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Fara dall'età romana all'alto Medioevo: una strada, l'insediamento, le necropoli
In: ArcheologiaPiemonte 7
Un'iscrizione romana rinvenuta a S. Lorenzo in Val Pusteria
Since the first half of the 19th century, interesting archaeological remains have been almost continually found in the area of S. Lorenzo di Sebato (Sebatum) in South Tyrol (Italy). The objects belong to a wide temporal range, from the Mesolithic to the late Roman age. The time of the greatest prosperity of the Roman Sebatum should be dated to the time of Emperor Claudius (41-54 AD), when the Roman province of Noricum was founded and the city of Aguntum (near to modem-day Lienz) was raised to the rank of municipium. In autumn 2008, at the feet of Mount Amtmannbichl, an extraordinary archaeological rest was found, a funerary stele. Unfortunately it was decontextualised, it was probably reused and moved in order to built the embankment of the nearby Roman street. Built along this road, Sebatum was an important roads-joint like a village (vicus) or even a town (civitas). The stele was broken on the upper and lower right-side. On the basis of a preliminary reading it can be dated to around 100 AD. The inscription is engraved on nine lines, though it is eroded and washed away by the weather. It refers to a man of high rank, whose name is probably Tiberius Crispus, who possessed the Roman citizenship and was a duovir. That is to say he was one of the two magistrates at the top of the city's senate, most likely the municipium of Aguntum. In addition the dedication mentions other people belonging to his family, including Volusia, the daughter of Caius. We know her name from three other inscriptions from southern Noricum, which were compared with the new inscription. Tiberius Crispus was perhaps a romanized native, born in Sebatum, he moved to Aguntum to do his cursus honorum where he gained fame and achieved politica! success. At the end of his life he returned to his native village, where he died and was buried. The new inscription stimulates interest in studies about the roman Sebato/Sebatum, as well as adding a fundamental piece to South-Tyrolean epigraphic heritage. ; Dalla prima metà del XIX secolo ad oggi, nella località altoatesina di San Lorenzo di Sebato (Val Pusteria, Sudtirolo), si sono susseguiti quasi ininterrottamente interessanti rinvenimenti archeologici. Il ventaglio temporale copre un periodo che va dalla preistoria alla tarda età romana, passando attraverso il Neolitico, l'età del bronzo e del ferro. Il momento di maggiore splendore di Sebatum va fatto risalire all'epoca claudia (41-54 d.C.), periodo in cui venne fondata la provincia del Noricum e la città di Aguntum (presso Lienz, in Austria) fu elevata al grado di municipium. Ai piedi dell'altura dell 'Amtmannbichl, nell'autunno del 2008, venne casualmente alla luce un eccezionale rinvenimento. Si tratta di una stele funeraria, priva di contesto ed in giacitura secondaria, reimpiegata forse in un terrapieno realizzato in funzione della vicina strada romana, della quale Sebatum rappresentava un importante snodo e centro abitato, forse un vicus o una civitas. La stele, i cui lati superiore destro ed inferiore risultano spezzati, ad una lettura preliminare si può far risalire all'incirca al 100 d. C. Corrosa e dilavata dal tempo e dagli agenti atmosferici la scritta, incisa su nove righe, rimanda ad un personaggio di rango in possesso della cittadinanza romana, un duovir, cioè ad un magistrato che stava al vertice del senato cittadino di un municipium -come sarebbe stato per l'appunto quello di Aguntum-, nonché ad altri membri della sua famiglia. Tra costoro spicca Volusia, figlia di Caius, nota da altre tre epigrafi provenienti dal Noricum meridionale e messe in evidenza tramite appropriati confronti dal prof. Ubl nel presente articolo . La nuova iscrizione rappresenta dunque significativo arricchimento dello stato delle scoperte e delle interpretazioni relative alla Sebatum di epoca romana, nonché un prezioso incremento dell'intera eredità epigrafica altoatesina.
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Chiusi Romana. Ricerche di prosopografia e di storia socio-economica
Nel panorama dell'Etruria romana, il dossier epigrafico di Chiusi è senza dubbio tra i più significativi per ricchezza e continuità cronologica di attestazioni, che abbracciano un arco di tempo che va dall'epoca tardorepubblicana all'età paleocristiana. Queste si vanno ad aggiungere a un eccezionale repertorio di iscrizioni etrusche, il più ricco dell'intera regione, di cui si terrà conto per comprendere in che misura l'epigrafia latina di Clusium abbia risentito dell'influsso della tradizione precedente. Da queste premesse risulta evidente come l'approccio epigrafico rappresenti la via più immediata e forse l'unica strada percorribile per una ricerca storica di ampio respiro. Ancor di più, come vedremo, in considerazione dello scarso contributo fornito dalle altre fonti, in primis archeologiche, ma anche storiografiche. Ho ritenuto opportuno suddividere la trattazione in quattro sezioni principali, allo scopo di delineare un quadro che tenesse conto di diversi aspetti di carattere storico, socio-economico e prosopografico. Nella prima parte è stato fornito un quadro introduttivo sullo scenario politico-amministrativo all'indomani della definitiva conquista romana, cercando così di individuare alcuni punti di riferimento essenziali su cui poter basare la ricerca di carattere epografico e prosopografico. Naturalmente, si è tentato di mettere in particolare evidenza i rapporti tra Chiusi e Roma, a partire dall'epoca della civitas foederata, fino all'acquisizione del diritto romano (90-89 a.C.) successivo al bellum sociale, vero e proprio spartiacque nel processo di romanizzazione dell'Etruria e dell'intera penisola italica. Un approfondimento è stato dedicato al nuovo assetto giuridico e istituzionale della comunità chiusina, per cercare di fare chiarezza sull'avvicendamento tra quattuorviri e duoviri attribuito nella communis opinio a una presunta deduzione di veterani sillani. La seconda sezione, di impostazione prettamente epigrafica, è invece dedicata allo studio della società chiusina a partire dalla sua integrazione nella realtà socio-politica romana, cercando di cogliere eventuali peculiarità rispetto al "comportamento" delle altre città etrusche. Una chiave di lettura privilegiata in questa fase di transizione dalla cultura etrusca a quella romana è fornita dalle iscrizioni sepolcrali (bilingui, digrafe, latinografe e latine). Queste testimonianze si sono rivelate infatti essenziali per la ricostruzione delle genealogie di alcune famiglie del ristretto ed endogamico ceto dirigente locale, che proprio in concomitanza dell'acquisizione della civitas optimo iure sembra aver "accolto" nella sua rete di parentele diverse persone immigrate. Interessanti spunti di riflessione sono offerti anche dal formulario epigrafico di questi testi, che nella ripresa o meno di elementi etruschizzanti sembra strettamente connesso alla discendenza (indigena o straniera) dei rispettivi personaggi ricordati. Inoltre, sono state prese in esame le attestazioni relative ai diversi gruppi sociali individuati nella documentazione epigrafica, mentre in coda ho inserito un paragrafo che accoglie le testimonianze di Chiusi e dei suoi abitanti nel resto dell'Impero. Nell'ambito delle attestazioni del ceto dirigente non ho compreso i sacerdoti, poiché, in base alla peculiarità delle loro attestazioni, ho ritenuto opportuno inserirli in un capitolo a parte dedicato alla vita cultuale della città. Partendo dai tre ordines superiori, cui sono stati dedicati singoli paragrafi, si è tentato di risalire alle parentele tra gli esponenti dell'élite cittadina e di individuare il loro ruolo all'interno della società chiusina. Particolare interesse è stato rivolto ad alcuni casi di discendenti di antiche famiglie aristocratiche locali che riuscirono a inserirsi nei quadri dell'alta società romana. Si è poi cercato di individuare le motivazioni che potrebbero aver indotto la comunità locale a dedicare una serie di monumenti ad alcuni tra i maggiori protagonisti delle vicende politiche dell'ultimo scorcio di Repubblica (Silla, Pompeo Magno e Agrippa). Subito dopo è stato analizzato il corpus relativo ai militari, che sopratttutto nei primi due secoli dell'Impero da Chiusi andarono a cercare fortuna (e buoni guadagni) nelle milizie urbane, consapevoli del prestigio sociale di cui avrebbero potuto godere al loro ritorno in patria. Ho poi spostato l'attenzione verso gli strati inferiori della società, con particolare riguardo per donne (di nascita libera o di condizione subalterna), liberti e schiavi. Prima dell'analisi delle attestazioni attinenti alla sfera religiosa, con particolare interesse per i culti e i sacerdozi legati alla tradizione etrusca, un capitolo è stato dedicato alla "praesentia" della domus Augusta a Chiusi, testimoniata dalle iscrizioni pertinenti a statue poste probabilmente su iniziativa dei decurioni della città. Di seguito è stata indagata la documentazione di epoca tardoantica, che testimonia la nascita di una comunità cristiana rappresentata in maniera particolarmente puntuale dalle iscrizioni della catacomba di Santa Mustiola. La terza parte della tesi è dedicata interamente agli aspetti dell'economia locale, basata ancora essenzialmente sullo sfruttamento dei fertili terreni tra la Val di Chiana e la Val d'Orcia, dove a partire dall'età imperiale sorgeva forse più di una villa rustica. La documentazione in nostro possesso ha permesso di mettere in luce anche altre attività economiche: alcuni paragrafi sono stati infatti dedicati alle testimonianze di mestieri individuali (un argentarius, un architectus, un costruttore di barche, ecc.), di botteghe di artigiani locali e, più in generale, di attività commerciali (favorite dalla posizione della città lungo l'arteria stradale della Cassia e dalla navigabilità dell'antico fiume Chiana). Per concludere, si è tentato di scorgere eventuali tracce di attività evergetiche o in qualche modo riconducibili a manifestazioni di impegno civico da parte di personaggi di alto rango.
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Giancarlo Conestabile della Staffa: un nobile in viaggio tra l'arte e il Risorgimento ; Giancarlo Conestabile della Staffa: a noble man travelling between art and Risorgimento
Dottorato di ricerca in Storia e cultura del viaggio e dell'odeporica nell'età moderna ; Il documento attorno al quale è costruita la mia tesi è costituito da un taccuino di viaggio composto da 37 carte autografe raccolte sotto il titolo Viaggio da Roma a Napoli e descrizione dei vari monumenti di questa città e dei suoi punti di vista, di Giancarlo Conestabile (1842). Il taccuino è corredato da 17 carte che l'autore intitola Appunti di un viaggio a Napoli che raccolgono alcune brevi annotazioni relative al soggiorno nella città campana, il secondo taccuino al quale faccio riferimento in modo più marginale nel mio lavoro, è composto da 30 carte autografe ed è denominato Viaggio in Umbria Marche e Romagna (1844) di Giancarlo Conestabile della Staffa. Le carte fanno parte del manoscritto 2390 costituito da quadernetti e taccuini tutti redatti dal nobile perugino e appartenenti all'interessantissimo «Fondo Conestabile della Staffa» che è conservato nella biblioteca Augusta di Perugia, una parte della documentazione originaria è stata acquisita dall'Archivio dell'Università degli Studi di Perugia e dall'Archivio di Stato della città. Giancarlo Conestabile della Staffa (1824-1877), noto agli studiosi di Archeologia, è un personaggio ben inserito nel mondo culturale europeo di studiosi di arte antiquaria, viaggia moltissimo sia in Italia che all'estero, viaggia per piacere e per studio. A Napoli arriva per la prima volta nel 1842 a diciotto anni desideroso di conoscere le bellezze artistiche della città, e affascinato dalla prospettiva animata e vivace che offre la città partenopea. La tesi è strutturata in 5 capitoli, racconta il viaggio del giovane perugino contestualizzandolo nel momento storico particolare nel quale avviene, gli anni Quaranta nell'Italia del Risorgimento nello Stato pontificio e nel Regno borbonico e lo confronta con l'esperienza di altri viaggiatori che si spostano in Italia a partire dal XVII secolo. Nel mio lavoro ho voluto cogliere le diverse prospettive dalle quali i viaggiatori leggono i luoghi che attraversano, e come gli stessi luoghi si configurino sempre in una realtà nuova e mutevole. I capitolo: presenta documenti, tra i quali alcuni inediti, di viaggiatori che si spostano da e per Roma viaggiando lungo la via Francigena, nel XVII e nel XVIII secolo, si tratta di viaggiatori italiani, ma anche stranieri: - religiosi -nobili in viaggio da soli o accompagnati dai familiari. -viaggiatori inglesi, tutori, collezionisti d'arte, uomini per i quali il viaggio è ormai Gran Tour. La Società Geografica Italiana, il Fondo Caetani, l'Archivio Doria Pamphili, l'Angelica, l'Archivio di Stato di Roma, la Corsiniana, l'Archivio delle cerimonie del Vaticano, la biblioteca presso il santuario di Montevergine, sono le biblioteche in cui ho lavorato per le ricerche sui viaggiatori del XVIII secolo, religiosi, nobili, ma anche scienziati ed esploratori. II capitolo: presenta il Fondo Conestabile della Staffa, le segnature dei manoscritti, si tratta di cento opere che trattano delle esperienze artistiche e culturali delle civiltà antiche e studi sulle antichità italiche, molti documenti sono relativi a ritrovamenti e reperti, altri sono appunti di lezioni; - i documenti oggetto della mia tesi, un quadernetto rigato a matita composto quando, dopo un soggiorno di cinque mesi a Roma, decide di andare a Napoli, e un libretto relativo a un viaggio in Umbria, Marche e Romagna del 1844; - l'autore Giancarlo Conestabile della Staffa, la vita, gli studi e le sue relazioni con l'ambiente politico e culturale del periodo in cui vive; - la tipologia del viaggio e del viaggiatore con un'analisi delle motivazioni del viaggio in linea con le inclinazioni personali del Conestabile. In questo capitolo ho raccolto alcune testimonianze di viaggiatori dell'Ottocento evidenziando la molteplicità del vissuto che si offre all'occhio del lettore e confrontandole con l'esperienza del Conestabile, e ho inserito una mappatura di viaggiatori italiani e stranieri che hanno affinità con il Conestabile per i luoghi che attraversano e per i fatti storici che li coinvolgono. III capitolo: analisi del manoscritto, descrizione del viaggio a Napoli in tre paragrafi, il primo riguarda il viaggio nello Stato pontificio, con la descrizione della strada, delle stazioni di posta seguendo l'occhio del viaggiatore e evidenziando il suo punto di vista, quello di un diciottenne colto entusiasta della sua nuova esperienza, il secondo paragrafo descrive il viaggio nel Regno borbonico fino alla strada della Dogana Vecchia a Capodichino. Il terzo paragrafo è quello dell'arrivo a Napoli in cui si esprime la percezione che della capitale borbonica ha il giovane viaggiatore, il quarto e ultimo paragrafo è riservato all'immagine del territorio e della città, come appare agli occhi del giovane, confrontando la sua esperienza con quella di altri viaggiatori di allora, sottolineando che lo scritto assicura una abilitazione a esercitare il proprio magistero, quello di studioso dell'arte in una dimensione in cui il viaggio è inteso come conoscenza. IV capitolo: si tratta di un commento del manoscritto nel contesto critico della letteratura di viaggio e dell'importanza della sua scrittura, e di una presentazione breve di altri due scritti autografi relativi a due viaggi in Umbria. V capitolo: è una mappatura delle scritture di viaggio conservate negli istituti di ricerca consultati. In appendice è inserita la trascrizione del manoscritto. ; My thesis consists in the analysis of a travel notebook made of 37 autograph sheets of papers collected under the title da Roma a Napoli e descrizione dei vari monumenti di questa città e dei suoi punti di vista, di Giancarlo Conestabile(1842). The notebook includes 17 papers which the author entitled Appunti di un viaggio a Napoli and which are short comments on his stay in Naples. The other notebook I refer to in my essay, even though more slightly, is made of 30 autograph sheets and is called Viaggio in Umbria Marche e Romagna (1844) di Giancarlo Conestabile della Staffa. All the papers are contained in the manuscript 2435 which is formed by quadernetti e taccuini all written by the Perugian nobleman and belonging to the extremely interesting «Fondo Conestabile della Staffa», which is preserved in the Augusta Library in Perugia. A part of the original documentation was acquired by the Archivio dell'Università degli Studi in Perugia and the Archivio di Stato in the same city. Giancarlo Conestabile della Staffa, famous among the scholars of Archeology is a well.known man in the cultural European milieu of scholars of antique, he travels widely in Italy as well as abroad, both for study and for pleasure. He arrives in Naples for the first time in 1842, he is 18, longing to see the artistic beauty of the city and fascinated by the lively and vivacious perspective which it can offer. The essay is made up of 5 chapters and deals with the journey of the young Perugian and contextualizes it in the special historical background in which it takes place: in the 40s of the Risorgimento in the Papal State and the Bourbon Kingdom. It also compares this journey with the ones of other travellers in Italy since the 17th century. In my essay I mean to get the different points of view from which the different travellers look at the places they visit and how the places themselves always look like a different and changing reality. Chapter I: it is on documents, some unpublished, written by travellers from and to Rome, along the Via Francigena; these travellers are Italian but also from abroad: - churchmen - noblemen travelling by themselves or with their families - English travellers, tutors, collectors of art, all men on their Grand Tour The Società Geografica Italiana, the Fondo Caetani, the Doria Pamphili Archive, the Angelica Library, the Archivio di Stato of Rome, the Corsiniana Library, the Archivio delle Cerimonie del Vaticano, the library at the Montevergine Sanctuary are the libraries where I collected the information about the travellers of the 18th century: they were churchmen, noblemen but also scientists and explorers. Chapter II: its contents are - the Fondo Conestabile della Staffa and the shelf-marks of the manuscripts. They are 100 works about the cultural and artistic experiences of ancient civilizations, and studies on Italic antiquities. Many documents are about discoveries and finds, others are notes of lessons; - the documents object of my thesis: a small notebook written when he decided to move to Naples after spending five months in Rome, an another booklet concerning a journey to Umbria, Marche and Romagna in 1844; - their author, Giancarlo Conestabile della Staffa, his life, his studies and his relationship with the political and cultural environment of his time; - the nature of the journey and of the traveller together with the analysis of the reasons why he travelled; In this chapter I have collected some records of travellers of the 19th century, stressing the variety of the experiences and comparing them with the one lived by Conestabile; I have also inserted a list of Italian and foreign travellers who share some affinity with Conestabile about the places they visit and the historical events which involve them; Chapter III: it is about the analysis of the manuscript. The description of the journey in 4 paragraphs. - The first one concerns the journey to the Papal State and includes the description of the route, of the staging posts from the point of view of the traveller: a learned 18 year old young man enthusiastic about his new experience. The second paragraph describes the journey to the Bourbon Kingdom until the Dogana Vecchia Road at Capodichino. The third one is on Conestabile's arrival in Naples and his perception of the city. The fourth and last paragraph is dedicated to the impression the young man has of the city and its territory. Here the young man is aware that this experience "assicura una abilitazione a esercitare il proprio magistero, quello di studioso dell'arte", equating travel with knowledge; Chapter IV: It is a comment on the manuscript set in the critical context of the travel literature and on its importance; it also contains the presentation of two other autograph texts about a journey to Umbria. Chapter V: it contains a list of the travel texts preserved in the cultural institutes I visited for my research. The manuscript has been inserted as addendum.
