia secondario o primario, all'interno delle varie tematiche (soprattutto richiami mitologici) dei dialoghi. Tuttavia l'elemento da sottolineare è che Platone ne fa comunque un uso molto ampio e lo fa soprattutto per richiamare l'ideale apollineo, il quale, rappresentando ordine e armonia, diviene lo stesso strumento ordinatore delle tematiche e dei dialoghi stessi. Il quarto, ed il quinto capitolo, si occupano degli scritti politici del filosofo, con particolare attenzione, ancora una volta, nei confronti del ruolo che Apollo svolge all'interno di essi, ma anche in relazione allo statuto della religione all'interno dei due grandi progetti politici della Repubblica e delle Leggi. Il quarto capitolo tratta del grande dialogo politico della Repubblica. Il ruolo che svolgerà la religione è funzionale all'assetto statale e di controllo in quanto, Platone, condanna ogni forma di religiosità misterica (soprattutto nel libro IV) o ispirata ed il cittadino dovrà osservare, al di là del culto per una particolare divinità, un grande rispetto per il sacro. Gli dei e le divinità in primis, tra le quali Apollo, saranno rispettate dal cittadino, insieme ai templi sacri a lui consacrati. Nel secondo libro della Repubblica Platone compie una critica della mitologia: i miti sono pericolosi perchè, pur costituendo il nucleo principale dell'educazione, falsificano l'idea delle divinità che sono le protagoniste dei racconti. Apollo ricorre spesso in altri passi della Repubblica che riportano racconti mitologici ma in ogni caso sarà raffigurato come una divinità positiva in quanto al fanciullo deve sempre essere consegnata dai miti ammessi all'interno della educazione statale, una immagine benevola della divinità. I libri VI e VII della Repubblica si occupano di analizzare due miti importanti il cosiddetto "mito della caverna" nel quale Helios svolge un ruolo fondamentale e Apollo è tirato in causa dai dialoganti alla stregua di una esclamazione ma, la sua apparizione, insieme alla metafora del sole, impone una riflessione: egli, grande divintà solare, assume sempre di più, a partire dall'epoca arcaica fino ad oggi, il carattere del dio della luce, purificatore e guaritore, Apollo sembra quasi che abbia una funzione ancillare in questo snodo dell'opera, nel quale Platone per bocca di Socrate spiega la sua teoria della conoscenza; la divinità, quindi, accompagnerebbe il lettore intento a cercare quel fascio di luce nella argomentazione della "teoria della conoscenza" platonica. Notiamo, dunque, tornando al principio della nostra riflessione, la quale è partita dalla concezione della religione nella Repubblica, che lo spirito apollineo, in questa opera ricorre spesso e la pervade tutta. La religione nel nuovo Stato rappresenta un ausilio alla norma generica della giustizia e del mantenimento dell'ordine e le stesse divinità sono si, certamente, ammesse, ma con precipue funzioni tutte dedicate al medesimo scopo: mantenere ordine e equilibrio nello stato. Il principio razionale, dunque è la luce che illumina il cammino della realizzazione dello stato platonico e l'ideale armonico apollineo, possiamo spingerci ad affermare, che si costituisce come una delle sue inesauribili fonti, senza ordine e misura la costruzione politica e filosofica della Repubblica non sussisterebbe. Nel quinto capitolo vengono esaminate le Leggi, nel dialogo, oltre ai riti è la tradizione che riveste una grande importanza. Sia che il discorso tratti di argomenti religiosi, di argomenti politici o di qualsiasi altro genere di problemi, è sempre chiaro che Platone ha alta considerazione per ogni genere di tradizione, soprattutto per ciò che è consacrato da un'antica origine e dalla credenza comune o collettiva. Le divinità regolano in generale i rapporti tra gli uomini a partire da quelli sociali fino ad arrivare a quelli economici; sono gli dei, infatti, a dare agli uomini le leggi, li puniscono, a volte, durante la loro esistenza terrena come anche nell'Ade. Se molte volte nelle Leggi si parla del dio o degli dei in forma impersonale, senza designarne specificatamente qualcuno, è anche vero che in parecchi luoghi le divinità della religione tradizionale sono espressamente designate per nome e viene ribadita, senza possibilità di fraintendimento, l'adesione alla religione concretamente esistente che è nelle Leggi una delle isitituzioni fondamentali, anzi, il perno essenziale di tutto l'ordine sociale e politico. In questo quadro, Apollo compare in modo ricorrente, quasi in ognuno dei dodici libri dell'opera. Apollo compare spesso nelle Leggi come ancilla della musica (mousikè)disciplina posta al vertice della piramide educativa dei fanciulli dello stato,Apollo dunque è foriero di ritmo ordinatore funzionale all'assetto statale,contrapposto al furore bacchico dionisiaco, e Platone, citandolo a proposito delle discipline a lui consacrate, sottolinea il suo equilibrio e misura. Nell'occasione della votazione del supremo magistrato preposto all'educazione, la quale avviene nel tempio di Apollo, ambito sacro e polis si intersecano, infatti nel libro XII i nuovi "revisori" dello stato ricoprono anche un ruolo semi-sacrale. Interessante è anche l'uso che il filosofo compie di Apollo chiamandolo molte volte Helios;sembra che ne faccia (di Apollo), nell'ecomia generale del discorso a proposito delle Leggi, un vero e proprio culto da osservare con devozione(i nuovi "revisori"diverranno essi stessi sacerdoti di Apollo) e, Platone, fa derivare la legislazione politica della polis, direttamente dalla divinità: l'Apollo patrio tanto caro agli abitanti della antica Grecia.Il libro X è ritenuto particolarmente importante per la tematica affrontata sulla empietà: l'ateismo nelle Leggi viene considerato un'infrazione alla connessione sussitente tra ordine cosmico e ordine politico ed in esso viene anche sviluppata l'idea di religiosità cosmica. Apollo è, in questa opera, colui che disciplina mediante le materie educative da lui incarnate il nuovo e vecchio cittadino, mettendolo su un cammino non oscuro ed incentro ma, su di una strada armonica e volta al rispetto delle norme vigenti lo Stato. L'uso che il filosofo fa in questa sede di Apollo è sostanzialmente di due tipi: regolativo, perchè guida l'individuo all'interno della legislazione statale ed educativo, in quanto, le discipline a lui corrispondenti formano il carattere del futuro cittadino. Il capitolo VI dedicato alle Espistole è il penultimo dell'elaborato, contiene in primo luogo una riflessione a proposito della loro autenticità (le lettere ad eccezione della VII e, con più dubbi, dell'VIII sono ritenute spurie), tuttavvia, la Lettera XIII anche se spuria, contiene un interessante riferimento ad Apollo, o meglio ad un kuros, una statuetta votiva della raffigurante un giovane ed in questo caso Apollo, commissionata da Dionisi di Siracusa a Platone: Apollo incarna l'ideale estetico di bellezza della classicità e le sue state sono una presenza costante in questa epoca e nei templi della antica Grecia, utilizzate dalla popolazione per invocare la divinità e concedergli preghiere. L'ultimo capitolo si occupa della aneddotica, in effetti, molto interessanti risultano gli aneddoti a proposito di Platone, celebri quelli che hanno a che fare con la sua nascita proposti da Giamblico e Diogene Laerzio: riuniscono Platone insieme a suo figlio Asclepio, sotto il segno di Apollo, il quale sembra egli stesso essere padre di Platone. Ampliando l'indagine con l'analisi di altri fonti e non solo, il capitolo stabilisce inoltre legame anche tra i due e Pitagora, altra figura posta sotto il segno di Apollo. Al termine di questa analisi potremo affermare da un lato che Apollo è presente in modo diffuso nelle opere di Platone, che riflettono la ricchezza e la complessità della sua figura, dall'altro che l'apollineo, inteso come spirito razionale e ordinatore, riflette la volontà platonica di marginalizzare in vari ambiti della sua riflessione tutto ciò che è asimmetrico e mancante di proporzioni. In fondo, la stessa forma del Dialogo come strumento filosofico rappresenta il tentativo di unificare un universo colmo di idee e concetti senza abolirne la complessità, anzi facendola fluire in una forma peculiare di comunicazione filosofica, quella dialogica. Si tratta, nei contenuti, di un progetto ambizioso, che va dal tentativo di utilizzare l'apollineo per ordinare una nuova vita comunitaria al programma di cogliere l'ordine divino e astrale: l'apollineo ordina, crea armonia, è luce (Helios). Quella luce che risplende, diffusa, in tutta la opera di Platone.
Editorial Aniversario y balance Por una renovación de la agenda historiográfica de las izquierdas Colectivo Editor Se han cumplido veinte años ya de aquel viernes 3 de abril de 1998 en que el CeDInCI abriera por primera vez sus puertas en el barrio porteño de Almagro. Poco antes de la universalización del correo electrónico, y a través del antiguo sistema de invitación por tarjeta de cartón, del rumor boca a boca y el llamado telefónico, más de doscientos asistentes desbordaron la vieja casa de la calle Sarmiento cuando todavía olía a pintura fresca. Más de la mitad de los concurrentes debió esperar en la calle a que salieran los primeros para poder ingresar. ¿Qué fue lo que convocó en aquellos años de reflujo de las izquierdas y de apogeo del menemismo a las más diversas figuras de la cultura argentina, desde David Viñas a Juan José Sebreli, desde Emilio J. Corbière a Mary Feijóo, desde José Sazbón a Abel Alexis Lattendorf? Sin lugar a dudas, la expectativa de que, finalmente, un centro de documentación concebido a la manera de las modernas instituciones europeas pudiera recoger en un espacio único y plural el patrimonio documental de los movimientos sociales y las izquierdas que hasta entonces se dispersaba, y a menudo se perdía. Sin embargo, esa fundación no vino, como suele decirse, a "llenar un vacío". Fue necesario librar a lo largo de los años una verdadera batalla cultural para introducir en la agenda pública y en la agenda social el concepto de patrimonio documental. Para entonces, cuando el primero de estos términos era apenas un sinónimo de patrimonio arquitectónico, el legado documental era una noción carente de sentido. En lo que a la cultura de izquierdas respecta, los fondos personales de militantes, dirigentes, sindicalistas, escritores y editores, o los acervos de pequeñas organizaciones políticas y sociales se volatilizaban; y con ellos, la posibilidad de escribir la historia de las izquierdas, de los movimientos sociales, de las clases subalternas. La fundación del CeDInCI conjuró para siempre aquel desdén, aquel olvido. Desde ese abril de 1998 su acervo creció exponencialmente. Veinte años después, se contabilizan con nombre y apellido casi dos mil donantes. A pesar de su fragilidad institucional —apenas una asociación civil sin fines de lucro, gestionado por un equipo de una decena de profesionales—, el CeDInCI apareció a lo largo de estos años como un espacio que ofrece a los donantes garantías de transparencia, estabilidad y pluralidad. La modernización que propuso el CeDInCI en el terreno bibliotecológico, hemerográfico y archivístico vino estrechamente ligada a una propuesta de renovación historiográfica. Poner a disposición de los investigadores un acervo documental cuantioso, rico y diverso era condición necesaria pero no suficiente para una actualización de los estudios sobre las izquierdas. Recordemos brevemente aquel contexto. Para fines del siglo XX el estudio de las izquierdas estaba fuera de la agenda historiográfica. La historia obrera, una de las ramas que se había desprendido de la historia social a mediados del siglo XX, había quedado reducida a un rol residual, apenas cultivada por un porfiado puñado de historiadores, entre los que sobresalía la figura tutelar de Alberto Pla, fallecido en 2008. El cierre del CICSO (un centro de investigación fundado en 1966 que había producido una obra colectiva de referencia a comienzos de la década de 1970),[1] la dispersión de sus investigadores más reconocidos y la donación de su archivo a una institución tan poco previsible como la SADE (Sociedad Argentina de Escritores) constituían un síntoma elocuente de aquel fin de ciclo. Algunos de los historiadores obreros más jóvenes apelaban por entonces a la renovación que había conocido la historiografía inglesa desde la década de 1960, pero a menudo sus referencias a las obras de un E. P. Thompson fueron, antes que un índice de lecturas fructíferas o una puesta en acto de sus aportes teórico-conceptuales, verdaderos modelos de citas de autoridad.[2] Mientras estos historiadores obreros resistían desde un paradigma historiográfico francamente conservador (una teoría de la clases sociales y de su conciencia de corte leninista, una reificación del conflicto social y una metodología positivista de recolección "objetiva" de "datos"), la historiografía conocía una renovación vertiginosa a escala global, que socavaba incluso muchos de sus supuestos epistemológicos. Desde el impacto del "giro lingüístico" hasta al correspondiente al "giro material" (por no hablar del más reciente "giro reflexivo"), tanto la microhistoria, la historia de las mujeres, la historia de lo cotidiano, la historia de la sexualidad, la historia social de la cultura como la nueva historia política conmovían los cimientos de la profesión, despertaban la vocación de los nuevos historiadores y reorientaban incluso los intereses muchos investigadores formados. De modo que para fines de la década de 1990 la mayor parte de los miembros del PEHESA,[3] un centro fundado en 1977 a comienzos de la última dictadura militar y que había venido a modernizar los estudios de historia social, habían abandonado la historia obrera stricto sensu. Si bien durante algunos años prosiguieron los trabajos de Silvia Badoza sobre la Sociedad Tipográfica Bonaerense, los de Mirta Lobato sobre las obreras de los frigoríficos de Berisso, los de Juan Suriano sobre el anarquismo argentino o los de Ricardo Falcón sobre la formación de la clase obrera en la segunda mitad del siglo XIX, buena parte de los investigadores fueron atraídos enseguida por otras demandas historiográficas. Suriano fue desplazando sus intereses desde el movimiento obrero anarquista hacia la cultura libertaria.[4] Leandro Gutiérrez —el principal inspirador de la historia y la cultura obrera, y su último cultor a tiempo completo, fallecido en 1992—, había iniciado junto a Luis Alberto Romero un desplazamiento de su objeto hacia los que entonces se designaban como "sectores populares".[5] Significativamente, la obra que reunía gran parte de los trabajos maduros de historia social y obrera de esa generación —nos referimos a Jeremy Adelman (ed.), Essays in Argentine Labour History 1870-1930— no encontró un editor en la Argentina.