Dottorato di ricerca in Economia e territorio ; Il cambiamento tecnologico comporta una "rimodellatura" e, a volte, un vero e proprio rovesciamento dell'ordine esistente all'interno delle organizzazioni produttive. La conoscenza generata dall'innovazione tecnologica, per essere "assorbita", necessita di un corredo di pratiche organizzative adeguate: per tale ragione è sempre più stretto il processo co-evolutivo tra sviluppo tecnologico e cambiamento organizzativo. Il coordinamento e la gestione delle sinergie e dei feedbacks tra diversi aspetti dell'attività innovativa diventa una specifica linea d'azione strategica per le imprese al fine di ottenere performances economiche superiori. La stretta complementarità tra investimenti in beni tangibili (nuove tecnologie) e intangibili (struttura organizzativa), da cui scaturisce una maggiore crescita della produttività, è il fulcro del nuovo approccio a queste tematiche. L'ipotesi di complementarità nei processi innovativi assume particolare rilievo con l'avvento delle tecnologie ICT, con la loro natura generalista o aspecifica (general purpose technology), il loro carattere ampiamente pervasivo, e l'esigenza connessa di una prestazione a più alto contenuto cognitivo e relazionale (Breshnahan et al. 2002, Brynjolfsson et al., 2000, Brynjolfsson et al., 2002, Bugamelli e Pagano 2004). La penetrazione di queste tecnologie nel tessuto produttivo favorisce lo sviluppo di diversi input complementari e comporta diverse ondate di innovazioni "secondarie" che creano nuovi prodotti e nuovi processi, dando luogo a periodi più o meno prolungati di aggiustamento strutturale che coinvolgono la riorganizzazione aziendale e l'implementazione delle pratiche del lavoro ad alta performance o High Performance Workplace Practices (Breshanan e Trajtenberg 1995). Quest'ultime si esplicitano in una serie di azioni che hanno nell'empowerment delle risorse umane l'elemento centrale, e che si concretizzano nella riduzione dei livelli gerarchici, nell'assunzione generalizzata di responsabilità, nel coinvolgimento dei lavoratori, nello svolgimento di ruoli attivi, nel lavoro in team, nella polivalenza e nella policompetenza, nei sistemi di valutazione della performance e dei suggerimenti dal basso, e infine nelle buone relazioni industriali. La concettualizzazione dell'organizzazione come un insieme di elementi profondamente eterogenei ma complementari risale a Milgrom e Roberts (1990 e 1995) che, dapprima, ne forniscono una definizione basata sulle proprietà di supermodularità della funzione di redditività dell'impresa, e poi modellano il raggruppamento delle pratiche risultanti dalla complementarità tra innovazioni tecnologiche e cambiamenti organizzativi. Implicita nella definizione di complementarità è l'idea che fare di più in una certa attività non impedisce di fare di più in un'altra, contrariamente alla teoria tradizionale dell'impresa in cui l'ipotesi di rendimenti di scala decrescenti può porre dei vincoli alla possibilità di incremento simultaneo delle variabili di scelta dell'impresa. Le analisi empiriche hanno messo in rilievo come frequentemente innovazioni tecnologiche ed organizzative siano adottate congiuntamente e come entrambe influiscano sulle performances delle imprese (Black e Lynch 2000, Bresnahan, Brynjolfsson e Hitt 2002, Brynjolfsson, Lindbeck e Snower 1996, Malone et al. 1994, Pini 2006, Pini et al. 2010). Nel nostro paese gli studi empirici sulle complementarità tra sfere innovative sono ancora pochi. I principali lavori di natura econometrica realizzati, sulla base di limitati campioni di imprese a livello provinciale, sono attribuibili a Cristini et al. (2003 e 2008), Leoni (2008), Mazzanti et al. (2006), Piva et al. (2005), Pini et al. (2010). Un aspetto poco indagato, anche nei lavori citati, è quello dell'interazione tra tecnologie ICT, cambiamenti organizzativi e pratiche lavorative ad alta performance sulla produttività del lavoro, che è proprio l'argomento specifico che ci siamo proposti di indagare. Preliminarmente abbiamo ricostruito il dibattito teorico ed empirico sul ruolo di driver al fine dell'ottenimento di performances superiori delle tecnologie ICT, dei cambiamenti organizzativi e delle nuove pratiche del lavoro, singolarmente presi. In una seconda fase abbiamo verificato l'esistenza di legami virtuosi tra le tre attività innovative e la produttività del lavoro mettendo in evidenza le complementarità tra le sfere innovative. Per questo abbiamo effettuato un'analisi empirica utilizzando due fonti principali: IX e X indagine sulle imprese manifatturiere del Mediocredito Centrale (ora Capitalia) e la Community Innovation Survey (Cis-4) dell'Istat. Questi ultimi dati sono integrati con quelli di bilancio delle imprese società di capitali attive dal 2001 al 2008, con i caratteri strutturali del Registro delle imprese (Asia), con i dati del commercio estero (Coe), e dell'occupazione (Oros). Seguendo il productivity approach, abbiamo ricercato i legami di complementarità eseguendo, con il software STATA 10, una serie di regressioni multivariate, utilizzando funzioni di produzione aggiustate con le strategie innovative e le loro interazioni. I modelli, stimati con la tecnica dell'Ordinary Least Square (OLS), sono differenti a seconda della tipologia di dati disponibili: con i dati Mediocredito si è stimata una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas, per i dati Cis-4 un stimato un modello a effetti fissi tramite una funzione di produzione di tipo Translog. Se il ricorso alla funzione Cobb-Douglas è ricorrente nella letteratura internazionale, soprattutto per stimare gli effetti delle singole strategie innovative sulla produttività del lavoro (Black e Lynch 2001, 2004, Breshnan et al. 2002, Gera e Gu 2004), l'utilizzo di una funzione Translog, è scelta assolutamente non ricorrente in letteratura per quanto riguarda l'oggetto di analisi. A tal riguardo ci si è ispirati al lavoro di Amess (2003), nel quale vengono valutati gli effetti del management buyouts sull'efficienza di lungo termine delle imprese manifatturiere della Gran Bretagna. Inoltre abbiamo testato la presenza di complementarità attraverso l'analisi delle differenze in termini di performance, suddividendo le imprese in base a diverse combinazioni nell'utilizzo delle strategie innovative. Un aspetto da rilevare è che, le nostre analisi realizzate sul panel integrato Cis-4 utilizzano un campione particolarmente numeroso e rappresentativo della realtà industriale italiana, un fatto, come detto, non frequente negli studi sull'argomento condotti nel nostro Paese. I risultati ottenuti dall'analisi di entrambi i campioni sono in linea con i principali studi empirici italiani (Cristini et al. 2003 e 2008, Mazzanti et al. 2006, Pini 2006, Pini et al. 2010), convalidando ampiamente l'ipotesi di un impatto positivo delle tre strategie innovative sull'aumento delle performances produttive delle imprese, anche se implementate singolarmente in azienda. Per quanto riguarda la verifica di un legame di complementarità tra le tre aree innovative emerge, chiaramente un effetto additivo sul valore aggiunto attraverso l'analisi dei differenziali e seguendo l'approccio sulla supermodularità di Milgrom e Roberts (1990, 1995). L'aspetto più rilevante dei risultati ottenuti è costituito dal fatto che alcune variabili diventano particolarmente significative quando le imprese le adottano simultaneamente: ciò vale in particolare per la formazione e la partnership in R&D. L'attività di formazione è associata positivamente alla presenza di tecnologie ICT e all'innovazione organizzativa, intesa come instaurazione di partnership per la R&D. Inoltre dall'analisi sui dati Mediocredito emerge, in conformità alla teoria skill biased technical change, una propensione a domandare lavoratori in possesso di qualifiche più elevate da parte delle imprese che hanno implementato in maniera significativa cambiamenti tecnologico-organizzativi (Berman, Bound e Griliches1994, Breshnan et al. 2002, Draca, Sadun e Van Reenen 2006). ; Technological development results in a "reshaping" and, sometimes, a complete change within existing productive structures. The knowledge brought about by technological innovations, to be incorporated need a wealth of suitable structural procedures: for this reason the evolution between the technological development and the structural change is getting narrower. The coordination and management of the sinergies and feedbacks among the different aspects of the innovative activity becomes a line of strategic action within the companies to obtain superior economic performances. The strict complementarity between investments in tangible goods (new technologies) and intangibles ones ( organization structure), which brings about a better productivity growth, is the pivot of the new approach to these thematics. The complementarity hypothesis in the innovative processes is particularly important with the advent of the ICT technologies, with their general purpose technology, their widely pervesive characters and the associated requirements of a knowledge at a higher contexct. (Breshnahan et al. 2002, Brynjolfsson et al., 2000, Brynjolfsson et al., 2002, Bugamelli e Pagano 2004). The penetration of these technologies in the productive frame favours the development of the different complementary inputs and allows several flows of "secondary" innovations, which creates new products and processes, bringing more or less long sructural adjustments which include the business reorganization and to carry out work documentation at high performance or High Performance Workplace Practices (Breshanan e Trajtenberg 1995). The latter can be explained in a series of actions which have in the human resources empowerment its central element (unit) and which are reliased with the reduction of the hierarchical levels of employment at general responsibility level, bringing in the employees in active running roles, in working as a team with many duties and competence, in the methods of valuing performance and suggesions from below and lastly in good industial relations. La concettualizzazione dell'organizzazione come un insieme di elementi profondamente eterogenei ma complementari risale a Milgrom e Roberts (1990 e 1995) che, dapprima, ne forniscono una definizione basata sulle proprietà di supermodularità della funzione di redditività dell'impresa, e poi modellano il raggruppamento delle pratiche risultanti dalla complementarità tra innovazioni tecnologiche e cambiamenti organizzativi. Implicita nella definizione di complementarità è l'idea che fare di più in una certa attività non impedisce di fare di più in un'altra, contrariamente alla teoria tradizionale dell'impresa in cui l'ipotesi di rendimenti di scala decrescenti può porre dei vincoli alla possibilità di incremento simultaneo delle variabili di scelta dell'impresa. The notion of the organisation as a collection of elements extremely different, but complementary, goes back to Milgrom and Roberts (1990 e 1995) who, at first, gave a definition based on the properties of modular dimensions of the firm income capacity and then they (the set of elements) put together the resulting documentation due to the complementarity between technological innovations and structural changes. Implicit to the complementariety definition, is the idea that to do more in a certain activity does not exclude to do more in another one; this is to the contrary to the firm traditional theory where the hypothesis of decreasing range efficiency can limit the possible simultaneous increase of the firm variable choices. The empiric analysis have put in evidence that often technological and structural innovetions are taken together and that both influence the firms performances (Black e Lynch 2000, Bresnahan, Brynjolfsson e Hitt 2002, Brynjolfsson, Lindbeck e Snower 1996, Malone et al. 1994, Pini 2006, Pini et al. 2010). In our country the empiric studies on the complementarity within the innovative fields are still few. The major econometric works realised, based on limited samples at provincial level are ascribed to Cristini et al. (2003 e 2008), Leoni (2008), Mazzanti et al. (2006), Piva et al. (2005), Pini et al. (2010). The integration within the ICT technologies, stuctural changes, work habits at high performance on work productivity are aspects investigated insufficiently even on the studies already mentioned. This is the specific subject we propose to examine. At first we have reconstructed the theoric and empiric argument on the driver role aiming to obtain performances better than the the ICT technologies, stuctural developments, work habits, each taken individually. In a second phase we have verified the existence of virtual bonds between the innovative activities and labour productivity putting in evidence the complementariety within the innovative areas. For this reason we carried out an empiric analysis using two main sources: IX and X investigation on manufactury firms of Mediocredito Centrale (now Capitalia) and the Community Innovation Survey (Cis-4) by Istat. These last data are put together with the ones of active plc (public limited companies) balances from 2001 to 2008 with structural characteristics according to Companies Register (Asia), foreign trade data (Coe) and employment (Oros). By following the productivity approach we searched complementarity bonds, achieved with software STATA 10, a range of changeble regressions, using production activities related to innovative strategies and their interactions. The samples, based on the Ordinary Least Square (OLS) technique, are different according to the type of data: available with Mediocredito data, we valued a production function of the Cobb-Douglas type; for the Cis-4 was valued a sample at fixed results using a production function of Tanslog type. If going back to the Cobb-Douglas function appears again in the international literature, especially to value the consequences of single innovative strategies on labour productivity (Black e Lynch 2001, 2004, Breshnan et al. 2002, Gera e Gu 2004), the use of a Translog funtion, is chosen absolutely, without going back to literature when referring to the object of the analysis. From this point of view, we were influenced by Amess' (2003) work, where were valued the results of the management buyouts on the long term efficiency of manifacturing industies in Great Britain. Besides we tested the presence of complementarity by using the analysis of the differences based on performance, by dividing the firms according to their different utilization of innovative strategies. An aspect to take into consideration is that, our analysis carried out on the integrated Cis-4 panel utilise a rather special and large sample which represents the Italian industrial reality, a fact, as already mentioned, not common in the studies undertaken in our Country on this subject. The results obtained from the analysis of both samples are in line with the principal Italian empiric studies (Cristini et al. 2003 e 2008, Mazzanti et al. 2006, Pini 2006, Pini et al. 2010), widely confirming the hipothesys of a positive impact within the three innovative strategies on the companies increase of the producteve performances, even if singularly employed by the business. As regards the examination of a complementarity connection within the three innovative areas, emerges clearly an additive effect on its added value using the analysis of the differentials and approching the super modularity of Milgrom e Roberts (1990, 1995). The most important aspect of these results is that some variables become particularly significative when the firms use them simultaneously: this is particularly valid at educational level and partnership in R&D. The activity at educational level is positively associated to ICT technologies and structural innovetions, understood as the setting up of partnership for R&D. In addition from the analysis of Mediocredito data emerges, according to the skill biased technical change theory, a tendency by the companies, which have made significant techinical-structural changes to look for employees with higher qualification levels (Berman, Bound e Griliches1994, Breshnan et al. 2002, Draca, Sadun e Van Reenen 2006).