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Les franchises communales, outil juridique d'une politique routière ambitieuse dans les possessions médiévales de la Maison de Savoie : l'exemple contradictoire de Saint-Germain-de-Séez (Tarentaise), (pp. 167-214) ; Franchigia comunale, strumento giuridico di una politica di strada ambiziosa negli p...
International audience ; Les chartes de franchises communales intéressent depuis de longues décennies déjà tant les historiens du droit que leurs collègues médiévistes. De sorte que, dans le ressort des anciens Etats de Savoie, leur inventaire semble aujourd'hui aussi exhaustif que quasi définitif et que le catalogue typologique qui a pu être proposé naguère de ces différentes concessions de libertés, (de la charte urbaine proprement dite à la simple charte de reconnaissance des communautés rurales), n'engendre plus la moindre polémique.Or, on l'oublie trop souvent, la situation géographique de la plupart des villes franches, à la différence notoire de celle de la multitude des paroisses rurales indistinctes, révèle certes presque sans coup férir les anciennes régions frontalières généralement très disputées de la mosaïque territoriale féodale contemporaine de leur consécration, mais également tout aussi invariablement le tracé des principaux itinéraires, en l'espèce transalpins, qui conditionnent l'existence (ou la relative indépendance) de nombreuses puissances seigneuriales d'importance. Ainsi, puisqu'ils ont aux lendemains de l'an mil scellé leur destin à l'exploitation obstinée de ce passage alpin qu'ils prétendent contingenter, tout au moins dans les Alpes occidentales du Nord, les premiers princes de la Maison de Savoie y ont-ils consenti de haute antiquité de notables libéralités à un chapelet de localités qu'ils égrènent le long des routes menant, sur chaque versant du massif, aux cols des Grand et Petit-Saint-Bernard et du Mont-Cenis tandis qu'ils s'efforçaient parallèlement de promouvoir sur ces mêmes cols, l'implantation ou le maintien de fondations hospitalières monastiques.Cependant, toutes ces bourgades affranchies entre la fin du XIIe et l'entame du XVe siècle par l'autorité comtale tant en Bresse, en Bugey, en Combe de Savoie, en Maurienne, en Tarentaise, en Chablais, en Pays de Vaux, en Valais, en Val d'Aoste et en Val de Suse, jusqu'aux portes de Turin, généralement devenues conjointement le siège d'un péage ou d'un office de châtellenie révélateurs de la solide structure administrative de l'Etat savoyard en cours de consolidation, relèvent peu ou prou uniformément du genre urbain. Qu'il s'agisse au demeurant de localités anciennes ou, a fortiori, de villes neuves, sans égard à leur protection souvent symbolique mais oh combien prestigieuse le cas échéant, par une forteresse comtale. Exception notable, sur le versant tarin de l'une des routes majeures des grandes Alpes, un seul de tous ces sites d'étape bénéficiaires de telles largesses princières, sans même constituer une paroisse autonome, ne dépasse toujours pas plus la taille d'un modeste hameau de montagne d'à peine quelques dizaines de feux à l'heure de la liquidation de ce statut ancestral par la législation d'abolition de la féodalité tant sarde (1770) que française (après 1792), que lors de sa consécration paradoxale en ville franche : Saint-Germain-de Séez.Comment expliquer cette curiosité à l'aune des Etats de Savoie ? Sinon par la lecture même de la charte concernée et la mention de l'obligation faite aux communiers afférents d'assurer en toute saison l'ouverture et la sécurité d'un itinéraire — celui de la vieille voie augustéenne des Gaules assise autrefois in alpe graia — alors vital aux échanges internes des possessions savoyardes s'il souffre déjà incontestablement de la concurrence ancienne d'un Mont-Cenis sur lequel s'est déporté dès la fin du haut Moyen-Age le gros du transit transalpin des hommes et des marchandises à destination atlantique. Spécificité hors norme puisqu'un statut dérogatoire de type voisin sera même reconduit à l'avantage des faisants feu de Saint-Germain par les autorité turinoises de la Restauration à 1860, qui permet par conséquent l'illustration, s'il en était besoin, du caractère "routier" indéniable du complexe institutionnel savoyard, de longs siècles durant, en vertu de la politique volontariste initiée en la matière par les premières générations de princes de la Maison de Savoie.
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Les franchises communales, outil juridique d'une politique routière ambitieuse dans les possessions médiévales de la Maison de Savoie : l'exemple contradictoire de Saint-Germain-de-Séez (Tarentaise), (pp. 167-214) ; Franchigia comunale, strumento giuridico di una politica di strada ambiziosa negli p...
International audience ; Les chartes de franchises communales intéressent depuis de longues décennies déjà tant les historiens du droit que leurs collègues médiévistes. De sorte que, dans le ressort des anciens Etats de Savoie, leur inventaire semble aujourd'hui aussi exhaustif que quasi définitif et que le catalogue typologique qui a pu être proposé naguère de ces différentes concessions de libertés, (de la charte urbaine proprement dite à la simple charte de reconnaissance des communautés rurales), n'engendre plus la moindre polémique.Or, on l'oublie trop souvent, la situation géographique de la plupart des villes franches, à la différence notoire de celle de la multitude des paroisses rurales indistinctes, révèle certes presque sans coup férir les anciennes régions frontalières généralement très disputées de la mosaïque territoriale féodale contemporaine de leur consécration, mais également tout aussi invariablement le tracé des principaux itinéraires, en l'espèce transalpins, qui conditionnent l'existence (ou la relative indépendance) de nombreuses puissances seigneuriales d'importance. Ainsi, puisqu'ils ont aux lendemains de l'an mil scellé leur destin à l'exploitation obstinée de ce passage alpin qu'ils prétendent contingenter, tout au moins dans les Alpes occidentales du Nord, les premiers princes de la Maison de Savoie y ont-ils consenti de haute antiquité de notables libéralités à un chapelet de localités qu'ils égrènent le long des routes menant, sur chaque versant du massif, aux cols des Grand et Petit-Saint-Bernard et du Mont-Cenis tandis qu'ils s'efforçaient parallèlement de promouvoir sur ces mêmes cols, l'implantation ou le maintien de fondations hospitalières monastiques.Cependant, toutes ces bourgades affranchies entre la fin du XIIe et l'entame du XVe siècle par l'autorité comtale tant en Bresse, en Bugey, en Combe de Savoie, en Maurienne, en Tarentaise, en Chablais, en Pays de Vaux, en Valais, en Val d'Aoste et en Val de Suse, jusqu'aux portes de Turin, généralement devenues conjointement le siège d'un péage ou d'un office de châtellenie révélateurs de la solide structure administrative de l'Etat savoyard en cours de consolidation, relèvent peu ou prou uniformément du genre urbain. Qu'il s'agisse au demeurant de localités anciennes ou, a fortiori, de villes neuves, sans égard à leur protection souvent symbolique mais oh combien prestigieuse le cas échéant, par une forteresse comtale. Exception notable, sur le versant tarin de l'une des routes majeures des grandes Alpes, un seul de tous ces sites d'étape bénéficiaires de telles largesses princières, sans même constituer une paroisse autonome, ne dépasse toujours pas plus la taille d'un modeste hameau de montagne d'à peine quelques dizaines de feux à l'heure de la liquidation de ce statut ancestral par la législation d'abolition de la féodalité tant sarde (1770) que française (après 1792), que lors de sa consécration paradoxale en ville franche : Saint-Germain-de Séez.Comment expliquer cette curiosité à l'aune des Etats de Savoie ? Sinon par la lecture même de la charte concernée et la mention de l'obligation faite aux communiers afférents d'assurer en toute saison l'ouverture et la sécurité d'un itinéraire — celui de la vieille voie augustéenne des Gaules assise autrefois in alpe graia — alors vital aux échanges internes des possessions savoyardes s'il souffre déjà incontestablement de la concurrence ancienne d'un Mont-Cenis sur lequel s'est déporté dès la fin du haut Moyen-Age le gros du transit transalpin des hommes et des marchandises à destination atlantique. Spécificité hors norme puisqu'un statut dérogatoire de type voisin sera même reconduit à l'avantage des faisants feu de Saint-Germain par les autorité turinoises de la Restauration à 1860, qui permet par conséquent l'illustration, s'il en était besoin, du caractère "routier" indéniable du complexe institutionnel savoyard, de longs siècles durant, en vertu de la politique volontariste initiée en la matière par les premières générations de princes de la Maison de Savoie.
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Inventario dei luoghi di culto dell'area falisco-capenate, ; Inventaire des lieux de culte de la zone falisco-capenate
2006/2007 ; Inventario dei luoghi di culto della zona falisco-capenate. Sunto. La raccolta delle fonti relative alla vita religiosa della zona falisco-capenate è stata finalizzata, in primo luogo, all'individuazione di luoghi di culto sicuramente identificabili come tali. Dove questo non fosse stato possibile, soprattutto in presenza di documenti epigrafici isolati e di provenienza non sempre determinabile, si è comunque registrata la presenza del culto. Attraverso la documentazione raccolta si intende cercare di delineare una storia dei culti dell'area considerata, a partire dalle prime attestazioni fino all'età imperiale. La zona presa in esame, inserita nella Regio VII Etruria nel quadro dell'organizzazione territoriale dell'Italia augustea, è compresa entro i confini naturali del lago di Bracciano e del lago di Vico a ovest, del corso del Tevere a est, mentre i limiti settentrionale e meridionale possono essere segnati, rispettivamente, dai rilievi dei Monti Cimini e dei Monti Sabatini. I centri esaminati sono quelli di Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri e Nepi. La comunità capenate occupava la parte orientale del territorio, un'area pianeggiante, dominata a nord dal massiccio del monte Soratte, e delimitata a est dall'ansa del Tevere. Il suo fulcro era costituito dall'abitato di Capena, l'odierno colle della Civitucola, cui facevano capo una serie di piccoli insediamenti, ancora poco indagati, dislocati in posizione strategica sul Tevere, o in corrispondenza di assi stradali di collegamento al fiume. Il principale di essi risulta essere localizzabile nel sito della moderna Nazzano, occupato stabilmente a partire dall'VIII sec. a.C., e posto in corrispondenza dell'abitato sabino di Campo del Pozzo, sull'altra sponda del Tevere. Il comparto falisco si articola, invece, attraverso una paesaggio di aspre colline tufacee, incentrato attorno al bacino idrografico del torrente Treia, affluente del Tevere, che percorre il territorio in direzione longitudinale. Lungo il corso del fiume si svilupparono i due più antichi e importanti centri falisci di Falerii Veteres e Narce, un sito nel quale la più recente tradizione di studi tende a riconoscere, sempre più convincentemente, la Fescennium nota dalle fonti, l'altro abitato falisco, oltre a Falerii, di cui sia tramandato il nome; lungo affluenti del Treia sono ubicate Nepi e Falerii Novi. Pur nella specificità culturale progressivamente assunta da Falisci e Capenati, la collocazione geografica del territorio da essi occupato lo rende naturalmente permeabile a influenze etrusche e sabine, rilevabili attraverso la documentazione archeologica, e rintracciabili in alcune notizie delle fonti antiche, rivalutate dalla più recente tradizione di studi. Una posizione differente era, invece, maturata dopo le prime indagini condotte nella regione, tra la fine dell''800 e l'inizio del '900, che avevano portato a enfatizzare i caratteri culturali specifici delle popolazioni locali, sottolineando la sostanziale autonomia di queste rispetto agli Etruschi, soprattutto sulla base delle strette analogie tra la lingua falisca e la latina. Tale percezione fu dominante fino alla seconda metà degli anni '60 del '900, quando la pubblicazione dei primi dati sulle necropoli veienti mise in luce gli stretti rapporti con le aree falisca e capenate, tra l'VIII e il VII sec. a.C. Gli studi sul popolamento dell'Etruria protostorica condotti a partire dagli anni '80 del '900 hanno sempre più focalizzato l'attenzione su un coinvolgimento di Veio nel popolamento dell'area compresa tra i Monti Cimini e Sabatini e il Tevere nella prima età del Ferro, trovando conferma anche dalle recenti analisi dei corredi delle principali necropoli falische, che hanno evidenziato, nell'VIII e all'inizio del VII sec. a.C., importanti parallelismi con usi funerari veienti, ma anche aspetti specifici della cultura locale. Il corpus di iscrizioni etrusche proveniente dalle necropoli di Narce dimostra, per tutto il VII e VI sec. a.C., la continuità stanziale di etruscofoni, che utilizzano un sistema scrittorio di tipo meridionale, riconducibile a Veio, di cui Narce sembra costituire un avamposto in territorio falisco. Già dall'inizio del VII sec. a.C., tuttavia, si fanno evidenti i segni di una più specifica caratterizzazione culturale delle aree falisca e capenate, anche attraverso la diffusione di un idioma falisco, affine a quello latino, documentato epigraficamente per il VII e VI sec. a.C. soprattutto a Falerii Veteres. Un ulteriore elemento di contatto culturale col mondo latino è rappresentato, in questo centro, dal rituale funerario delle inumazioni infantili in area di abitato. Tale uso, che trova numerosi confronti nel Latium vetus, mentre risulta estraneo all'Etruria, è documentato a Civita Castellana, in località lo Scasato, da due sepolture di bambini, databili tra la fine dell'VIII e la prima metà del VII sec. a.C. A Capena sono state rilevate, a partire dal VII sec. a.C., notevoli influenze dall'area sabina, soprattutto attraverso la documentazione archeologica fornita dalle necropoli, mentre, da un punto di vista linguistico, un influsso del versante orientale del Tevere è stato colto, in particolare, attraverso un'analisi del nucleo più nutrito delle iscrizioni epicorie, che risale al IV-III sec. a.C. La ricettività nei confronti degli apporti delle popolazioni limitrofe e la capacità di elaborazioni originali, attestate archeologicamente sin dalle fasi più antiche della storia dei popoli falisco e capenate, possono offrire un supporto documentario alla percezione che già gli scrittori antichi avevano dell'ethnos falisco, trovando riscontro, in particolare, nelle tradizioni che definivano i Falisci come Etruschi, oppure come ethnos particolare, caratterizzato da una propria specificità anche linguistica, un dato, quest'ultimo, che tradisce il ricordo di contatti col mondo latino. Un terzo filone antiquario, che si intreccia a quello dell'origine etrusca, rivendica ai Falisci un'ascendenza ellenica, e più propriamente, argiva, e sembra, invece, frutto di un'elaborazione erudita maturata in un momento successivo. La notizia dell'origine argiva risale, per tradizione indiretta, alle Origines di Catone, e si collega a quella della fondazione di Falerii da parte dell'eroe Halesus, figlio di Agamennone, che avrebbe abbandonato la casa paterna dopo l'uccisione del padre. Ovidio e Dionigi di Alicarnasso attribuiscono all'eroe greco l'istituzione del culto di Giunone a Falerii, il cui originario carattere argivo sarebbe conservato nel rito celebrato in occasione della festa annuale per la dea. L'importanza accordata al culto di Giunone nell'ambito di tale tradizione ha portato a ipotizzare che questa possa essersi sviluppata proprio a partire dal dato religioso della presenza a Falerii di una divinità assimilabile alla Hera di Argo. Dall'esame linguistico del nome del fondatore, il quale non ha combattuto a Troia e non ha avuto alcun ruolo nel mondo ellenico, si è concluso che dovesse trattarsi di un eroe locale, e che la formazione dell'eponimo sia precedente alla metà del IV sec. a.C., quando è documentata l'affermazione del rotacismo in ambiente falisco. L'elaborazione della leggenda di Halesus deve essere collocata, dunque, in un momento precedente a questa data, che, si è pensato, possa coincidere con la presenza a Falerii di maestranze elleniche o ellenizzate, attive nel campo della ceramografia e della coroplastica, a partire dalla fine del V sec. a.C. Questa tradizione si collega a quella sull'origine etrusca attraverso la notizia di Servio, secondo cui Halesus sarebbe il progenitore del re di Veio Morrius. Il ricordo di una discendenza dalla città etrusca è comune anche a Capena, dove, secondo una notizia di Catone, riportata da Servio, i luci Capeni erano stati fondati da giovani veienti, inviati da un re Properzio, nel