[6] Si la historia de la clase obrera se veía progresivamente desplazada de la renovada agenda historiográfica de fin de siglo, la historia de las corrientes de izquierda que no se encuadraba en lo que entonces llamábamos "historias oficiales", seguía siendo cultivada casi exclusivamente por el periodismo de investigación. La popularidad que gozaron en los años '80 y '90 las contribuciones sobre anarquismo, socialismo, comunismo y nueva izquierda de figuras como Osvaldo Bayer, Emilio J. Corbière, Isidoro Gilbert y María Seoane contrastaban con la reticencia de la historiografía académica frente a estos objetos. Sólo unas pocas obras clave nacidas entre esas dos décadas vinieron a dar una nota discordante en ese clima académico: nos referimos a Una modernidad periférica: Buenos Aires 1920 y 1930 (1988) de Beatriz Sarlo, Nuestros años sesentas. La formación de la nueva izquierda intelectual en la Argentina (1956-1966) (1991) de Oscar Terán, e Intelectuales y poder en Argentina en la década del sesenta (1991) de Silvia Sigal. Aunque respondían más a ejercicios de balance histórico por parte de intelectuales formados en las décadas pasadas que a la agenda académica de esos años, estas obras iban a abrir una brecha en la renovación historiográfica nacida con el nuevo siglo. Fue en ese contexto de innovación al mismo tiempo que de profesionalización de la historiografía argentina, que el CeDInCI postulaba en torno a 1998, además de la necesidad de un acervo documental, una agenda historiográfica para el estudio de las izquierdas y de las clases subalternas. Por supuesto, ya la propia organización de un centro que reuniera en forma integral y al mismo tiempo diferenciada áreas de biblioteca, hemeroteca y archivo, hablaba de una renovación respecto de las antiguas bibliotecas donde estas áreas solían estar confundidas. La hemeroteca adquiría en este proyecto un lugar central, poniendo a disposición de los investigadores un universo revisteril mucho más denso, diverso y proteico que el de las pocas revistas canónicas que había consagrado la historia literaria en el siglo XX. El archivo, centrado en los fondos de militantes, escritores y editores, venía a ofrecer un corpus hasta entonces apenas transitado por la historiografía. La novedad no estaba tanto en la diversidad de los soportes ofrecidos, como en el orden con que fueron organizados y presentados. La organización y la catalogación misma de los libros, los folletos, los afiches, los periódicos, las revistas, las cartas privadas, fueron concebidas desde un inicio para propiciar una historia renovada y multidimensional de las izquierdas. Borges decía que el orden de una biblioteca era un modo silencioso de ejercer la crítica. Para nosotros, el catálogo excedía su dimensión técnica, el orden de las piezas respondía a una perspectiva de la historia, el tesauro a un universo conceptual, la descripción se comprometía con la investigación. También el propio nombre de la institución, con su referencia expresa no a "la izquierda" lisa y llana, sino a una "cultura de izquierdas", sugería además de la pluralidad todo un abanico de dimensiones materiales, simbólicas e imaginarias de social y de lo político que connotaba el término cultura, excediendo con creces la clásica historia institucional centrada en pasar revista de los congresos, analizar la corrección de los discursos de los dirigentes y en contabilizar la cantidad de obreros que el partido controlaba entre los marítimos o los ferroviarios. El lanzamiento del CeDInCI fue acompañado de una serie de libros y de artículos de carácter programático elaborados por algunos de sus fundadores que en poco tiempo era asumida y enriquecida por una nueva camada de historiadores.[7] A contrapelo de un clima historiográfico en el que Marx y el marxismo eran sacrificados en el altar del "fin de las ideologías", esos textos, al mismo tiempo que celebraban la profunda renovación historiográfica en curso, se esforzaban en mostrar el estímulo intelectual y el provecho historiográfico que ofrecían ciertas figuras y conceptos forjados por el marxismo crítico de un Gramsci o un Benjamin, así como por historiadores marxistas extraacadémicos olvidados como Issac Deutscher, Arthur Rosenberg o Fernando Claudín. Pugnaban, asimismo, por mostrar los signos de renovación de la historia social británica a los que la academia argentina comenzaba a darle la espalda —desde los estudios clásicos de Eric Hobsbawm, E.P. Thompson y Raymond Williams hasta los de Raphael Samuel, Perry Anderson y Gareth Stedman Jones—, la innovación historiográfica que había representado en las décadas de 1970 y 1980 la obra de figuras como Robert Paris, Georges Haupt y Franco Andreucci para la historia del marxismo y las internacionales obreras, así como los aportes contemporáneos de la sociología de la cultura (Pierre Bourdieu y su escuela) y la sociología de los intelectuales revolucionarios (Michael Löwy). La nueva historia de las izquierdas y de las clases subalternas incluía y al mismo tiempo excedía la historia partidaria, la historia obrera o la historia del mundo del trabajo. Proponía, por ejemplo, otras claves para repensar la dimensión institucional (desde el socioanálisis de René Lourau y Georges Lapassade hasta la teoría foucaultiana de los micropoderes, pasando por la dimensión imaginaria teorizada por Cornelius Castoriadis),[8] incorporaba la perspectiva de género y el concepto de vida cotidiana para repensar las subjetividades militantes, dialogaba con los aportes conceptuales y metodológicos de la sociología cultural, de la historia intelectual y la historia del libro y la edición para reconsiderar dimensiones claves de la cultura de izquierdas, hasta entonces apenas exploradas en nuestro país por unos pocos estudios pioneros, como los de Dora Barrancos. El CeDInCI promovió un diálogo productivo de la historia de las izquierdas con la nueva historia intelectual, menos atento a ciertas prescripciones de la Escuela de Cambridge de Skinner y Pocock —sobre todo las que parecen "querer apresar las ideas de una época en sus marcos lingüísticos"[9] — que a las vertientes que ponen en el centro los soportes materiales de los procesos históricos de la cultura, aquellos que se resisten a ser simplemente reducidos a texto. Comprometida en un proyecto de historización radical de las ideas, Políticas de la Memoria promovió estudios y debates sobre la problemática de la recepción y la circulación internacional de ideas y saberes, poniendo sobre todo de relieve los problemas de "traductibilidad", los "desvíos" y "malentendidos" propios de las "ideas fuera de lugar". Dentro de la renovación que conoce la historia de los intelectuales, nuestra revista atendió antes que nada a la dimensión relacional de la historia social de la cultura, prestando especial atención a las redes intelectuales, las redes editoriales y las redes revisteriles. Siguiendo estas líneas, fue plataforma de difusión de diversos referentes de esa renovación historiográfica como Enzo Traverso, Bruno Groppo, Perry Anderson, Christophe Prochasson, Daniel James, Judith Revel, Roberto Schwarz, Ricardo Melgar, Claudio Batalha, Ricardo Piglia, Giselle Sapiro, Jean-Yves Mollier, Vivek Chibber, Philippe Artières y Dominique Kalifa, entre muchos otros. Una política de edición que anticipó y complementó una revista hermana del CeDInCI como El Rodaballo, menos acotada al campo historiográfico y más abierta a los debates intelectuales, que dio a conocer entre 1994 y 2006 textos inéditos en español de Toni Negri, Michael Hardt, Perry Anderson, Robin Blackburn, Michael Löwy, Boris Kagarlitsky, Nancy Fraser, Judith Butler, André Gorz, John Holloway, Frédrik Jameson, Robert Castel, Daniel Bensaïd, Richard Greeman, Terry Eagleton, Etienne Balibar, Régis Debray y René Lourau, entre muchos otros. Con el apoyo de estas renovadas lecturas, Políticas de la Memoria garantizaba la puesta en circulación de un amplio espectro de problemas referidos al mundo de la cultura de izquierdas en Argentina, Latinoamérica y Europa; participando, de este modo, de diferentes y entrecruzadas agendas historiográficas, debates político-académicos y temas de marcada recurrencia entre historiadores y cientistas sociales. A partir de la publicación de artículos, dossiers e intervenciones se abordaron cuestiones como la recepción argentina de Marx y la configuración de una cultura marxista en nuestro país, la formación y las derivas del socialismo argentino, las vicisitudes del anarquismo en América Latina, la historia intelectual del comunismo latinoamericano, el sindicalismo y sus diversas corrientes ideológicas, el antiimperialismo en los albores del siglo XX, el indigenismo y los latinoamericanismos, los intelectuales y su relación con la política revolucionaria, los avatares del trotskismo en la Argentina, del peronismo de izquierda, de las "nuevas izquierdas" y de los grupos armados a nivel continental. Asimismo, Políticas de la Memoria dio lugar a debates recientes sobre la historia europea contemporánea (guerras mundiales, revolución rusa, totalitarismos, guerra fría), ofreciendo estudios referidos al desarrollo de los partidos socialistas y comunistas a nivel mundial y a la historia de las Internacionales Obreras. La historia del marxismo europeo y latinoamericano ocupó en sus páginas un lugar sostenido, lejos tanto del desdén de la historia académica como de los abordajes trillados de los órganos semipartidarios. La serie sobre las sucesivas "crisis del marxismo", aún en curso de publicación, ofreció textos hasta entonces inéditos en español de Masaryk, Sorel, Croce, Gentile y Mondolfo, así como los sustantivos estudios introductorios de Daniel Sazbón, Miguel Candioti y Horacio Tarcus. Finalmente, debemos destacar al anuario como uno de los pioneros en la difusión de estudios y debates sobre los movimientos feministas y sobre la cuestión sexo-genérica en la cultura de izquierdas. En la construcción sostenida de esta singular agenda de temas y de problemas, no fue menor la exhumación de documentos inéditos (piénsese en la correspondencia cruzada entre Ingenieros, Darío y Lugones, en las cartas de Simón Radowitzky a Salvadora Medina Onrubia, en la correspondencia de Mario R. Santucho con Carlos Astrada, en la de José Aricó con Héctor P. Agosti, o en las Actas del Comité Obrero de 1890) así como la incorporación de trabajos que reconstruyen la trayectoria biográfica, política e intelectual de figuras clave en la historia de las izquierdas, como Germán Avé-Lallemant, Virginia Bolten o Ernesto Laclau. Por su parte, la publicación de reseñas críticas, fichas de libros y de revistas que ofrece cada año Políticas de la Memoria —secciones que fueron engrosándose hasta formar parte constitutiva del anuario—, constituyen un insumo fundamental de actualización bibliográfica para cualquier interesado en el mundo de las izquierdas. Pero el aporte de Políticas de la Memoria a los estudios sobre la cultura de izquierdas no es simplemente temático. Su contribución tampoco se resume en la incorporación y en la difusión de autores y de obras de reconocimiento internacional. El anuario interviene en el debate de ideas y se interesa por diferentes perspectivas historiográficas: a su modo, ha formado parte del cultivado campo de la historia intelectual argentina y latinoamericana, ha mostrado un interés sostenido pero también crítico por los modos en que a menudo se cultiva la historia reciente, dando lugar a debates sobre la relación entre historia y memoria, y señalando las potencialidades y los límites de la historia oral. Políticas de la Memoria ha sido pionera en difundir nuevas corrientes de investigación dedicadas a la historia del libro y la edición, a las políticas de archivo y a la relación entre historia cultural y nueva historia política. El mero enunciado de los ejes temáticos con que fueron convocadas las sucesivas Jornadas de Historia de las Izquierdas del CeDInCI a lo largo de los últimos 20 años ofrece un índice ilustrativo de su programa historiográfico, tal y como se fue desplegando a lo largo del tiempo: "Exilios políticos latinoamericanos y argentinos" (2005); "Prensa política, revistas culturales y emprendimientos editoriales de las izquierdas latinoamericanas" (2007); "¿Las 'ideas fuera de lugar'? El problema de la recepción y la circulación de ideas en América Latina" (2009); "José Ingenieros y sus mundos" (2011); "La correspondencia en la historia política e intelectual latinoamericana" (2013); "Marxismos latinoamericanos. Tradiciones, debates y nuevas perspectivas desde la Historia cultural e intelectual" (2015); "100 años de Octubre de 1917: Peripecias latinoamericanas de un acontecimiento global" (2017). El estudio de Juan Maiguashca incluido recientemente en Marxist historiographies. A global perspective tomaba justamente a las Jornadas del CeDInCI como un índice de la renovación historiográfica latinoamericana de izquierdas posterior a los años de la "crisis del marxismo".[10] El historiador ecuatoriano, actualmente profesor de la Universidad de York, Canadá, ofrecía un cotejo entre los que identificaba como los dos polos paradigmáticos de la renovación del marxismo historiográfico de inicios de siglo: la revista mexicana Contrahistorias. La otra mirada de Clío, que fundó en 2003 Carlos Antonio Aguirre Rojas, y las jornadas bianuales del CeDInCI. Maiguashca reconocía como notas distintivas del caso argentino la creciente voluntad de exceder los límites de la historia nacional para abrazar un horizonte latinoamericano; la consolidación de un espacio de diálogo que vino a reemplazar "las actitudes solipsistas de antaño"; el rigor en el tratamiento y el citado de las fuentes; la apertura hacia los diversos marxismos y más allá de los marxismos; y la ampliación del universo de la cultura de izquierdas hacia problemáticas antes negadas o desconocidas como el feminismo, los movimientos sociales o la memoria histórica. "La preocupación obsesiva con las clases se ha ido y los participantes están comenzando a explorar con una mente abierta las importaciones analíticas de otras variables: etnia, género, territorio, entre otros".