SENTIERI Project (Mortality study of residents in Italian polluted sites) studies mortality of residents in the sites of national interest for environmental remediation (Italian polluted sites, IPS). IPSs are located in the vicinity of industrial areas, either active or dismissed, near incinerators or dumping sites of industrial or hazardous waste. SENTIERI includes 44 out of 57 sites comprised in the "National environmental remediation programme". For each IPS contamination data were collected, both from the national and local environmental remediation programmes. Contamination data are mainly for private industrial areas; municipal and/or green and agricultural areas were poorly studied, therefore it is difficult to assess the environmental exposure of populations living inside and/or near IPSs. Each one of 44 SENTIERI IPSs includes one or more municipalities. Mortality in the period 1995-2002 was studied for 63 single or grouped causes at municipality level computing: crude rate, standardized rate, standardized mortality ratios (SMR), and SMR adjusted for an ad hoc deprivation index. Regional populations were used as reference for SMR calculation. The deprivation index was constructed using 2001 national census variables on the following socioeconomic domains: education, unemployment, dwelling ownership and overcrowding. A characterizing element of SENTIERI Project is the a priori evaluation of the epidemiological evidence of the causal association between cause of death and exposure. Exposures for which epidemiological evidence was assessed are divided into IPSs environmental exposures and other exposures. The former are defined on the basis of the decrees defining sites' boundaries; they are coded as chemicals, petrochemicals and refineries, steel plants, power plants, mines and/or quarries, harbour areas, asbestos or other mineral fibres, landfills and incinerators. The other exposures, considered for their ascertained adverse health effects are: air pollution, active and passive smoking, alcohol intake, occupational exposure and socioeconomic status. The epidemiologists in SENTIERI Working Group (WG) developed a procedure to examine the epidemiological literature published from 1998 to 2009; the WG identified a hierarchy in the literature examined to classify each combination of cause of death and exposure in terms of strength of causal inference. The selected epidemiological information included primary sources (handbooks and Monographs and Reports of international and national scientific institutions), statistical re-analyses, literature reviews, multi-centric studies and single investigations. This hierarchy relies on the epidemiological community consensus, on assessments based on the application of standardized criteria, weighting the studies design and the occurrence of biased results. Therefore, to put forward the assessment, the criteria firstly favoured primary sources and quantitative meta-analyses and, secondly, consistency among sources. The epidemiological evidence of the causal association was classified into one of these three categories: Sufficient (S), Limited (L), and Inadequate (I). The procedures and results of the evidence evaluation have been presented in a 2010 Supplement of Epidemiologia & Prevenzione devoted to SENTIERI. SENTIERI studied IPS-specific mortality and the overall mortality profile in all the IPSs combined. Some IPS-specific results are noteworthy and are herementioned. The presence of asbestos (or asbestiform fibres in Biancavilla) was the motivation for including six IPSs (Balangero, Emarese, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit, Biancavilla) in the "National environmental remediation programme". In these sites (with the only exception of Emarese) increases in malignant pleural neoplasm mortality were observed, in four of them the excess was in both genders. In six other sites (Pitelli, Massa Carrara, Aree del litorale vesuviano, Tito, Area industriale della Val Basento, Priolo), in which additional sources of environmental pollution were reported, mortality from malignant pleural neoplasm was increased in both genders in Pitelli, Massa Carrara, Priolo and Litorale vesuviano. In the twelve sites where asbestos was mentioned in the decree, a total of 416 extra cases of malignant pleural neoplasms were computed. Asbestos and pleural neoplasm represent an unique case. Unlike mesothelioma, most causes of death analyzed in SENTIERI have multifactorial etiology, furthermore in most IPSs multiple sources of different pollutants are present, sometimes concurrently with air pollution from urban areas: in these cases, drawing conclusions on the association between environmental exposures and specific health outcomes might be complicated. Notwithstanding these difficulties, in a number of cases an etiological role could be attributed to some environmental exposures. The attribution could be possible on the basis of increases observed in both genders and in different age classes, and the exclusion of a major role of occupational exposures was thus allowed. For example, a role of emissions fromrefineries and petrochemical plants was hypothesized for the observed increases in mortality from lung cancer and respiratory diseases in Gela and Porto Torres; a role of emissions frommetal industries was suggested to explain increased mortality from respiratory diseases in Taranto and in Sulcis-Iglesiente-Guspinese. An etiological role of air pollution in the raise in congenital anomalies and perinatal disorders was suggested in Falconara Marittima, Massa-Carrara,Milazzo and Porto Torres. A causal role of heavy metals, PAH's and halogenated compounds was suspected for mortality from renal failure in Massa Carrara, Piombino, Orbetello, Basso Bacino del fiume Chienti and Sulcis-Iglesiente- Guspinese. In Trento-Nord, Grado and Marano, and Basso bacino del fiume Chienti increases in neurological diseases, for which an etiological role of lead, mercury and organohalogenated solvents is possible, were reported. The increase for non- Hodgkin lymphomas in Brescia was associated with the widespread PCB pollution. SENTIERI Project assessed also the overall mortality profile in all the IPSs combined. The mortality for causes of death with a priori Sufficient or Limited evidence of causal association with the environmental exposure showed 3 508 excess deaths for all causes, corresponding to 439 per year; the number of excess deaths was 1 321 for respiratory diseases, 898 for lung cancer and 588 for pleural neoplasms. When considering excess mortality with no restriction to causes of death with a priori Sufficient or Limited evidence of causal association with the environmental exposure, the number of excess deaths for all causes was 9 969 (SMR 102.5, about 1 200 excess deaths per year; the excess was 4 309 for all neoplasms (SMR 103.8, about 538 excess deaths per year), 1 887 for circulatory systemdiseases, and 600 for respiratory systemdiseases. Most of these excesses were observed in IPSs located in Southern and Central Italy. The distribution of the causes of deaths showed that the excesses are not evenly distributed: cancer mortality accounts for 30% of all deaths, but it is 43.2% of the excess deaths (4 309 cases out of 9 969). Conversely, the percentage of excesses in noncancer causes is 19%, while their share of total mortality is 42%. SENTIERI is affected by some limitations, such as the ecological study design and a time window of observation possibly inappropriate to account for induction-latency time; the analyzed outcome (mortality instead than incidence) might be unsuitable as well. Despite its limitations, SENTIERI documented increased mortality for single IPSs and an overall burden of disease in residents in Italian polluted sites. These excesses could be attributed to multiple risk factors, that include also the environmental exposures. The study results will be shared with the Ministries of Health and Environment, Regional governments, Regional environmental protection agencies, Local health authorities and municipalities. A collaborative approach between institutions in charge of environmental protection and health promotion will foster, among else, a scientifically sound and transparent communication process with concerned populations. ; Il Progetto SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento) riguarda l'analisi della mortalit? delle popolazioni residenti in prossimit? di una serie di grandi centri industriali attivi o dismessi, o di aree oggetto di smaltimento di rifiuti industriali e/o pericolosi, che presentano un quadro di contaminazione ambientale e di rischio sanitario tale da avere determinato il riconoscimento di "siti di interesse nazionale per le bonifiche" (SIN). Lo studio ha preso in considerazione 44 dei 57 siti oggi compresi nel "Programma nazionale di bonifica", che coincidono con i maggiori agglomerati industriali nazionali; per ciascuno di essi si ? proceduto a una raccolta di dati di caratterizzazione, e successivamente a una loro sintesi. La maggior parte dei dati raccolti proviene dai progetti di bonifica ipotizzati per i diversi siti, da cui si evince che oggetto di caratterizzazione e di valutazione del rischio sono state prevalentemente le aree private industriali, quelle, cio?, ritenute causa delle diverse tipologie di inquinamento (definite in SENTIERI esposizioni ambientali). Le aree pubbliche cittadine e/o a verde pubblico e le aree agricole comprese all'interno dei SIN sono state poco investigate. I SIN studiati sono costituiti da uno o pi? Comuni. La mortalit? ? stata studiata per ogni sito, nel periodo 1995-2002, attraverso i seguenti indicatori: tasso grezzo, tasso standardizzato, rapporto standardizzato di mortalit? (SMR) e SMR corretto per un indice di deprivazione socioeconomica messo a punto ad hoc. Nella standardizzazione indiretta sono state utilizzate come riferimento le popolazioni regionali. L'indice di deprivazione ? stato calcolato sulla base di variabili censuarie appartenenti ai seguenti domini: istruzione, disoccupazione, propriet? dell'abitazione, densit? abitativa. Gli indicatori di mortalit? sono stati calcolati per 63 cause singole o gruppi di cause. La presenza di amianto (o di fibre asbestiformi a Biancavilla) ? stata la motivazione esclusiva per il riconoscimento di sei SIN (Balangero, Emarese, Casale Monferrato, Broni, Bari-Fibronit e Biancavilla). In tutti i siti (con l'esclusione di Emarese) si sono osservati incrementi della mortalit? per tumore maligno della pleura e in quattro siti i dati sono coerenti in entrambi i generi. In sei siti con presenza di altre sorgenti di inquinamento oltre all'amianto, la mortalit? per tumore maligno della pleura ? in eccesso in entrambi i generi a Pitelli, Massa Carrara, Priolo e nell'Area del litorale vesuviano. Nel periodo 1995-2002 nell'insieme dei dodici siti contaminati da amianto sono stati osservati un totale di 416 casi di tumore maligno della pleura in eccesso rispetto alle attese. Quando gli incrementi di mortalit? riguardano patologie con eziologia multifattoriale, e si ? in presenza di siti industriali con molteplici ed eterogenee sorgenti emissive, talvolta anche adiacenti ad aree urbane a forte antropizzazione, rapportare il profilo di mortalit? a fattori di rischio ambientali pu? risultare complesso. Tuttavia, in alcuni casi ? stato possibile attribuire un ruolo eziologico all'esposizione ambientale associata alle emissioni di impianti specifici (raffinerie, poli petrolchimici e industrie metallurgiche). Tale attribuzione viene rafforzata dalla presenza di eccessi di rischio in entrambi i generi, e in diverse classi di et?, elementi che consentono di escludere ragionevolmente un ruolo prevalente delle esposizioni professionali. Per esempio, per gli incrementi di mortalit? per tumore polmonare e malattie respiratorie non tumorali, a Gela e Porto Torres ? stato suggerito un ruolo delle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici, a Taranto e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese un ruolo delle emissioni degli stabilimenti metallurgici. Negli eccessi di mortalit? per malformazioni congenite e condizioni morbose perinatali ? stato valutato possibile un ruolo eziologico dell'inquinamento ambientale a Massa Carrara, Falconara, Milazzo e Porto Torres. Per le patologie del sistema urinario, in particolare per le insufficienze renali, un ruolo causale di metalli pesanti, IPA e composti alogenati ? stato ipotizzato a Massa Carrara, Piombino, Orbetello, nel Basso bacino del fiume Chienti e nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese. Incrementi di malattie neurologiche per i quali ? stato sospettato un ruolo eziologico di piombo, mercurio e solventi organo alogenati sono stati osservati rispettivamente a Trento Nord, Grado e Marano e nel Basso bacino del fiume Chienti. L'incremento dei linfomi non-Hodgkin a Brescia ? stato messo in relazione con la contaminazione diffusa da PCB. Ulteriori elementi di interesse sono stati forniti dalle stime globali della mortalit? nell'insieme dei siti oggetto del Progetto SENTIERI. In particolare, ? emerso che la mortalit? in tutti i SIN, per le cause di morte con evidenza a priori Sufficiente o Limitata per le esposizioni ambientali presenti supera l'atteso, con un SMR di 115.8 per gli uomini (IC 904.4-117.2, 2 439 decessi in eccesso) e 114.4 per le donne (IC 902.4-116.5; 1 069 decessi in eccesso). Tale sovramortalit? si riscontra anche estendendo l'analisi a tutte le cause di morte, cio? non solo per quelle con evidenza a priori Sufficiente o Limitata: il totale dei decessi, per uomini e donne, ? di 403 692, in eccesso rispetto all'atteso di 9 969 casi (SMR 102.5%; IC 902.3-102.8), con una media di oltre 1 200 casi annui. Si ritiene opportuno ricordare che il Progetto SENTIERI, per obiettivi, disegno e metodi, rappresenta uno strumento descrittivo che verifica, in prima istanza, se e quanto il profilo di mortalit? delle popolazioni che vivono nei territori inclusi in aree di interesse nazionale per le bonifiche si discosti da quello cause delle popolazioni di riferimento. Ai fini dell'interpretazione dei risultati, si ricorda che la presenza di eccessi di mortalit? pu? indicare un ruolo di esposizioni ambientali con un grado di persuasivit? scientifica che dipende dai diversi specifici contesti; invece, un quadro di mortalit? che non si discosti da quello di riferimento potrebbe riflettere l'assenza di esposizioni rilevanti, ma anche l'inadeguatezza dell'indicatore sanitario utilizzato (mortalit? invece di incidenza) rispetto al tipo di esposizioni presenti, o della finestra temporale nella quale si analizza la mortalit? rispetto a quella rilevante da un punto di vista dell'esposizione. La condivisione dei risultati con i ministeri della salute e dell'ambiente, le Regioni, le ASL, le ARPA e i Comuni interessati consentir? l'attivazione di sinergie fra le strutture pubbliche con competenze in materia di protezione dell'ambiente e di tutela della salute, e su questa base l'avvio di un processo di comunicazione con la popolazione scientificamente fondato e trasparente. Parole chiave: siti di interesse nazionale per le bonifiche (SIN), mortalit? geografica, impatto sanitario ambientale, Italia