cui nome, peraltro, è stata ravvisata un'origine non etrusca, ma italico-orientale. A livello storico, l'accostamento tra Veio, Falisci e Capenati sarà documentato dalle fonti attraverso la costante presenza dei due popoli, al fianco della città etrusca, nel corso degli scontri con Roma tra la seconda metà del V e l'inizio del IV sec. a.C. Di tale complesso sistema di influenze partecipa anche la sfera religiosa dell'area in esame. È interessante notare, a questo proposito, che la massima divinità maschile del pantheon falisco-capenate, il dio del Monte Soratte, Soranus Apollo, costituisca l'esatto corrispettivo dell'etrusco Śuri, come da tempo dimostrato da Giovanni Colonna. La particolarità del culto del Soratte, tuttavia, è determinata dalla cerimonia annua degli Hirpi Sorani, che camminavano indenni sui carboni ardenti e il cui nome, nel racconto eziologico sull'origine del rito, tramandato da Servio, è spiegato in relazione a hirpus, il termine sabino per indicare il lupo, in perfetta coerenza col carattere "di frontiera" di questo territorio. Di origine sabina è la divinità venerata nell'unico grande santuario noto nell'agro capenate, il Lucus Feroniae. La diffusione del culto a partire dalla Sabina, già sostenuta da Varrone, è largamente accolta dalla critica recente, sia sulla base dell'analisi linguistica del nome della dea, sia per la presenza, in Sabina, dei centri principali del culto (Trebula Mutuesca, Amiternum), da cui questo si irradia, oltre che presso Capena, in Umbria e in area volsca. Le attestazioni di Feronia in altre zone, come la Sardegna, il territorio lunense, Aquileia, Pesaro sono generalmente da collegare con episodi di colonizzazione romana. Il carattere esplicitamente emporico del Lucus Feroniae, affermato da Dionigi di Alicarnasso e Livio, che lo descrivono come un luogo di mercato frequentato da Sabini, Etruschi e Romani già dall'epoca di Tullo Ostilio, rende perfettamente conto della varietà di frequentazioni e di influenze, che caratterizzano il santuario almeno dall'età arcaica. Pur in assenza di documentazione archeologica relativa alle fasi più antiche, sembra del tutto affidabile la notizia della vitalità del culto capenate già in età regia. Feronia, infatti, a Terracina, risulta associata a Iuppiter Anxur, divinità eponima della città volsca, il che sembra far risalire l'introduzione del suo culto all'inizio della presenza volsca nella Pianura Pontina, cioè ai primi decenni del V sec. a.C., fornendo, inoltre, un possibile indizio di una provenienza settentrionale, da area sabina, dell'ethnos volsco. È ipotizzabile, dunque, che la dea fosse venerata nel santuario tiberino, prospiciente la Sabina, ben avanti il suo arrivo nel Lazio tirrenico. Al di là della semplice frequentazione del luogo di culto e del mercato, un ruolo di primo piano rivestito dalla componente sabina presso il Lucus Feroniae, in epoca arcaica, sembra suggerito dall'episodio del rapimento dei mercanti romani, riferito da Dionigi di Alicarnasso. I rapitori sabini compiono una ritorsione nei confronti dei Romani, che avevano trattenuto alcuni di loro presso l'Asylum, tra il Capitolium e l'Arx, il che fa pensare che i Sabini esercitassero una sorta di protettorato sul santuario tiberino, e avessero, su di esso, una capacità di controllo analoga a quella che i Romani avevano sull'Asylum romuleo. La vocazione emporica del Lucus Feroniae è naturalmente legata alla sua collocazione topografica, nel punto in cui i percorsi sabini di transumanza a breve raggio attraversano il Tevere, tra i due grandi centri sabini di Poggio Sommavilla e Colle del Forno, per dirigersi verso la costa meridionale dell'Etruria. La dislocazione presso il punto di arrivo dei principali tratturi dell'area appenninica, popolata da genti sabelliche, è, peraltro, una caratteristica comune ai più antichi luoghi di culto di Feronia, come Trebula Mutuesca e Terracina, che condividono col Lucus Feroniae capenate anche la collocazione all'estremità di un territorio etnicamente omogeneo. È stato osservato come, in questi santuari, l'attività emporica marittima si intrecciasse con quella legata allo scambio del bestiame, e, nell'ottica di un'apertura verso l'economia pastorale dei Sardi, è stata inquadrata la fondazione romana, nel 386 a.C., di una Pheronia polis in Sardegna, presso Posada. Da questa località proviene, inoltre, una statuetta bronzea, databile tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a.C., raffigurante un Ercole di tipo italico, divinità di cui è noto il legame con la sfera dello scambio, anche in rapporto agli armenti. L'epoca dell'apoikia sarda ha portato a ipotizzare un collegamento col Lucus Feroniae capenate, dato che già tra il 389 e il 387 a.C. nel territorio di Capena erano stanziati coloni romani, misti a disertori Veienti, Capenati e Falisci. La filiazione del culto sardo da quello tiberino sembra, inoltre, perfettamente compatibile con le pur scarne attestazioni relative a una presenza di Ercole nel santuario capenate. A questo proposito è interessante notare che su una Heraklesschale, ancora sostanzialmente inedita, proveniente dalla stipe del santuario, il dio è rappresentato con la leonté e la clava nella mano sinistra, e lo scyphus di legno nella mano destra. Questi due ultimi attributi di Ercole erano conservati nel sacello presso l'Ara Maxima del Foro Boario, a Roma, e lo scyphus, usato dal pretore urbano per libare nel corso del sacrificio annuale presso l'ara, compare anche nella statua di culto di Alba Fucens, nella quale, per vari motivi, si è proposto di riconoscere una replica del simulacro del santuario del Foro Boario. Il richiamo iconografico a questi elementi, in un santuario-mercato ubicato lungo percorsi di transumanza, come era il Lucus Feroniae, non sembra casuale, ma potrebbe, in un certo senso, evocare il culto dell'Ara Maxima, e, in particolare, un aspetto fondamentale di esso, rappresentato dal collegamento con le Salinae ai piedi dell'Aventino. Queste, ubicate presso la porta Trigemina, e dunque prossime all'Ara Maxima, erano il luogo di deposito del sale proveniente dalle saline ostiensi, e destinato alla Sabina, e, in generale, alle popolazioni dell'interno dell'Italia centrale, dedite a un'economia pastorale. L'Ercole del Foro Boario, che tutelava le attività economiche collegate allo scambio del bestiame, sovrintendeva anche all'approvvigionamento del sale, e in questo senso va spiegato anche l'epiteto di Salarius, attestato per il dio ad Alba Fucens, dove, come è stato visto, il santuario di Ercole aveva la funzione di forum pecuarium. La dislocazione di santuari-mercati lungo i tratturi garantiva, dunque, ai pastori, dietro necessario compenso, la possibilità di rifornirsi di sale, e lo stesso doveva verificarsi presso il Lucus Feroniae. Questo sembra confermato dal fatto che, come è stato di recente dimostrato, la via lungo cui sorge il santuario, l'attuale strada provinciale Tiberina, vada, in realtà, identificata con la via Campana in agro falisco, menzionata da Vitruvio, in relazione a una fonte letale per uccelli e piccoli rettili. Il nome della via va spiegato, infatti, in relazione al punto di arrivo, costituito dal Campus Salinarum alla foce del Tevere, dove erano le saline. Nel comparto falisco, l'analisi della documentazione relativa ai luoghi di culto ha evidenziato una più marcata influenza di Veio rispetto all'area capenate. Questa risulta particolarmente rilevante in un centro come Narce, segnato, sin dall'inizio della sua storia, da una netta impronta veiente, e il cui declino coinciderà con gli anni della conquista della città etrusca. Per limitarci alla sfera del sacro, già da un primo esame dei materiali rinvenuti nel santuario suburbano di Monte Li Santi-Le Rote, di cui si attende la pubblicazione integrale, è stata segnalata, dall'inizio del V sec. a.C., epoca in cui comincia la frequentazione dell'area sacra, la presenza di prototipi veienti, che sono all'origine di una produzione locale di piccole terrecotte figurate. A un modello veiente sono riconducibili le cisterne a cielo aperto, che affiancavano l'edificio templare in almeno due dei principali santuari di Falerii Veteres, quello di Vignale e quello dello Scasato I, da identificare entrambi come sedi di un culto di Apollo. Più problematico risulta, invece, l'accostamento ad esse degli apprestamenti idrici rinvenuti presso un'area sacra urbana, recentemente individuata presso la moderna via Gramsci, nella parte meridionale del pianoro di Civita Castellana, e solo da una vecchia notizia d'archivio della Soprintendenza sappiamo di un'analoga cisterna rinvenuta presso Corchiano all'inizio del '900. Nei casi meglio documentati di Vignale e dello Scasato, tali impianti idrici risultano coevi alla fase più antica del santuario, e rispondono a uno schema che, a Veio, ricorre presso il santuario di Apollo al Portonaccio, presso il tempio a oikos di Piazza d'Armi, nel santuario di Menerva presso Porta Caere, e nel santuario in località Casale Pian Roseto. Non è facile determinare l'esatto valore da attribuire, di volta in volta, a tali cisterne, ma l'enfasi topografica ad esse accordata nell'ambito dei santuari non pare permetta di prescindere da un collegamento con pratiche rituali. Per gli impianti di Falerii si è pensato a un collegamento col santuario del Portonaccio, anche sulla base della corrispondenza cultuale incentrata sulla figura di Apollo, e la piscina è stata spiegata, dunque, in relazione a rituali di purificazione, legati a un culto oracolare. Dopo la sconfitta di Veio Falerii si trovò non solo a tener testa a Roma sul piano militare, ma dovette dimostrarsi non inferiore anche per prestigio e capacità autorappresentativa, essendo l'altro grande centro della basse valle del Tevere. Questo aspetto è stato colto, in particolare, sulla base della decorazione templare della città falisca, che conosce, intorno al secondo-terzo decennio del IV sec. a.C., un rinnovamento generalizzato, dovuto alla nascita di un'importante scuola coroplastica, la cui attività si riconosce anche nel frammento isolato di rilievo fittile rappresentante una Nike, da Fabrica di Roma. Una diversa reazione alla presa di Veio è attestata per l'altro importante centro falisco, quello di Narce, anche attraverso la documentazione fornita dal santuario di Monte Li Santi-Le Rote. Il luogo di culto continua a essere frequentato anche dopo la crisi dell'insediamento urbano, riscontrata attraverso una consistente contrazione delle necropoli a partire dal IV sec. a.C., ma nella prima metà del III sec. a.C. è attestata una contrazione del culto in vari settori del santuario, contestualmente all'introduzione di nuove categorie di ex-voto, quali i votivi anatomici, i bambini in fasce, le terrecotte raffiguranti animali. Questi mutamenti sono stati messi in relazione con la vittoria romana sui Falisci nel 293 a.C., mentre un secondo momento di contrazione del culto sembra coincidere con la definitiva conquista romana del 241 a.C. Dall'inizio del III sec. a.C. anche nei depositi di Falerii vengono introdotti nuovi tipi di votivi, cui si è fatto cenno precedentemente, e, come anche nel santuario di Monte Li Santi-Le Rote, si registra la presenza di monetazione di zecca urbana, che entra a far parte delle offerte. Tale dato diventa ancora più eloquente, se si considera l'assenza di monetazione locale nei contesti di epoca preromana, che sembra tradire l'indifferenza delle popolazioni falische verso tale tipo di offerta. È evidente, dunque, anche per Falerii, un'influenza del mercato romano dopo gli eventi bellici che segnarono la vittoria di Spurio Carvilio sui Falisci. La città, tuttavia, sembra fronteggiare la crisi, tanto da non mettere in pericolo le sue istituzioni, come dimostrano le dediche falische poste, nel Santuario dei Sassi Caduti, a Mercurio, dagli efiles, l'unica carica attestata per la città. Del resto, anche con la costruzione del nuovo centro di Falerii Novi, la documentazione relativa alla sfera religiosa attesta la conservazione, a livello pubblico, della lingua e della grafia falisca, tramite la dedica a Menerva posta dal pretore della città, nella seconda metà del III sec. a.C. (CIL XI 3081). Quanto sappiamo sui culti di età repubblicana di Capena e del suo territorio si limita al santuario di Lucus Feroniae, dove praticamente quasi tutti i materiali e le fonti epigrafiche sono inquadrabili nel corso del III sec. a.C., e a un paio di dediche di III sec. a.C. La capitolazione di Capena subito dopo la presa di Veio (395 a.C.) rende, in questa fase, la presenza romana ormai stabile da circa un secolo, dunque non sorprende che le iscrizioni sacre utilizzino un formulario specificamente latino, anche con attestazioni piuttosto precoci di espressioni che diventeranno correnti nel corso del II sec. a.C. Uno dei primi esempi attestati di abbreviazione alle sole iniziali della formula di dedica d(onum) d(edit) me(rito) è in CIL I², 2435, provenente dalla necropoli capenate delle Saliere. La documentazione archeologica più antica riguardo alla vita religiosa dell'area presa in esame proviene da Falerii Veteres. In ordine cronologico, la prima divinità attestata epigraficamente è Apollo, il cui nome compare inciso in falisco su un frammento di ceramica attica dei primi decenni del V sec. a.C. dal santuario di Vignale. È notevole che si tratti in assoluto della più antica attestazione conosciuta del nome latinizzato del dio, che indica la sua precoce assimilazione nel pantheon falisco, dove, già da quest'epoca, bisogna riconoscere come avvenuta l'identificazione con Apollo del locale Soranus. Il culto del dio del Soratte, attestato per via epigrafica solo in età imperiale, attraverso due dediche a Soranus Apollo, può essere coerentemente collocato tra le più antiche manifestazioni religiose del comprensorio falisco-capenate, e probabilmente la sede cultuale del Monte Soratte doveva fungere da tramite tra le due aree. Nel territorio falisco la presenza del dio lascia tracce più consistenti, attraverso la duplicazione del culto di Apollo a Falerii Veteres, e una dedica di età repubblicana da Falerii Novi, mentre sembra affievolirsi in area capenate, dove ne resta traccia solo in due dediche ad Apollo della prima età imperiale da Civitella S. Paolo, e in una controversa notizia di Strabone, che, apparentemente per errore, ubica al Lucus Feroniae le cerimonie in onore di Sorano, che si svolgevano, invece, sul Soratte. Anche questa notizia, tuttavia, si inserisce in un sistema di corrispondenze cultuali, che associa a una dea ctonia, della fertilità, un paredro di tipo "apollineo", cioè una divinità maschile, giovanile, con aspetti inferi e mantici. Non sembra casuale, in questo contesto, che il santuario per cui è attestata una più antica frequentazione a Falerii Veteres sia quello di Giunone Curite, una divinità che sembra rispondere allo schema di dea matronale e guerriera (era una Giunone armata, ma anche protettrice delle matrone) per la quale, pure, è attestata l'associazione cultuale con un giovane dio, della stessa tipologia di Sorano. Anche se non sono attestati direttamente rapporti tra Iuno Curitis e Sorano Apollo non sembra da trascurare il dato che l'unica statuetta di Apollo liricine, di IV sec. a.C., rinvenuta a Falerii Veteres provenga proprio dal santuario della dea; inoltre quando essa fu evocata a Roma dopo la presa di Falerii nel 241 a.C., insieme al suo tempio, in Campo, fu costruito quello di Iuppiter Fulgur, una divinità parimenti evocata dal centro falisco, e per la quale, pure, si possono istituire dei parallelismi con Soranus, attraverso l'assimilazione con Veiove. Nell'agro falisco, come in quello capenate, le più antiche attestazioni cultuali si riferiscano, dunque, a una coppia di divinità che, pur nelle differenze maturate in aspetti specifici del culto, sembra rispondere a esigenze cultuali piuttosto omogenee. Con l'età imperiale, infine, il panorama dei culti della zona considerata sembra diventare più omogeneo, inserendosi, peraltro, in una tendenza piuttosto generale. La manifestazione più appariscente è costituita, naturalmente, dal culto imperiale, attestato molto presto in Etruria meridionale. Da Nepi proviene la più antica testimonianza nota in Etruria, costituita da una dedica in onore di Augusto da parte di quattro Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'iscrizione è databile al 12 a.C., anno della fondazione del collegio di Nepi, e dell'istituzione, a Roma, del culto del Genius di Augusto e dei Lares Augusti, venerati nei compita dei vici della città. Altri esempi di una piuttosto precoce diffusione del culto imperiale vengono da Falerii Novi (CIL XI, 3083, databile tra il 2 a.C. e il 14 d.C.; CIL XI, 3076, età augustea); da Lucus Feroniae, dove intorno al 31 d.C. è attestato per la prima volta l'uso della formula in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295). Il