[11] Además de sus jornadas bianuales, el CeDInCI organizó o promovió la coorganización de encuentros académicos sobre campos de estudio más amplios, como los Coloquios Argentinos de estudios sobre el libro y la edición (2012, 2016 y 2018), los Encuentros de Investigadore/as del Anarquismo (2007, 2009, 2011, 2013 y 2015), el Primer Congreso de Investigadorxs sobre Anarquismo (2016), o las Jornadas de Archivo (2015 y 2017) así como el Encuentro nacional de Teoría Crítica José Sazbón (Rosario, 2010), las Jornadas Internacionales José María Aricó (Córdoba, 2011) y las Jornadas A 100 años de la Reforma Universitaria. Historia, Política, Cultura (Rosario, 2018). Además, en los últimos años, se han creado en el marco del CeDInCI dos nuevos espacios específicos que han mancomunado archivo e investigación. Primero, el Programa de Investigación del Anarquismo que animó, junto a otros colegas, un proceso de intercambio que culminó con la organización del Congreso de 2016 cuya continuidad, en un Segundo Congreso Internacional de Investigadorxs del Anarquismo, se celebrará en Montevideo en 2019. A su vez, en el año 2017 se creó el Programa de memorias políticas feministas y sexogenéricas que, con una notable Colectiva asesora, lleva adelante un intenso trabajo de recuperación, preservación y disposición a la consulta pública de un invaluable material que se encontraba en riesgo de pérdida, disperso o inaccesible. Finalmente, el CeDInCI fue parte activa de las sucesivas Jornadas de Trabajo sobre Historia Reciente, librando batallas, desde sus primeras manifestaciones en el año 2003 y hasta el presente, a favor de esa historia crítica que se resiste a ser avasallada por la memoria; el CeDInCI protagonizó asimismo las primeras manifestaciones pluralistas de los Congresos de Historia Intelectual Latinoamericana (CHIAL) realizados en Medellín (2012) y Buenos Aires (2014), tomando luego prudente distancia de un espacio que fue adquiriendo en México (2016) y más gravemente en Santiago de Chile (2018) contornos elitistas y conservadores. * * * A lo largo de estos 20 años, la producción historiográfica sobre las izquierdas conoció una expansión inédita, no sólo en nuestro país sino en toda América Latina. En los textos programáticos de la década de 1990 que anunciaban el nacimiento del CeDInCI, la bibliografía argentina sobre las izquierdas apenas superaba una carilla. Hoy contamos con una masa de estudios sobre el anarquismo, el socialismo, el reformismo universitario, el comunismo, el antifascismo, el trotskismo, el peronismo revolucionario y las diversas expresiones de la nueva izquierda que se ha tornado prácticamente inabarcable. El espectro tradicional de las izquierdas se fue complejizando con la indagación focalizada en ciertos cruces, préstamos e hibridaciones poco antes impensados, como los "anarcobolcheviques" o los "comunistas liberales". A su vez, estas corrientes son atravesadas diagonalmente por estudios innovadores sobre los intelectuales revolucionarios, las políticas editoriales, la prensa y las revistas, el papel de las juventudes, el rol de las mujeres militantes, las micropolíticas, las prácticas sexuales y las biopolíticas de las organizaciones de izquierda. El CeDInCI acompañó y contribuyó a modelar este vasto proceso de producción con su acervo siempre enriquecido, con sus jornadas y sus seminarios de posgrado, con su revista Políticas de la Memoria, con sus ediciones de fuentes y sus diccionarios biográficos. Basta repasar los centenares de agradecimientos que muchos investigadores estampan en las primeras páginas de sus tesis o de sus libros para reconocer al menos el umbral más básico de esta deuda. Además, las obras que fueron elaborando los propios hacedores del CeDInCI se han ido instalando como referencias en el campo de estudios sobre las izquierdas en Argentina y América Latina. Ahora bien, el CeDInCI ha sido apenas un propiciador de este campo. El notable dinamismo desplegado en la Argentina de los últimos veinte años ha respondido a demandas múltiples y diversas. Una de las mayores fue la que podríamos llamar la "demanda de verdad" respecto de la militancia revolucionaria de los años '60 y '70 así como de las condiciones de su represión y su derrota. Poco antes, la "demanda de justicia" propia del movimiento de derechos humanos tendía a poner a los sujetos de la política en el lugar de víctimas de la represión. En un segundo momento, el periodismo de investigación y la historiografía académica después, vinieron a reponer a esos sujetos en su condición de militantes. El auge de estudios sobre la militancia de las dos décadas de gran movilización social y radicalidad política (1955-1976) tuvo un efecto dinamizador sobre otras experiencias y otras figuras militantes de pasados algo más remotos. Esta demanda social de "verdad" fue inicialmente satisfecha por un periodismo de investigación abiertamente tensado por sus posicionamientos políticos, desde las contribuciones de Isidoro Gilbert y María Seoane hasta las de Ceferino Reato y Tata Yofre. En el campo específicamente historiográfico, algunas de las primeras respuestas surgieron de una cierta perspectiva académico-militante, de espíritu defensivo y reivindicativo, cuyo afán por exhumar documentos o recabar testimonios que probaran las correctas posiciones de las izquierdas en el pasado, o bien su profunda implantación social e incluso la aprobación social de sus acciones militares, los empujaba de modo concomitante a invisibilizar sus límites, a desproblematizar sus dilemas y a sublimar sus fracasos. En buena parte de esta literatura, la perspectiva historiográfica quedaba, así, capturada por el sistema de creencias de los propios actores que estudiaba. Estas formas de teleología obrera y de sobrepolitización de la historia apenas si se vieron neutralizadas por las exigencias de profesionalización propias de fines del siglo XX. Ciertamente, el ciclo de estudios sobre las izquierdas coincidió con un profundo proceso de profesionalización de las ciencias sociales y las humanidades que tuvo lugar a lo largo de estos veinte años: esto es, la significativa ampliación de cupos de ingreso a carrera de investigador de CONICET; la gran expansión de becas de especialización e investigación en universidades y diversas entidades científicas y académicas; y la proliferación de espacios de formación, producción y circulación de saberes disciplinares. Este proceso significó, sin duda, una necesaria y justa democratización del universo académico, fundamentalmente en lo relativo al establecimiento de condiciones materiales para la producción intelectual. Sin embargo, la normativización y objetivación —la más de las veces cuantitativa— de los criterios de acreditación, evaluación y legitimación del quehacer intelectual implicaron en contrapartida una penalización a la historiografía más elaborada, crítica y original. La producción en serie de papers y artículos en los que prima la descripción —a veces minuciosa o erudita, otras no tanto— por sobre la interrogación y la construcción de objetos-problema; las escrituras que en su afán de productividad han abandonado todo debate, toda pretensión teórica o cuanto menos reflexiva, es la que predomina hoy en nuestros campos disciplinares. La cuestión excede con creces, por supuesto, a la historiografía de izquierdas, pero es ésta la que nos interesa aquí. Este sistema cuantitativo de evaluación y legitimación ha sido incluso perfectamente funcional para el crecimiento de esas versiones de la historia obrera tradicional o de la historia partidaria, permitiéndoles acomodarse perfectamente a unas reglas que exigen alta productividad antes que problematización de los objetos y avances reales en la construcción social del conocimiento histórico. El balance de conjunto de la producción de estos últimos veinte años sobre las izquierdas aún está por hacerse. Aquí sólo quisimos avanzar en algunos señalamientos que hacen al específico posicionamiento del CeDInCI, entre los riesgos de partidización de la historia reciente, por un lado, y ciertas derivas elitistas y despolitizadoras de la nueva historia intelectual, por otro. Nos propusimos incitar a un debate colectivo que sirva como balance de lo producido y como actualización de una agenda historiográfica para el estudio de las izquierdas, que tal como había sido formulada veinte años atrás, ya ha quedado en cierto modo realizada, y por lo tanto anticuada. El aniversario, además de la congratulación, puede ser una excelente oportunidad para barajar y dar de nuevo, para debatir colectivamente cuál es hoy el mapa de la historiografía de izquierdas; cuáles sus dispositivos teórico-metodológicos y sus redes conceptuales más destacadas; cuáles sus imbricaciones y apuestas político-intelectuales; cuáles son sus tensiones; qué tradiciones político-ideológicas se perpetúan en las escrituras actuales; cuáles han sido desechadas, cuáles olvidadas, cuáles actualizadas; cuáles son sus puentes, cuáles sus distancias con el espacio más general de la memoria. Incluso cabe preguntarse: ¿Puede hablarse de un campo de estudio de las izquierdas?, o incluso: ¿qué sería hoy una historiografía de izquierdas? Para ello, invitamos a colegas y amigos a participar de las próximas Xas Jornadas de Historia de las Izquierdas Dos décadas de historia de las izquierdas latinoamericanas. Aniversario y balance, los días 20, 21 y 22 de noviembre de 2019. Beba Balvé, Miguel Murmis, Juan Carlos Marín, Lidia Aufgang, Tomás J. Bar y Roberto Jacoby, Lucha de calles, lucha de clases. Elementos para su análisis (Córdoba, 1961-1969), Buenos Aires, La Rosa Blindada, 1973. ↑ Tan sólo a modo de ejemplo: en sentido opuesto a la expresa declaración de su autor, el enfoque de Oposición obrera a la dictadura (Buenos Aires, Contrapunto, 1988) de Pablo Pozzi era escasamente thompsoniano. Lejos de tomar la dimensión de la experiencia como constitutiva de la clase obrera, no hacía más que evaluar las prácticas de resistencia obrera construidas empíricamente con el rasero de una conciencia de clase previamente establecida (en un sentido, justamente, pre-thompsoniano). ↑ Programa de Estudios de Historia Económica y Social Americana. ↑ Juan Suriano, Trabajadores, anarquismo y Estado represor : De la Ley de Residencia a la Ley de Defensa Social (1902-1910), Buenos Aires, CEAL, 1988; y Anarquistas. Cultura y política libertaria en Buenos Aires. 1890-1910, Buenos Aires, Manantial, 2001. ↑ Leandro Gutiérrez, Luis Alberto Romero, "Los sectores populares y el movimiento obrero: un balance historiográfico", en Sectores populares. Cultura y política, Buenos Aires, Sudamericana, 1995. ↑ Jeremy Adelman (ed.), Essays in Argentine Labour History 1870-1930, Londres, Macmillan Press, 1992, incluyó estudios de Juan Suriano, Hilda Sábato, Silvia Badoza, Mirta Lobato, Ofelia Pianetto, Ruth Thompson, Colin M. Lewis, Eduardo A. Zimmermann, Leandro H. Gutiérrez, Luis Alberto Romero y el propio Jeremy Adelman. ↑ Horacio Tarcus, El marxismo olvidado en la Argentina: Silvio Frondizi y Milcíades Peña, Buenos Aires, El Cielo por Asalto, 1996; Horacio Tarcus, Mariátegui en la Argentina, o las políticas culturales de Samuel Glusberg, Buenos Aires, El Cielo por Asalto, 2001; H. Tarcus, J. Cernadas y R. Pittaluga, "Para una historia de la izquierda en la Argentina. Reflexiones preliminares", en El Rodaballo nº 6/7, Buenos Aires, otoño/invierno 1997, pp. 28-38; Íbid., "La historiografía sobre el Partido Comunista de la Argentina: un estado de la cuestión", en El Rodaballo. Revista de política y cultura nº 8, Buenos Aires, otoño/invierno 1998, pp. 31-40. ↑ Horacio Tarcus, "La secta política. Ensayo acerca de la pervivencia de lo sagrado en la modernidad", en El Rodaballo. Revista de política y cultura, nº 9, Buenos Aires, verano 1998/99, pp. 13-33. ↑ Enzo Traverso, La historia como campo de batalla, Buenos Aires, Fondo de Cultura Económica, 2012, pp. 22; véase una crítica semejante en el estudio de Michael Heinrich que ofrecemos en este mismo número. ↑ Q. Edward Wang and Georg G. Iggers (eds.), Marxist historiographies. A global perspective, New York, Routledge, 2016. El estudio de Juan Maiguashca apareció inicialmente como "Latin American Marxist History: Rise, fall and resurrection", en Storia della Storiografia nº 62, Pisa, 2012, pp. 105-120. Hay una versión española de Isabel Mena: "Historia marxista latinoamericana: nacimiento, caída y resurrección", en Procesos. Revista ecuatoriana de historia nº 62, Quito, segundo semestre 2013, disponible en: http://revistaprocesos.ec/ojs/index.php/ojs/article/view/6/24 ↑ Juan Maiguashca , "Historia marxista latinoamericana: nacimiento, caída y resurrección", op. cit., p. 106. ↑
Il pesante condizionamento imposto allo studio della storia degli ultimi 20 anni del I secolo dal "revisionismo" d'età traianea ha per molto tempo reso assai difficoltoso comprendere gli equilibri e le dinamiche politiche che caratterizzarono il regno di Domiziano e quello di Nerva. Ancor oggi, molti pregiudizi permangono, e se la figura e l'operato dell'ultimo flavio sono parzialmente stati rivalutati da più di mezzo secolo di storiografia, resiste piuttosto tenacemente la vulgata di una sostanziale discontinuità politica tra il regno del figlio di Vespasiano e il principato di Nerva, spesso ancora interpretato nell'ottica piuttosto ideologica di un progresso verso il raggiungimento del virtuoso equilibrio tra imperatore e Senato, che si realizzerà pienamente sotto l'Optimus Princeps e i suoi successori. Il presente lavoro naturalmente cerca di porsi come ennesimo contributo alla demolizione di un'impostazione ormai clamorosamente sconfessata dai fatti. E' anzi proprio in ragione della manifesta continuità politica e amministrativa tra le due esperienze che ho voluto allargare il campo d'indagine relativo alla lotta per il potere in età domizianea anche al biennio di Nerva. Se quest'ultimo rappresenta l'occasione di emersione di conflitti e alleanze altrimenti difficilmente individuabili in una fase di cui R. Syme lamentava la pressoché assoluta inintelligibilità, allo stesso tempo tali fenomeni trovano le loro radici proprio in età flavia. Il medesimo processo osmotico si ravvisa nella stretta interrelazione tra gli esordi della dinastia fondata da Vespasiano e l'età neroniana. Dall'analisi di entrambe queste "propaggini" storiche emergono importanti informazioni sulla composizione di gruppi, e sull'estrazione di personaggi che animarono la politica imperiale per circa un trentennio, e che gettarono le basi per l'affermazione della dinastia antonina. A rischio di privilegiare un'ottica teleologica, va sottolineato che i principati di Domiziano e Nerva sono accomunati proprio dal fatto di aver costituito le fasi di incubazione e di emersione del network su cui si sarebbe retto il potere imperiale per più di un secolo. Come abbiamo visto, è probabile che l'evoluzione e l'estensione delle sue ramificazioni e della sua influenza abbiano determinato conseguenze importanti sull'andamento delle vicende politiche di quegli anni, e inciso in maniera spesso decisiva su alcuni passaggi chiave. La crisi dinastica che sembra caratterizzare l'intero corso del principato domizianeo, viene risolta in via definitiva solo con l'adozione di Traiano, a conclusione della reggenza di Nerva. Il personale politico che gestisce il brusco passaggio del settembre 96, è lo stesso che poco più di un anno dopo vedrà nell'adozione del consolare di Italica il coronamento dei propri sforzi. Non è escluso, poi, che dietro ai due rapidi avvicendamenti ai vertici del governo imperiale si possa ravvisare una continuità di strategie, come immaginò, qualche anno fa, R. Syme , attraverso una suggestiva analogia tra l'alacre attività diplomatica degli alleati di Traiano e le trame del prefetto del pretorio Aemilius Laetus, poco meno di un secolo dopo: quest'ultimo, regista della congiura contro Commodo, fu abile a nominare rapidamente un candidato plausibile e popolare, non inviso al Senato, Pertinace (allora Praefectus Urbi), mentre, nello stesso tempo, il suo candidato reale, Settimio Severo, veniva assegnato a un comando chiave, quello della Pannonia; forte del supporto decisivo delle legioni danubiane, il generale africano conquistò poi il potere. E' forte la tentazione di individuare simili sviluppi per il biennio 96 – 98. Infine, le correnti di opposizione filosofica al dispotismo di Domiziano, che avevano riacquisito vigore negli ultimi anni dell'età flavia, ebbero un ruolo non trascurabile nei conflitti che dilaniarono il Senato nel corso del principato di Nerva, arrivando anche a presentare un proprio candidato alla successione: se il biennio nerviano risulta argomento così articolato e complesso, e apparentemente contraddittorio, ciò si deve in parte anche all'interferenza, nella lotta per l'imperium, di questo "terzo polo". Sulla base di queste premesse, è chiaro che l'interpretazione della storia politica del regno di Domiziano non possa fare a meno di quella che ne è, a tutti gli effetti, un'appendice, ma che, per la sua natura di momento storico non soggetto a una forza egemone, e, di conseguenza, non completamente banalizzato da un "pensiero unico", offre spiragli e "corsie alternative" all'indagine. Uno degli effetti più sgradevoli, benché necessari, della