La nozione di "dati personali" è particolarmente ampia nel diritto dell'Unione. La Corte di giustizia ha precisato che comprende, per esempio, "il nome di una persona accostato al suo recapito telefonico o ad informazioni relative alla sua situazione lavorativa o ai suoi passatempi", il suo indirizzo i suoi periodi di lavoro e di riposo nonché le relative interruzioni o pause, gli stipendi corrisposti da taluni enti ed i loro beneficiari, i dati sui redditi da lavoro e da capitale nonché sul patrimonio delle persone fisiche, le banche date sugli stranieri presenti sul territorio. Nei limiti in cui le informazioni riguardano una persona fisica identificata o identificabile, il loro contenuto può riguardare tutti gli aspetti relativi alla vita privata o professionale in una sfera pubblica. La forma può essere scritta, sonora o visiva. Un'altra nozione importante è quella della nozione di "flusso transfrontaliero dei dati" che riguarda la comunicazione diretta "a destinatari specifici". Da questo concetto, è esclusa la semplice pubblicazione online (di dati personali) quali i registri pubblici o i mezzi di comunicazione di massa (giornali elettronici e televisione). In un primo periodo della sua giurisprudenza sulla Carta, la Corte di giustizia si riferisce alla protezione della privacy con un riferimento spesso cumulativo agli artt. 7 e 8 senza riconoscere l'autonomia del "diritto alla protezione dei dati personali"rispetto al "diritto al rispetto della vita privata". Inoltre, sino al momento in cui è emersa la questione delle limitazioni consentite ai diritti previsti dagli artt. 7 e 8, con riferimento all'applicazione dell'art. 52 Carta, la Corte non ha distinto il profilo relativo all'applicazione del principio di proporzionalità, da quello riguardante la violazione dei "contenuti essenziali" dei diritti in gioco. In questo senso particolarmente significativa è il ragionamento della Corte nella sentenza Volker del 2010: si deve ritenere, da un lato, che il rispetto del diritto alla vita privata con riguardo al trattamento dei dati personali, riconosciuto dagli artt.7 e 8 della Carta, sia riferito ad ogni informazione relativa ad una persona fisica identificata o identificabile e, dall'altro, che le limitazioni che possono essere legittimamente apportate al diritto alla protezione dei dati personali corrispondano a quelle tollerate nell'ambito dell'art. 8 della CEDU". Il riferimento all'art. 8 della CEDU sottolinea come il diritto alla protezione dei dati sia considerato semplicemente quale accessorio rispetto al diritto al rispetto alla vita privata previsto dall'art. 7 della Carta. La conservazione dei dati può costituire una limitazione del diritto al rispetto della vita privata e del diritto alla protezione dei dati personali. In parallelo con l'art. 8, par. 2, della CEDU, la Carta riconosce che l'ingerenza di un'autorità pubblica nell'esercizio del diritto al rispetto della vita privata può essere giustificata se necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza e alla prevenzione dei reati. In particolare ai sensi dell'art. 52, par. 1 della Carta, tali limitazioni devono essere "previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti […] nel rispetto del principio di proporzionalità," ed essere necessarie e rispondere a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. In pratica, ciò significa che le eventuali limitazioni devono essere: formulate con precisione e prevedibilità; necessarie per realizzare una finalità di interesse generale o per proteggere i diritti e le libertà altrui; proporzionate alla finalità perseguita; e conformi al contenuto essenziale dei diritti fondamentali in questione. Pertanto, la protezione dei dati personali prevista dall'obbligo prescritto dall'articolo 8 par. 1 della Carta risulta particolarmente importante per il diritto al rispetto della vita privata di cui all'articolo 7 della stessa Carta. La Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) stabilisce un elevato livello di protezione dei dati personali. Secondo l'art. 8, ogni persona è titolare del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Sulla base di un'interpretazione estensiva della nozione di "vita privata", sono stati individuati dalla Corte europea principi o diritti propri della materia. In base alla giurisprudenza della Corte EDU, la protezione dei dati ex art. 8 CEDU ha ad oggetto il loro trattamento, che può comprendere diverse operazioni (raccolta, registrazione, conservazione, impiego, trasferimento, divulgazione, rettifica o cancellazione). Il trattamento deve essere compiuto nel rispetto dei principi di legalità, legittimità, temporaneità e proporzionalità. Per ciò che attiene alle limitazioni ammissibili, il requisito fondamentale è la "prevedibilità" e "accessibilità" della legge. L'accertamento di una violazione può dipendere da fattori, quali la qualità, la modalità e la tipologia dei dati e dal diritto di esercitare il diritto di accesso e dalla possibilità di richiesta, di rettifica e cancellazione da parte del soggetto interessato. Sono ammissibili deroghe relative alla sicurezza nazionale o alla prevenzione o alla repressione del crimine. Una particolare categoria è costituita dai dati sensibili (ad esempio stato di salute ed origini etniche) che richiedono specifiche garanzie per evitare qualsiasi forma di discriminazione. Per quanto riguarda la possibilità di interpretare estensivamente la nozione di vita rivata la Corte ha più volte ribadito che: "Private life is a broad term not susceptible to exhaustive definition". Si tratta di un termine ampio non suscettibile di definizione esaustiva. La Corte ha più volte statuito che elementi quali il sesso, il nome, l'orientamento sessuale e la vita sessuale sono elementi importanti della sfera personale (ex art. 8 CEDU). Vi è però anche una zona di interazione di una persona con gli altri, anche in un contesto pubblico, che può rientrare nell'ambito dell'applicazione della "vita privata". Il diritto di identità e sviluppo personale, e il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani può persino consentire di estendere l'ambito di applicazione alle attività di natura professionale o commerciale. Il Trattato di Lisbona ha creato per la prima volta una nuova base giuridica per la protezione dei dati personali nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, utilizzabile sia per l'armonizzazione legislativa del mercato, che per la cooperazione giudiziaria civile e penale (ex terzo pilastro). Tuttavia, la base giuridica dell'art. 16 del TFUE consente all'Unione europea di adottare direttive e regolamenti per la cooperazione di polizia solo dopo la fine del periodo transitorio di cinque anni, vale a dire alla fine del 2014. La competenza prevista dall'art. 16 del TFUE è una competenza concorrente dell'Unione con gli Stati membri come per tutto lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (cooperazione in materia di immigrazione, cooperazione civile e penale). In quest'ultimo settore potranno comunque essere previste norme specifiche (Dichiarazione 21 Allegata al Trattato di Lisbona). Infatti, le informazioni nel settore della libertà, della sicurezza e della giustizia vengono scambiate anche per analizzare le minacce alla sicurezza, identificare i trend delle attività criminali o valutare i rischi nei settori correlati. La seconda base giuridica riguarda il settore della politica estera e di sicurezza comune, in cui il TFUE prevede invece solo l'adozione di una decisione ad hoc del Consiglio. La direttiva 95/46/CE costituisce la parte principale della normativa secondaria sulla protezione dei dati personali nel mercato che contiene gli elementi principali della tutela, concretizzando e ampliando il contenuto della Convenzione 108. La direttiva rappresenta un quadro generale completato da strumenti normativi specifici quali il regolamento (CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2000, concernente la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni e degli organismi comunitari e la direttiva 2002/58/CE relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche nonchè la libera circolazione di tali dati (in particolare l'art. 41) La direttiva 95/46/CE prevede di promuovere la libera circolazione delle informazioni nel mercato interno; l'armonizzazione di disposizioni essenziali del diritto nazionale; esprime la fiducia reciproca degli Stati membri nei rispettivi sistemi giuridici nazionali. Le disposizioni della direttiva non si applicano ai trattamenti di dati personali effettuati per l'esercizio di attività che non rientravano nel campo di applicazione del diritto comunitario e, comunque, ai trattamenti aventi come oggetto la pubblica sicurezza, la difesa, la sicurezza dello Stato e in materia di diritto penale. A livello del diritto comunitario, la conservazione e l'uso di dati a fini di contrasto dei reati sono stati affrontati per la prima volta dalla direttiva 97/66/CE sul trattamento dei dati personali e sulla tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni. Detta direttiva ha stabilito, per la prima volta, che gli Stati membri possono adottare le disposizioni legislative che considerano necessarie per la salvaguardia della pubblica sicurezza, della difesa o dell'ordine pubblico (compreso il benessere economico dello Stato ove le attività siano connesse a questioni di sicurezza dello Stato), e per l'applicazione del diritto penale. La direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche riguarda principalmente il trattamento dei dati personali nel quadro della fornitura dei servizi di telecomunicazione. La direttiva contiene norme fondamentali destinate a garantire la fiducia degli utilizzatori nei servizi e nelle tecnologie delle comunicazioni elettroniche. Esse riguardano in particolare il divieto di "spam", il sistema di consenso preventivo dell'utilizzatore (opt–in) e l'installazione di marcatori (cookies). Si accresce la tutela contro i trattamenti invisibili di dati che si attivano ogniqualvolta si accede ad un sito internet. Le norme in materia di Privacy online si rafforzano, quindi, in merito all'uso dei cookies (stringhe di testo che possono anche memorizzare le scelte di navigazione degli utenti) e simili sistemi. Gli utenti di internet dovranno essere maggiormente informati sull'esistenza di tali sistemi e su ciò che accade ai loro dati, potendo così controllarli più facilmente. Anche per i "cookies" devono valere i concetti di informativa e consenso. Ai fini dell'espressione del consenso possono essere utilizzate specifiche configurazioni di programmi informatici o di dispositivi che siano di facile e chiara utilizzabilità per il contraente o l'utente. La direttiva stabilisce come principio di base, che gli Stati membri devono garantire, tramite la legislazione nazionale, la riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite una rete pubblica di comunicazioni elettroniche. In particolare, devono proibire ad ogni altra persona di ascoltare, intercettare, memorizzare le comunicazioni senza il consenso degli utenti interessati. Per quanto riguarda la sicurezza dei servizi, il fornitore di un servizio di comunicazione elettronica deve garantire che i dati personali siano accessibili soltanto al personale autorizzato; tutelati dalla distruzione, perdita o alterazione accidentale. Eventuali violazioni devono essere comunicate alla persona interessata, nonché all'autorità nazionale di regolamentazione (ANR). Per garantire la disponibilità dei dati di comunicazione per la ricerca, l'accertamento e il perseguimento di reati, la direttiva stabilisce un regime di conservazione dei dati. La direttiva adotta l'approccio di libera scelta (opt–in) in relazione alle comunicazioni elettroniche commerciali indesiderate, cioè gli utenti devono dare il loro accordo preliminare prima di ricevere queste comunicazioni. Questo sistema di opt–in copre anche i messaggi SMS e altri messaggi elettronici ricevuti su qualsiasi terminale fisso o mobile. Sono tuttavia previste deroghe. A norma della direttiva 2002/58/CE relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche in linea di principio tali dati relativi al traffico, generati dall'uso dei servizi di comunicazione elettronica, devono essere cancellati o resi anonimi quando non sono più necessari ai fini della trasmissione di una comunicazione, salvo i casi in cui risultino necessari per la fatturazione, e solo per il periodo necessario a tal fine, o in cui sia stato ottenuto il consenso dell'abbonato o utente. I dati relativi all'ubicazione possono essere trattati soltanto se sono resi anonimi o con il consenso dell'utente interessato, nella misura e per il periodo necessari alla fornitura di un servizio a valore aggiunto. Le modifiche introdotte dalla direttiva 2009/136/CE, in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche sono finalizzate a promuovere una maggiore tutela dei consumatori contro le violazioni dei dati personali, le comunicazioni indesiderate e lo "spam". A questo proposito, il soggetto tutelato dalle comunicazioni indesiderate e dallo spam viene definito in modo nuovo: "contraente" o "utente" (in sostituzione del concetto di interessato o abbonato). La direttiva data retention ha modificato l'art. 15, par. 1, della direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, inserendo un paragrafo che esclude che tale normativa si applichi ai dati conservati in base alla direttiva data retention. Secondo tale direttiva (art. 11) gli Stati membri possono adottare disposizioni legislative in deroga al principio della riservatezza delle comunicazioni, tra cui, a talune condizioni, la conservazione, l'accesso e il ricorso ai dati a fini di contrasto. L'art. 15, par. 1, permette agli Stati membri di limitare i diritti e gli obblighi attinenti alla vita privata, anche mediante la conservazione di dati per un periodo di tempo limitato, qualora la misura sia "necessaria, opportuna e proporzionata all'interno di una società democratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale (cioè della sicurezza dello Stato), della difesa, della sicurezza pubblica; e la prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, ovvero dell'uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica". La giurisprudenza della Corte di Strasburgo riguardante il bilanciamento della tutela dei dati personali con l'interesse pubblico alla sicurezza in materia di dati conservati dai servizi d'intelligence ha avuto per oggetto i seguenti casi: Rotaru v. Romania; Haralambie v. Romania; Turek v. Slovakia; Segerstedt-Wiberg and O. v. Sweden e Shimovolos v. Russia. In materia di conservazione del DNA: S. and Marper v. United Kingdom e Peruzzo and Martens v. Germany. In materia di conservazione dei dati in speciali banche dati: Bouchacourt; Gardel e M.B. v. France; Khelili v. Switzerland; M.K. v. France; Dalea v. France; E.B v. Austria e Bernh Larsen v. Norway. In materia di controlli e videosorveglianza: Peck v. the United Kingdom; Vetter v. France; Kopke v. Germany e Van Vondel v. Netherlands. La Corte EDU si è occupata di bilanciamento con la tutela della salute nelle sentenze: Armonas v. Lithuania; Gillberg v. Sweden e Avilkina and Others v. Russia. Mentre il bilanciamento con la libertà di espressione e il diritto di reputazione è stato affrontato nelle sentenze: Von Hannover v. Germany; Axel Springer AG v. Germany; Mosley v. United Kingdom e Nagla v. Lettonia. La giurisprudenza della Corte di giustizia in relazione all'esercizio di poteri pubblici si è occupata dei casi: Österreichischer Rundfunk, Huber e YS. Nelle sentenze Commissione c. Germania, Commissione c. Austria e ommissione c. Ungheria, il giudice dell'Unione si è occupato del ruolo delle autorità indipendenti di controllo sui dati e in Volker und Markus Schecke e Commissione c. Bavarian Lager della problematica relativa all'accesso agli atti. In particolar modo le questioni interpretative della direttiva 95/46/CE sono state affrontate nelle sentenze Asociación Nacional de Establecimientos Financieros de Crédito; Deutsche Telekom AG; Institut immobiliere e Ryneš. Copiosa è stata la giurisprudenza sia della Corte di Strasburgo (KU v. Finland; Editorial Board di Pravoye Delo e Shtekel v. Ukraina; Ahmet Yildirim v. Turkey; Animal Defenders International v. United Kingdom; Delfi AS v. Estonia; Times Newspapers Limited v. United Kingdom e Ashby Donald e Neij e Sunde Kolmisoppi) e della Corte di Lussemburgo sulle problematiche poste da internet in relazione alla tutela dei dati personali (SABAM, Promusicae, UPC Telekabel Wien, Digital Rights, Google Spain).