fatto che la diffusione del culto imperiale in agro falisco-capenate avvenga praticamente negli stessi anni che a Roma, sembra legato anche ai rapporti che legarono Augusto e la dinastia giulio-claudia a questo territorio. Dopo Anzio veterani di Ottaviano ottennero terre nell'Etruria meridionale, lungo il corso del Tevere, e non è un caso che l'Augusteo di Lucus Feroniae, l'unico in Etruria meridionale, che sia noto, oltre che epigraficamente, anche attraverso i suoi resti, sia stato eretto tra il 14 e il 20 d.C. da due membri della gens senatoria, filoagustea, dei Volusii Saturnini. Augusto stesso e membri della dinastia parteciparono direttamente alla vita civile dei centri della regione: Augusto fu pater municipii a Falerii Novi, Tiberio e Druso Maggiore furono patroni della colonia a Lucus Feroniae, tra l'11 e il 9 a.C. Inoltre la presenza, nel territorio capenate, di liberti imperiali incaricati dell'amministrazione del patrimonio dell'imperatore, fa pensare all'esistenza di fundi imperiali. La documentazione di età imperiale è costituita, inoltre, da una serie di iscrizioni che difficilmente possono farci risalire a specifici luoghi di culto, e dalle quali, in molti casi, si evince soprattutto una richiesta di salute e di fertilità alla divinità, come avveniva in età repubblicana, tra il IV e il II sec. a.C., attraverso l'offerta nei santuari di votivi anatomici. Sono note anche alcune attestazioni di culti orientali (Mater Deum e Iside, anche associate, da Falerii Novi e dal suo territorio; una dedica alla Mater Deum da Nazzano, in territorio capenate), che rientrano nell'ambito della devozione privata, tranne nel caso del sacerdozio di Iside a Mater Deum attestato a Falerii Novi. ; Inventaire des lieux de culte de la zone falisco-capenate. Résumé. Le recueil des sources historiques relatives à la vie religieuse de la zone falisco-capenate a eut comme but, tout d'abord, la localisation des lieux de culte identifiables avec certitude comme tels. Lorsque cela s'est avéré impossible, particulièrement en présence de documents épigraphiques isolés et d'origine incertaine, on a tout de même enregistré l'existence du culte. On veut reconstruire, au moyen de la documentation récoltée, une histoire des cultes de la zone considérée depuis les premières apparitions jusqu'à l'âge impérial. La zone considérée, insérée dans la Regio VII Etruria dans le cadre de l'organisation territoriale de l'Italie augustéenne, est comprise dans les limites naturelles du lac de Bracciano et du lac de Vico à l'ouest, du cours du Tibre à l'est, tandis que les limites septentrionale et méridionale sont délimitées, respectivement, par les reliefs des Monts Cimini et des Monts Sabatini. Les centres examinés sont ceux de Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutri et Nepi. La communauté capenate occupait la partie orientale du territoire, un zone de plaine, dominée au nord par le massif du Mont Soratte, et délimitée à l'est par l'anse du Tibre. Son centre était constitué par l'habitat de Capena, l'actuel Col de la Civitucola, dont dépendaient une série de petits sites, encore peu étudiés, disséminés en position stratégique sur le Tibre, ou en correspondance d'axes routiers de liaison au fleuve. Le principal de ces derniers est localisé sur le site de l'actuelle Nazzano, occupé de manière permanente à partir du VIIIème siècle av. J.-C., et situé en correspondance de l'habitat sabin de Campo del Pozzo, sur l'autre rive du Tibre. La zone falisque s'articule, par contre, sur un paysage d'âpres collines de tuf, disposées autour du bassin hydrographique du torrent Treia, affluent du Tibre, qui parcourt le territoire en direction longitudinale. Le long du cours d'eau se développèrent les deux plus antiques et importants centres falisques de Falerii Veteres et Narce, un site que les plus récentes recherches tendent à reconnaître, et de manière toujours plus convaincante, comme la Fescennium connue dans les sources historiques, le deuxième habitat falisque, outre à Falerii, dont on reporte le nom; le long d'affluents du Treia sont situées Nepi et Falerii Novi. Malgré la spécificité culturelle progressivement développée par falisques et capenates, la situation géographique du territoire occupé le rend naturellement perméable aux influences étrusques et sabines, aspect relevé par la documentation archéologique et par quelques informations dans les sources antiques, réévaluée par les plus récentes études. Une position différente s'était par contre imposée après les premières recherches effectuées dans la région entre la fin du XIXème et le début du XXème siècle : celles-ci avaient mis l'accent sur les caractères culturels spécifiques des populations locales, en soulignant la substantielle autonomie de ces populations par rapport aux Etrusques, surtout sur la base des grandes similitudes entre les langues falisque et latine. Une telle perception fut dominante jusqu'à la deuxième moitié des années Soixante du Vingtième siècle, lorsque la publication des premières données sur les nécropoles de Véies mirent en lumière les rapports étroits avec les zones falisque et capenate entre le VIIIème et le VIIème siècle av. J.-C. Les études sur le peuplement de l'Etrurie protohistorique, conduites à partir des années '80 du XXème siècle ont focalisé l'attention sur une implication de Véies dans le peuplement de la zone comprise entre les Monts Cimini et Sabatini d'une part et le Tibre d'autre part, et cela au début de l'Âge du Fer, études confirmées par les récentes analyses des trousseaux des principales nécropoles falisques, qui ont prouvé qu'il existait au VIIIème et au début du VIIème siècle av. J.-C. d'importants parallèles avec les habitudes funéraires de Véies, bien que certains aspects spécifiques de la culture locale y fussent conservés. Le corpus d'inscriptions étrusques provenant de la nécropole de Narce démontre, pour tout le VII et le VIème siècle ac. J.-C., la présence continue de populations parlant la langue étrusque, qui utilisent un système d'écriture de type méridional, reconductible à Véies, dont Narce semble avoir constitué un avant-poste en territoire falisque. Déjà au début du VIIème siècle av. J.-C. cependant, on remarque les signes évidents d'une plus spécifique caractérisation culturelle des zones falisques et capenates, et cela au travers, entre autre, de la diffusion d'un idiome falisque, semblable au latin, documenté par des épigraphes au VIIème et au VIème siècle av. J.-C., surtout à Falerii Veteres. Ultérieur élément de contact culturel avec le monde latin est représenté, dans ce centre, par le rituel funéraire des inhumations infantiles dans la zone habitée. Une telle habitude, qui trouve de nombreuses comparaisons dans le Latium vetus, est étrangère à l'Etrurie, alors qu'elle est documentée à Cività Castellana, en localité «lo Scasato», par deux sépultures d'enfants datables entre la fin du VIIIème siècle et la première moitié du VIIème siècle av. J.-C. A Capena a été remarqué, à partir du VIIème siècle av. J.-C., une grande influence provenant de l'aire sabine, surtout à travers la documentation archéologique fournie par les nécropoles, tandis que du point de vue linguistique un influence du versant oriental du Tibre a été remarquée, en particulier par une analyse du noyau plus consistant des inscriptions relatifs aux nouveaux-nés, qui remonte au IV – IIIème siècle av. J.-C. La réceptivité vis-à-vis des nouveautés des populations limitrophes et la capacité d'élaborations originales, prouvées archéologiquement déjà depuis les phases les plus antiques de l'histoire des peuples falisques et capenates, peuvent offrir une aide documentaire à la perception que les écrivains antiques avaient de l'ethnos falisque, en trouvant un équivalent dans les traditions qui définissaient les Falisques comme des Etrusques, ou bien comme un peuple à soi, caractérisé par une spécificité propre, aussi linguistique. Cette dernière donnée trahit la mémoire de contacts avec le monde latin. Un troisième filon antique, qui se mêle à celui d'origine étrusque, revendique pour les falisques une ascendance grecque, plus précisément de l'Argolide et semble le fruit d'une construction d'érudits élaborée successivement. L'information de l'origine argolide remonte, par tradition indirecte, aux Origines de Caton, et se relie à celle de la fondation de Falerii de la part du héros Halesus, fils d'Agamemnon, qui aurait abandonné la maison paternelle après l'assassinat de son père. Ovide et Denys d'Halicarnasse attribuent au héros grec l'institution du culte de Junon à Falerii, dont le caractère originel argolide serait conservé dans le rite célébré en occasion de la fête annuelle de la déesse. L'importance accordée au culte de Junon au sein d'une telle tradition a amené à supposer que celui-ci se soit développé précisément à partir de la donnée religieuse de la présence à Falerii d'une divinité semblable à Héra d'Argos. Grâce à l'examen linguistique du nom du fondateur, qui n'a pas combattu à Troie et qui n'a eut aucun rôle dans le monde grec, on a conclu qu'il devait s'agir d'un héros local, et que la formation de l'éponyme ait été précédent à la moitié du IVème siècle av. J.-C., lorsque l'affirmation du rhotacisme est documenté dans la culture falisque. L'élaboration de la légende de Halesus doit donc être située à un moment précédent cette date qui, comme on l'a pensé, puisse coïncider avec la présence à Falerii d'artistes grecs ou hellénisés, actifs dans la céramographie et dans la choroplastique, à partir de la fin du Vème siècle av. J.-C. Cette tradition se relie à celle sur l'origine étrusque, par l'information de Servius, selon lequel Halesus serait le grand-père du roi de Véies Morrius. Le souvenir d'une descendance de la ville étrusque est commune aussi a Capena où, d'après une nouvelle de Caton, rapportée par Servius, les luci Capeni avaient été fondés par des jeunes de Véies, envoyés par un roi Properce, dans le nom duquel a été identifié une origine non étrusque, mais bien italico-orientale. Du point de vue historique, le rapprochement entre Véies, falisques et capenates sera documenté dans les sources par la présence constante des deux peuples au flanc de la ville étrusque au cours des luttes contre Rome entre la deuxième moitié du Vème et le début du IVème siècle av. J.-C. D'un tel système complexe d'influences participe aussi la sphère religieuse de la zone en question. Il est intéressant de noter, à ce propos, que la principale divinité masculine du panthéon falisco-capenate, le dieu du Mont Soratte, Soranus Apollon, constitue le correspondant exact de l'étrusque Śuri, comme l'a démontré Giovanni Colonna. La particularité du culte de Soratte, toutefois, est déterminée par la cérémonie annuelle des Hirpi Sorani, qui marchaient indemnes sur des charbons ardents et dont le nom, dans le récit étiologique sur l'origine du rite transmis par Servius, est expliqué en relation à hirpus, le nom sabin pour «loup», parfaitement cohérent avec la caractéristique frontalière de ce territoire. D'origine sabine est aussi la divinité vénérée dans le seul grand sanctuaire connu dans le territoire capenate, le Lucus Feroniae. La diffusion du culte à partir de la Sabine, version soutenue déjà par Varron, est largement acceptée par la critique récente, sur la base d'une part de l'analyse linguistique du nom de la déesse et d'autre part vu la présence sur le territoire sabin des principaux centres de culte (Trebula Mutuesca, Aminternum), d'où ceux-ci se diffusent, outre à Capena, vers l'Ombrie et le territoire volsque. Les attestations de Feronia dans d'autres zones, comme en Sardaigne, en territoire de Luni, à Aquilée et à Pesaro sont généralement à mettre en relation avec des épisodes de colonisation romaine. Le caractère explicitement commercial du Lucus Feroniae, affirmé par Denys d'Halicarnasse et par Tite-Live, qui le décrivent comme un lieu de marché fréquenté par les sabins, les étrusques et les romains déjà à l'époque de Tullius Ostilius, rend parfaitement compte de la variété des fréquentations et des influences qui caractérisent le sanctuaire à partir de l'Âge archaïque. Bien que n'ayant pas de documentation archéologique relative aux phases les plus antiques, l'information sur la vitalité du culte capenate déjà à l'époque royale semble fiable. Feronia, en effet, est couplée, à Terracina, à Iuppiter Anxur, divinité éponyme de la ville volsque, ce qui semble faire remonter l'introduction de son culte au début de la présence volsque dans la plaine pontine, c'est-à-dire vers les premières décennies du Vème siècle av. J.-C. Cela fournit, en plus, un indice possible d'une provenance septentrionale de l'ethnos volsque depuis la zone sabine. Il est donc envisageable que la déesse ait été adorée dans le sanctuaire tibérien, en face de la Sabine, bien avant son arrivée dans le Latium tyrrhénien. Au-delà de la simple fréquentation du lieu de culte et du marché, un rôle de premier plan joué par l'élément sabin pour le Lucus Feroniae en époque archaïque semble suggéré par l'épisode de l'enlèvement de marchants romains relaté par Denys d'Halicarnasse. Les ravisseurs sabins effectuent une rétorsion contre les romains, qui avaient enfermé certains des leurs sur l'Asylum, entre le Capitole et l'Arx, ce qui fait penser que les sabins exerçaient une sorte de protectorat sur le sanctuaire tibérien et qu'ils avaient sur celui-ci une capacité de contrôle semblable à celui que les romains avaient sur l'Asylum romuléen. La vocation commerciale du Lucus Feroniae est naturellement liée à son emplacement topographique, à l'endroit où les parcours sabins de transhumance à courte distance traversent le Tibre, entre les deux grands centres sabins de Poggio Sommavilla et Colle del Forno, pour se diriger vers la côte méridionale de l'Etrurie. La dislocation près du lieu d'arrivée des principaux sentiers de la zone apennine, habitée de peuplades sabelliques, est, en outre, une caractéristique commune aux plus anciens lieux de culte de Feronia, comme par exemple Trebula Mutuesca et Terracina, qui partagent avec le Lucus Feroniae capenate l'emplacement à l'extrémité d'un territoire ethniquement homogène. Il a été observé combien, dans ces sanctuaires, l'activité commerciale maritime était liée à l'échange du bétail et il faut prendre en compte l'ouverture à l'économie pastorale sarde pour comprendre la fondation romaine en 386 av. J.-C. d'une Pheronia polis en Sardaigne, près de Posada. De cette localité provient, en outre, une statuette en bronze, datable entre la fin du Vème et les premières décennies du IVème siècle av. J.-C., qui représente un Hercule de type italique, divinité dont on connaît le lien avec la sphère de l'échange, et surtout son rapport avec les troupeaux. L'époque de l'apoikia sarde a amené à envisager une relation avec le Lucus Feroniae capenate, vu que déjà entre 389 et le 387 av. J.-C. dans le territoire de Capena des colons romains s'étaient établis, unis à des déserteurs provenant de Véies, Capena et Falerii. La filiation du culte sarde à partir du culte tibérien semble, en outre, parfaitement compatible avec les rares attestations relatives à une présence d'Hercule dans le sanctuaire capenate. A ce sujet il est intéressant de remarquer que sur une Heraklesschale, encore inédite, provenant du dépôt votif du sanctuaire, le dieu est représenté avec la leonté et la massue dans la main gauche, et le skyphos en bois dans la main droite. Ces deux derniers attributs d'Hercule étaient conservés dans le sacellum près de l'Ara Maxima du Forum boarium, à Rome, et le skyphos, utilisé par le préteur urbain pour faire les libations au cours du sacrifice annuel auprès de l'Ara, apparaît aussi dans la statue de culte d'Alba Fucens, dans laquelle, en raison de nombreuses similitudes, on a proposé de reconnaître une réplique du simulacre du sanctuaire du Forum boarium. La répétition iconographique de ces éléments dans un sanctuaire-marché situé le long des voies de la transhumance, comme était le Lucus Feroniae, ne semble pas un hasard et pourrait d'ailleurs, dans un certain sens, évoquer le culte de l'Ara Maxima et en particulier un aspect fondamental de celui-ci, représenté par la liaison avec les Salinae aux pieds de l'Aventin. Celles-ci, situées près de la porta Trigemina, et donc proches de l'Ara Maxima, étaient le lieu de dépôt du sel provenant des salines d'Ostie destiné à la Sabine, et en général aux populations établies à l'intérieur de l'Italie centrale et vouées à l'économie pastorale. L'Hercule du Forum boarium, qui protégeait les activités économiques liées aux échanges de bétail, gouvernait aussi à l'approvisionnement du sel, et c'est en ce sens que doit aussi s'expliquer l'épithète de Salarius, attesté pour le dieu à Alba Fucens où, comme on l'a vu, le sanctuaire d'Hercule avait la fonction de forum pecuarium. La dislocation de sanctuaires-marchés le long des voies de transhumance garantissait donc aux pasteurs, après compensation nécessaire, la possibilité de se pourvoir en sel, et la même chose devait advenir au Lucus Feroniae. Ceci semble confirmé par le fait que, comme il a été démontré récemment, la route le long de laquelle se dresse le sanctuaire, l'actuelle route provinciale Tiberina, doive en réalité être identifiée comme la via Campana en territoire falisque, mentionné par Vitruve, en relation avec une source mortelle pour les oiseaux et les petits reptiles. Le nom de la route s'explique, en effet, en relation à son point d'arrivée, le Campus Salinarum situé à l'embouchure du Tibre, où se trouvaient les salines. Dans la zone falisque, l'analyse de la documentation relative aux lieux de culte a mis en évidence une influence majeure de Véies par rapport à la zone capenate. Cela résulte particulièrement important dans un centre comme Narce, marqué, depuis le début de son histoire, par une nette influence de Véies, et dont le déclin coïncidera avec les années de la conquête de la ville étrusque. Pour nous limiter à la sphère du sacré, déjà à partir d'un premier examen du matériel retrouvé dans le sanctuaire suburbain de Monte Li Santi – Le Rote, dont on attend la publication intégrale, on a signalé, à partir du Vème siècle av. J.