vulgata antidomizianea trasmessa dalla tradizione ai moderni consiste proprio nella naturale reazione che questa suscitò nei ricercatori che si dedicarono al principato dell'ultimo flavio. In pratica, ancora in tempi recenti, la finalità principale di molte ricerche è stata quella di rivalutare l'operato di Domiziano, confutando, punto per punto, l'opera consapevole di denigrazione postuma messa in atto da intellettuali e storiografi dell'antichità. Ciò ha prodotto indubitabilmente degli effetti positivi, riequilibrando il giudizio storico su Domiziano, e sottolineando la sostanziale continuità di pratiche e di scelte strategiche, in ambito politico e amministrativo, con i sovrani successivi. Contemporaneamente, nel tentativo di render giustizia a una figura storica oggetto di una secolare campagna di diffamazione, tale impostazione ha, in taluni casi, ecceduto in senso opposto, non riuscendo a riconoscere le ragioni di un fatto che resta comunque incontestabile, ovvero la sua caduta, o addirittura trasformando Domiziano stesso in una vittima del conservatorismo senatoriale . Mi sono dunque chiesto quale (o quali) fattore potesse aver contribuito in maniera sensibile alla rovina dell'ultimo flavio; in età moderna non sono mancate le suggestioni in questo senso: dall'ormai esausto e meccanico schema del conflitto tra tirannide liberticida e senato, all'intervento di una componente di matrice giudaica; dalle reazioni delle classi elevate alla rapacitas di Domiziano, all'opposizione ai tentativi di riforma in senso dirigista ed efficientista dell'amministrazione e del governo dell'Impero. Ciascuna di queste proposte manca però di un adeguato supporto documentario, oppure tende a generalizzare un fenomeno di cui restano scarsi indizi, che non autorizzano l'elaborazione di teorie sistematiche . Piuttosto negletto dalla ricerca moderna, perlomeno in relazione all'ultimo flavio, mi è parso invece un aspetto, che abitualmente riveste una certa importanza nella biografia di ogni imperatore, ovvero quello rappresentato dalla questione dinastica e dalle prospettive di successione. Certo, manca a un'indagine di questo genere l'essenziale supporto di un'opera storica dello spessore e dell'intelligenza politica degli Annales, che ha fornito un contributo essenziale alla comprensione delle altrimenti inesplicabili dinamiche di corte del principato giulio – claudio. Eppure, indizi dell'attenzione e delle aspettative che Domiziano e la sua corte nutrivano verso la nascita di un erede maschio, e di una successione in domo, non mancano: non soltanto nelle evidenze numismatiche ed epigrafiche d'inizio regno, ma anche nelle oscillazioni della relazione con la moglie Domitia Longina, e nei riflessi che tali oscillazioni ebbero sull'armonia e sulla stabilità dei rapporti tra il flavio e la classe dirigente. Non è impossibile che sia stato proprio questo elemento ad avvelenare il clima politico sin dagli esordi. Era d'altronde un fatto assolutamente noto che i Flavi fossero votati al principio ereditario: Vespasiano doveva almeno in parte ai suoi due figli l'opzione in suo favore quale candidato alla porpora espressa da Licinius Mucianus e dagli altri componenti delle Partes Flavianae; egli stesso si trovò poi a fronteggiare, se dobbiamo credere alle fonti, un numero considerevole di congiure proprio a causa della risolutezza con la quale perseguiva la successio in domo. Il padre di Domiziano però, cresciuto e formatosi politicamente negli ambienti della corte giulio – claudia, e in particolare (almeno per qualche tempo) all'interno dell'influente circolo di Antonia Minore, ne ereditava la concezione di principato senza possedere gli stessi requisiti di nobiltà. Questa particolare condizione, oltre alle ben note conseguenze sul piano della condotta istituzionale (che si traduceva nel tentativo di legittimazione attraverso il monopolio delle magistrature più importanti), produsse un effetto secondario, al momento forse inevitabile, visto a posteriori, rovinoso. La necessità di ridurre al minimo i rischi di usurpazione, amplificati dalla relativa modestia sociale dei propri antenati, spinse i Flavi a limitare l'estensione e la ramificazione del proprio network familiare , proprio al fine di evitare che un matrimonio legittimasse le aspirazioni di un capax imperii. La dimensione e la gravità dell'errore emerge dal confronto con la politica dinastica di Augusto, il quale però poteva vantare la discendenza da una delle famiglie più nobili della Roma repubblicana: sin dal principio, il fondatore dell'Impero aveva proceduto alla più ampia cooptazione di gentes patrizie (reintegrando anche i discendenti del suo storico rivale, Marco Antonio), avvicinandole il più possibile, attraverso alleanze matrimoniali, alla Domus Augusta, al duplice scopo di garantire la ricomposizione politica, e di alimentare il ricambio generazionale. La stessa attitudine alla ricomposizione del ceto dirigente caratterizzò gli esordi della dinastia flavia, ma ne influenzò solo in minima parte la politica matrimoniale. Le conseguenze di questa impostazione emersero durante il principato di Domiziano. Questi, non solo dovette affrontare le difficoltà legate all'assenza di discendenti maschi, ma, in un certo senso, contribuì ad accentuarle, facendo giustiziare l'intera linea maschile del ramo familiare discendente dallo zio Flavius Sabinus. E' intuitivo come ciò, a un certo punto del regno, potesse autorizzare legittime aspirazioni da parte di chi, pur non essendo imparentato coi Flavi, vantava nobili origini. Ad aggravare questa situazione, contribuì un secondo fattore di considerevole rilevanza, ovvero l'imponente dote di relazioni "eccellenti" e influenti (nonché di pericolose prossimità con insigni esponenti dell'opposizione stoica), che Domitia Longina ereditò dal padre Domitius Corbulo, e che non mancò di condizionare sistematicamente gli equilibri interni alla corte e interferire nelle strategie di orientamento dinastico dell'imperatore. Abbiamo visto come il matrimonio tra Domiziano e Domitia Longina avesse suggellato un'alleanza politica, che aveva portato all'affermazione delle Partes Flavianae, alla conquista del potere per Vespasiano e i suoi figli, e garantito considerevoli vantaggi in termini d'immagine, di governabilità, e di durata della nuova compagine. Essa però imponeva probabilmente anche seri condizionamenti all'arbitrio dei regnanti: uno di essi poteva essere proprio il rispetto, a tutti i costi, del vincolo nuziale stesso, e del suo fine precipuo, ovvero la nascita di un erede maschio, nel quale confluissero le linee dinastiche di entrambe le famiglie (Flavi e Domitii), insieme alle rispettive clientele. Proprio il "fallimento" di tali aspettative, almeno in due casi (il primo, con la morte di Flavius Caesar, all'inizio del regno; il secondo, meno documentato, intorno all'anno 90, in seguito a un aborto di Longina), scatenò altrettante crisi; la prima di esse, che vide probabilmente la contrapposizione a corte di un "partito" di Domitia Longina e di un'opzione interna alla casata flavia (che individuava in Iulia la sposa ideale per l'imperatore e che spingeva per l'unificazione della linea dinastica), e che si risolse con la reintegrazione dell'Augusta, suggerisce una duplice riflessione: innanzitutto essa rappresenta un ottimo esempio di come il processo di revisione storica successivo alla morte del tiranno abbia avuto gioco facile a determinare un appiattimento della dialettica politica interna alla corte domizianea a una dimensione frivola e scandalistica, indispensabile per offrire materia prima alla vituperatio, anche, crediamo, grazie alle peculiari caratteristiche della comunicazione in una corte imperiale, per sua natura indiretta, ambigua e inintelligibile ai più, facilmente equivocabile col banale pettegolezzo; tuttavia, va comunque constatato che le dicerie che fornirono l'alimento all'opera di diffamazione dell'ultimo flavio scaturirono dal contesto della corte domizianea, e colà trovano la loro ragion d'essere e le loro motivazioni occulte. Su di essi si costruì poi il processo di revisione storica successivo, ma ciò non toglie nulla al fatto che esistessero già (in forma diversa probabilmente) durante il principato di Domiziano. Non è dunque, a mio giudizio, un esercizio completamente inutile lo sforzo esegetico compiuto su certo genere di fonti: i rumores riportati, in sostanza, testimoniano l'esistenza di un piano occulto, probabile scenario di un conflitto tra forze contrastanti, miranti ciascuna a esercitare pressione sul princeps e a condizionarne le scelte. Questo ci conduce al secondo punto: la vittoria diplomatica conseguita da Domitia Longina con la sua reintegrazione, e i fatti che l'accompagnarono, rivelano il peso e l'influenza degli alleati dell'Augusta; tra essi, emergono T. Aurelius Fulvus e Q. Iulius Cordinus Rutilius Gallicus, luogotenenti del padre di Longina in Oriente, componenti, assieme a Sex. Iulius Frontinus, di quel "gruppo corbuloniano", che si fece garante dell'alleanza che generò le Partes Flavianae; e L. Iulius Ursus, all'epoca ancora prefetto del pretorio e probabile adfinis della dinastia regnante. Questo sodalizio, formato da uomini di provata esperienza, appartenenti alla generazione precedente a quella di Domiziano, e che quindi non dovevano la loro ascesa sociale al princeps, rappresenterà (con la sola eccezione di Rutilius Gallicus, morto probabilmente nel 91) il nerbo della diplomazia politica che gestirà il duplice avvicendamento ai vertici del governo imperiale tra il 96 e il 97. E' significativo notare, a questo proposito, che l'imponente network di amicitiae e di relazioni familiari al vertice del quale questi personaggi si trovavano e che, come abbiamo visto, gravitava attorno ad alcune familiae novae emergenti di origine per lo più provinciale (ispano – narbonense, dovremmo dire), ovvero gli Aelii, gli Ulpii, gli Annii, i Calvisii Rusones, e i ricchissimi Curvii fratres, aveva visto rinsaldare i suoi nodi, per il tramite di eclatanti alleanze matrimoniali, ben prima della caduta di Domiziano. Ciò implica che, al momento della seconda fase di crisi dinastica del principato, successiva al 90, questa rete di relazioni doveva già essere attiva, e poteva dunque aver influito sul processo di deterioramento dei rapporti tra il princeps e la classe dirigente. La probabile emarginazione di Domitia Longina infatti, all'indomani del fallimentare esito della maternità cui fa cenno Marziale , alienò definitivamente a Domiziano l'appoggio del cospicuo blocco di potere che spalleggiava l'Augusta; l'isolamento dinastico dell'imperatore è peraltro confermato indirettamente dall'analisi della lista dei consolari che congiurarono contro di lui e che furono quindi giustiziati : dei 14 condannati a morte, di cui 13 consolari, 8 erano sicuramente patrizi. Quindi capaces imperii, secondo l'abituale metro di valutazione degli antichi. Lo erano in misura maggiore dal momento che, all'interno di questo gruppo, almeno 6 personaggi potevano vantare relazioni di parentela o di stretta amicizia con i Flavi (Flavius Sabinus, Arrecinus Clemens, M'. Acilius Glabrio, Aelius Lamia, Flavius Clemens, C. Vettulenus Civica Cerialis), uno, ovvero Salvius Otho, era nipote di un ex imperatore, e l'ultimo, Salvidienus Orfitus, era imparentato con l'imperatrice. E' ragionevole supporre che la maggior parte di costoro sia stata coinvolta all'interno di piani cospiratori allo scopo di garantire una credibile candidatura alla porpora. Inoltre, fatta eccezione per Arrecinus Clemens e Flavius Sabinus, ed escludendo i due eversori militari, tutte le altre vittime delle rappresaglie domizianee si concentrano dopo il 90/91 d.C. A mio avviso, ancora una volta il comune denominatore della maggior parte di queste calamitates potrebbe farsi risalire al problema della successione. La presenza di tanti capaces imperii non si spiega in altro modo se non alla luce della ridotta disponibilità di plausibili successori all'interno della casata flavia; e un sovrano senza successori era esposto a un costante rischio di cospirazioni. Alla luce di questi elementi è assai agevole comprendere la chiosa di Svetonio alla notizia della esecuzione dell'ultimo adfinis, e potenziale erede, di Domiziano, ovvero Flavius Clemens, giustiziato nel 95 dopo aver appena deposto i fasces : quo maxime facto (scil. Domitianus) maturavit sibi exitium. A questo punto è forte la tentazione di individuare una stretta relazione tra il progressivo estinguersi delle opzioni dinastiche di Domiziano e la ricomparsa sulla ribalta dell'alta politica, all'indomani della morte del despota, e dopo qualche anno di salutare ritiro, di Sex. Iulius Frontinus, Iulius Ursus, Domitius Tullus, T. Aurelius Fulvus. Questi politici navigati, esperti diplomatici, influenti uomini di potere, erano attratti dalla prospettiva di inserire il network di interessi che rappresentavano nel vuoto lasciato dai Flavi. Non è anzi escluso che essi abbiano cercato di accelerare la caduta di Domiziano , o comunque che non abbiano ostacolato la creazione di una fronda antitirannica, di una coalizione di forze attorno ai circoli di opposizione e, soprattutto, attorno a Domitia Longina, l'imperatrice ripudiata, erede della dote morale del padre, Domitius Corbulo, martire egli stesso del dispotismo. Emerge ancora una volta la centralità dell'Augusta, come soggetto politico di considerevole influenza, e, almeno nella fase finale del principato domizianeo, come punto di riferimento dell'opposizione al marito. Una certa tradizione letteraria, da Dione a Procopio, e una considerevole serie di documenti epigrafici e archeologici, conferma l'ottima reputazione, se non addirittura la venerazione di cui godette la donna dopo la morte di Domiziano, sorprendenti ove si pensi che quest'ultimo fu oggetto della più implacabile abolitio memoriae che la storia imperiale ricordi . La fine di Domiziano, al pari di quella di Nerone, fu dunque il risultato di una convergenza di interessi e soggetti molto differenti tra loro, temporaneamente coalizzati dall'obiettivo della rimozione di un nemico comune. Non casualmente, H. Castritius ha associato il ruolo di Domitia Longina, quale catalizzatore del dissenso, a quello della figura e poi della memoria di Ottavia . La composita alleanza tra epigoni dei martiri stoici, elementi del patriziato, componenti del gruppo corbuloniano, ebbe breve durata: sin dal principio, la reggenza di Nerva è caratterizzata da una estesa conflittualità all'interno del Senato e della classe dirigente. Il princeps è peraltro in una posizione di estrema debolezza: il suo ruolo di garante istituzionale, frutto di un faticoso compromesso, lo condanna ad un'equidistanza molto facilmente assimilabile all'isolamento; d'altronde la precarietà del suo mandato, la sua condizione di reggitore dell'Impero ad interim, era talmente palese da indurlo addirittura a pronunciarsi su di essa . In verità Nerva era un uomo piuttosto compromesso con Domiziano, e questo non mancò di essergli rinfacciato . Un sovrano tanto delegittimato non può che far presupporre che alle sue spalle infuri la battaglia per la successione. In tal senso, uno degli scopi di questo lavoro è consistito nell'individuare tracce o indizi di una continuità di strategie da parte del medesimo gruppo di potere in occasione dei due avvicendamenti ai vertici del governo imperiale tra il settembre 96 