Riassunto/Abstract Il presente lavoro di tesi fa parte di un progetto svolto nell'ambito di una collaborazione fra Regione Toscana e Istituto di Geoscienze e Georisorse (IGG) del CNR di Pisa, avente per obiettivo lo studio di una metodologia per l'individuazione delle zone di protezione di pozzi o sorgenti idropotabili, distribuiti sul territorio regionale toscano, nonché la presentazione di un esempio di delimitazione relativa al campo pozzi Greti, località fiume Greve in Chianti. L'acqua è una risorsa indispensabile per la vita, per lo sviluppo e per l'ambiente. Essa è una risorsa finita e vulnerabile, parzialmente rinnovabile visti i tempi necessari a ripristinare situazioni di eventuali sovra-sfruttamenti, e che richiede un'efficiente gestione per la sua difesa e salvaguardia in modo da garantire la sua utilizzazione anche alle generazioni future. Spesso è soggetta ad emergenze sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Dal punto di vista qualitativo, le emergenze derivano da eventuali situazioni di inquinamento originato da svariate sostanze utilizzate sui terreni, scarichi di rifiuti di vario genere e composti di origine industriale. Dal punto di vista quantitativo, le acque possono essere soggette a problemi tipo il sovra- sfruttamento, l'abbassamento del livello della falda, la mancanza o la riduzione di nuovi apporti idrici alle sorgenti. E' evidente notare che il manifestarsi delle contaminazioni dell'acqua delle falde idriche dipende non solo dalla vulnerabilità degli acquiferi, ma anche dalla suscettibilità di un acquifero nel processo di interazione acqua-roccia ad assorbire i contaminanti e permettere la loro propagazione lungo l'acquifero stesso. La vulnerabilità degli acquiferi sottende a vari fattori quali la capacità di auto- depurazione del terreno, la soggiacenza della falda, la connessione tra falda e i corsi d'acqua e soprattutto al grado di protezione degli acquiferi. Le zone di protezione, assieme a quelle di tutela assoluta e di rispetto, costituiscono le aree di salvaguardia. In dettaglio, la zona di tutela assoluta rappresenta la zona immediatamente prospiciente l'opera di presa (10 metri di raggio dal punto di captazione); la zona di rispetto costituisce una porzione di territorio intorno alla zona di tutela assoluta che viene sottoposta a vincoli e destinazioni d'uso tali da tutelare la risorsa idrica (in assenza di altre individuazioni ha una estensione di 200 metri di raggio dal punto di captazione); la zona di protezione rappresenta un'area più vasta per la cui delimitazione è necessario tener conto dell'intera area di ricarica della falda, delle emergenze naturali e artificiali e delle zone di riserva. La difesa degli acquiferi dall'inquinamento è rivolta ad aree che sono già interessate da inquinamento, oppure a quelle che potrebbero esserlo ad esempio in aree di urbanizzazione, mediante piani di tutela elaborati dalle Regioni. Queste devono prevedere degli interventi che privilegino la tutela delle zone di captazione dell'acqua e del territorio circostante, attraverso uno stretto controllo delle possibili fonti di contaminazione. In questo lavoro è stata effettuata, prima di tutto, una attenta analisi sulla legislazione inerente le aree di salvaguardia, partendo dalla normativa comunitaria che detta le linee guida per la tutela della risorsa idrica destinata al consumo umano, fino ad arrivare alle norme emanate da alcune regioni italiane. E' infatti compito delle Regioni la scelta del criterio per l'individuazione delle aree di salvaguardia e la delimitazione delle stesse sul territorio. Uno degli obiettivi della tesi è stato quello di affrontare gli aspetti scientifici sulla delimitazione delle zone di protezione intorno ai campi-pozzi, che insieme a quelle di tutela assoluta vanno a formare le aree di salvaguardia. I criteri utilizzati per la delimitazione delle zone di protezione, indicati dalla normativa, sono: (a) di tipo geologico e riguardano la presentazione dell'ubicazione del campo pozzi, il riconoscimento delle strutture geologiche e l'individuazione dei processi geologici che hanno interessato l'area di studio; (b) idrogeologici, questi prevedono lo studio dell'intera area di ricarica della falda e consistono nel definire le aree di salvaguardia mediante considerazioni tecnico- scientifiche basate sulle conoscenze di idrochimica sotterranea e sulle caratteristiche stratigrafico - strutturale dell'acquifero; (c) geochimici, questi si basano su analisi idrogeochimiche e isotopiche delle acque e vengono utilizzati non solo per definirne gli aspetti qualitativi, ma anche per la ricostruzione dei diversi circuiti idrici. Il progetto all'interno del quale si è sviluppata la tesi ha previsto come prima fase l'individuazione, da parte delle varie AATO (Autorità di Ambito Territoriale Ottimale) coordinate dalla Regione Toscana, di opere di captazione ritenute prioritarie nell'intero scenario regionale. In seconda fase si è proceduto all'acquisizione delle informazioni necessarie mediante il recupero e la rielaborazione di tutti i dati relativi alle aree di studio già in possesso delle AATO. Infine, si è proceduto all'esecuzione di nuove analisi, fornendo specifici programmi per la raccolta dei dati. L'acquisizione e la produzione dei nuovi dati sono state curate dalle varie AATO, mentre il mio lavoro, all'interno dell'IGG-CNR è stato rivolto sia alla acquisizione di nuovi dati che all'elaborazione degli stessi. Infine, si è proceduto alla effettiva delimitazione della zona di protezione sul caso specifico Greti, individuata tramite un criterio metodologico d'insieme che si avvale, in una prima fase, dello studio dell'assetto delle formazioni geologiche caratteristiche dell'area, dell'analisi idrogeologica delle stesse, nonché delle deduzioni tratte dall'indagine idrodinamica dell'acquifero. Tutto ciò, validato dai risultati ricavati dalle analisi chimiche e isotopiche effettuate sulle sorgenti poste sui rilievi e su una serie di pozzi individuati nei pressi del campo pozzi, ha consentito di circoscrivere una zona di protezione, che in parte si discosta dalla traccia del bacino idrografico del Fiume Greve in Chianti. In particolare, lo studio delle formazioni geologiche e del loro assetto, tramite l'analisi delle sezioni nell'area di Greve, ha permesso di evidenziare un assetto idrostrutturale che, relativamente agli acquiferi in roccia, favorisce un flusso idrico sotterraneo da N a S. In conclusione, questo tipo di approccio multi-disciplinare ha permesso di studiare nel dettaglio il bacino di alimentazione del campo pozzi "Greti" e di delimitarne la zona di protezione ponendo l'accento su quell'area che contribuisce maggiormente all'alimentazione della falda captata dal pozzo in esame. Sarà compito degli enti locali adottare interventi, come prescrizioni o particolari destinazioni d'uso del territorio, da inserire negli strumenti urbanistici sia generali che di settore che permetteranno una migliore difesa della risorsa idrica sotterranea. Una considerazione generale, che deriva dal presente lavoro, porta a riconoscere nello strumento delle aree di protezione un'utile strategia per la tutela di una così preziosa risorsa: salvaguardia non fine a se stessa ma coniugata al crescente bisogno di sviluppo sostenibile delle aree urbane e sub-urbane e uso sostenibile delle risorse naturali. La nozione di uso sostenibile, in particolare, della risorsa idropotabile, traduce la necessità di trovare un equilibrio tra le esigenze di sviluppo economico legate allo sfruttamento di tali risorse e gli imperativi della loro protezione e conservazione a medio e lungo termine, in maniera tale che l'uso attuale delle risorse naturali non comprometta il loro impiego futuro. Di fondamentale importanza, è il fatto che le risorse del pianeta debbano essere gestite in modo da assicurare il soddisfacimento sia delle generazioni presenti che di quelle future. Ciò implica la possibilità di configurare, anche a livello internazionale, un vero e proprio diritto umano fondamentale all'acqua. A tale diritto individuale, corrisponderebbe un obbligo degli Stati di far sì che le attività di sfruttamento economico delle risorse stesse siano in ogni caso compatibili con l'obiettivo di assicurare acqua potabile in quantità e qualità sufficiente a sostenere le necessità basilari delle popolazioni interessate. Abstract The present job of thesis makes part of a project developed within a collaboration among Region Tuscany and Institute of geosciences and earth resources (IGG) of the CNR in Pisa, having for objective the study of a methodology for the individualization of the zones of protection of wells or rising drinking water , distributed on the Tuscan regional territory, as well as the presentation of an example of delimitation related to the field wells Pebbly shores, place Heavy river in Chianti. Water is an essential resource for the life, for the development and the environment. It is an ended resource and vulnerability, partially renewable visas the necessary times to restore situations of possible overexploitations, and that it asks for an efficient management for her defense and safeguard so that to also guarantee her use to the future generations. It is often subject to emergencies both from the qualitative point of view that quantitative. From the qualitative point of view, the emergencies derive from possible situations of pollution originated from varied substances used on the grounds, unloading of refusals of various kind and mixtures of industrial origin. It 'obvious to note that the occurrence of water contamination of the aquifer depends not only on groundwater vulnerability, but also from the susceptibility of an aquifer in the process of interaction water-rock to absorb the contaminants and to allow their propagation along the same aquifer. The vulnerability of the aquiferis subtends to various factors what the ability of auto-purification of the ground, the depth to of the stratum, the connection between stratum and the courses of water and above all to the degree of protection of the aquifers. The zones of protection, together with those of absolute guardianship and of respect, they constitute the areas of safeguard. In detail, the zone of absolute guardianship immediately represents the overlooking zone the work of taking (10 meters ray from the point of uptake ); the zone of respect constitutes a portion of territory around the zone of absolute guardianship that is submitted to ties and such destinations of use by to protect the water (in absence of other individualizations it has an extension of 200 meters ray from the point of uptake) resource; the zone of protection represents a vast area for whose delimitation it is necessary to take into account of the whole area of recharge of the stratum, of the natural and artificial emergencies and of the backup zones. The defense of the acquiferis from the pollution is turned to areas that are already interested by pollution, or to those that could be for instance it in areas of urbanization, through plans of guardianship elaborated by the Regions. These must foresee some interventions that privilege the guardianship of the zones of uptake of the water and the surrounding territory through a narrow control of the possible sources of contamination. In this job she has been effected, everything, a careful analysis on the inherent legislation the areas of safeguard, departing from the normative community that says the lines it drives for the guardianship of the water resource destined to the human consumption, thin to reach the norms emanated by some Italian regions. And' in fact performs some Regions the choice of the criterion for the individualization of the areas of safeguard and the delimitation of the same on the territory. One of the objectives of the thesis have been that to face the scientific aspects on the delimitation of the zones of protection around the field-wells, that together with those of absolute guardianship they go to form the areas of safeguard. The criterions used for the delimitation of the zones of protection, pointed out by the normative one, are:(a) type geologic and they concern the presentation of the location of the field wells, the recognition of the structures geological and the individualization of the geologic trials that have interested the area of study; (b) hydrogeological, these foresee the study of the whole area of recharge of the stratum and they consist of defining the areas of safeguard through considerations technical - scientific based on the knowledge of underground hydrogeochemistry and on the characteristic structural - stratigraphic of the aquifer; (c) geochemical, these are founded on hydrogeochemical analysis and isotopic of the waters and you/they are not only used for defining its aspects qualitative, but also for the reconstruction of the different water circuits. The project inside which the thesis is developed has as before expectation phase the individualization, from the various AATO (Authority of Optimal Territorial Circle) coordinated by the Region Tuscany, of works of uptake held priority in the whole regional scenery. In second phase already proceeds to the acquisition of the necessary information through the recovery and the reprocessing of all the data related to the areas of study in possession of the AATO. Finally proceeds to the execution of new analyses furnishing specific programs for the harvest of the data. The acquisition and the production of the new data have been taken care of by the various AATO, while my job, inside the IGG-CNR you/he/she has been turned both to the acquisition of new data and to the elaboration of the same. Finally proceeds to the real delimitation of the zone of protection on the case specific Pebbly shores, individualized together through a methodological criterion of that uses, in a first phase, of the study of the order of the geological formations characteristics of the area, of the idrogeological analysis of the same, as well as of the deductions drawn by the hydrodynamic investigation of the aquifer. Everything, validated by the results obtained by the chemical and isotopic analyses effected on the sources mails on the reliefs and on a series of wells individualized near the field wells, has allowed to circumscribe a zone of protection, that partly him far from the trace of the hydrographic basin of the Heavy River in Chianti. Particularly, the study of the geological formations and of their order, through the analysis of the sections in the area of Heavy, she has allowed to underline an idrostructural trim that, relatively to the acquiferis in rock, it favors an underground water flow from N to S. In conclusion, this type of fine-disciplinary approach has allowed to study in the detail the basin of feeding of the field wells "Pebbly shores" and to delimit its zone of protection setting the accent on that area that mostly contributes to the feeding of the stratum gained by the well in examination. she will be performed some local corporate body to adopt interventions as prescriptions or particular destinations of use of the territory, to insert in the urbanistic tools is general that of sector that they will allow a best defense of the underground water resource. A general consideration, that derives from the present job, brings to recognize in the tool of the areas of protection an useful strategy for the guardianship of such a precious resource: safeguard not end to herself but conjugated to the increasing need of sustainable development of the urban and sub-urban areas and sustainable use of the natural resources. The notion of sustainable use, particularly, of the drinking water resources , translates the necessity to find an equilibrium between the tied up demands of economic development to the exploitation of such resources and the imperatives of their protection and maintenance to middle and long term, in such way that the actual use of the natural resources doesn't jeopardize their future employment. Of fundamental importance, it is the fact that the resources of the planet must have managed so that to assure the satisfaction both of the present generations that of those future. This implicates the possibility to shape, also to international level, a real fundamental human right to the water. To such individual right, it would correspond an obligation of States to do yes that the activities of economic exploitation of the resources themselves are in every case compatible with the objective to assure drinkable water in quantity and enough quality to sustain the fundamental necessities of the interested populations.