-C., époque à laquelle commence la fréquentation de l'aire sacrée, la présence de prototypes provenant de Véies, qui sont à l'origine d'une production locale de petites terre cuites figurées. A un modèle de Véies sont reconductibles les citernes à ciel ouvert, qui flanquaient l'édifice templier dans au moins deux des principaux sanctuaires de Falerii Veteres, celui de Vignale et celui de Scasato I, tous deux à identifier comme lieux de culte dédiés à Apollon. Plus difficile est par contre le rapprochement de celles-ci aux citernes fermées retrouvées proche d'une aire sacré urbaine, récemment identifiée dans la moderne rue Gramsci, dans la partie méridionale du plateau de Civita Castellana, tandis que c'est seulement grâce à une vieille note des archives de la Surintendance que nous savons de l'existence d'une citerne semblable retrouvée près de Corchiano au début du Vingtième siècle. Dans les cas mieux documentés de Vignale et de Scasato, de tels systèmes hydrauliques résultent contemporains à la phase la plus antique du sanctuaire, et correspondent à un schéma qui revient à Véies dans le sanctuaire d'Apollon au Portonaccio, proche du temple à oikos de la Piazza d'Armi, dans le sanctuaire de Menerva près de la Porta Caere, ainsi que dans le sanctuaire situé en localité Casale Pian Roseto. Il n'est pas facile de déterminer la valeur exacte à attribuer, selon les cas, à de telles citernes, mais l'emphase topographique qu'on leur accorde dans le cadre des sanctuaires ne semble pas permettre de pouvoir exclure une relation avec les pratiques rituelles. Pour le site de Falerii on a pensé à une relation avec le sanctuaire de Portonaccio, entre autre sur la base d'une correspondance des cultes centrée sur la figure d'Apollon, et la piscine a ainsi été expliquée en relation à des rituels de purification liés à un culte oraculaire. Après la défaite de Véies, Falerii dut faire face non seulement à Rome du point de vue militaire, mais elle dut aussi se montrer non inférieure par prestige et capacité d'autoreprésentation, étant l'autre grand centre de la basse vallée du Tibre. Cet aspect a été noté, en particulier, sur la base de la décoration des temples de la ville falisque, qui connaît vers la deuxième – troisième décennie du IVème siècle av. J.-C. un renouveau général dû à la naissance d'une importante école choroplastique, dont l'activité se reconnaît aussi dans le fragment isolé de relief d'argile représentant une Nike, provenant de Fabrica di Roma. Une autre réaction à la prise de Véies est attestée dans l'autre important centre falisque, celui de Narce, aussi grâce à la documentation fournie par le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote. Le lieu de culte continue à être fréquenté après la crise de la ville, comme le démontre une consistante contraction des nécropoles à partir du IVème siècle av. J.-C., mais dans la première moitié du IIIème siècle une ultérieure réduction du culte est prouvée dans de nombreux secteurs du sanctuaire, en parallèle à l'introduction de nouvelles catégories d'ex-voto, comme les ex-voto anatomiques, les nouveaux-nés enveloppés dans des bandes, les terre cuites représentant des animaux. Ces changements ont été mis en relation avec la victoire romaine sur les Falisques en 293 av. J.-C., alors qu'un deuxième moment de contraction du culte semble coïncider avec la définitive conquête romaine de 241 av. J.-C. Depuis le début du IIIème siècle av. J.-C., on assiste aussi dans les dépôts votifs de Falerii à l'introduction de nouveaux types d'ex-voto, dont on a parlé précédemment, et, comme pour le sanctuaire de Monte Li Santi – Le Rote, on enregistre la présence de pièces de monnaie romaines, qui commencent à constituer des offrandes. Une telle donnée devient encore plus éloquente lorsqu'on considère l'absence de monnaies locales dans les contextes préromains, qui semble trahir l'indifférence des populations falisques envers un tel type d'offrande. Il est donc évident aussi pour Falerii une influence du marché romain après les évènements belliqueux qui marquèrent la victoire de Spurius Carvilius sur les Falisques. La ville semble toutefois réussir à affronter la crise, au point de ne pas mettre en danger ses institutions, comme le démontrent les dédicaces falisques adressées à Mercure, dans le Sanctuaire dei Sassi Caduti, par les efiles, seuls magistrats attestés en ville. Par ailleurs, aussi avec la construction du nouveau centre de Falerii Novi, la documentation relative à la sphère religieuse prouve la conservation, au niveau public, de la langue et de la graphie falisque, par exemple dans la dédicace à Menerva effectuée par le préteur de la ville, pendant la deuxième moitié du IIIème siècle av. J.-C. (CIL XI 3081). Ce que nous savons sur les cultes de l'époque républicaine se limite au sanctuaire de Lucus Feroniae, où pratiquement tout le matériel et les sources épigraphiques peuvent être situés durant le IIIème siècle av. J.-C., et à deux dédicaces du IIIème siècle av. J.-C. La capitulation de Capena immédiatement après la chute de Véies (395 av. J.-C.) rend, à cette période, la présence romaine stable depuis environ déjà un siècle, et on ne se surprend donc pas du fait que les inscriptions sacrées utilisent un formulaire spécifiquement latin, avec même une présence plutôt précoce d'expressions qui deviendront courante au cours du IIème siècle av. J.-C. Un des premiers exemples attestés d'abréviations aux seules initiales de la formule de dédicace d(onum) d(edit) me(rito) se trouve dans CIL I, 2435, et provient de la nécropole capenate de Saliere. La plus antique documentation archéologique sur la vie religieuse de la zone prise en examen provient de Falerii Veteres. En ordre chronologique, la première divinité présente épigraphiquement est Apollon, dont le nom apparaît gravé en langue falisque sur un fragment de céramique attique remontant aux premières décennies du Vème siècle av. J.-C., qui provient du sanctuaire de Vignale. Il est intéressant de noter qu'il s'agit dans l'absolu de la plus antique attestation connue du nom latinisé du dieu, ce qui indique son assimilation précoce dans le pantheon falisque où, déjà à partir de cette époque, il faut reconnaître comme déjà effectuée l'identification entre Apollon et le dieu local Soranus. Le culte du dieu de Soratte, attesté épigraphiquement seulement à l'époque impériale, à travers deux dédicaces à Soranus Apollo, peut être situé de manière cohérente parmi les plus antiques manifestations religieuses du territoire falisco-capenate, et probablement le centre du culte du Mont Soratte devait servir de point de jonction entre les deux zones. Dans le territoire falisque la présence du dieu laisse des traces plus consistantes, à travers la duplication du culte d'Apollon à Falerii Veteres et une dédicace d'époque républicaine venant de Falerii Novi, tandis qu'elle semble s'affaiblir dans l'aire capenate, où on en trouve trace seulement dans deux dédicaces à Apollon, datant de la première époque impériale à Civitella S. Paolo, et dans un passage controversé de Strabon qui, apparemment par erreur, situe au Lucus Feroniae les cérémonies en l'honneur de Sorano, qui étaient au contraire célébrées sur le Mont Soratte. Cette information toutefois s'insère dans un système de correspondances cultuelles qui, associées à une déesse chtonienne, de la fertilité, et à un parèdre de type « apollinien », c'est-à-dire une divinité masculine, jeune, d'aspect infernal et mantique. Ce n'est pas un hasard, dans ce contexte, que le sanctuaire pour lequel est attestée une plus antique fréquentation à Falerii Veteres soit celui de Iuno Curitis, une divinité qui semble répondre au schéma de déesse matronale et guerrière (il s'agissait d'une Junon armée, mais aussi protectrice des matrones) pour laquelle, en outre, on a la preuve de l'association cultuelle avec un jeune dieu, de la même typologie que celle présente à Sorano. Même si on n'a pas d'attestations directes de l'existence de rapports entre Iuno Curitis et Sorano Apollo, il semble qu'il ne faille pas délaisser le fait que l'unique statuette d'Apollon jouant de la lyre, du IVème siècle av. J.-C., retrouvée à Falerii Veteres provienne justement du sanctuaire de la déesse; en outre lorsqu'elle fut évoquée à Rome après la prise de Falerii en 241 av. J.-C., en même temps que son temple situé in Campo, un autre temple fut construit, celui de Iuppiter Fulgur, une divinité du centre falisque pareillement évoquée, et pour laquelle on peut établir des parallèles avec Soranus, au travers de l'assimilation avec Veiove. Dans le territoire falisque comme dans celui capenate, les plus anciennes attestations cultuelles se réfèrent donc à un couple de divinités qui, tout en ayant des différences dans des aspects spécifiques du culte, semblent répondre à des exigences cultuelles plutôt homogènes. Durant l'époque impériale, enfin, le panorama des cultes de la zone considérée semble devenir plus homogène, en suivant par ailleurs une tendance générale. La manifestation plus évidente est formée, naturellement, par le culte impérial, présent très tôt en Etrurie méridionale. Le plus antique témoignage du culte impérial connu en Etrurie provient de Nepi, et il est constitué d'une dédicace en l'honneur d'Auguste de la part de quatre Magistri Augustales (CIL XI, 3200). L'inscription est datable à 12 av. J.-C., année de la fondation du collège de Nepi et de l'institution à Rome du culte du Genius d'Auguste ainsi que des Lares Augusti, vénérés dans les compita des vici de la ville. D'autres exemples d'une diffusion plutôt précoce du culte impérial viennent de Falerii Novi (CIL XI, 3083, datable entre 2 av. J.-C. et l'an 14 ; CIL XI, 3076, époque augustéenne); de Lucus Feroniae, où vers 31 av. J.-C. l'usage de la formule in honorem domus divinae (AE 1978, n. 295) est documenté pour la première fois. Le fait que la diffusion du culte impérial dans le territoire falisco-capenate ait commencé pratiquement dans les mêmes années qu'à Rome semble aussi lié aux rapports qu'eurent Auguste et la dynastie julio-claudienne avec ce territoire. Après Anzio les vétérans d'Octave obtinrent des terres en Etrurie méridionale, le long du cours du Tibre, et ce n'est pas un hasard si l'Augusteum de Lucus Feroniae, le seul en Etrurie méridionale connu outre que de manière épigraphique aussi grâce à ses vestiges, ait été érigé entre 14 et 20 apr. J.-C. par deux membres de la gens sénatoriale, filo-augustéenne, des Volusii Saturnini. Auguste lui-même et des membres de la dynastie participèrent directement à la vie civile des centres de la région: Auguste fut pater municipii à Falerii Novi, Tibère et Druse Majeur furent les patrons de la colonie à Lucus Feroniae, entre 11 et 9 av. J.-C. La présence, en outre, d'affranchis impériaux sur le territoire capenate, chargés de l'administration du patrimoine de l'empereur, fait penser à l'existence de fundi impériaux. La documentation d'époque impériale est formée d'une série d'inscriptions qui difficilement peuvent nous faire remonter à des lieux de cultes bien précis, et desquelles dans de nombreux cas, on déduit surtout une demande de santé et de fertilité à la divinité, comme il était fréquent à l'époque républicaine, entre le IV et le IIème siècle av- J.-C., qui s'exprime au moyen d'offrandes d'ex-voto anatomiques dans les sanctuaires. On connaît aussi quelques attestations de cultes orientaux (Mater Deum et Isis, parfois associées, provenant de Falerii Novi et de son territoire ; une dédicace à la Mater Deum de Nazzano, en territoire capenate), qui entrent dans le cadre d'une dévotion privée, sauf dans le cas du sacerdoce d'Isis à Mater Deum présent à Falerii Novi. ; The list of documentary sources concerning the religious life of the falisco-capenate area aim at findings the places of worship that can be identified with certainty. Whenever this has not been possible we have signalled the worship anyway. Through these documents we intend to reconstruct the history of the cults of the area examined, from its beginning to imperial age. The examined area, included in the Regio VII Etruria of the territorial organisation of Augustean Italy, is enclosed within the natural limits of the Bracciano lake and Vico lake at west, of the Tiber at east; the northern and southern limits are marked, respectively, by the Cimini mounts and Sabatini mounts. The sites considered are Lucus Feroniae, Capena, Falerii Veteres, Falerii Novi, Narce, Sutrium et Nepet. ; XIX Ciclo ; 1977
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Sulle tracce dell'urbanistica farnesiana ad Ales (Oristano), nuovo vescovado del primo Cinquecento
La circostanza di una fondazione urbana nuova, costituita dall'ampliamento o quasi dal raddoppio di un centro urbano esistente, emerge con chiarezza dall'osservazione della cartografia storica e della struttura catastale dell'abitato di Ales, in provincia di Oristano. In questo studio l'analisi storico-urbanistica ha indirizzato la successiva ricerca sul piano storico e documentario, fino a far emergere con chiarezza la effettiva differenza strutturale di due settori urbani e delinearne sia le matrici formali che gli ambiti di appartenenza culturale. A fronte di un nucleo urbano originario, i cui caratteri sono riferibili ad alcuni ambiti medievali regionali, la porzione urbana nuova appare improntata sui caratteri essenziali delle azioni urbanistiche denominate di tipo farnesiano. Esse sono oggetto di ricerca da anni: rilevate in ambito romano, estesamente rispetto allo Stato pontificio e alle aree di influenza della potente famiglia romana dei Farnese, in particolare nel XVI secolo, non sono state ancora studiate in aree esterne ai loro possessi. In questo studio emergono le connessioni storiche e politiche tra la famiglia sarda dei Carroç e il papato romano, le linee di progettazione di una strada nuova, con nuovi lotti ai lati e con un edificio disposto sul fondale prospettico, i riferimenti adottati per il rinnovamento dell'architettura e dell'urbanistica della sede del loro nuovo vescovado di Ales. ; On the Trail of Farnesian Urbanism in Ales (Oristano), a New Bishopric of the Early Sixteenth Century The circumstance of a new urban foundation, constituted by the extension or almost the doubling of an existing urban center, clearly emerges from the observation of the historical cartography and the cadastral zoning of the town of Ales, in the province of Oristano. In this study, the historical urban planning analysis led to a subsequent research on historical and documentary evidence, bringing out the details of the actual structural difference of two urban sectors and delineating their formal matrices and their areas of cultural belonging. Compared with the original urban nucleus, whose features are related to regional medieval contexts, the new urban area appears to be based on the essential features of the urban actions known as the Farnesian type. They have been studied for many years: found in Rome, extensively present in the Papal State and in the areas of influence of the powerful Farnese Roman family, particularly in the sixteenth century, they have not been found in areas outside their estates, until now. This study brings to light the historical and political connections between the Carroç Sardinian family and the Roman papacy, the design lines of a new street, with new lots on the sides and with a building on the perspective backdrop, and also the references adopted for the renovation of the architecture and urbanism of the headquarters of their new bishopric in Ales.