e l'ottobre 97. Ben poco è possibile dedurre dagli scarni resoconti delle fonti circa l'assassinio di Domiziano (né avremmo mai sperato di ricavare da essi molto più che banali aneddoti); assai più significativa l'invadente presenza dei futuri artefici dell'adozione di Traiano in ogni iniziativa del neoinsediato governo di Nerva: Sex. Iulius Frontinus divenne curator aquarum nel 97, e contemporaneamente, insieme a L. Iulius Ursus, presiedette la commissione finanziaria istituita dall'anziano princeps. La notizia è tanto più sorprendente ove si consideri che tale attivismo faceva da contraltare alla totale inerzia politica durante gli ultimi anni di regno di Domiziano. T. Aurelius Fulvus, se ancora vivo, doveva avere sovrinteso alla Praefectura Urbi nei giorni del complotto contro l'ultimo flavio, e molto probabilmente deteneva ancora la carica. Ritengo poi che i consolati iterum del 98 siano in buona parte stati decisi da Nerva: se così fosse, il grande onore tributato a Frontinus, Ursus, e Domitius Tullus, si spiegherebbe a fatica se non in relazione a meriti particolari nell'insediamento al potere del senatore di Narni, e in tutto ciò che lo precedette. Infine, nell'eventualità, molto probabile, a giudizio di molti, che Traiano fosse stato assegnato alla Germania Superiore nell'autunno del 96, si avrebbe un'importante conferma del fatto che i suoi alleati, sin dall'inizio del principato di Nerva si avvantaggiassero di una considerevole supremazia strategica sui possibili concorrenti. Questo naturalmente non poteva spiegarsi che con un primato in termini di potere, influenza, ricchezza. Il cosiddetto "circolo di Traiano" rappresentava, come abbiamo visto, il vertice di una rete di relazioni e interessi imponente; essa sarà la base della futura dinastia antonina. Artefici o meno della caduta di Domiziano, saranno i componenti più anziani di questo network, ben insediati a capo delle catene di comando del principato di Nerva, a sovrintendere al passaggio di consegne tra l'anziano princeps e il legato della Germania Superiore, operando i necessari avvicendamenti in alcuni officia strategici del Reno, e, per un altro verso, vigilando nella capitale , affinché tutto procedesse secondo i piani. Componeva questa task force diplomatica, oltre ai già citati Frontinus, Ursus, T. Aurelius Fulvus, Cn. Domitius Tullus, anche, con tutta probabilità, L. Licinius Sura, del quale si sono cercate di mettere in luce in particolare le virtù "civili": amante della mondanità, infaticabile tessitore di relazioni, fine politico, il braccio destro di Traiano sembra assai più facilmente assimilabile a un Mecenate che a un Agrippa. Per questa ragione, ritengo che il suo decisivo contributo al senatore di Italica debba essere collocato nel contesto di febbrile attivismo diplomatico che ebbe come scenario Roma, e non la provincia . A trarre profitto da questa operazione sarebbero poi stati i membri più giovani di questo blocco di potere, appartenenti alla generazione di Traiano (e di Domiziano), o di poco più anziani: Q. Glitius Atilius Agricola, Q. Sosius Senecio, L. Iulius Ursus Servianus, Sex. Attius Suburanus, A. Cornelius Palma Frontonianus, per citare i più importanti. Naturalmente, questa operazione di "insediamento" al potere non avvenne senza contrasti. Il principale ostacolo all'affermazione di Traiano e dei suoi alleati, era costituito dai politici più legati al passato regime, la cui influenza si era conservata pressoché intatta: lo dimostra ad esempio il fatto che la scelta del successore di Domiziano fosse ricaduta su Nerva, uomo dalle evidenti inclinazioni filodomizianee. Il presidio dei vertici del governo imperiale rappresentava un presupposto fondamentale per esercitare il patronato e attivare canali di promozione e di cooptazione clientelare: era evidente che tale posizione di privilegio non poteva essere amichevolmente condivisa. Inoltre, la factio filodomizianea poteva contare sulla rivalutazione della memoria dell'imperatore ucciso, aspetto che sin dall'inizio incontrò il favore dei soldati, legionari e pretoriani. Coerente con tali premesse, la candidatura di un vir militaris, di un uomo che aveva condiviso, sul campo, trionfi e rovesci di Domiziano, conosciuto e rispettato dalle truppe, ovvero M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus. Come ha ben evidenziato K.H. Schwarte , è in questo "bipolarismo" di fondo che trova la sua ragion d'essere l'offensiva, politica e giudiziaria, contro delatori veri o presunti di Domiziano e uomini compromessi con il passato regime; tra i protagonisti di questa campagna lo stesso Plinio, e, ovviamente, i componenti delle correnti di opposizione alla tirannia di ritorno dall'esilio (Iunius Mauricus in primis). Risulta chiaro, dunque, come i processi politici e gli attacchi agli uomini compromessi con il regime domizianeo durante il regno di Nerva avessero una mera utilità politica: quella cioè di legittimare un "passaggio di consegne", una "successione" altrimenti priva di fondamento giuridico o dinastico; questo è tanto più vero ove si consideri che tale istanza veniva avanzata in diretta e contemporanea concorrenza con un'altra rivendicazione, a suo modo uguale e contraria: quella cui si accennava in precedenza, assai ben descritta dallo Schwarte, fatta propria dai politici e dai viri militares più legati e più compromessi con il passato domizianeo. Ambedue gli schieramenti, in breve, sostenevano una propria "candidatura" al sommo potere. In tale prospettiva, sia detto per inciso, va dunque forse interpretata la successiva campagna "revisionista", che ebbe in Plinio il suo primo interprete e che determinò una consistente mistificazione della realtà storica di quel biennio: essa ebbe origine proprio dalla necessità politica contingente alla lotta per la successione, nacque nella sua forma proprio come rivendicazione politica della legittimità di una candidatura su un'altra, non fu il risultato meccanico di una rilettura inventata di sana pianta post eventum; e peraltro l'elaborazione di una versione addomesticata degli avvenimenti rappresentava una necessità avvertita anche da quanti avevano sostenuto il candidato sbagliato, o si erano mantenuti neutrali; tutti accomunati dall'unica esigenza di dimenticare in fretta e rimanere comunque sul carro dei vincitori. Tali considerazioni mi consentono una breve, ma essenziale, divagazione: è in questo contesto di conflitto politico che va collocata l'emarginazione, o la rimozione, di alcuni personaggi, sin troppo compromessi con il passato regime. L'analisi prosopografica di politici e viri militares vicini a Domiziano ha messo in evidenza, per alcuni di essi, questa circostanza . Ciò naturalmente non presuppone in alcun modo una generale strategia di ricambio nel governo dell'Impero; il principio di continuità amministrativa e di personale tra i regni di Domiziano e Traiano proposto da Waters rimane ancora validissimo. Ciò premesso, affermare che l'avvicendamento ai vertici dell'establishment, avvenuto a cavallo del regno di Nerva, non abbia prodotto delle vittime (in senso metaforico, s'intende), significa misconoscere le più basilari regole del realismo politico. K. Ströbel ha opportunamente parlato, a questo proposito, di "Entdomitianisierung", con esplicito riferimento a ben noti, e analoghi, fenomeni moderni: porre il problema della maggiore o minore compromissione con il tiranno in termini prosopografici non ha alcun senso, dal momento che risulterà evidente che, in tale prospettiva, tutti risultano compromessi, in quanto tutti debitori all'imperatore della propria ascesa sociale. Secondo le "regole d'avanzamento" universalmente accettate, ciascun senatore era in grado di comprendere, in linea di massima, fino a dove avrebbe potuto arrivare; e in generale l'intervento del princeps era rivolto a promuovere degli avanzamenti, assai di rado ad ostacolarli. In questo senso, molti dei componenti della classe politica che si affermerà con Traiano, a partire dall'imperatore, potevano tranquillamente dire di non aver goduto del particolare favore di Domiziano; medesime rivendicazioni potevano venire dai diplomatici di lungo corso, rimasti ai margini dell'alta politica negli ultimi anni di regno del figlio di Vespasiano. Peraltro, il confronto tra la composizione del consilium principis d'età domizianea con quello di Traiano, dimostra che una certa discontinuità (dipendente, va riconosciuto, anche da cause naturali) in effetti vi fu. Tornando all'analisi delle vicende dell'anno 97, si è poi evidenziata l'esistenza di un "terzo polo", oltre a quelli testé descritti. Esso prende le mosse dai circoli d'opposizione filosofica, che, negli anni della svolta autoritaria di Domiziano, avevano riacquisito vigore, e che, dopo l'assassinio del despota, vivevano in senato un'ultima stagione di grande attivismo politico e di accresciuta popolarità; l'offensiva politica e giudiziaria contro gli uomini più compromessi con il passato regime, non fece che amplificarne ulteriormente le ambizioni. L'esito piuttosto insoddisfacente dei processi, e, allo stesso tempo, la percezione della finalità strategica di quest'operazione (la candidatura di un uomo meno compromesso con Domiziano), determinarono probabilmente la deriva "estremistica" di questo soggetto, che provò ad approfittare della debolezza di Nerva: questa, a mio giudizio, la sostanza politica della congiura di Calpurnius Crassus Frugi. E' questo un episodio abitualmente trascurato dagli studiosi, in quanto considerato marginale; recenti studi hanno però dimostrato che esso fu tutt'altro che sottovalutato da Traiano: la durezza delle sanzioni a carico del ribelle, stabilite a correzione della precedente, lieve pena, imposta da Nerva, è rivelatrice dell'entità della minaccia percepita dai nuovi signori di Roma. Prima di concludere, va infine chiarito un ultimo punto. La confutazione della tradizionale immagine dell'Optimus Princeps come vir militaris determina importanti conseguenze anche nella ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla sua adozione. Egli non può più essere considerato, con buona pace di R. Syme , come il naturale candidato dei comandi provinciali, l'espressione di un pacifico compromesso fra capi militari, l'adozione del quale placò di conseguenza ogni tumulto e sventò qualsiasi rischio di sollevazione. L'ascesa alla statio principis di Traiano dovette dunque essere assai più complicata e irta di ostacoli di quanto le fonti contemporanee ce la presentino; soprattutto, la storia di quei mesi deve essere interpretata rivalutando la dialettica dei rapporti di forza tra le aspirazioni dei legati provinciali, le istanze dei legionari, e la regia occulta delle diplomazie senatoriali attive nell'Urbe . In definitiva, il blocco di potere a sostegno di Traiano si avvaleva di una certa supremazia, in termini politici e strategici. Eppure non era egemone. La scarsa reputazione di Traiano presso le legioni; i malumori dei soldati, piuttosto facilmente riscontrabili in Mesia e sul Reno, probabili in Pannonia; i rumores provenienti da Oriente; le pericolose oscillazioni di Nerva verso la factio filodomizianea; la presenza di preoccupanti fattori di interferenza nella lotta per la successione, come la congiura di Calpurnius Crassus Frugi, che aveva anche pericolosamente evidenziato la debolezza di Nerva; tutti questi elementi convinsero gli alleati di Traiano che la posizione strategicamente favorevole di quest'ultimo poteva non essere più sufficiente. In questa logica, una forzatura, che mettesse una volta per tutte fine ad ogni dubbio, poteva essere una soluzione contemplabile. Ma un azzardo del genere poteva essere prerogativa solo di chi conservava il controllo del "gioco", e poteva permettersi di correre un rischio "calcolato". La sollevazione dei Pretoriani, sobillati da Casperius Aelianus, va letta, a mio giudizio, in quest'ottica: ovvero come una provocazione diretta a forzare Nerva all'adozione di Traiano. Un'interpretazione del genere, peraltro, delinea un quadro politico più coerente delle ipotesi finora proposte; chiarisce i dubbi circa la condotta successiva di Casperius Aelianus, di Nerva e di Traiano; motiva la freddezza dell'adottato verso l'adottante. In conclusione, quindi, la cosiddetta adozione, secondo questa del tutto ipotetica ricostruzione, sarebbe una vera e propria usurpazione "mascherata", messa in atto da un gruppo di potere ramificato e forte (i cui elementi più in vista si trovavano tutti a Roma in quel periodo), contrapposto a interessi non convergenti coi propri, ma non abbastanza importanti da scatenare una guerra civile, una volta vistisi minacciati: si potrebbe dire che la strategia dei diplomatici alleati di Traiano avesse messo in scacco tutti gli altri possibili concorrenti; ma una volta constatato poi il rischio che la situazione sfuggisse di mano, essi avevano finito con l'optare per una forzatura, che poteva avere senso solo a condizione di un controllo quasi totale della situazione. L'atto iniziale della dinastia antonina, che ha suggerito ad alcuni moderni l'enfatica definizione di "Adoptivkaiser", fu dunque, nella migliore delle ipotesi, una forma subdola di coercizione. Se tale ipotesi fosse attendibile, cadrebbe anche l'ultimo pilastro di una costruzione che ha ben poco di storico e molto di ideologico. Nella lunga storia dell'Impero romano, l'unico criterio di successione dotato di una qualche legittimità, e rispettato dalle forze che via via si contendevano il potere, fu quello dinastico. Domiziano pagò, a dispetto di ogni infingimento retorico o ideologico sul dispotismo, una fallimentare politica dinastica; i successori di Nerva, pur privi di eredi diretti, si trasmisero tutti il potere in ossequio alla consanguineità ; Marco Aurelio, unico ad avere figli, nominò disinvoltamente, seppur in condizioni di emergenza, il proprio figlio Commodo quale successore. Il nuovo gruppo dirigente che si raccolse attorno ai principes antonini, si dimostrò ben consapevole di questa imprescindibile condizione, e formò una rete compatta e estesa di relazioni e alleanze familiari, tale da garantire la successione all'interno di essa, fenomeno che è in parte fattore fisiologico di condotta delle famiglie romane, ma che poi diverrà anche una strategia consapevole da parte del potere (si pensi al complicato sistema di adozioni incrociate imposto da Adriano ad Antonino Pio), così come a suo tempo aveva cercato di fare Augusto, e che invece mancò completamente nei piani di successione dei Flavi. Ad essi d'altronde era ben nota l'unica, possibile alternativa, ovvero la conquista violenta del potere. Questa, sin dall'inizio, era stata la reale natura del principato: come ebbe a scrivere R. Syme , in fondo, "il principato nacque dall'usurpazione".
Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: società, politica, istituzioni (XIX - XX secolo) ; La ricerca realizzata ha inteso studiare, in un'ottica di lungo periodo e in una prospettiva complessiva, ciò che ha rappresentato l'esperienza del fascismo in un contesto territoriale periferico e non omogeneo, di cui è espressione quel segmento dell'Umbria meridionale costituito in provincia nel gennaio 1927. Tale area si è rivelata un case study esemplare, in grado di offrire interessanti spunti interpretativi. In effetti, all'unico grande polo industriale della provincia, compreso nel territorio della conca ternana, si contrappone la restante parte del territorio provinciale, comprendente città come Orvieto e Amelia, contrassegnate da consolidate relazioni con le regioni limitrofe, espressione di un'Umbria verde, agricola e mezzadrile, ma anche francescana, terra d'arte, di misticismo, ritenuta dalla pubblicistica di regime "cuore" dell'Italia fascista. A partire da ciò, si è creduto opportuno impostare la ricerca attorno a tre questioni principali, ritenute essenziali per cogliere aspetti e dinamiche della società locale nel ventennio mussoliniano. Per fare questo è stata definita una griglia interpretativa funzionale a verificare il ruolo del Pnf nel quadro del rapporto centro-periferia, continuità-rottura. Si è così puntato a esaminare come il fascismo abbia influito sui processi di formazione e consolidamento dei ceti dirigenti locali, verificandone la capacità di rapportarsi con le vecchie élites, di promuoverne di nuove o, magari, di fare coesistere entrambe. Si è poi cercato di approfondire il ruolo che il partito ha svolto in ambito locale, la sua capacità di inserirsi nelle diverse dinamiche territoriali, di creare e controllare reti clientelari e, soprattutto, di rapportarsi con le due realtà che rimangono fuori dal suo controllo, il grande gruppo polisettoriale rappresentato dalla "Terni" polisettoriale di Bocciardo e la Chiesa locale, il tutto al fine di conseguire i propri obiettivi totalitari. Infine, si è affrontata la questione del consenso. In questo senso, è stato preso in considerazione non soltanto il ruolo della violenza attuata dal fascismo per conquistare il potere e la stessa azione repressiva dispiegatasi negli anni del regime, che si dimostra concreta e reale come è normale in una situazione di dittatura, ma si è provato a fare luce sul dissenso e sulle aree di rassegnazione o di consenso tiepido che sembrano persistere nella società locale. Nel procedere si è poi cercato di coniugare la storia politicoistituzionale con quella sociale e in parte economica, attraverso un costante lavoro di analisi e incrocio delle fonti studiate, scelta ritenuta utile per conseguire gli obiettivi prefissati. Certamente, la riflessione sulle origini, l'affermazione, il consolidamento del fascismo in provincia di Terni, offre sostanziali conferme a quanto una parte della storiografia aveva proposto. Nell'Umbria meridionale il fascismo, nei suoi vertici, sorge e si afferma come punto d'incontro dei ceti dominanti tradizionali. Esso si afferma in quanto strumento della reazione agraria e dei gruppi industriali monopolistici di 2 fronte alla conflittualità contadina e operaia e al dilagare del socialismo. La sconfitta delle élites politiche tradizionali alle elezioni politiche del 1919 e a quelle amministrative del 1920, che seguiva l'effervescenza sociale del biennio rosso; la stipula del patto colonico del 1920 sfavorevole per gli agrari; la stessa esperienza, sebbene breve e contraddittoria, dell'occupazione delle fabbriche, sullo sfondo di una situazione economica difficile, ne determina la reazione, che si concretizza per l'appunto nell'adesione al fascismo. Dapprima nella versione squadrista, capace di sconfiggere sul piano militare gli oppositori, anche grazie al diffuso sostegno degli apparati di sicurezza dello Stato, quindi come blocco elettorale e nuova struttura politica in grado di conquistare il potere, il fascismo si configura come una sorta di union sacrée contro il "bolscevismo", in cui confluiscono conservatorismo agrario ma anche impulsi industrialisti e modernizzatori. Più concretamente, esso viene accorpando tutte quelle correnti politiche, contrapposte tra loro nel primo quindicennio del secolo, che avevano costituito il frastagliato universo giolittiano. In questo senso, come l'analisi dei vertici del Pnf provinciale e degli amministratori locali ha permesso di verificare, sino al 1927 a essere protagonisti sulla scena politica locale sono le forze che tradizionalmente facevano parte del blocco agrario. In primo luogo i proprietari terrieri, molti dei quali appartenenti alla nobiltà, a cui si affiancano esponenti della borghesia delle professioni, le cui proprietà erano cresciute a cavallo tra Ottocento e Novecento, nonché alcuni settori espressione diretta del mondo rurale, come gli agenti di campagna, i fattori, ma anche quei contadini che nei primi anni venti erano riusciti ad accedere alla proprietà della terra. In provincia di Terni quindi, dalla conquista fascista sino all'introduzione della riforma podestarile ma, in gran parte, anche dopo, la presenza ai vertici delle amministrazioni municipali e di quella provinciale di esponenti del notabilato locale, essenzialmente aristocratici, proprietari terrieri, professionisti, si rivela dato costante che permette di accomunare la provincia di Terni a realtà come la Toscana, l'Emilia-Romagna e, anche, a parte dell'Italia meridionale. L'attuazione della riforma podestarile, con le prerogative concesse al prefetto nella nomina dei vertici delle amministrazioni comunali, non sembra variare di molto la situazione, almeno nella prima fase di attuazione della riforma. Come è emerso nei comuni della provincia di Terni, il criterio seguito dai prefetti per l'individuazione dei podestà era connesso con la rilevanza sociale ed economica riconosciuta in una comunità ai candidati alla carica che, senza dubbio, un titolo nobiliare e una professione adeguata erano in grado di assicurare, anche magari a scapito della mancanza di qualche requisito previsto dalla legge istitutiva della riforma podestarile. In questo senso, sembra dunque perpetuarsi un modello burocratico e ottimatizio insieme, grazie al quale il fascismo intendeva presentarsi alle comunità locali con un volto rassicurante, al fine di accattivarsi il favore della popolazione. L'analisi prosopografica dei profili relativi a presidi, consultori provinciali, podestà, membri delle consulte municipali, per il periodo 1926-1943, ha reso possibile definire un quadro che vede sostanzialmente confermata l'analisi fatta in una prospettiva nazionale da Luca Baldissara ormai più di una decina di anni 3 fa1. E' cosi emerso il carattere di classe della rappresentanza politico-amministrativa fascista in questi anni, sebbene con alcune differenze effetto delle specificità socioeconomiche caratterizzanti l'area esaminata. Nello specifico, l'esame condotto sul corpus di 147 amministratori (78 podestà e 69 commissari prefettizi) che si succedono nei Comuni della provincia nell'arco di tempo considerato, ha permesso di tracciare l'identikit di un funzionario con un'età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni; in possesso di un titolo di studio elevato (laurea o diploma di scuola superiore); in cui la proprietà della terra riveste un ruolo essenziale, coerentemente al tessuto socio-economico prevalente in provincia, e in cui dal punto di vista della professione esercitata appare predominante la figura del libero professionista (in genere avvocato e notaio). Forte è poi il legame dei podestà con il Pnf, più della metà del campione individuato risulta nel partito dal biennio 1920-1922; al tempo stesso, la maggioranza delle designazioni effettuate dai prefetti avviene in accordo con la federazione provinciale fascista. Sembra quindi delinearsi un quadro d'assieme che nel corso degli anni trenta, in gran parte della provincia, vede la predominanza delle gerarchie notabilari nella gestione del potere locale. Da tale situazione si discosta in parte l'area industriale compresa tra Terni e Narni, in cui come avviene in altri contesti urbani o regionali, attraverso il Pnf si assiste all'ascesa di personalità espressione della media e piccola borghesia urbana, per i quali l'istituto podestarile diventa uno strumento di promozione sociale e di affermazione nella gerarchia del potere locale. L'immagine del governo locale che si profila non è però statica, appare invece dinamica e contrassegnata da una forte conflittualità che, a vari livelli, si dimostra uno dei tratti comuni percepibili sotto l'apparente pacificazione realizzata dal fascismo. La forte instabilità presente nelle amministrazioni comunali della provincia di Terni, attestata dall'elevato numero di commissari prefettizi e di podestà retribuiti che si succedono, è testimonianza non solo delle difficoltà incontrate dai prefetti nella selezione di un ceto dirigente adeguato ma, soprattutto, del tentativo delle élites tradizionali, attraversate da interessi diversi e relazioni clientelari e familiari molteplici, di resistere all'azione omologatrice del regime. Indubbiamente, lo Stato fascista, attraverso la promozione di un modello di podestà fondato su competenza, capacità di agire, allineamento alle direttive dei vertici, in nome della proclamata modernizzazione puntava a ricondurre le periferie sotto il controllo del centro. Ecco allora che la ricerca di una concreta azione di governo delle amministrazioni locali, frequentemente sollecitata dal prefetto, da perseguire, ad esempio, attraverso la realizzazione di opere pubbliche funzionali alla mobilitazione di settori diversi della società, diventava il riferimento attraverso cui misurare l'efficienza e, soprattutto, "l'operosità" degli amministratori locali. L'elevato turnover dei podestà rappresenta pertanto una spia che si presta a misurare significativamente le difficoltà incontrate dal regime nell'affermare la propria azione in periferia. Non di rado tuttavia l'intervento del prefetto sui podestà si rendeva necessario per stroncare le lotte intestine e di fazione che si scatenavano all'interno delle élites locali per la gestione del potere. Le modalità attraverso cui tali scontri si manifestano sembrano esprimere dinamiche del conflitto omogenee a quanto accertato da altri studi 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 riguardanti realtà comunali, provinciali e regionali diverse. Esse assumono la forma di lettere, esposti, denunzie anonime, che divengono lo strumento di lotta principale tra le fazioni in una dimensione comunale ma, come è stato accertato in chiave provinciale, anche tra i rappresentanti dei diversi poteri locali, oltre che all'interno degli stessi vertici della federazione fascista ternana. A partire dal 1927, con la nascita della Provincia e l'insediamento di istituzioni politiche e amministrative nella città capoluogo, anche per il fascismo locale inizia una fase nuova, l'esame della quale ha permesso di meglio comprendere come in questa realtà si viene definendo il rapporto con il centro. La genesi della nuova entità territoriale è frutto di una serie di variabili legate, da un lato, alle esigenze politiche amministrative dello Stato fascista divenuto regime; a cui si sovrappongono le dinamiche conflittuali interne al fascismo regionale, che portano alla pacificazione dello stesso e alla nascita della federazione provinciale del Pnf. Infine, un ruolo determinante lo ha l'affermazione della "Terni" polisettoriale, vero e proprio potere forte nella nuova provincia, in grado di dare vita a un originale sistema di fabbrica a metà strada tra paternalismo assistenziale e truck-system. Con essa il regime dialoga direttamente, baypassando la neonata federazione provinciale del Pnf e, se necessario, intervenendo per normalizzarla, come dimostra esemplarmente la vicenda politica e personale di Elia Rossi Passavanti, primo federale e podestà di Terni. In questo senso, la ricostruzione dei percorsi personali e professionali dei vertici dell'amministrazione statale (prefetti e questori), degli organi politici (federali, vicefederali, segretari amministrativi, componenti del Direttorio della federazione fascista) ed economici (membri del consiglio provinciale dell'economia, di quello delle corporazioni e del principale istituto bancario del capoluogo), è stata preziosa per le riflessioni che permette di realizzare rispetto al ruolo avuto dal Pnf in provincia e, specialmente, alle dinamiche politiche che si innescano nei rapporti che il partito instaura con le altre autorità, a cominciare da quella prefettizia. Proprio con riferimento ai prefetti, si è potuto osservare che sui nove che si succedono in provincia di Terni nel periodo considerato, ben sei provengono dal Pnf. Tale fatto non sottende necessariamente un'automatica collaborazione con la federazione fascista, quanto piuttosto sembra rispondere all'esigenza del centro di superare i contrasti esistenti tra la federazione fascista e la prefettura che, invece, è situazione ricorrente in provincia. Nel contempo, il succedersi di dodici federali alla guida del partito è prova di una significativa instabilità, dato peraltro ulteriormente confermato dalla netta prevalenza di personalità estranee all'ambiente locale, ben nove. Questo fatto non esprime solo una certa debolezza del fascismo locale, incapace di fornire un ceto dirigente adeguato, ma dimostra la stessa evoluzione che subisce la figura del segretario federale, nei termini di una spiccata professionalizzazione inquadrabile nel più generale contesto di crescente burocratizzazione del Pnf funzionale a consolidarne il ruolo di mediazione e di intervento nell'amministrazione dello Stato, che si rivela uno dei tratti tipici del Pnf staraciano. In questo senso, le guerre che si scatenano tra prefetto e federale nel corso degli anni trenta, ad esempio per la questione delle nomine dei podestà, in cui ruolo determinante lo acquista ancora una volta l'arma dell'esposto e della lettera anonima, attestano il tentativo portato avanti dal partito di far sentire il proprio peso al fine se non di sovrapporsi, quanto meno di affiancare lo Stato in periferia. Affiora così quella di5 mensione policratica che si configura come uno degli elementi caratterizzanti la politica in periferia negli anni del regime. Nonostante i contrasti che si scatenano tra i poteri, le lotte intestine all'interno del Pnf, la cronica debolezza dimostrata dai ceti dirigenti, la federazione provinciale fascista nel corso degli anni trenta riesce comunque a essere vitale e in grado di esercitare il proprio ruolo ai fini della fascistizzazione della società locale. D'altra parte, ai vertici del partito se si escludono i federali e i loro più stretti collaboratori, le restanti cariche continuano a essere gestite in larga parte dal medesimo nucleo originario fascista, fatto di appartenenti al ceto agrario e alla borghesia delle professioni provenienti, per la maggior parte, dall'area ternana. Ciò attesta lo scarso ricambio generazionale esistente all'interno della federazione, ma anche il peso politico ed economico ricoperto dal capoluogo rispetto all'intera provincia. Questi dirigenti fanno parte dei diversi Direttori federali che si succedono e, talvolta, ricoprono contemporaneamente, laddove la legislazione lo consente, incarichi in organismi quali il Consiglio provinciale dell'economia o, anche, alla guida della principale banca locale. Ai vertici del partito il peso degli appartenenti a settori della piccola borghesia e del ceto operaio è invece minore. Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, si fanno strada figure espressione del ceto impiegatizio, ma anche tecnici e qualche sindacalista con alle spalle una carriera nell'apparato burocratico della federazione provinciale, i quali assumono incarichi di un certo peso, come quello di segretario amministrativo o di componente del Direttorio. In questo modo sembra prefigurarsi, sebbene in maniera timida e non paragonabile a quanto accade in altre province, l'affermazione «dal basso e dalle periferie [di] una nuova classe dirigente del regime totalitario»2. Nel corso degli anni trenta dunque, sebbene tra molteplici difficoltà di natura anche economica, il Pnf riesce a dare vita in provincia a una struttura organizzativa in grado di penetrare e inquadrare la società locale. Peraltro, l'afflusso costante di contributi concessi da enti pubblici diversi (amministrazioni provinciali, comunali, Consiglio provinciale dell'economia) e soggetti privati (la Società "Terni" in primo luogo, ma anche altre aziende) a un partito alla continua ricerca di risorse, che la documentazione amministrativa della federazione ternana ha permesso di verificare, rappresenta testimonianza esemplare degli sforzi profusi dal regime per rendere il Pnf un volano di sviluppo del peculiare welfare funzionale alla fascistizzazione della società locale. In questa prospettiva, il rapporto con la Società "Terni" si è rivelato una chiave di lettura che non è possibile trascurare se si vuole comprendere la natura dell'esperienza fascista in provincia di Terni. Si è visto che la stessa nascita della nuova Provincia è connessa alla questione del controllo delle acque del sistema Nera-Velino, presupposto essenziale per la creazione dell'impresa polisettoriale; così come la stipula della convenzione tra il Comune di Terni e la società guidata da Bocciardo, sanziona di fatto in maniera prepotente la forza non solo della grande azienda, ma l'affermazione dello stesso "centro" sulla "periferia". Da quel momento e anche dopo l'inserimento della "Terni" nel sistema delle partecipazioni statali attra- 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 6 verso l'Iri, operazione che garantì allo Stato il controllo pubblico sull'azienda e sul suo assetto produttivo, la grande impresa per il fascismo ma, più in generale, per la stessa società locale diventa emblematicamente una madre-matrigna. Essa viene percepita come un complesso capitalistico che invade la città e, con i suoi vertici, in grado di dialogare con il centro e, anche, direttamente con il duce, si pone rispetto al Pnf locale in una situazione super partes. Non è così casuale che i federali presentino come risultato della loro azione politica i buoni rapporti che riescono a intrattenere con i vertici aziendali, i quali peraltro si dimostrano costantemente impermeabili all'influenza della federazione fascista. D'altra parte, a partire dalla stipula della convenzione del 1927 e per tutto il decennio successivo la "Terni", insieme al partito, appare senza alcun dubbio uno dei pilastri del regime in provincia. Non soltanto sostiene la federazione provinciale con contributi costanti, essenziali per assicurargli la possibilità di svolgere la propria azione sul territorio; ma, più in generale, con tutto il suo peso di grande gruppo polisettoriale sposa in pieno le politiche economiche, sindacali, sociali del regime, garantendo allo stesso le condizioni per affermare «un sistema di aggregazione/costruzione del consenso/controllo sociale e politico che si adegua al modello del regime reazionario di massa»3. In queste dinamiche si inserisce anche, per quanto è stato possibile accertare in relazione alle fonti disponibili, l'atteggiamento tenuto dalla Chiesa cattolica locale nei riguardi del fascismo. L'analisi condotta con riferimento specifico alla diocesi di Terni-Narni e al vescovo Cesare Boccoleri che la guida nel Ventennio fascista, ha permesso di accertare che, come succede in altre diocesi italiane e coerentemente con le scelte fatte dai vertici vaticani, la Chiesa ternana sembra tenere una posizione di sostanziale appoggio al fascismo e di collaborazione con il Pnf. Ciò emerge in maniera evidente in alcuni momenti: ad esempio, in occasione delle campagne promosse dal regime sul terreno economico e sociale, come per la Battaglia del grano e, soprattutto, dopo la stipula del Concordato, o nel corso della guerra d'Etiopia e di Spagna. Al tempo stesso, anche quando si hanno tensioni nei rapporti tra Stato e Chiesa (per effetto della crisi del 1931 sulle prerogative dell'Azione cattolica o in occasione dell'introduzione delle leggi razziali), le conseguenze concrete per la Chiesa locale sono di scarso rilievo e, comunque, tali da non incidere sostanzialmente sulla natura dei rapporti esistenti con la federazione fascista. Anche la Chiesa locale quindi, sebbene con l'obiettivo di preservare e, per quanto possibile, incrementare la presenza cattolica nella società locale, contribuisce nella sostanza a consolidare e, anche, ampliare il consenso al regime. In particolare, essa si dimostra attiva nel favorire, specialmente nelle aree rurali, quell'azione di «modernizzazione politica» di natura reazionaria, conseguenza del tentativo di organizzazione della società italiana secondo criteri gerarchici e accentratori, che il fascismo è impegnato a portare avanti in periferia. Certamente, un ruolo essenziale ai fini della creazione e, soprattutto, del mantenimento del consenso lo esercita anche la costante opera di vigilanza e repressione di ogni forma di dissenso organizzato e di attività politica di opposizione, che si attua in provincia per opera degli apparati di sicurezza dello Stato fascista. Tale azione si rivela particolarmente efficace se negli anni del regime solo i comunisti, essenzial- 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 7 mente nell'area industriale ternana, riescono a mantenere in vita, per quanto a fatica e in misura ridotta, una forma di opposizione organizzata. E tuttavia, il fatto che continuamente le autorità, sebbene nell'ambito del riconoscimento di quanto fatto dalle diverse organizzazioni del partito a favore del ceto operaio, lamentassero l'inadeguato grado di "comprensione fascista", quando non la scarsa fascistizzazione dei lavoratori delle industrie ternane e la loro "pericolosità" politica, sembra essere la conferma implicita di come in provincia, non solo non scompare l'insofferenza e il dissenso, anche politicamente organizzato, ma, più in generale, sotto la camicia nera, a prescindere dalla propaganda e dall'attività delle differenti istituzioni del regime, non vengono meno nemmeno gli interessi molteplici che contrassegnano la società locale e le diverse realtà presenti sul territorio. In ultima analisi, il fascismo locale appare in grado di esercitare un ruolo attivo nel disegno di fascistizzazione della società, coerentemente con l'accelerazione nel processo di creazione dello Stato totalitario di cui è strumento il Pnf staraciano. Il partito si rivela dunque un vero e proprio centro di potere, espressione di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario, con cui, inevitabilmente, tutti i cittadini si trovano a confrontarsi per le necessità della vita quotidiana: in altre parole, a dover essere, almeno una volta nella vita, fascisti. ; This research project is an in-depth study, in a comprehensive and long-term perspective, of what Fascism represented at a local level in a peripheral and non-homogeneous context, as in the case of the Southern Umbria areas, established as an administrative province in 1927. This specific geographical district flagged-up all the prerequisites for an exemplary case study, featuring several significant explanatory points. To this unique large provincial administrative industrial hub located within the Terni basin, other districts, part of the same province, remained juxtaposed. Within their respective areas, these districts included towns such as Orvieto and Amelia, which had strong links with the neighbouring communities, representing the rural, agricultural and mezzadrile aspects of Umbria, land of Saint Francis of Assisi, rich in art and religious meanings, which the Fascist Regime came to proclaim officially as the "heart" of Fascist Italy. On the basis of these introductory remarks, the study focuses its scope of research on three main points, all but essential to understand fully the aspects and dynamics of the local society during the Fascist period, also referred to as the ventennio mussoliniano. An interpretative functional grid has been designed with a view to describe the role of the National Fascist Party (Nfp) within the centre-periphery and continuity-innovation relationships with the previous regime. The study seeks to investigate how Fascism exerted its influence on the establishment and process of strengthening of the local ruling ranks, attesting its ability to relate with the old dominant élites, or promote the emerging of new ones or, in addition, facilitate and support the coexistence of both. Furthermore, the research focuses on the role exerted by the Nfp at a local level, its capability to affect the various localised dynamics of power, to create and control networks of affiliates and, above all, to relate with the two main subjects which remained independent from its control, the important industrial group represented by "Terni" of Bocciardo and the local Catholic Church, with an overarching aim to achieve its totalitarian objectives. Finally, the question of popular consent has also been scrutinised. At one level, the study analyses the 2 role of fascist violence deployed to obtain power and the repressive actions carried out under the Regime, which were highly effective, as one might expect under a dictatorship. At another level, it investigates the popular dissent and the grey areas of passive acceptance and weak consent which were common among strata of the local population. Additionally, in a broader perspective, political and institutional historical analysis has been coupled with social and economic investigation, through a systematic scrutiny and cross-examination of the main sources, as a methodological approach needful to the achievement of the final outcomes of the research. Findings on the origins, development, and strengthening of Fascism within the Terni province appear to concur with the conclusions reached by previous historical research. In the Southern areas of Umbria, Fascism, at its highest level, was brought into power and successfully established by the traditional ruling classes. The establishment of Fascism was supported and facilitated by the agrarian reaction and the monopolistic industrial groups threatened by the discontent of the rural and working classes and the rapid advancement of Socialism. The political defeat of the traditional ruling élites at the 1919 general election and the 1920 local elections, which followed the social turmoil of the so-called red biennium; the agreement of the 1920 patto colonico, disadvantageous to landowners; the occupation of factories, though a brief and contradictory experience, against a background of economic difficulty, caused their reaction and prompted their acceptance and support for Fascism. Firstly, Fascism, in the form of Fascist action squads and their capability of defeating its opponents militarily, with the extensive assistance of the State security services, then as an electoral block and political force capable to achieve power, presented itself as a sort of union sacrée against the threat of Bolshevism into which various groups appear to converge: the agrarian conservatism but also industrial and more modern forces. Undoubtedly, Fascism drew together different political forces, which during the first decade of the twentieth-century had been mutually antagonistic, and segments of the complex and divided political establishment of the Giolitti era. The scrutiny of the highest levels of the local Nfp and civil servants has revealed that, at least till 1927, the main political figures belonged to those forces already part of the agrarian block. Firstly, the landowners, many of whom belonged to the local nobility, supported by members of the professional bourgeoisie, whose estates and wealth had augmented during the nineteenth- and twentieth-century, and other sectors which were the direct expression of the rural milieus, such as the rural agents, farmers, but also those peasants whom, during the first two decades of the twentieth-century, had succeeded in becoming landowners themselves. Therefore in the Terni province, from the establishment of the Fascist regime to the introduction of the office of podestà and, for some time even after, 3 the highest offices of the municipal and provincial administration were held by members of the local nobility, primarily aristocrats, landowners and professionals. This is an invariable characteristic which put the Terni province in alignment with similar situations in Tuscany, Emilia Romagna and other areas of Southern Italy. The administrative reform and the establishment of the podestà authority, together with the prerogatives of the prefectures in appointing members of the highest offices within the municipal administrations, did not radically change, at least during the early phases of the reform, established practice. A survey of the municipalities located within the Terni province, shows that the prefects in the selection process to appoint the podestà took greatly into account the candidates' social and economic status of and, without doubt, a honorific title and tenure of highly considered profession were often sufficient criteria for a candidate to be nominated even when lacking some of the prescribed requisites as outlined by the administrative reform. The Fascist regime therefore, in perpetuating a bureaucratic and grandees system, showed an intention to reassure the existing ruling élites and obtain the support of the local population. A prosopographical analysis of the biographical profiles of headmasters, members of the provincial advice bureaus, podestà, members of the municipal advisory councils, during the 1926-1943 period, has made it possible to outline a summary framework which strongly corroborates the analysis carried out at a national level by Luca Baldissarra over a decade ago.1 What has emerged from this analysis is the class-based character of the Fascist political and administrative representation during those years, though presenting various differences linked to the social and economic specificity of the area scrutinised. In more depth, the study carried out on a corpus of 147 civil servants (78 podestà and 69 prefectural officers) employed by the municipalities of the province during the examined period, made it possible to draw up a profile of the typical officer: between forty and fifty years of age; highly educated (having achieved a high-school or university degree); often a landowner, a characteristic consistent with the social and economic structure prevailing throughout the province, and among whom the status of self-employed (generally lawyer or public notary) represented the most frequent professional position held. Relations between the podestà and the Nfp appear to have been particularly close, over half of the sample identified is composed by individuals who had joined the Fascist Party at an early stage, during 1920-1922; additionally, the majority of the appointments made by the prefects were agreed in advance with the Provincial Fascist Federation. It would therefore appear that during the 1930s, in 1 Luca Baldissara, Tecnica e politica nell'amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra anni Trenta e Cinquanta, Il Mulino, Bologna 1998. 