Das Schulregister des Kultusministeriums MIUR verzeichnet, dass mehr als jede/r zehnte aller Schüler/innen in Italien keine italienische Staatsbürgerschaft hat, obwohl sie mehrheitlich dort geboren wurden. Zahlreiche Erhebungen weisen für sie im Vergleich zu den italienischen Mitschülern/innen geringere Italienischkenntnisse und weniger schulischen Erfolg auf. Innerhalb dieser explorativen Feldforschung haben Einzelinterviews mit 121 Schülern/innen (5.-8. Klasse) in Turiner Schulen und mit 26 Eltern, sowie die Auswertung von 141 an 27 Italienisch- und Herkunftsprachlehrer/innen verteilten Fragebögen ergeben, dass viele Schüler/innen "zweisprachige Natives" sind, da sie mit Italienisch und einer anderen Sprache aufwachsen. Dieser Polyglottismus, den die Interviewten sehr positiv bewerteten, findet jedoch in der Schulpraxis keine Entsprechung: Gezielte Förderung im Italienischen und der Unterricht der Familiensprache sind meist Wunschdenken. In der Kohorte haben die Schüler/innen mit den besten Italienischkenntnissen einen italophonen Elternteil bzw. kamen im Vorschulalter nach Italien und besuchten dort den Kindergarten. Dagegen sind, wie auch bei den INVALSI-Tests, die in Italien geborenen und die dann die Krippe besuchten, leicht benachteiligt. Was die Familiensprache angeht, verbessert ihr Erlernen die Kompetenzen darin, ohne dem Italienischen zu schaden: Im Gegenteil. Diese Ergebnisse bestätigen die wichtige Rolle der "anderen" Sprache für einen gelungen Spracherwerb. Das MIUR sollte also sein Schulregister mit Sprachdaten ergänzen, um die Curricula im Sinn der EU-Vorgaben umzuschreiben und den sprachlich heterogenen Klassen gezielte Ressourcen und definierte Vorgehensweisen zur Verfügung zu stellen. Mit geringeren Mitteln, im Vergleich zu den jetzigen Kosten für Herunterstufung, Klassenwiederholung und Schulabbruch würde man Schulerfolg, Chancengerechtigkeit und Mehrsprachigkeit fördern, mit positiven Folgen für den Einzelnen sowie für die Volkswirtschaft. ; The Italian Ministry of Education (MIUR) student register records that today in Italy more than one out of ten students is not an Italian citizen, although the majority of them were born there. Several statistical surveys indicate that "foreign" students, when compared to native students, show a poorer performance in Italian and in academic achievement. This exploratory fieldwork carried out in schools in Turin (5th to 8th grade) analyzed data obtained through semi-structured interviews with 121 students and 26 parents as well as 141 questionnaires filled in by 27 teachers of Italian and family language. It showed that many students are "bilingual natives", as they grow up acquiring both Italian and another language; however, despite the fact that the interviewees rate polyglottism positively, schools don't usually offer targeted support in either language. Within the cohort the broadest range of competences in Italian are found first among those with an Italian-speaking parent, then among those who arrived in Italy at pre-school age attending kindergarten there; this latter group shows higher competences than those born in Italy attending nursery there, as also in the INVALSI tests. As far as family language is concerned, data illustrate that its teaching increases its competences without affecting those in Italian: quite the opposite in fact. These results confirm the remarkable role played by the "other" language in successful language education. MIUR is therefore called upon to include also linguistic data in its student register, so as to redefine its curricula according to EU Guidelines, and to identify specific procedures and resources for multilingual classes. This new policy would reduce the current cost of placing students in a lower grade, grade retention and drop-outs, and would promote school success, equal opportunities and multilingualism, with positive consequences both for the individuals and for the national economy. ; L'anagrafe studenti del MIUR registra come oggi in Italia più di uno studente su dieci non è cittadino italiano, pur essendo la maggioranza di loro nata in questo paese. Numerose indagini statistiche mostrano come gli allievi "stranieri" presentino, rispetto a quelli italiani, ridotte competenze in italiano e minore successo scolastico. Questa ricerca esplorativa svolta in alcune scuole di Torino (V elementare-III media) ha analizzato dati ottenuti tramite interviste semi-strutturate a 121 studenti e 26 genitori e 141 questionari compilati da 27 insegnanti di italiano e di lingua di famiglia. Da essa è emerso che molti studenti sono "nativi bilingui", poiché crescono usando l'italiano e un'altra lingua. Questo poliglottismo, valutato dagli intervistati assai positivamente, non si rispecchia però nella prassi scolastica: un supporto mirato in italiano e l'insegnamento della lingua di famiglia sono di regola una chimera. All'interno del campione le più ampie competenze in italiano si trovano fra chi ha un genitore italofono e chi è arrivato in Italia in età prescolare frequentandovi la scuola materna; come constatato anche nei test INVALSI, chi è nato in Italia e vi ha frequentato l'asilo nido è leggermente svantaggiato. Rispetto alla lingua di famiglia risulta che il suo studio porta a migliori competenze in essa, senza nuocere all'italiano: anzi. Emerge quindi il ruolo significativo della lingua "altra" per un'educazione linguistica efficace. L'invito al MIUR è quindi di integrare la propria anagrafe con dati linguistici, così da ridefinire i propri curricula secondo le Linee Guida Comunitarie, individuando procedure e risorse specifiche per le classi multilingui. Con un investimento ridotto, paragonato con il costo attuale dato da retrocessioni, ripetenze e abbandono scolastico, si riuscirebbe a sostenere il successo scolastico, le pari opportunità e il plurilinguismo, con conseguenze positive per i singoli e per l'economia nazionale.