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Aquileia Mater: il mito delle origini nel dibattito culturale e politico del Litorale tra XVIII e XX secolo: un'interpretazione storiografica
2006/2007 ; AQUILEIA MATER: IL MITO DELLE ORIGINI NEL DIBATTITO CULTURALE E POLITICO DEL LITORALE TRA XVIII E XX SECOLO. UN'INTERPRETAZIONE STORIOGRAFICA di Marco Plesnicar. Ricerca condotta con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. Lo scopo del presente lavoro, strutturato nel lungo periodo, è quello di stimolare la riflessione intorno ad un "mito", ossia all'idealizzazione di una serie di eventi storicamente verificatisi che esprimono i valori di una società e ne determinano scelte e comportamenti. Ho scelto la tradizione del passato aquileiese perché sono stato attratto dalla curiosità di investigare se la sua presenza nell'ambito di una folta letteratura, corrispondesse o meno a questa definizione di "mito". I presupposti ci sono tutti: quella che ho denominato "imago aquileiensis" è fondata su un dato di fatto incontrovertibile: l'importanza, storicamente acclarata, dell'antica metropoli romana, divenuta, dal periodo costantiniano in avanti, centro d'irradiazione del cristianesimo di primaria importanza e sede titolare di un patriarcato sopravissuto per circa un millennio. Nonostante la scarsità delle fonti coeve, la memoria di Aquileia antica e paleocristiana si è rivelata quanto mai resistente al passare dei tempi, poiché ha continuato ad esistere nella rappresentazione che ne danno i contesti civili e culturali che ad essa si son richiamati, rielaborando ed interpretando frammenti del suo passato: rappresentazioni e rielaborazioni che in questo lavoro diventano a propria volta fonti. L'elaborazione dell'immagine polissemica e polimorfa di Aquileia ha potuto contare su di una bibliografia nutrita e pazientemente consolidata nel corso degli ultimi due secoli ad opera di valenti antiquari, bibliotecari e bibliografi. Ne ho seguito lo sviluppo nel tentativo di ricostruirne la progressiva affermazione, partendo dall'isolamento dei singoli elementi costitutivi del mito, di quei temi che riaffiorano di volta in volta assumento un significato ed una rilevanza notevoli e non sempre scontati: dalla grandezza della metropoli in età imperiale, alla sua decadenza apparentemente decisiva e, a tratti, "fatale"; dalla tradizione delle origini del cristianesimo aquileiese (la leggenda relativa alla fondazione di questa chiesa ad opera dell'Evangelista Marco), alla condensazione di tutti questi componenti nel momento in cui si affermano i nazionalismi, quanto mai sensibili ad un recupero funzionale del passato. Il primo capitolo (1.2 La culla del mito: Aquileia e la sua regione: brevi cenni di storia aquileiese; 1.2.1 Dalla colonia romana al centro d'irradiazione del Cristianesimo nella Venezia e nel Norico; 1.2.2 Aquileia patriarcale: la millenaria esperienza del "limes"; 1.2.3 Tra modernità e contemporaneità: il ruolo di Aquileia sull'incrocio del "confine mobile") serve a fornire un'agile introduzione storico-storiografica della parabola aquileiese, ab origine sino all'indomani della prima guerra mondiale, offrendo così un termine di paragone che aiuta il lettore a cogliere con maggior chiarezza i punti di contatto e di divergenza che caratterizzano le interpretazioni affiorate nel corso dell'indagine. Con il capitolo secondo ("Tra storia e tradizione" suddiviso nei seguenti paragrafi: 2.1 La distruzione e la lunga decadenza. L'altra faccia del mito; 2.2 La leggenda attiliana e l'origine della decadenza; 2.3 Il mito entra nella storia: al servizio del potere) il lavoro entra in medias res: ho proposto quella che definirei quasi una "radiografia" del mito, tanto nell'accezione che si ispira all'antichità romana, quanto allo sviluppo delle tradizioni relative ai primordi del cristianesimo nella Venezia e nel Norico, traendo spunto dagli esiti delle ultime ricerche condotte sull'argomento. Mi sono soffermato, in particolare, sui richiami costanti al tema della "distruzione" e della "rinascita" della fortuna di Aquileia, concentrandomi sull'immagine di Attila e sull'interpretazione letteraria sette/ottocentesca in ambito regionale della leggenda attiliana, strettamente connessa ad Aquileia ed al suo ruolo di "antemurale Italiae". Nel terzo capitolo Capitolo: Le radici del Mito, strutturato nei paragrafi 3.1. La visione aquileiese: identificazione dei caratteri costitutivi. 3.2. Traditio aquileiensis. Evoluzione del dibattito settecentesco; 3.3: Il mito fondante si delinea: il secolo XIX, proseguo coll'approfondimento di quanto anticipato precedentemente: tento di ricomporre lo sviluppo del dibattito settecentesco, sorto tra eruditi italiani tra Venezia e l'impero – ma non solo – intorno alle origini fondanti del cristianesimo aquileiese, in cui si fa strada una prima avanguardia della critica che agl'inizi del 1900, con Pio Paschini, raggiunge il suo acme, con lo smentire definitivamente la storicità della leggenda marciana. Il quarto capitolo Capitolo 4. "Dalla storiografia alla storia": il mito prende forma: 4.1. L'operazione culturale legata al recupero archeologico; 4.2 Gli scavi ed il Museo archeologico; 4.3 La Basilica, costituisce il discrimen del lavoro: dall'astrazione del dibattito tra intellettuali si passa all'attuazione di piani e strategie concrete tesi a riaffermare una nuova "rinascita" del glorioso passato aquiliese mediante la riqualificazione, la conservazione e la promozione del patrimonio archeologico ivi custodito, sia esso relativo all'antichità imperiale, sia alla più grande e significativa reliquia della cristianità: la basilica popponiana. È un ambito particolarmente interessante, in quanto permette di constatare l'impegno sostenuto da parte dell'autorità politica ed ecclesiastica del tempo a favore di una politica culturale che trae fondamento dal mito aquileiese e, contestualmente, lo alimenta, assecondandolo alle proprie linee d'azione. Nel quinto capitolo 5.1 "Aquileia nostra": la nascita della "terza Aquileia", ho voluto evidenziare le modalità dell'utilizzo strumentale del mito aquileiese prima, durante e dopo la guerra, nel momento il cui la parola passa alle armi e si comprende una volta di più che anche il frutto della riflessione scientifica può diventare uno slogan utile a rafforzare e costruire le ideologie. Aquileia diviene un luogo particolarmente adatto ad ospitare le grandi adunate popolari promosse dagli schieramenti che si fronteggiano sul piano politico degli anni Dieci del Novecento; il suo significato propagandistico esplode durante il primo conflitto mondiale, per essere infine sublimato nell'immediato dopoguerra, alla vigilia dell'avvento della dittatura fascista, in cui Aquileia finisce per divenire una pallida emanazione della "prima Roma". Il sesto capitolo, dedicato alla Liturgia ed in particolare alla parte dedicata al culto dei santi, ho voluto proporre l'accostamento dei testi delle lezioni che compongono gli uffici divini delle diocesi eredi del patriarcato aquileiese, Gorizia ed Udine, a partire dal Settecento sino agli inizi del Novecento. Mentre l'arcidiocesi di Udine gode di un'uniformità linguistica riconducibile all'area italiana, la sede metropolitana di Gorizia, al di là della tradizione liturgica patriarchina, ha ereditato la complessità che costituisce il tratto distintivo di quest'area, popolata da genti di ceppo friulano, sloveno e germanico. L'individuazione del richiamo a determinate figure di santi e martiri aquileiesi può rivelare la sensibilità di una Chiesa particolare nei confronti delle figure esemplari che hanno costituito il vanto e l'origine dell'esperienza cristiana delle proprie terre; tale richiamo conosce il suo punto di massima espansione nella metà dell'Ottocento, in modo abbastanza equilibrato anche se autonomo, tra le due sedi diocesane, per conoscere un significativo ridimensionamento a partire dal pontificato di Pio X, autore di una importante riforma del Breviario romano, ad opera della quale i calendari particolari delle diocesi subiscono un primo ridimensionamento a vantaggio delle feste comuni all'intera cattolicità. ; XIX Ciclo
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Periferie gangsterismo e bande giovanili. Marginalità e forme di resistenza urbane in uno studio comparativo (Italia-Etiopia)
La tesi, frutto del mio percorso dottorale triennale, è di ispirazione comparativa ed è stata condotta sia in Italia che su un campo extraeuropeo, in Etiopia. Il lavoro è strutturato in tre vaste sezioni. La prima è dedicata alla storia degli studi sulle tematiche della marginalità, alla decostruzione dei concetti di banda giovanile e di devianza, alla deriva securitaria in contesti mondiali di ispirazione neoliberista, alla dialettica centro-periferia; in questa prima parte vengono anche discusse le categorie di governamentalità, soggettivazione e resistenza, partendo da prospettive foucaultiane e alla luce di importanti studi antropologici (Bourdieu, Wacquant), ma tendendo conto anche della multidimensionalità del concetto di violenza nelle sue connessioni con lo Stato, inteso come un campo complesso, attraversato da forze e da pratiche discorsive. La seconda parte della tesi è dedicata al terreno di ricerca nella periferia romana: un quartiere 'occupato' (o di emergenza abitativa), restituito al lettore con il nome fittizio (per tutelare la riservatezza degli informatori) di Marozia, nome preso in prestito dalla penna di Italo Calvino. Attraverso una scrittura autoriflessiva, in questa sezione di etnografia 'domestica', emerge la creazione di una rete di informatori quale processo estremamente delicato e complesso, specialmente considerando la peculiarità del campo di indagine: un'area in cui l'assenza di servizi e di luoghi della socializzazione ha prodotto una totale diffidenza nei confronti di chi – dall'esterno – si avvicina per cercare di penetrare storie o realtà vissute. La ricerca sul campo nella periferia romana è orientata all'individuazione di zone 'critiche', in termini di disagio giovanile e sociale, concentrandosi su un gruppo di ragazzi e giovani adulti, balzati agli onori delle cronache cittadine (e nazionali) come gang. In questa sezione viene mostrato in che modo il settore dell'economia dell'illecito sia un microcosmo variegato nel quartiere oggetto delle mie indagini, laddove la piccola banda giovanile, da me frequentata, ne occupa solo una limitata porzione: il rifornimento e lo spaccio di sostanze stupefacenti 'leggere'. Risulta, dunque, fondamentale il racconto e la ricostruzione delle trasformazioni che negli anni hanno investito Marozia, dovute al susseguirsi di occupazioni a scopo abitativo, spontanee o più meno guidate, ma anche a operazioni di riallocazione e fusioni degli spazi, concesse dalle autorità comunali, ma non controllate dalle stesse. Attraverso un'etnografia delle zone grigie, cerco qui di far emergere come nel contesto di indagine la distinzione tra giusto e sbagliato, tra legale e illegale, tra inclusione ed esclusione, sia una costruzione sociale protratta nel tempo, che si fa discorso comunitario in una specifica economia morale. L'epilogo di questa etnografia "a casa" è l'analisi della pratica della "retta", cioè del 'basismo' nel locale mercato degli stupefacenti: emerge come l'uso sociale di questa pratica metta in condizione i giovani del gruppo di valicare differenze generazionali e stabilire rapporti di forza inediti con adulti o abitanti 'altri' di Marozia, ma anche di resistere a processi di invecchiamento sociale o di 'adultizzazione forzata'. La terza sezione della tesi parte dall'analisi del contesto urbano di Mekelle, seguita ad anni di ricerca sul terreno extraeuropeo (sin dal 2014), quale membro della Missione Etnologica Italiana in Tigray - Etiopia (MEITE). Partendo da specifiche e locali descrizioni di marginalità giovanile («gangsters»; «vagabondi pericolosi», «giovani disoccupati»), cerco di mostrare come esse siano divenute nelle retoriche dell'EPRDF – coalizione di governo dominante in Etiopia dal 1991 – categorie "utili" a negare qualunque genesi di dissenso ad una "democrazia difettosa", o meglio ad un "regime ibrido". Seguendo una banda di giovani ladri di strada, provenienti da un'area storicamente marginalizzata ed ora periferia schiacciata da un violento processo di urbanizzazione ed inurbamento, in questa sezione ho scelto di indagare le strategie alternative di sussistenza dei miei giovani interlocutori. Una retorica emica, che si concentra (generazionalmente) sulla profonda sofferenza nell'ottenimento di un lavoro stabile, si intreccia con il sentimento di sikfta – incorporazione del giudizio negativo altrui – ma anche con declinazioni maschili e 'tradizionali' dei concetti di prestigio, onore e forza virili, riassunti nel locale neologismo hayalnet. Dinanzi alla condizione di eterna attesa sociale, a cui sembrano essere condannati i giovani attori sociali mekellesi, le pratiche dell'illecito, operate dai membri della gang del quartiere di Da Gabriel, si configurano come resilienza ad una condizione limbica che l'antropologa Alcinda Honwana definisce waithood: una sospensione tra l'infanzia e l'età adulta che può produrre nuove inedite forme di agentività. Investigando il dialogo tra generazioni, nella tesi documento e ricostruisco un processo di riconciliazione (erqi) tradizionale tra la società tutta e due bande giovanili, rivali sul territorio urbano; ciò è stato possibile grazie all'accesso agli audiovisivi della Tigray Television e alla frequentazione (negli anni) sia dei giovani gangster che delle istituzioni coinvolte. Il problema degli scontri tra bande giovanili a Mekelle si coniuga con l'analisi centro- periferia e si intreccia alla questione degli immaginari globali di benessere e delle aspirazioni bloccate di intere generazione di giovani nelle città africane; attraverso le esperienze di alcuni informatori, il "gangsterismo" (categoria 'governativa') ed anche la migrazione emergono come modi limite di negoziare il supporto degli anziani, altrimenti impassibili dinanzi alle richieste di mobilità sociale, ma anche come resistenza a strutturali forme di marginalità post-coloniale. Nel lavoro trovano spazio le etnografie carcerarie: il carcere, nel contesto tigrino, è specchio delle politiche di sviluppo che si svolgono al suo esterno, laddove esse – anche quando vedono coinvolti cooperanti e ONG – sono metodicamente cooptate nelle locali strategie di governo e controllo capillare della società. Oltre a contribuire alla riconfigurazione di una società punitiva (Foucault), tali politiche – una delle quali vede il tentativo di riconversione delle gang urbane in cooperative paragovernative di 'docili' lavoratori dequalificati – portano a compimento l'ideologia della 'mercatizzazione' della povertà, "estraendo valore dagli ultimi" (Sassen) e contribuendo all'"accumulazione per spossessamento" (Harvey) da parte dello Stato, incarnato in una precisa élite di governo e dal suo "sogno politico" di controllo, per mezzo di una ambigua inserzione nell'economia mondo (Fantini), sostenuta dalle retoriche della "democrazia rivoluzionaria" (Bach e Lefort) e del "capitalismo sviluppista" (Vaughan).