4 large areas of the province, the highest hierarchies of grandees were the prominent figures holding local high office. The industrial area comprised within the administrative territories of the two municipalities of Terni and Narni, however, appears to contrast with other districts of the province. In this area, as for similar cases in other municipalities or other regional administrations, the Nfp supported the emergence of members of the small and medium local urban bourgeoisie, as the office of podestà became a vehicle of social advancement and an opportunity to climb up the local hierarchy of power. Despite the apparent pacification established forcibly by the Fascist regime, the dynamics of power within the local government remained characterised by extreme unrest and strong conflict at various levels. The sizeable number of prefectural commissioners and remunerated podestà who succeeded in office, often in rapid succession, bears witness to the instability which marred almost all the municipal administrations of Terni province. This is evidence of the obstacles encountered by the prefects during the selection process of a qualified managerial class but, above all, of the resistance put up by the traditional élites of power, motivated by divergent interests and loyalty to various networks of familial and personal relations, to the process of homologation pursued by the Fascist regime. Undoubtedly, the Fascist regime, in implementing a model of podestà based on competence, on the energetic ability to act, on its alignment to official directives, and in order to achieve a modernisation of the administrative system, aimed at placing the local authorities under the prescriptive control of a centralised State. The actual administrative actions implemented by the local administrative offices, frequently under the guidance and pressure of the Prefects, as for example in the case of the accomplishment of public works functional to the civil mobilisation of various segments of the local community, became a measure of their efficiency and, above all, a measurement of how industrious the local administrators should be. The high turn-over of podestà is a clear indication of how difficult it was for the Fascist regime to implement its plans of action in peripheral areas. Additionally, direct intervention by the Prefects was often necessary to put an end to rivalries and internal power struggles which frequently broke out among local élites. These clashes and their manifestations appear to be similar in their dynamics, as pointed out by previous studies, to other cases occurred in different municipalities, provinces and regions. Resorting to anonymous letters, official complaints, accusations, came to represent the instrument to attack and weaken the opposite factions at a local level, within the municipalities, but also within the provincial administration, among the various representatives of the local administration and even the highest offices of the Terni Fascist Federation. From 1927, following the establishment of the 5 Province and the set up of political and administrative authorities in Terni, now seat of local government, a new phase emerged for the local Fascist Party too. The study of this new province has facilitated the understanding of its relations with central authorities. The establishment of this new local administration was the result of various circumstances linked to the political requirements of the Fascist State following the transition to a totalitarian regime. Additionally, the internal conflict dynamics of the regional Fascist Party played an important role. These led to the inner pacification of the Party and the set up of a Nfp Provincial Federation. Finally, the establishment of "Terni" had a pivotal role too. "Società Terni" (also referred to as "La Terni") came to represent the real "strong power" of the province, capable of imposing a factory regimen based partially on paternalistic assistance and partially on a truck-system model. The Fascist regime dealt directly with "Terni", bypassing the newly-established Nfp Provincial Federation and, where necessary, intervened to impose its authority, as the political and personal vicissitudes of Elia Rossi Passavanti, the first Federal secretary and podestà of Terni, exemplified. In this perspective, drawing together personal and professional career paths of the highest officers (prefects and police commissioners), of both political (federals, deputy federals, administrative secretaries, members of the Fascist Federation Federal Bureau) and economic authorities (members of the Provincial Economic Council, members of the Provincial Corporations Council and of the main bank) has represented an invaluable study, conducive to the understanding of the Nfp's role within the province and, in addition, of the political dynamics at play among the Fascist Party and other authorities, such as the prefectures. With specific reference to the prefects, it is worth noticing that of the nine prefects in office in the Terni province during the period under scrutiny, as many as six were Nfp members. This situation, however, did not necessarily imply a spontaneous collaboration between the prefectures and the Fascist Federation, but it would appear to have been a response to the need of overcoming the conflictual antinomy between the two authorities, which was a recurrent event throughout the Terni province. In addition, the succession of twelve Federals as leaders of the Fascist Party bears witness to a pervasive instability, a fact which is also confirmed by the noticeable preference given to individuals, as many as nine, unconnected with the local milieu. This is certainly a clear manifestation of the local Fascist Party's weakness - which appeared unable to express and produce capable managerial ranks - and of the evolution of the Federal Secretary's role, becoming more and more a professional one, in the context of the remarkable bureaucratisation of the Nfp, aimed at strengthening its mediatory and interventional role on the local administration, one of the main characteristics of the Nfp 6 under the leadership of Starace. Within this framework, the contrast between the prefects and the Fascist Federal secretaries during the 1930s, with regard, as a case in point, to the appointments of the podestà, and the crucial utilisation of official complaints and anonymous letters, bears witness to the Party's attempt to impose its decisions or, at least, to influence the administration at a local level. This, in turn, resulted in a situation of polycracy, which was one of the factors denoting local politics during the Fascist regime. During the 1930s, despite deep rooted conflict among the authorities, the internal power struggles within the Nfp and the endemic ineptitudes of the ruling class, the Fascist Provincial Federation was successful in exerting and promoting the fascistisation of the local community. It is manifest that the highest authorities within the National Fascist Party, with the exception of the Federals and their closest advisors, remained the domain of the original Fascist core, composed by members of the rural class and the bourgeoisie originating primarily from the Terni area. This explains the inadequate generational change within the Fascist Federation and, in addition, the political and economic importance of the Terni area in comparison to the entire province. These political figures were part of the various Federal Bureau and, in some cases at the same time, if the law permitted, held additional offices in different institutional bodies, such as the Economic Provincial Council or were in charge of the main local bank. On the contrary, the influence exerted on the high levels of the National Fascist Party by the small bourgeoisie or by members of the working class remained negligible. It was only with the approach of the Second World War that members of the clerical class, but also technicians and a few tradeunionists already employed within the bureaucratic structure of the Provincial Federation, acquired an enhanced importance and gained access to higher office, such as administrative secretaries or members of the Federal Bureau. The Terni area too, though in a more limited way, which bears not comparison with other provinces, saw the rising «from the bottom and the periphery of a new ruling class within the totalitarian regime»2. During the 1930s therefore, despite various difficulties, including economic issues, the Nfp was successful in creating at a provincial level an organisational structure capable of influencing and organising the local community. Additionally, the regular flow of financial contributions bestowed by various public authorities (provincial administrations, municipalities, Provincial Economic Council) and private companies ("La Terni", first of all, but other businesses too) to a political party constantly seeking financial backing, as thoroughly documented by records of the Terni Fascist Federation, bears witness to the outstanding efforts the Regime made to 2 Marco Palla, Il partito e le classi dirigenti, in Renato Camurri, Stefano Cavazza, Id. (a cura di), Fascismi locali, "Ricerche di Storia politica", a. X, nuova serie, dicembre 2010, 3/10, p. 296. 7 successfully present the Nfp as a conducive mean to the development of this specific welfare model, with a view to promote the fascistisation of the local community. In this perspective, the Nfp's relation with the "Società Terni" is key to understanding the nature of the Fascist Regime and its role within the Terni province. The establishment of a Province was connected to the control of the water-system of the two rivers Nera-Velino, essential to create an industrial hub; similar reasons were behind the agreement stipulated between the Terni municipality and the Bocciardo Company, which came to sanction resolutely the importance of the Company and, additionally, the supremacy of the "centre" over the "periphery". It was from this period and following the inclusion of "Società Terni" within the system of state-controlled industries through the Institute for Industrial Reconstruction, a transaction which secured State control over the Company and its productive branches, that "La Terni" became firmly linked to Fascism and, more in general, to the local community, though in a controversial and ambivalent mutual relation. The Company was perceived as a capitalistic enterprise which took over the city, its directors being able to negotiate with the central Government directly and with the Duce himself, taking a super partes position in relation to the local Nfp. It was not a fortuitous occurrence that the Federal secretaries gauged their political influence against the effectiveness and strength of the relations they were able to maintain with the executive directors of "Società Terni", whom, on their part, appeared to be impenetrable to any influence exerted by the local Fascist Federation. Additionally, following the 1927 agreement and during the ensuing decade, "La Terni", in conjunction with the Fascist Party, appeared to become, without doubt, one of the main pillars of the province. At one level, it supported the Fascist Provincial Federation through a constant flow of financial contributions, vital to bankroll the Federation's activities within the province; but, at a more general level, asserting its influence as a large industrial group, it was capable of shaping the economic, trade-union and social policies of the Fascist regime, creating those conditions to establish «a system of aggregation/disaggregation of the social and political consensus/control conforming to the mass reactionary regime model»3. Within this dynamic interactions, and on the basis of documents available, the local Catholic Church played a significant role in relation to the Fascist Party. With reference to the specific case of the Terni-Narni dioceses and bishop Cesare Boccoleri, the Church's main leader during the Fascist ventennio, this research has showed that, as in the case of other Italian 3 Renato Covino, L'invenzione di una regione, Quattroemme, Perugia 1995, p. 58. 8 dioceses and in alignment with the decisions taken by the Vatican, the Church authorities in Terni supported the Fascist apparatus and adhered to a policy of collaboration with the Nfp. This was particularly manifest on specific occasions: for example during the economic and social campaigns promoted by the Regime, as a case in point the so-called "Battle of the wheat" and, above all, following the 1929 Concordat with the Catholic Church, or during the Ethiopian and Spanish conflicts. At the same time, even when tensions arose and marred the relations between the Fascist regime and the Catholic Church (following the 1931 crisis caused by the limitations imposed on the prerogatives of Azione Cattolica or the adoption of the 1938 racial laws), the consequences for the local Church were negligible and did not appear to affect the on-going relations with the local Fascist Federation. The local Church therefore in pursuing the aim of preserving and, wherever possible, augmenting the Church's influence on the local community, contributed to reinforce and widen consensus for the Fascist regime. More specifically, the Church's actions were particularly effective in encouraging, especially in rural areas, that precise process of "political modernisation", though reactionary at its core, based on organising the entire Italian society on hierarchical and centralising criteria, which Fascism was promoting particularly at a local level. Additionally, and without doubt, the important function to create and, above all, to maintain a high level of consensus was exerted by the pervasive surveillance and repression of any form of dissent and political opposition, enforced within the province by the Fascist security services. A repressive action which was extremely effective and, during the dictatorship, only the Communist Party, despite being hemmed in to the Terni industrial area, was able to maintain, albeit with great difficulty and in a limited way, a form of organised resistance. The fact that the Fascist authorities continuously, though recognising what had been achieved by the Party's multifarious organisations to favour and support the working classes, lamented the feeble "fascistisation" of the Terni industrial workforce and their being "politically dangerous", would appear to confirm implicitly that throughout the province the opposition and political dissent had not completely ceased. More in general, under the "black shirts", despite the propaganda and the activities of various Fascist authorities and institutions, it remained evident that the diversified interests which characterised the local society and the different realities rooted at local level persisted. Ultimately, the local Fascist Party appeared capable of exerting an active role in the "fascistisation" process of society, in alignment with the creation and implementation of a totalitarian state, being the main objective of the National Fascist Party under the leadership of Starace. The Nfp was therefore a real centre of power, expression of an authoritarian 9 regime leaning toward totalitarianism. A regime against which all citizens had to relate for their everyday life needs: that is to say, all citizens had to act, at least outwardly, as fascists.