L'oggetto della nostra ricerca riguarda le dinamiche sociologiche in materia di gestione del discredito a seguito dello scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa Cattolica dal 2002 al 2010, prendendo in considerazione alcuni degli eventi mediaticamente più significativi che hanno caratterizzato l'intera vicenda. Il punto di partenza della ricerca è il 9 gennaio 2002, quando il quotidiano americano The Boston Globe ha pubblicato un'inchiesta relativa a un caso di abuso nell'arcidiocesi di Boston. In seguito abbiamo assistito a una propagazione del fenomeno non solo in altre diocesi del territorio, ma anche in alcuni Paesi europei; tra questi abbiamo incentrato la nostra analisi sulla situazione in Irlanda. Le ragioni di questa scelta sono state dettate dal fatto che dagli Stati Uniti è esploso mediaticamente il caso e per tutto il decorso della vicenda essi si sono posti nello scenario internazionale come opinion leaders, non solo a livello di politiche adottate per contrastare il fenomeno (tra tutte, la zero tolerance), ma anche per quanto riguarda l'adozione di prime specifiche norme in materia di tutela dei diritti dei minori. Il focus sull'Irlanda è invece dettato dalla forte tradizione cattolica presente nel Paese . La scelta degli Stati Uniti e dell'Irlanda, poi, è motivata da alcune ragioni di fondo che sembrano accumunare entrambi i Paesi; innanzitutto, la dimensione del fenomeno (ovvero, negli Stati Uniti dal 1950 al 2002 sono stati segnalati circa 4392 preti accusati di abuso sessuale sui minori ; in Irlanda, invece, tra il 1965 e il 2005 sono state registrate più di 100 denunce di abusi su ventuno preti che operavano nella sola diocesi di Ferns ). Un successivo aspetto fa riferimento, invece, all'interesse dei mass media americani (e irlandesi) circa le modalità di rappresentazione della vicenda, spesso presentata in "termini scandalistici", i cui fatti accaduti circa trent'anni fa sono riproposti all'opinione pubblica come se fossero fatti attuali. Infine, dall'America sono partiti anche i primi processi, che hanno portato in molti casi a gravi crisi finanziarie delle diocesi locali che hanno dovuto risarcire le vittime; inoltre, da qui sono scattate le denuncie contro il Vaticano e il Papa (nel settembre del 2011, infatti, lo SNAP , una delle maggiori associazioni delle vittime, ha presentato un'istanza al tribunale dell'Aja conto Benedetto XVI il cardinale Tarcisio Bertone, il cardinale Angelo Sodano e l'ex Prefetto della Congregazione, William Levada). In Irlanda si presenta uno scenario più o meno simile; i dati del Rapporto Ferns, infatti, hanno evidenziato lo stesso modus operandi delle diocesi locali che, in molti casi, hanno offerto alle vittime grossi risarcimenti monetari per evitare che i casi diventassero uno scandalo per la diocesi stessa o per la Chiesa in generale. Il lavoro è stato diviso in tre sezioni: una prima parte, di taglio sociologico, espone le matrici alla base del concetto di credibilità, prestando particolare attenzione alla credibilità delle istituzioni (con la Chiesa Cattolica) e dell'individuo (nello specifico, abbiamo parlato della relazione tra il sacerdote e il minore-vittima dell'abuso). Successivamente abbiamo analizzato le modalità di costruzione della notizia tenendo presenti gli aspetti caratterizzanti il processo del newsmaking e i valori notizia impiegati per la rappresentazione dei fatti da parte dei quotidiani stranieri ed italiani. Infine, abbiamo affrontato il problema del panico morale, sulla scorta dello studio di Griswold sulla costruzione di un problema sociale in relazione al ruolo e all'influenza mediatica in questo processo (Griswold 1997). Nella seconda parte del lavoro, abbiamo applicato le categorie dei valori notizia, delle strategie di tematizzazione dei quotidiani e del panico morale nella ricostruzione dei casi di abuso in America e in Irlanda. Al fine di offrire un quadro quanto più ampio dei singoli fatti, abbiamo elaborato una breve ricostruzione storica sulla base della documentazione prodotta da alcune fonti ufficiali, quali: il sito ufficiale della Santa Sede, referti medici, indagini governative e inchieste condotte dalle diocesi locali o da autorità giudiziarie. Nell'impossibilità di esaminare tutta l'enorme mole di materiale prodotto dagli organi di stampa durante questi anni, abbiamo selezionato due tipologie di articoli giornalistici: - Per i quotidiani stranieri abbiamo scelto l'editoriale, quale forma giornalistica capace di esprimere il punto di vista della direzione del giornale. Le testate impiegate come fonti sono così suddivise: a. Per gli Stati Uniti, ricordiamo: The Boston Globe e The New York Times; b. Per l'Irlanda, invece, abbiamo: The Irish Times; Per quanto riguarda l'analisi degli articoli italiani, invece, abbiamo selezionato i tre quotidiani più letti in Italia: Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa. In questa circostanza abbiamo optato per l'articolo di cronaca, come forma di esposizione di una notizia per eccellenza. Alla ricostruzione storica e mediatica dei principali casi di abusi sessuali abbiamo esaminato la risposta proveniente dalla Chiesa Cattolica nei suoi vari livelli, considerando gli interventi pubblici, le decisioni e i gesti significativi valutando le eventuali analogie e differenze di azione compiute nel corso degli anni da Papa Giovanni Paolo II e da Papa Benedetto XVI. In tal senso, abbiamo fatto riferimento a una fitta documentazione disponibile sul sito ufficiale del Vaticano. I risultati dell'analisi fanno riferimento a due precisi ambiti. In primo luogo, abbiamo preso in esame gli effetti prodotti dai media analizzandoli su due fronti: innanzitutto secondo un'ottica autoreferenziale, ovvero valutando eventuali cambiamenti di posizione rispetto all'avvicendarsi dei fatti e, infine, in relazione alla risposta dell'opinione pubblica prendendo come parametri di riferimento i sondaggi di popolarità e gli indici di fiducia e consenso rivolte alla Chiesa Cattolica. In secondo luogo, poi, abbiamo considerato sulla base delle statistiche e dei sondaggi elaborati, qual è stato il feedback dell'opinione pubblica estera in relazione alla risposta della Chiesa (locale e del Vaticano) e a quel preciso periodo temporale in cui la vicenda si stava evolvendo. Questa modalità riflette una questione fondamentale dell'intera vicenda, ovvero, non essendo ancora conclusa la questione degli abusi (sia da parte della Chiesa Cattolica sia in termini di risoluzione dei casi) al momento non si dispongono di cifre esatte per poter fare una stima circa l'efficacia (o meno) delle strategie di gestione del discredito applicate dalla Chiesa Cattolica. La metodologia impiegata per lo studio sugli articoli è di tipo qualitativo, ovvero, ricorrendo a un'analisi semantica e lessicale con cui abbiamo individuato le parole-chiave, le espressioni maggiormente ricorrenti e i temi (come il dibattito sull'istruzione della Crimen Sollicitationis) collegati alla vicenda; in tal senso, abbiamo applicato lo studio condotto da Dardano (1973) per l'analisi del linguaggio dei giornali. Tra le fonti impiegate per la nostra ricerca abbiamo tenuto conto, come già detto, della documentazione pubblicata on line (dai singoli quotidiani come approfondimenti agli articoli), di quella consultabile negli archivi digitali delle diocesi straniere e di quella reperibile nel sito del Vaticano. Inoltre per quanto concerne il materiale estrapolato dalla "rete" disponiamo: 1. Delle perizie psichiatriche, dei referti medici e delle lettere di corrispondenza tra i vari livelli delle gerarchie ecclesiastiche americane. 2. Dei rapporti delle varie commissioni di inchiesta, come ad esempio: il Rapporto Ryan (maggio 2009), il Rapporto Murphy (novembre 2009) e il Cloyne Report (luglio 2011) diffusi in Irlanda a seguito delle indagini condotte negli istituti religiosi, nelle diocesi del territorio sui casi di abusi sessuali contro i minori e impiegati come strumenti di repressione e prevenzione del fenomeno. Altro esempio è il John Jay Report, uno studio condotto dal John Jay College of Criminal Justice dell'Università di New York, commissionato dalla Conferenza Episcopale dei Vescovi d'America Abbiamo estrapolato i regolamenti, le normative promulgate dalle diocesi locali in materia di gestione dei casi di abuso e nell'ambito della tutela dei diritti dei minori. Alcuni esempi sono: il Framework Document del 1996 (dall'Irlanda), oppure, le Essential Norms promulgate nel 2002 dalla Conferenza Episcopale Americana. 3. Dei discorsi ufficiali, dei comunicati stampa e degli interventi pubblici di Papa Giovanni Paolo II, di Papa Benedetto XVI e di alcuni esponenti del Vaticano. Abbiamo, inoltre, le trascrizioni degli interventi del Papa durante gli incontri con le vittime e durante i viaggi compiuti nei Paesi in cui si sono verificati gli episodi di abusi. 4. Delle normative e dei regolamenti canonici in materia di tutela dei minori dal 1962 ad oggi. Come approfondimento per valutare gli effetti che i casi hanno prodotto in Italia abbiamo raccolto anche una prima serie di interviste, realizzate in Italia e a New York e in Irlanda a giornalisti e vaticanisti che si sono interessati alla vicenda. Ricordiamo qualche nome dall'Italia: Marco Tosatti (La Stampa), Marco Politi (Il Fatto Quotidiano), Stefano Maria Paci (Skytg24) e Andrea Tornielli (La Stampa). Dagli Stati Uniti abbiamo invece: Luciano Clerico, Emanuele Riccardi e Alessandra Baldini (inviati dell'agenzia di stampa Ansa) e Monsignor Lorenzo Albacete (Teologo e giornalista del New Yorker ed editorialista del New York Times). Come testimonianza della situazione irlandese, abbiamo invece un'intervista a Gerard O'Connell (giornalista e collaboratore dell'Irish Times). ; The main theme of our project research is about the sociological dynamics of the discredit as a result of the sexual abuse scandal in the Catholic Church; in particular we consider the mass media coverage on the topic from January 2002 to March 2010. Our start point is January 9th, 2002 when the american newspaper, The Boston Globe published an investigation about a sexual abuse case in the Boston Archdiocese. Then, we considered the development of the issue in the american dioceses and in the other European countries too; from all the cases that happened, we decided to consider the Irish situation. The reasons that moved our decision depends on whether the case began in the United States by the newspaper and throughout the development of all the case, the american mass media played the part as opinion leader within international scenario, not only not only for the politics which have been adopted to contrast the phenomenon (among the many, the "zero tolerance" one), either for the adoption of first specific rules concerning the defense of child's rights. The focus in Ireland has been, whereas, set out by the strong Catholic tradition across the nation . The choice of both the USA and Ireland, is motivated by some major reasons seeming to pool the two countries together: first of all, the phenomenon size (namely in the USA from 1950 to 2002, 4392 cases of sexual abuse onto minors have been reported ; while in Ireland between 1965 and 1005, more than 100 sexual abuses complaints have been registered on 21 priests operating in the Ferns diocese itself ). Another following aspect, whereas, refers to the US mass media interest (and the Irish ones as well) about the representation of the occurrence, often presented in "tabloid terms" whose facts occurred over thirty years ago, are now presented as still topical Eventually, the first lawsuits started out in the US, which in several cases have brought the local dioceses to serious financial problems, as these were supposed to refund the victims; in addition there are allegations to the Vatican and the Pope (in fact, in September 2011 the "SNAP" one of the major victims' association submitted a petition to the Aia court against Benedict XVI, cardinals Tarcisio Bertone and Angelo Sodano and the former congregation chief officer, William Levada ). In Ireland the scenario is quite similar to the above mentioned one, the data from the Ferns Report highlighted the same modus operandi in the local dioceses, which, in most cases offered the victims generous monetary refunds to keep the cases from becoming a scandal for the diocese's sake or the entire Catholic church. The work is divided into three sections: in the first one we treated the theory of the credibility, in particular focusing the Catholic Church credibility and the relationship between the priest and the abused minors. Afterwards we analyzed the news' construction modes, considering the news making process and the news values either, employed for the representation of facts on the Italian and also foreign newspapers' behalf. At last, we talked about the construction of the moral panics and the relationship with the Griswold theory on the construction of the social problems by the mass media influence. Finally, we confronted the "moral panic" issue being spotted from Griswold's study about the construction of a social issue in relation to the media role and influence within this process (Griswold 1997). In the second part of this work we have applied the news values categories, newspapers thematization strategies and the moral panic in the reconstruction of the abuses in Ireland and in the USA. In order to offer a wider pattern of the single facts, we have elaborated a short historical reconstruction based on the documents produced and issued by some official sources such as: the Holy See official website, medical reports, governmental investigations and enquiries carried out by local dioceses and judiciary authorities. Due to the enormous amount of material produced by the press organs during all of these years, we have picked out two typologies of journalism articles: - For the foreign newspapers we have chosen the editorial, as the journalistic form able to express the newspaper's editorial management. The newspapers employed as sources are under this division: a. For the United States, we recall: The Boston Globe and The New York Times; b. For Ireland, we have : The Irish Times; As far as the analysis of the Italian articles, we have, whereas, selected the three Italian most read newspapers: Il Corriere della Sera, La Repubblica and La Stampa. Besides the historical and media reconstruction of the major abuse cases, we examined the response moving from the Roman Catholic church within its various levels, considering the public interventions, the decisions and the significant gestures by evaluating any analogy and difference in the action brought on over the years by the Popes John Paul II and Benedict XVI. In this acceptation we have referred to a voluminous documentation available on the Vatican official website. The outcomes of this analysis refer to two sharp fields. Firstly, we have examined the effects produced by the media, analyzing them onto two different hands: first of all through a self-referring perspective, either evaluating any change of position with respect to the occurrences following one another, and at the end, with respect to the public opinion, taking as standards the popularity surveys and the ratings of trust and consensus towards the Catholic church. Second to this, based on the statistics and the elaborated surveys we considered what was the feedback from the foreign public opinion related to the church's response (locally and from the Vatican either) and to that precise time lap where the deeds were taking turns. This modality reflects one fundamental question of the whole matter, that is, since the question of the abuses has not been resolved yet (both from the church behalf and in terms of resolution of the facts) at the moment there is no reliable numbers to estimate the efficiency or not of the discredit management strategies applied by the Catholic church. The methodology employed in this study is qualitative, namely a semantic and lexical analysis through we have found out the key words, the most redundant expressions and the themes (like the debate about the constitution of the "Crimen Sollicitationis") related to the occurrence; in this acceptation we have applied the study carried out by Dardano for the analysis of newspapers' language. Among the sources employed for our research we held in consideration, as previously said, the online edited documentation (by single newspapers as deeper examination on the articles) those available in the digital archives of the foreign dioceses as well the one at disposal on the Vatican website. In addition, as far as the material excerpted from the "web" we have: 1. psychiatric examinations, medical reports and mail letters exchanged among the various levels of the American clergy hierarchy. 2. Several reports from the enquiry boards, for instance: Ryan Report (May 2009), Murphy Report (November 2009), Cloyne Report (July 2011) released in Ireland after the investigations carried out in religious institutes and facilities, in the local diocese on sexual abuses cases onto minors and employed as repression and prevention means of the phenomenon. Another example is the John Jay Report, a study performed by the John Jay College of Criminal Justice, within the New York University, commissioned by the American Episcopal Conference. We have excepted regulations, rules enacted by local dioceses concerning the management of abuse cases and the safeguard of minors' rights. Some of the examples are the Framework Document, 1996, (from Ireland) and the Essential Norms promulgated in 2002 by the American Episcopal Conference. 3. Public speeches, press communications and public appearances by the Popes John Paul II and Benedict XVI, as well as by other Vatican exponents. Also we have the transcriptions from the Pope's statements during the meetings with the victims and the journeys in the countries where the abuses had occurred. 4. Canonical regulations and norms regarding the minors' rights safeguard from to 1962 up to our days. As a deeper examinations in order to evaluate the effects that these cases produced in Italy, we collected a series of interviews too, carried out in Italy, in New York and in Ireland to journalists and vaticanists getting interested in this occurrence. We recall some name from Italy: Marco Tosatti (La Stampa), Marco Politi (Il Fatto Quotidiano), Stefano Maria Paci (Skytg24) and Andrea Tornielli (La Stampa). From the United States we have: Luciano Clerico, Emanuele Riccardi and Alessandra Baldini (reporters from the press agency Ansa) and Monsignor Lorenzo Albacete (Teologist and journalist for New Yorker and editorialist for New York Times). As a testimony for the Irish situation we have an interview to Gerard O'Connell (journalist and collaborator for the Irish Times). ; Dottorato di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale (XXIV ciclo)
L'esercito italiano e la conquista della Catalogna (1808-1811) Uno studio di Military Effectiveness nell'Europa napoleonica Settori scientifico-disciplinari SPS/03 – M-STO/02 La ricerca ha lo scopo di ricostruire e valutare l'effettività militare dell'esercito italiano al servizio di Napoleone I. In primo luogo attraverso un'analisi statistica e strategica della costruzione, e del successivo impiego, dell'istituzione militare del Regno d'Italia durante gli anni della sua esistenza (1805-14); successivamente, è stato scelto un caso di studi particolarmente significativo, come la campagna di Catalogna (1808-11, nel contesto della guerra di Indipendenza spagnola), per poter valutare il contributo operazionale e tattico dei corpi inviati dal governo di Milano e la loro integrazione con l'apparato militare complessivo del Primo Impero. La tesi ha voluto rispondere alla mancanza di studi sul comportamento in guerra dell'esercito italiano e, allo stesso tempo, introdurre nella storiografia militare italiana la metodologia di studi, d'origine anglosassone e ormai di tradizione trentennale, di Military Effectiveness. La ricerca si è primariamente basata, oltre che sulla copiosa memorialistica a stampa italiana e francese, sulla documentazione d'archivio della Secrétairerie d'état impériale (Archives Nationales di Pierrefitte-sur-Seine, Parigi), del Ministère de la Guerre francese (Service historique de la Défence, di Vincennes, Parigi) e del Ministero della Guerra del Regno d'Italia (Archivio di Stato di Milano). Dal punto di vista dei risultati è stato possibile verificare come l'esercito italiano abbia rappresentato, per Bonaparte, uno strumento duttile e di facile impiego, pur in un contesto di sostanziale marginalità numerica complessiva di fronte alle altre (e cospicue) forze messe in campo da parte dell'Impero e dei suoi altri Stati satellite e alleati. Per quanto riguarda la campagna di conquista della Catalogna è stato invece possibile appurare il fondamentale contributo dato dal contingente italiano, sotto i punti di vista operazionale e tattico, per la buona riuscita dell'invasione; questo primariamente grazie alle elevate caratteristiche generali mostrate dallo stesso, ma anche per peculiarità disciplinari e organizzative che resero i corpi italiani adatti a operazioni particolarmente aggressive. ; The Italian Army and the Conquest of Catalonia (1808-1811) A Study of Military Effectiveness in Napoleonic Europe Academic Fields and Disciplines SPS/03 – M-STO/02 The research has the purpose of reconstruct and evaluate the military effectiveness of the Italian Army existed under the reign of Napoleon I. Firstly through a statistic and strategic analysis of the development, and the following deployment, of the military institution of the Kingdom of Italy in the years of its existence (1805-14). Afterwards, a particularly significant case study was chosen, as the campaign of Catalonia (1808-11, in the context of the Peninsular War), in order to assess the operational and tactical contribution of the regiments sent by the Government of Milan and their integration in the overall military apparatus of the First Empire. The thesis wanted to respond to the lack of studies on the Italian army's behavior in war and, at the same time, to introduce the methodology of the Military Effectiveness Studies (of British and American origin and, by now, enriched by a thirty-year old tradition) in the Italian historiography. The research is primarily based, besides the numerous memoirs of the Italian and French veterans, on the archive documentation of the Secrétairerie d'état impériale (Archives Nationales of Pierrefitte-sur-Seine, Paris), of the French Ministère de la Guerre (Service historique de la Défence, of Vincennes, Paris) and of the Italian Ministero della Guerra (Archivio di Stato di Milano). About the results, it has been verified how the Italian army has become a flexible and suitable instrument for Bonaparte, albeit in a context of substantial overall numerical marginality in comparison to the heterogeneous forces available to the Empire and its others satellites and allied states. Regarding the campaign of Catalonia, instead, it was possible to ascertain the fundamental contribution of the Italian regiments, in an operational and tactical perspective, for the success of the invasion. This was primarily due to the excellent general characteristics shown by the expeditionary force, but also to disciplinary and organizational peculiarities that have made the Italian corps suitable for particularly aggressive operations.