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Sex Zoned! Geografie del sex work e corpi resistenti al governo dello spazio pubblico
La tesi si interessa alla dimensione spaziale della prostituzione di strada, prendendo le mosse da tre motivazioni principali: il fatto che la presenza del sex work ci interroga sulla dimensione di genere dello spazio urbano; il fatto che la rimozione dei corpi delle sex workers dalle strade delle città italiane ci interpella sulla concezione e sul governo dello spazio pubblico nella sua interezza e sulla cultura civica urbana attuale che esso esprime; il fatto che le sex workers che esercitano in strada sono spesso testimonianza di una marginalità che nasce nella dimensione economica e sociale, ma può essere contrastata o amplificata nella dimensione spaziale. Chi si occupa di pensare lo spazio, dunque, ha il dovere di interrogarsi sul ruolo fondamentale che esso può avere nelle traiettorie di emancipazione, affermazione o marginalizzazione di chi lo vive. Il primo capitolo problematizza le pratiche di gestione e rimozione della prostituzione di strada come forme di governo spaziale. La ricognizione di studi portati avanti sul tema, in particolar modo nell'ambito anglosassone della geografia critica, e l'analisi delle politiche europee e italiane in materia hanno evidenziato come tale politiche sembrino essere riconducibili a due paradigmi di governo principali, quello del contenimento e quello dell'esclusione. Entrambi i paradigmi ottengono la rimozione dei corpi indesiderati e inopportuni dalla vista di un certo tipo di cittadinanza, ma attraverso due azioni nettamente diverse: la prima legittima, la seconda vieta. Il caso italiano, inoltre, ha poi evidenziato come l'esclusione spaziale si espliciti in particolar modo nelle politiche legate alla retorica del decoro e nell'uso delle ordinanze sindacali come strumento di governo del territorio. Sempre rispetto al caso italiano, la tesi problematizza la costruzione del discorso predominante sulla prostituzione (alimentato da una parte della letteratura prodotta sull'argomento) per il suo effetto di negazione delle sex workers in quanto soggetti di diritto. In estrema sintesi, il mancato riconoscimento di una loro agency sembra essere strumentale alla legittimazione di due diversi livelli di politiche: le strategie messe in atto per la difesa dei confini nazionali dalle migrazioni indesiderate e quelle per un'epurazione dello spazio pubblico in nome del decoro di cui sopra. Attraverso una riflessione sulle resistenze, sui concetti di strategie e tattiche e sulle tecniche di produzione spaziale messe in atto dalle sex workers, emerge la necessità di una nuova lettura, interpretazione e rappresentazione delle loro geografie. Il secondo capitolo esplora l'intersezione tra diversità, sicurezza e femminismi, ma partendo dalla convinzione che alla "diversità" siano ascrivibili anche quelle soggettività o quelle pratiche che consideriamo inquietanti, disturbanti, perturbanti (nonostante siano legali, come il sex work). La questione del rapporto tra progettazione e diversità è significativamente sviluppata dai contributi degli studi di genere e queer alla critica a una pianificazione "classica", focalizzata su un utente della città teoricamente neutro, ma evidentemente connotato dal punto di vista di genere, razza e reddito: contributi sia in termini di individuazione dei caratteri normativi ed escludenti della disciplina della pianificazione, ma anche di suggerimenti di possibili passi nella direzione di una città che accolga la diversità di corpi e usi dello spazio come base della convivenza urbana. La tesi segnala come i tentativi più istituzionali di governo dello spazio pubblico con un'attenzione al genere si muovano su un terreno insidioso, concentrandosi sempre più spesso sul legame tra femminile e sicurezza, e correndo il rischio di formulare politiche ulteriormente escludenti nei confronti di comportamenti considerati extra-normativi (e dunque non considerati meritevoli di sicurezza). La conseguenza indiretta di tali politiche sembra essere l'autodisciplinamento di alcune soggettività: invece di elaborare una città a misura di donne, si suggerisce alle donne come diventare a misura di città. Una via per esorcizzare tali pericoli sembra essere quella di confrontarsi con i contributi elaborati dai movimenti transfemministi queer italiani. La riflessione formulata da molti segmenti di tali movimenti, che evidenzia il carattere dello spazio pubblico come palcoscenico di conflitti aventi come posta in gioco l'appropriazione simbolica e l'uso dello spazio stesso, ha lucidamente intuito la pericolosa deriva delle strategie di governo urbano che si stanno tacitamente imponendo in Italia. Il terzo capitolo si concentra su un'analisi del cosiddetto Daspo urbano, il nuovo strumento di gestione della sicurezza urbana proposto dal noto Decreto Minniti, e della concezione di spazio pubblico che esso sottende. Il tipo di misure e sanzioni e di luoghi in cui possono essere applicate sembra essere volto all'epurazione dagli spazi dei flussi urbani dei soggetti che, pur non avendo commesso reati, sono da considerarsi scomodi per la loro stessa presenza. Un'analisi a mezzo stampa ha permesso di evidenziare come il Decreto stia venendo recepito dalle amministrazioni dei comuni italiani e ha confermato come esso si stia rivelando uno strumento estremamente efficace: per un lato, il suo meccanismo di funzionamento non lascia segni evidenti, se non l'assenza del corpo che ha permesso di rimuovere; per l'altro, la sua estrema versatilità permette di ridefinire continuamente i confini delle aree in cui è applicabile, o i segmenti di popolazione che può colpire. Questa parte del lavoro si chiude con una riflessione sullo spazio pubblico, descrivendo la declinazione che esso sta assumendo nella contemporaneità: nettato e iperfunzionalizzato per una valorizzazione ottimale, in una città epurata progressivamente dei suoi luoghi per qualsiasi uso non basato sul consumo. Come è stato poi confermato dal lavoro di campo, sono spesso invece gli spazi non "imbrigliati", non normati, a rivelarsi luoghi di libertà per le pratiche che sfidano alcune relazioni di potere istituzionalizzate nella società, la cui rimozione ci impedisce di coglierne contraddizioni e ingiustizie. La ricerca si è proposta di strutturare una riflessione sul ruolo dello spazio e della sua gestione in un fenomeno complesso come quello del sex work di strada. Per far ciò ha interpellato, direttamente o indirettamente, alcune delle diverse soggettività coinvolte dal fenomeno, (clienti, sex workers, residenti) provando a far emergere la dimensione spaziale delle loro testimonianze. Il lavoro di campo vede un'analisi dell'articolazione degli spazi (pubblici) del sex work nella città di Roma, cercando di delineare le caratteristiche di tali spazi, e come questi si generino nei luoghi all'intersezione fra discrezione e visibilità, fra isolamento e flussi di passaggio costante, ma anche come le geografie del sex work si distribuiscano per nazionalità e connotati socio-economici del quartiere. Tale analisi è integrata dal sistematico monitoraggio dei materiali di un forum, lo spazio in cui i clienti si scambiano le informazioni relative alla localizzazione delle sex workers. Lo spazio virtuale ha permesso un'osservazione di come la categoria dei clienti, alla quale mi era altrimenti impossibile un accesso diretto, vivesse la dimensione spaziale del fenomeno prostitutivo, e mi ha permesso di aprire un'inaspettata finestra sull'autorappresentazione degli utenti e sulla loro elaborazione collettiva di alcune tematiche. La ricerca ha poi tentato di restituire parzialmente, la storia di vita di una sex worker trans, Paulette, realizzata con un confronto dialogico approfondito. Paulette si rivela a-topos, fuori luogo, una spostata, e vive questa condizione di incongruenza per ben tre motivi contemporaneamente: per la sua condizione di migrante, per la sua occupazione come sex worker, e per il suo essere transgender. Il racconto della sua vita si è strutturato rispetto ai luoghi abitati nel tempo, e comincia ad affrontare il tema della convivenza, approfondendo quali relazioni è riuscita a tessere con chi le stava intorno e come "la città" si è relazionata con la sua presenza. L'individuazione delle difficoltà del suo "percorso urbano" evidenzia inoltre chi e come ha contribuito a rendere la sua vita più difficile, esposta e precaria e il ruolo rivestito dal governo dello spazio in questo senso. La storia di Paulette ha messo in luce le sue geografie negli spazi pubblici romani, tra gli abusi delle forze dell'ordine e la tessitura di relazioni con i vicini del quartiere. Il suo racconto ha permesso di confermare come le politiche di gestione del sex work nello spazio pubblico non abbiano alcun effetto permanente sulla sua rimozione, ma solo sulla sua dislocazione temporanea, e come invece contribuiscano a rompere le eventuali relazioni stabilite con il quartiere: a impedire, insomma, di abitare liberamente nella città d'elezione. Il capitolo seguente affronta un focus particolare sull'area di piazzale Pino Pascali e Casale Rosso, nella zona di Tor Sapienza, dove il disagio provocato dalla presenza di un'importante quantità di sex workers ha spinto il comitato di quartiere locale a promuovere un tavolo per affrontare la questione e formulare una proposta di zoning. La vicenda permette di toccare il tema ben più ampio della contesa dello spazio pubblico e della legittimità dei diversi attori urbani nell'esigerne il controllo. Evidenzia il ruolo dei comitati di quartiere e le nuove forme di corpi intermedi, che possono rivelarsi un potente veicolo e amplificatore di paure collettive e comportamenti discriminatori. Il processo che ha portato alla proposta di zoning, basato su metodi di mediazione del conflitto, suggerisce invece il ruolo di cui l'amministrazione pubblica si dovrebbe far carico: il riconoscimento delle risorse territoriali rappresentate dai comitati di quartiere per un verso, ma anche l'innesco di percorsi collettivi di elaborazione di senso dei processi di trasformazione in atto sul territorio, promuovendo forme di dialogo e mediazione tra i diversi attori in campo. La proposta di zoning, tuttavia, presenta ancora dei forti limiti: il luogo individuato è decisamente isolato, aspetto che confinerebbe le sex workers nell'invisibilità. Inoltre, il processo decisionale messo in atto per formulare la proposta non abbia coinvolto le dirette interessate, delegittimandole nuovamente nell'essere riconosciute come soggetti portatori di istanze e di diritti. L'ultimo caso, riguardante la cosiddetta favela del Quarticciolo, ha approfondito la situazione abitativa di un gruppo di sex workers trans che hanno trovato riparo in una soluzione decisamente precaria, quella dei due edifici occupati nella storica borgata romana. La messa a fuoco della favela consente di descrivere i motivi per cui si arriva ad abitarla, perlopiù legati all'assenza di politiche abitative, ma permette allo stesso tempo di riconoscere le pratiche di sopravvivenza e le tattiche di resistenza messe in campo dalle e dagli abitanti: l'ecosistema della favela riesce a elaborare strumenti non solo per la sussistenza di base, ma anche per la mediazione dei conflitti, producendo relazioni inedite e in continua trasformazione. In questo senso, se osservata come laboratorio di convivenza urbana, consente di osservare i conflitti e le mediazioni attuate spontaneamente tra chi esercita il sex work e gli altri residenti. Pur ammettendo che tale conciliazione è resa possibile dalla condizione di illegalità che accomuna tutti gli occupanti, tale contesto sollecita una riflessione sul privilegio di essere legittimati nell'uso dello spazio urbano: nel momento in cui è impossibile stabilire chi ha diritto o meno di usare gli spazi della città, coloro che la abitano innescano dinamiche di negoziazione diretta che hanno come obiettivo il raggiungimento della coesistenza. La comprensione di tali tattiche non deve però distogliere l'attenzione dall'individuazione di alcune precise responsabilità: parte del degrado del Quarticciolo è generato dalla precarietà in cui vengono situati molti dei suoi abitanti, a causa di un deliberato disinteresse da parte degli attori istituzionali. I casi tratteggiati rappresentano piccole finestre sulla totalità delle dimensioni spaziali che il fenomeno prostitutivo assume a Roma, l'apertura di queste spaccature vorrebbe complessificare l'approccio con cui si governa il sex work, anche perché l'ambiguità della città e del suo governo è particolarmente evidente in questo campo. Le politiche di gestione del sex work sono spesso strumentali all'attivazione, all'assecondamento, all'accelerazione o all'arresto di determinate trasformazioni urbane. Le lavoratrici del sesso, in questo senso, appaiono come utili pedine su un immaginario tabellone di gioco: utili, perché al contrario di homeless o mendicanti (e analogamente agli spacciatori) forniscono un servizio di cui i cittadini per bene fanno largo uso; pedine, perché considerate corpi muti da spostare secondo le circostanze del momento. I diversi casi studio cercano di dimostrare, invece, come intorno al fenomeno si generino e tessano relazioni che intrecciano soggetti e spazi, contribuendo così alla costruzione del territorio urbano: assumendo che al di fuori dello spettro della legge, sono le relazioni a costruire la città in cui viviamo, nonché a definire cosa è o meno accettabile o legittimo. Per quanto la città tenti di allontanare e confinare le presenze che percepisce come perturbanti, tale confinamento genera la tessitura di una notevole quantità di relazioni: riconoscerle può supportare la legittimazione delle sex workers come membri attivi della comunità urbana in cui risiedono, e che in quanto tali sono da considerarsi soggetti di diritto. Questo lavoro sceglie di affrontare l'inquadramento spaziale del problema, partendo dalla convinzione che il governo del sex work su strada apra questioni che riguardano il disagio che emerge nel rapporto con un'alterità e la sua pratica, e che dunque uno dei suoi possibili inquadramenti sia l'essere un problema di convivenza. Un problema che non va sottovalutato, perché rimette in discussione le categorie con le quali ordiniamo l'esistente, e nella sua complessità esplode in quelle che sono invece questioni di ripensamento dell'accezione universalistica di spazio pubblico, ma anche di definizione di diritti e di cittadinanza.
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LE SCALE IN MURATURA NELL'EDILIZIA DEL CENTRO ANTICO DI NAPOLI. LETTURA TIPOLOGICA, TECNOLOGICA, MATERICA E STATO DI CONSERVAZIONE
L'attività di ricerca si intitola "Le scale in muratura nel Centro Antico di Napoli: Lettura tipologica, tecnologica, materica e stato di conservazione." Le scale in muratura sono tra le più interessanti espressioni dell'arte del costruire, nelle quali funzione architettonica e funzione strutturale si fondono in un mirabile connubio dal quale scaturisce una varietà di tipologie tale da richiedere un approccio, per la loro conoscenza, che si discosta dalle tradizionali classificazioni. Il presente studio prende le mosse da queste considerazioni e intende fornire gli elementi per una corretta lettura e classificazione tipologica delle scale in muratura, limitando il proprio campo d'indagine ad un tessuto urbano ricco di testimonianze in tal senso: il Centro Antico di Napoli. Nel tessuto antico di questa città le notevoli capacità espressive della muratura e la perizia tecnica delle maestranze di un tempo, hanno dato vita ad un vasto campionario di scale in muratura, che certamente costituiscono una provocazione per l'architettura moderna del cemento armato, tuttora ancorata al ridotto numero dei rigidi schemi tipologici tradizionali. Purtroppo queste pregevoli strutture del passato sono spesso minacciate da gravi condizioni di degrado, che ne compromettono finanche la stabilità, richiedendo spesso interventi d'urgenza che finiscono col non tenere conto della straordinaria complessità di questi elementi di fabbrica. D'altra parte i rimedi proposti dai manuali di recupero e dai testi di consolidamento, essendo limitati a pochissime tipologie (scala con setto centrale e scala a pozzo libero), risultano del tutto generici. La scelta dell'ambito di studio non è stata dettata soltanto dalla necessità di limitare il proprio campo d'indagine, bensì dall'esigenza di individuare uno specifico territorio omogeneo per caratteristiche fisiche. Il Centro Antico di Napoli risulta essere il prodotto di una secolare stratificazione urbanistica avvenuta a partire dalla fondazione della città, all'incirca nel IV sec. a. C. , periodo del quale conserva ancora l'originario impianto ippodameo oltre che testimonianze della cinta muraria, che a partire dall'intervento Aragonese (XV sec. d.C.), risultano determinanti per l'attuale conformazione urbanistica del centro. Le esigenze di difesa, infatti, portano ai divieti aragonesi di edificare fuori le mura: Il Centro Antico cresce su se stesso. I confini della città greco romana sono stati individuati da Roberto Pane in: via Foria a nord; via S. Giovanni a Carbonara ad est; corso Umberto I a sud; via Monteoliveto e via Pessina ad ovest. La storia del palazzo napoletano, inizia in epoca Aragonese e le tappe successive sono scandite dal susseguirsi delle dinastie rivelando una impressionante solidarietà tra il mondo politico e la realtà costruita: Il palazzo diventa il segno tangibile della personalità di ogni nuova dinastia. Le tappe riconoscibili negli stili architettonici sono quella Aragonese, di influenza catalana, quella Rinascimentale, di influenza Fiorentina, quella Barocca, e infine quella Neoclassica, sotto il Regno dei Borboni. Cresciuta su se stessa, la Città ha offerto un'immagine sempre più complessa ed articolata conservando però l'impianto distributivo del sistema viario originario. Calata all'interno della angusta trama di cardi e decumani romani, originariamente di impianto ippodameo nell'antica Grecia con strade principali (plateiai) e strade secondarie (stenopoi), il blocco regolare del palazzo fiorentino, vede negata, dalla limitata ampiezza delle strade, la percezione frontale dell'armonica scansione di vuoti e pieni che lo caratterizza e, ritenendola ormai un superfluo attributo, concentra la ricerca formale in un unico elemento: il portale. Per catturare l'attenzione dello spettatore, i progettisti si dedicarono a ciò che rientrava nel cono ottico del passante privilegiando sia il portale sia quelle inaspettate spazialità da esso suggerite. Queste si riferiscono al cortile e soprattutto alla scala che diventa, in questo modo, una seconda e più importante facciata dell'edificio, anche se arretrata rispetto alla strada. La ricerca è stata sviluppata in quattro fasi. Nella prima fase della ricerca, compilata una bibliografia specifica, è stato sviluppato il tema della conoscenza delle scale di antico impianto del Centro Antico di Napoli. Nella seconda fase è stato definito un metodo di classificazione delle tipologie costruttive delle scale, per le quali sono stati definiti criteri e strumenti. In questa fase è stata messa a punto una scheda di lettura e di classificazione tipologica del sistema strutturale per l'area di studio divisa in macro settori di riferimento. Nella terza fase si è proceduto al rilievo e successivamente alla catalogazione. Con il presente studio si intende proporre uno strumento operativo a servizio del progettista dell'intervento di recupero delle scale in muratura nel Centro Antico di Napoli. Questi, infatti, individuata la tipologia strutturale, per ciascuna di esse potrà desumere i dissesti presumibili in relazione alle caratteristiche dei quadri fessurativi riscontrati. Il progettista potrà altresì scegliere le operazioni di restauro e consolidamento nel rispetto delle caratteristiche semantiche, materiche e tecnologiche originarie, desumibili dalla catalogazione proposta.