This PhD dissertation proposes a geopolitical analysis of a centrasiatic transborder region, theFerghana Valley, which is today divided between the Republics of Uzbekistan, Tajikistan andKyrgyzstan.A basis of the research, field trips spread over the past three years enabled the development ofinstruments such as border analysis, analytical cartography, qualitative interviews with experts andinhabitants, and bibliographical research in the Ferghana as well as the Uzbek capital city Tashkent– noticeably at the French Institute for Central Asian Studies (IFEAC). As a complement to thefield trips in Central Asia, a research period in France permitted both a consolidation in geopoliticaltheory at the French Institute of Geopolitics (IFG) of the University of Paris 8-Vincennes, andadditional bibliographical research at the French National Library (BNF).The topic of the research is hence the analysis of power rivalries between "territorial actors" overthe "territorial stake" of the Fergana Valley, a fertile basin of strategical location within the largergeopolitical context of Central Asia. Always a stake disputed by various territorial actors over time,the Fergana Valley now experiences power rivalries from contemporaneous territorial actors firstand foremost on the border and transborder levels.By doing so, the dissertation introduces a new actor in the classical geopolitical pattern of analysis:the cultural regionalism. The dissertation hence offers a detailed presentation of the culturalregionalism as well as an evaluation of its past and current importance.First focusing on the centrasiatic context and the peculiarities which stem from its borders, theintroduction presents the "stake" Fergana and its economic and physical resources which explainits importance as a territory. A rapid summary of the theory of geopolitics follows, with thejustification of the choice of the French Lacostian school as the theoretical frame of this work. Theintroduction closes on a first analysis of the Fergana as a space of border or frontier.First partThe thesis is structured in two main parts. The first, more theoretical, analyses each of the threeterritorial actors which aim for power over the Fergana: the Nation, the Religion, and the CulturalRegionalism. The presentation of the actors, of their respective embodiments and of theirmanifestations within the ferganian territory is organised according to a conceptual rationale; eventsthat occurred simultaneously are thus not considered following a chronological order, butseparately, according to their respective relations with the actors evoked.The first chapter focuses on the actor Nation. By this word we understand not only the effectiveentity of the Nation-State, and its three embodiments (Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzstan), but alsothe Nation as an ideology which acts upon the territory through nationalistic policies. The force oflegitimation of the actor Nation did certainly not have a neutral role in the rise of this actor in theFerganian landscape, a process which led the Nation to the top of the geopolitical actors' hierarchyin the region. This chapter also analyses the representations of the Fergana which are defined andimplemented by the actor Nation since its birth in the 1920s. In fact, the Fergana valley first becamea transborder region only in these years, through its integration to the Union of the Socialist SovietRepublics (USSR) and its partition between three of the five newly created Socialist SovietRepublics in Central Asia. In the 1990s, following the fall of the USSR and the independence of thethree Republics, the borders which divided the Ferghana stopped being only internal, but becamereal and proper international borders. Among the main representations that this study looks at, aparticular attention is devoted to the study of the national borders , their creation and theirevolution. The chapter also looks at the relations between the different Nation-States, which form aunique actor when they rival against the other territorial actors – the Religion and the CulturalRegionalism –, but three well different ones when they rival among themselves.The second chapter concentrates upon the second territorial actor, the Religion. The Fergana valleyis one of the most pious and practicing region of Central Asia, and the Islamic religion alwaysplayed a major role in the society's administration and organization.The chapter proposes first an analysis of the religion's representations in the Fergana: theautochthonous sufism and its sacred geography within the Fergana valley ; the traditional Islam ofthe soviet times, which became a legal weapon used by Moscow to fight the sufi orthodoxy in theFergana ; the recently appeared wahabbite fundamentalism, imported from Afghanistan, Pakistanand Saudi Arabia following the Soviet invasion of Afghanistan in 1979 and the encounter it inducedbetween the soviet muslims and the afghan mujaheddins.It is then examined how the different variations of the actor opposed themselves to the actor Nation,over the years, for the control over the power and the resources of the Fergana. We look at how thegeopolitical rivalries vary dramatically from the soviet era to that of the independence. A specialattention is devoted to the phenomenon of politization of the actor Religion and the way this led theReligion to endorse a role of protagonist in many of the Fergana's events.The third actor is the Cultural Regionalism. It is hereby referred to the geo-cultural identity of thisregional entity, which persists in spite of nationalistic and religious pressures. In fact, as long as theFergana has existed as a place, it has always constituted a geographical, political and social whole.Although its population has been characterized during the past centuries by high levels ofmultiethnicity and linguistic heterogeneity, this did not prevent the societal amalgamation ofpopulations which always held multiethnicity as normality, and always attributed to each "group" aspecific social role within the system Fergana.Be they of language and culture persian and sedentary, turk and sedentary or turk and nomadic,these populations always shared, each in its own social role, a common life within the region. Thisvery phenomenon is the main characteristic of what we call the Cultural Regionalism of theFergana.However, this equilibrium changes with the loss of political sovereignty of the region and the rise ofnationalism under the soviet sovereignty. This chapter analyzes the main representation of the actorCultural Regionalism over time, and how it took stand against the other territorial actors, especiallythe Nation.Second partThe second part of the dissertation as dedicated to the current manifestations of the territorial actorsin the Fergana valley, particularly in its border zones. This part results from the interviews and fieldobservation undertaken in Central Asia and the Fergana in 2007, 2009 and 2010.The first chapter analyzes the border of this region from a theoretical point of view, especially in thelight of the geostrategical categories of "first line of defence" or "last line of defence".In the context of a transformation of the border from the soviet era to that of the independence, thesecond chapter explores the definition of the centrasiatic border, mainly through the analysis ofborder bureaucracy, control posts and documents required to cross the border. The chapter looks atthemes connected to the commercial transborder relations : how the "three" Fergana still manage tointeract despite growing border rigidity, which social relationships subsist today. The qualitativeinterviews led in the Fergana are a major source in this process of reviewing the difficulties ofpassage and communication within the valley, and of tracking the actual presence of the threegeopolitical actors which play a major role in the border relations and conflicts.The third chapter focuses on the Ferganian urban centres: their history, the relations that theFerganians have with them, et above all the internal and external representations of these centres ina now fully transborder region.The fourth chapter concentrates on the demographical evolutions of the Ferganian population. Upuntil then a land of immigration, the Fergana became a land of emigration following theindependence and the materialization of the borders.The fifth chapter deals with the Ferganian infrastructures, especially the rail and road networks, andtheir relationship of reciprocal influence with the mutation of the borders in the region.The sixth chapter builds on the theoretical interrogations evoked in the introduction of thedissertation and develops a conclusive analysis of the Fergana of the borders nowadays.ConclusionThe conclusion of this research depicts the current Fergana, the relations between the differentgeopolitical actors and underscores the persistence of the actor Cultural Regionalism.It establishes the existence of tremendous changes in the region Fergana from various viewpoints:the Ferganian population has new frames of cultural, political and social reference whoseimportance increased dramatically ; new political forms and cultural structures influenced its selfimage,its very identity: "russian, muslim, ferganian", then "soviet, uzbek (or tajik or kyrgyz),atheist, ferganian", finally "uzbek (or tajik or kyrgyz), secular, ferganian".However, although the territory, its borders and inhabitants changed, and despite the strongobstacles set by the actor Nation, the cultural regionalism succeeded in maintaining itself, byadapting to the new tendencies and ways of interpretation of the Fergana.The conclusion ends with the most recent events of the Fergana, the Andjian massacre in 2005 andthe Osh clash in 2010, which are both analysed in the light of the geopolitical power rivalries whichpersist in the region. ; IntroductionCette thèse de Doctorat propose une analyse géopolitique d'une région transfrontalière de l'Asiecentrale, la vallée du Ferghana, aujourd'hui divisée entre les Républiques d'Ouzbékistan, duTadjikistan et du Kirghizistan.Des séjours sur le terrain répartis sur trois ans ont constitué la base de la recherche, au travers del'analyse des frontières, de la cartographie analytique, d'entretiens qualitatifs avec experts ethabitants, et de recherches bibliographiques dans le Ferghana ainsi que dans la capitale ouzbèkeTachkent – notamment près l'Institut Français d'Etudes sur l'Asie Centrale (IFEAC). Ces périodesde terrain ont été complétées par un séjour de recherche en France, articulé principalement autourd'un approfondissement théorique à l'Institut Français de Géopolitique (IFG) de l'Université ParisVIII-Vincennes et de recherches bibliographiques à la Bibliothèque Nationale de France.L'objet de ce travail est donc l'analyse des rivalités de pouvoir entre les acteurs territoriaux surl'enjeu territorial de la vallée du Ferghana, bassin fertile à la position stratégique dans le contextegéopolitique centrasiatique élargi. Si le Ferghana a toujours constitué un enjeu disputé pardifférents acteurs territoriaux, les rivalités des acteurs actuels jouent aujourd'hui surtout au niveaufrontalier et transfrontalier.Ce faisant, cette thèse introduit un nouvel acteur dans le schéma d'analyse géopolitique classique:le Régionalisme culturel. Le Régionalisme culturel en tant qu'acteur territorial y fait donc l'objetd'une présentation approfondie ainsi que d'une évaluation de son importance passée et actuelle.Concentrée d'abord sur le contexte centrasiatique et les particularités qui découlent de sesfrontières, l'introduction présente ensuite « l'enjeu » Ferghana et ses ressources physiques etéconomiques, qui expliquent l'importance de ce territoire. Elle se poursuit sur un rapide pointthéorique sur la géopolitique et la justification du choix de l'école de pensée géopolitique de YvesLacoste comme cadre théorique de cette recherche, avant de s'achever sur une première analyse del'espace Ferghana à l'aune des catégories de frontières et de confins.Première partieLa thèse est structurée en deux grandes parties. La première, à dominante théorique, analyse à tourde rôle les trois acteurs territoriaux qui rivalisent pour le pouvoir sur le Ferghana: il s'agit de laNation, de la Religion, et du Régionalisme culturel. La présentation des acteurs, de leursdifférentes incarnations et de leurs représentations respectives du territoire ferghanien sont ainsiabordés selon un ordre conceptuel ; des évènements s'étant produits simultanément ne sont ainsipas analysés chronologiquement mais séparément, en tant qu'ils se rapportent aux acteurs évoqués.Le premier chapitre est consacré à l'acteur Nation. Par cette expression nous entendons nonseulement l'entité effective Etat-Nation et ses trois incarnations (Ouzbékistan, Tadjikistan,Kirghizistan), mais aussi la Nation comme idéologie qui agit sur le territoire au travers depolitiques nationalistes. La force de légitimation de l'acteur Nation n'est pas étrangère àl'accroissement de son