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Dal Sud. Percorsi e mete di viaggio di Ernesto Basile (1876-1900)
Come, dunque, studiare Ernesto Basile oggi e quale ambito della sua copiosa produzione analizzare? Alla luce dello stato degli studi odierni si potrebbe ritenere che possa essere stato detto tutto. Tuttavia, ci sono diversi ambiti che si offrono a ulteriori indagini, a nuove letture e ricerche. Tra questi, vi è quello dei viaggi, non irrilevante, per diverse ragioni. Una prima motivazione, che vale per Ernesto Basile così come per altri architetti, è quella più interna ed è strettamente legata alla natura stessa dell'architettura e dei luoghi, alla formazione continua dell'architetto e al ruolo che hanno i viaggi nel processo di costruzione o assimilazione del patrimonio di immagini e dei portati teorici. Solo entrando dentro gli spazi, girandoci attorno, osservando il mutare delle ombre col variare della luce, cogliendo il colore dei materiali e dei contesti, osservando la gente muoversi e "modificare lo spazio", si può fare un'esperienza attiva, formativa, sincera e diretta, riducendo i filtri posti tra il fruitore e l'opera architettonica. In questo senso e per l'arco cronologico di cui questa tesi di dottorato si occupa, è esplicativo e fa da guida lo studio di Fabio Mangone sugli architetti nordici in Italia dal 1850 al 1925. Mangone li definisce «viaggiatori specialistici» e mette in evidenza nuove tendenze rispetto all'immaginario e alla pratica più ampia e antica del classico Grand Tour, già documentato da numerosissimi esempi di letteratura odeporica e studi odeporici. Un'altra, non meno importante e di carattere metodologico, è quella legata ai concetti di transfers culturel, cultural exchanges e histoire croisée, introdotti negli Anni Ottanta da Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, applicabili a diversi ambiti dello studio storico, e in particolar modo agli studi sui viaggi degli architetti. Possiamo riassumere cosa si intende per transfert culturel, cultural exchanges e histoire croisée, attraverso le parole di Michael North che, in un suo saggio sulla storia economica, ne fa un'analisi comparativa: «Cultural exchange and cultural transfers have become an independent field of research in the last 20 years. This began in the 1980s, when Michel Espagne and Michael Werner coined the term "transfers culturels" to refer to the transfer of elements of a "French National Culture" to Germany and its reception there during the eighteen and nineteen centuries. Espagne, Werner and their followers focussed on national cultures in order to avoid some of the shortcomings of comparative history by contextualizing questions of transfer, reception, and acculturation». Sulla scia delle sollecitazioni avviate anche dai contributi di Michel Espagne, Michael Werner e Benedicte Zimmermann, le riflessioni attuali nell'ambito storiografico vertono sempre più sul rapporto fra la realtà delle vicende nazionali o regionali e quelle più ampie e di carattere internazionale o generale, quindi su cosa è al centro e cosa è periferico. Questo tipo di analisi può essere usato come filtro di indagine per rispondere ad alcune questioni fondamentali nel caso Basile, cioè per sapere quanto, in cosa e in che modo il suo modernismo è debitore a realtà "extraterritoriali" e quanto, in cosa e in che modo, al contrario, il "fenomeno Basile" sia invece il frutto di particolari condizioni ambientali locali, portatrici di istanze identitarie fondamentali, attraverso lo studio dei suoi viaggi. Un'ulteriore lente di ingrandimento con cui potere osservare aspetti specifici all'interno del più ampio fenomeno dei viaggi specialistici e dei contatti internazionali è quello dei legami con gli espatriati, in forma privata, come nel caso della corrispondenza ad esempio, o in via ufficiale nella partecipazione a concorsi internazionali con il ruolo di giurato, come accade a Ernesto Basile. Se non è difficile sapere, attraverso le letture consultate da Basile, di quale patrimonio di immagini egli disponesse, al contrario, pur sapendo che ha viaggiato, andando in luoghi che potremmo chiamare "strategici" per le vicende architettoniche europee a lui contemporanee, nelle quali - è opportuno dire - si trovava dentro, non è stato, ad oggi, documentato in modo sistematico quali architetture e spazi egli abbia effettivamente visitato e chi abbia incontrato nelle sue mete. Lo studio dell'archivio di Ernesto Basile (che nonostante alcune lacune - si pensi all'esigua quantità di corrispondenza a noi pervenuta - è uno dei più cospicui fra quelli del Novecento italiano) ha consentito di potere avviare un'indagine sugli spostamenti, le mete di viaggio, le impressioni, le tappe, gli appuntamenti, puntualmente annotati nei taccuini e nelle agende personali. Basile stesso parla di viaggi e ne organizza. Egli ne scrive, ad esempio, quando fornisce un reportage dall'Esposizione di Parigi del 1878, oppure quando, in un modo per certi aspetti ancora più significativo, racconta di "Un viaggiatore italiano del secolo XVI", che parte «dall'estremo della Sicilia al lembo delle Alpi», scritto dal quale lo studio dei suoi viaggi ha inizialmente tratto spunto. Un'attenzione particolare all'interno del tema generale, è stata certamente richiesta dall'occasione del viaggio del 1888 a Rio de Janeiro, che vede Basile incaricato della progettazione per la Nuova Avenida de Libertação, nella capitale brasiliana, a ridosso del cambio di regime, a seguito del quale questo importante lavoro viene interrotto. Per questo motivo gli studi sono stati estesi alla cartografia di Rio de Janeiro e alla storia urbanistica della città. Le carte storiche di Barcellona, Parigi e di altre mete europee, per il solo periodo relativo ai viaggi esteri di Basile, quindi per un periodo compreso fra gli anni 1876 e 1900, rientrano tra gli utili strumenti di questo lavoro. L'indagine è stata svolta su tutto l'arco di attività - dal 1876, anno del primo viaggio di studio documentato, ed effettuato con il padre Giovan Battista Filippo Basile, alla volta di Parigi, passando per diverse città italiane, al 1932 anno della sua morte – e ha avuto come principale sfida metodologica la sua profonda natura multidisciplinare. In prima istanza coinvolgendo la storia dell'architettura, la scienza archivistica e l'odeporica, quindi molte altre discipline. Si è analizzata la produzione scritta di Ernesto Basile relativamente ai viaggi, evidenziandone le continuità e le discontinuità in relazione alla più vasta produzione architettonica. In merito a quest'ambito, esce fuori un quadro che getta una luce soprattutto sugli esordi e il clima particolarmente favorevole per una classe di giovani artisti e professionisti, che si raduna nel triennio 1878-1880 intorno alla redazione del periodico scientifico, letterario e artistico palermitano «Pensiero ed Arte», e che si fa strada, a volte guidata per mano dai predecessori, altre in opposizione alle voci più ufficiali e tradizionali delle accademie. La funzione di guida, in questo caso, è certamente quella del padre, Giovan Battista Filippo Basile, ma questa guida viene affiancata da altre figure di rilievo, quali ad esempio quella di Gaetano Giorgio Gemmellaro, di cui si documenta puntualmente una delle attività laboratoriali svolte per la Regia Scuola di Applicazione per gl'Ingegneri di Palermo. I primi viaggi sono viaggi di esplorazione e studio lungo il territorio italiano, con qualche puntata a Parigi, dove il giovane Ernesto conosce Garnier. Anche l'esperienza del militare viene usata dall'appena laureato Ernesto Basile come pretesto per un lungo e approfondito sopralluogo nell'Italia centrale, tra la Campania e l'Abruzzo, alla ricerca di segni di "antico", e ogni genere di traccia storica sul paesaggio costruito. Gli appunti sono numerosissimi e vengono accompagnati da disegni tanto piccoli quanto accurati, delle miniature, poste a margine delle lettere che egli spedisce alla famiglia. Appena qualche anno dopo, questo bagaglio di immagini, unito al desiderio di un approfondimento, lo spingerà a indirizzare le escursioni tecniche della Regia Scuola Romana, avendone la facoltà in qualità di docente incaricato, dando un grande contributo in Italia al filone degli studi sul vernacolare, l'architettura "spontanea" e sui centri minori. E' così che dalla pratica delle escursioni tecniche si passa ai veri e propri viaggi d'istruzione, documentati dagli annuari di quegli anni. La figura di Ernesto Basile come viaggiatore procede quindi di pari passo con quella del professionista, dell'architetto che va dove gli incarichi lo chiamano e dove egli ritiene davvero opportuno andare. I tempi e gli spostamenti sono generalmente lunghi e prendono una media di venti giorni per ogni viaggio estero. Sono anni che lo vedono andare in posti particolarmente caldi per l'architettura contemporanea, con un tempismo da vero professionista, quale è. Con dei colpi fortunati, anche, come capita per la sosta a Barcellona nel 1888 sulla via del Brasile. E con dei colpi mirati; è questo il caso emblematico dell'ancora misterioso viaggio a Vienna nel 1898, l'anno della Secessione Viennese. La conoscenza di quello che accadeva era veicolata dagli articoli sulle riviste, come si sa, ma certamente anche dai rapporti con altri artisti e professionisti che hanno tra i propri fulcri culturali Roma, città a cui Ernesto Basile resterà legato per tutta la vita, se consideriamo anche l'enorme e lunghissimo incarico di Montecitorio. E' lungo le vie della ricerca dell'antico e del contemporaneo che Ernesto Basile dipana tutta la sua vicenda progettuale e indirizza gli studi, le escursioni, le letture. Il contatto con l'antico, da buona tradizione post-illuminista e positivista, è sempre diretto, egli non si accontenta di superficiali acquisizioni frutto dello sguardo altrui. E' ovviamente un grande lettore, ma la scuola palermitana di cui è pienamente figlio lo aveva iniziato alla cultura del disegno come scienza, come mezzo di indagine, come strumento per la resa dell'idea, sulla via della realizzazione. E un altro incarico emblematico lo metterà sulla strada dell'antico, portandolo dapprima in Egitto, quindi in Grecia, nel 1895. I viaggi analizzati sono ampi, eterogenei e documentati, anche se non sempre in modo omogeneo : a volte lo sono con le parole sotto forma di diario, in altre attraverso liste di posti visitati, in altre ancora con le immagini dei suoi schizzi di viaggio. Il ragionamento e l'indagine sono articolati in quattro momenti, che seguono un ordine cronologico e tematico, andando dai viaggi del periodo della formazione (1876-1880) a quelli della piena maturità (1898-1900). Il percorso si muove lungo un binario principale, quello della ricerca sui viaggi esteri, con una strada parallela che si dipana nel territorio italiano nell'arco di tempo analizzato. La città di Parigi ha un ruolo cardine perché apre e chiude la lunga ma discontinua stagione dei viaggi esteri: dal primo viaggio a Parigi, effettuato nel 1876 con il padre, all'ultimo viaggio a Parigi, in occasione dell'Esposizione Universale del 1900, passano ventiquattro anni. Dopo quella data non si riscontrano altri viaggi fuori dall'Italia. Fulcro di tutti questi spostamenti è sempre e comunque Roma, anche dopo il 1892 e il ritorno a Palermo come residenza principale. La lettura delle agende ha evidenziato che dal 1893 al 1932 Basile passa almeno un mese a Roma ogni anno e generalmente almeno un altro mese in viaggio per altre località italiane, tra queste la seconda città più visitata è certamente Napoli. Del periodo della formazione vengono studiati due viaggi e un'escursione scientifica. I due viaggi sono in qualche modo l'uno la continuazione dell'altro e sono affini per lo studio dell'architettura storica italiana. Se nel primo caso, quando l'allievo Ernesto Basile va a Parigi e in alcune città italiane, Giovan Battista Filippo Basile, suo padre e maestro, è fisicamente presente, facendogli da guida e introducendolo anche in ambienti accademici (a Roma) e professionali (a Parigi), nel secondo viaggio, quello del militare, egli è comunque presente in modo costante nei pensieri e nell'attività di ricerca del giovane Ernesto che gli indirizza un centinaio di lettere in cui descrive minuziosamente ogni architettura vista, individuata, "classificata" e ritratta. Questo viaggio del militare, che pure è un viaggio accidentale e in qualche modo obbligatorio, è tuttavia il primo lungo, consapevole tour italiano che Ernesto Basile compie volutamente, ampliando il bagaglio di conoscenze acquisito nel 1876 accanto a Giovan Battista Filippo Basile. Tra queste due significative esperienze viene documentata e descritta un'escursione scientifica di un solo giorno che apre un breve spaccato sulla rigorosa preparazione tecnica in seno alle attività formative previste nel corso di studi per gli allievi ingegneri e architetti della Regia Scuola di Applicazione di Palermo. La ricerca prosegue seguendo il binario dei viaggi internazionali con un saggio su quello che accade otto anni dopo. Anche in questo caso i viaggi predominanti sono due: il primo è quello in Svizzera, previsto nell'attività didattica della Regia Scuola d'Applicazione di Roma, dove Basile è docente a contratto, il secondo è quello in Brasile, dove si reca all'improvviso per progettare su incarico diretto uno dei nuovi principali assi stradali della città di Rio de Janeiro. Questi due viaggi sono accomunati dalla motivazione del viaggio (in entrambi i casi due incarichi professionali, come docente e come progettista) e dal tipo dai soggetti rappresentati negli schizzi di viaggio: architetture storiche dei secoli precedenti, eccezione fatta per la torre dell'ascensore a Bahia. Lungo il tragitto vi è la visita alla città di Barcellona durante l'Esposizione Universale del 1888, una fortunata sosta fra le altre previste lungo la rotta fra Genova e il Brasile. Nell'ultimo periodo analizzato (1895-1900) si svolgono quindi gli altri viaggi esteri di Basile, anche questi legati a due incarichi, questa volta di natura istituzionale. Nel 1895 Basile avrà l'occasione di visitare l'Egitto, chiamato a fare parte della giuria internazionale per il concorso al Museo di antichità egizie del Cairo e la Grecia, sulla strada del ritorno. Dal 1898 al 1900, veloci e purtroppo poco documentati, si svolgono i viaggi nell'Europa centrale, con Parigi come polo di attrazione per l'Esposizione Universale del 1900, dove è membro della Commissione reale. Questa esperienza chiude definitivamente il ciclo dei viaggi esteri ma non quello dei viaggi italiani che continuano, costantemente lungo tutto l'arco di attività, fino ad un ultimo viaggio a Roma a maggio del 1932, anno della morte.
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