importance sur ce territoire, qui l'a sans aucun doute mené au sommet de lahiérarchie des acteurs géopolitiques dans cette région. Ce chapitre analyse les représentations duFerghana définies et mises en oeuvres par l'acteur Nation depuis son apparition dans les années1920. La vallée du Ferghana est en effet devenue une région transfrontalière à cette époque, avecson intégration à l'Union des Républiques Socialistes Soviétiques (URSS) et sa partition entre troisdes cinq Républiques Socialistes Soviétiques nouvellement créées en Asie Centrale. Dans lesannées 1990, avec la chute de l'URSS et l'indépendance des trois Républiques, les frontières quidivisaient le Ferghana ne sont plus simplement internes, mais deviennent bel et bieninternationales. Parmi les représentations majeures qui font l'objet d'une étude dans ce chapitre,une attention particulière est portée aux frontières nationales, leur création et leur évolution. Lechapitre s'intéresse également aux relations entre les différents Etats-Nations, qui constituent unacteur unique lorsqu'ils rivalisent contre les autres acteurs territoriaux – la Religion et leRégionalisme culturel – mais aussi trois acteurs différenciés lorsqu'ils se disputent le territoireFerghana entre eux.Le deuxième chapitre est consacré au deuxième acteur territorial, la Religion. La vallée duFerghana est l'une des régions d'Asie centrale les plus croyantes et pratiquantes, et la religionislamique y a toujours eu un rôle important dans la gestion de la société.Ce chapitre propose d'abord une analyse des représentations de la religion dans le Ferghana : lesoufisme autochtone et la "géographie sacrée" des hauts lieux de ce courant de l'Islam dans leFerghana ; l'Islam traditionnel de la période soviétique, devenu une arme légale utilisée parMoscou pour combattre l'orthodoxie soufie du Ferghana ; le fondamentalisme wahabbiterécemment apparu, importé d'Afghanistan, du Pakistan et d'Arabie Saoudite à la suite del'invasion de l'Afghanistan par les Soviétiques en 1979 et de la rencontre qui s'en est ensuivieentre les musulmans soviétiques et les moudjahiddines afghans.Ensuite est examinée la manière dont les différentes variantes de l'acteur Religion se sontopposées, au cours des années, à l'acteur Nation pour le contrôle du pouvoir et des ressources duterritoire Ferghana. Nous y voyons comment la rivalité géopolitique entre deux acteurs varie dutout au tout selon que l'on parle de l'acteur Nation au cours de la période Soviétique ou bien aucours de l'ère ayant succédé à l'indépendance.Une attention particulière est portée au phénomène de politisation de l'acteur Religion et à lamanière dont cette politisation a amené la Religion à assumer un rôle de protagoniste dans denombreux évènements du Ferghana.Le troisième acteur est le Régionalisme culturel. Avec cette expression nous faisons référence àl'identité géo-culturelle de cet ensemble régional, qui persiste malgré les pressions nationalistes etreligieuses. Car aussi loin que remonte son existence en tant que lieu, la vallée du Ferghana atoujours constitué un ensemble géographique, politique et social à part entière. Bien que sapopulation se soit distinguée au cours des derniers siècles par une grande multiethnicité ethétérogénéité linguistique, cela n'a pas empêché un amalgame sociétal de cette population qui atoujours considéré la multiethnicité comme normale, et toujours a attribué à chaque « ethnie » unrôle social déterminé au sein du système Ferghana.Qu'elles soient de langue et de culture persane et sédentaire, de langue et de culture turque etsédentaire, ou bien de langue et de culture turque et nomade, ces populations ont toujours partagé,chacune dans son propre rôle social, une vie communautaire au sein de la région, et ce phénomèneest la caractéristique principale de ce que nous appelons le Régionalisme culturel du Ferghana.Cependant, cet équilibre change avec la perte de souveraineté politique de la région, l'avènementdu nationalisme sous l'action de l'URSS, et la partition de l'espace entre trois Etats nations del'Asie centrale soviétique. Ce chapitre analyse ainsi les principales représentations de l'acteurRégionalisme culturel au cours du temps, et comment il s'est opposé aux autres acteursterritoriaux, en particulier à l'acteur Nation.Seconde partieLa seconde partie de ce travail est dédiée aux manifestations actuelles des acteurs territoriaux dansla vallée du Ferghana, plus spécialement dans ses zones de frontière. Cette partie est le résultat desentretiens et des observations de terrain réalisés en Asie centrale et dans le Ferghana au cours deséjours en 2007, 2009 et 2010.Le premier chapitre analyse la frontière de cette région du point de vue théorique, à la lumièrenotamment des catégories géostratégiques de "première ligne de défense" ou "dernière ligne dedéfense".Dans le contexte d'une modification de la frontière entre l'époque soviétique et celle del'indépendance, le deuxième chapitre approfondit la définition de frontière centrasiatique, autravers principalement de l'analyse de la bureaucratie de frontière, des postes de contrôle et desdocuments requis pour le passage de la frontière. Les thématiques liées aux relations commercialestransfrontalières y sont examinées : comment les "trois" Ferghana parviennent encore à interagirmalgré la rigidité croissante des frontières, quelles relations sociales transfrontalières subsistent ausein du Ferghana d'aujourd'hui. Les entretiens qualitatifs réalisés dans le Ferghana jouent un rôlemajeur pour recenser les difficultés de passage et de communication dans la vallée et déceler, dansles descriptions et jugements recueillis, la présence des trois acteurs géopolitiques qui toujoursjouent un rôle fondamental dans les relations et conflits de frontière.Le troisième chapitre est dédié aux centres urbains du Ferghana : leur histoire, le rapport que lesFerghaniens entretiennent avec eux, et surtout les représentations internes et externes que lescentres urbains assument au sein d'une région désormais tout à fait transfrontalière.Le quatrième chapitre se concentre sur les évolutions démographiques de la population. Jusque làterre d'immigration tout au long des années tsaristes et soviétiques, le Ferghana est devenu uneterre d'émigration avec l'indépendance et la concrétisation des frontières.Le cinquième chapitre s'intéresse au Ferghana des infrastructures, notamment les réseaux ferré etroutier, et leur rapport d'influence réciproque mutations frontalières de cette région.Le sixième chapitre reprend les interrogations théoriques posées dans l'introduction et développeune analyse conclusive sur le Ferghana des frontières aujourd'hui.ConclusionLa conclusion de cette recherche dresse le bilan actuel du Ferghana et des rapports entre lesdifférents acteurs géopolitiques, et observe la persistance de l'acteur Régionalisme culturel.Force est de constater l'existence de changements dans la région Ferghana à différents points devue. La population ferghanienne dispose de nouveaux cadres de référence culturels, politiques etsociaux qui ont pris une importance majeure. Des nouvelles formes politiques et de structuresculturelles ont eu un impact sur son image d'elle-même, sur son identité: "russe, musulmane,ferghanienne", puis "soviétique, ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), athée, ferghanienne", et enfin"ouzbèke (ou tadjike ou kirghiz), laïque, ferghanienne".Cependant, bien que le territoire, ses frontières et la société qui l'habite aient changé, et malgré lesobstacles forts posés par l'acteur Nation, que Régionalisme culturel a réussi à survivre, ens'adaptant aux nouvelles tendances et aux nouveaux modes d'interprétation du Ferghana.La conclusion s'achève sur les évènements les plus récents du Ferghana; massacre d'Andijan en2005 et affrontements à Osh en juin 2010, qui sont analysés à la lumière des rivalités de pouvoirgéopolitique qui persistent encore dans la région.
Il tema della Responsabilità Sociale d'Impresa (RSI) è recentemente tornato ad essere di grande attualità. A partire dalla fine degli anni Novanta, si è assistito infatti ad un proliferare di iniziative e strumenti destinati alla sensibilizzazione delle imprese e al sostegno delle loro buone pratiche; in ambito dottrinale si è ricominciato a scrivere e a discutere sull'argomento, molto spesso anche con un approccio pragmatico, mirato in particolare alla trattazione del tema della rendicontazione sociale e della gestione aziendale della responsabilità sociale. Analizzando la letteratura di riferimento, tuttavia, si scopre come molti problemi fossero già emersi e molte riflessioni fossero già state fatte sul tema, fin dalle prime pubblicazioni degli anni Sessanta e Settanta. In particolare, da una preliminare analisi degli studi anglosassoni sulla Corporate Social Responsibility si è notata un'ampia varietà di approcci, dei quali, però, alcuni si sono rivelati più adatti a costituire l'impostazione teorica di fondo della responsabilità sociale in ottica economico-aziendale. Si allude in particolare tre filoni teorici che, pur essendo concettualmente e formalmente distinti si connotano per avere un approccio strategico e manageriale alla responsabilità sociale d'impresa. Nel primo capitolo, pertanto, si è ritenuto di dover costruire la base teorica di riferimento della RSI in ottica strategica riassumendo i tratti salienti delle seguenti teorie: la Corporate Social Responsiveness la Corporate Social Performance la Stakeholder Theory Il più profondo dibattito sulla RSI divide i sostenitori della stessa da coloro che categoricamente la rifiutano; la scelta di trattare il filone di studi strategici sulla RSI è dovuta alla convinzione di poter superare questa prima antitesi con la dimostrazione dell'attinenza del tema alle problematiche economico aziendali, ovvero dell'attinenza della responsabilità sociale agli aspetti di gestione dell'impresa. L'idea di fondo è pertanto quella di riconoscere alla RSI una valenza strategica, e di poter annoverare le strategie sociali tra le altre strategie a livello aziendale, attribuendo alla gestione delle relazioni con gli stakeholder un ruolo che pervade tutti gli aspetti dell'operatività dell'azienda; non si tratta, pertanto, di incorporare forzatamente nella gestione dell'impresa una serie di valori, di principi e di obiettivi che non le sono propri, ma di scoprire come una consapevole impostazione dei rapporti con l'ambiente di riferimento possa costituire per l'impresa un vantaggio competitivo e possa contribuire, attraverso una gestione di qualità, al raggiungimento della fondamentale finalità dell'impresa di perdurare in condizioni di equilibrio economico. A questo punto, la considerazione della rilevanza della Responsabilità Sociale d'Impresa appare, a nostro avviso, se non auspicabile quanto meno condivisibile. Il concetto che meglio si adatta a questo approccio è quello di Corporate Social Responsiveness, ovvero di "sensitività", di "rispondenza" sociale: l'impresa che vuole gestire i rapporti con il suo ambiente di riferimento deve sviluppare questa sensibilità a cogliere le istanze che da esso provengono e a mediare i suoi imprescindibili obiettivi con le aspettative degli stakeholder; per fare ciò l'impresa deve approntare al suo interno una serie di processi di gestione, di strumenti che le permettano di instaurare un proficuo dialogo con l'ambiente esterno. Come si può facilmente notare, il concetto è ben lontano dall'originario significato di responsabilità sociale come obbligazione, come dovere morale dell'impresa di rispettare valori la cui individuazione è, a questo livello - così generico - difficilmente attuabile. Se l'impresa è chiamata a rispettare dei principi di fondo, è importante che questi scaturiscano dal concreto interagire con i suoi interlocutori: ecco allora che la Stakeholder Theory costituisce in termini descrittivi, normativi e strumentali la matrice teorica di riferimento, individuando quali sono i soggetti verso cui l'impresa è responsabile. La teoria degli stakeholder ha contribuito a definire una nuova visione dell'impresa, da "scatola nera" di trasformazione di input in output a centro di molteplici relazioni con tutti coloro che, per dirla con Freeman, "influenzano o sono influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di un'organizzazione-impresa". L'impresa necessita di risorse per lo svolgimento dell'attività, e di ottenere consenso e legittimazione al suo agire; in mancanza di ciò finisce con il compromettere la sua stessa capacità di creare valore economico. La responsabilità sociale d'impresa, pertanto, non è semplicemente un vincolo all'equilibrio economico: è un arricchimento della finalità dell'impresa che, se correttamente percepito può trasformarsi anche in vantaggio competitivo. Il passaggio successivo diviene pertanto quello di incorporare la RSI in tutta la gestione aziendale, dalle strategie fino all'attività operativa, dalla pianificazione alla misurazione e rappresentazione dei risultati raggiunti. L'incorporazione degli obiettivi sociali nell'impresa comporta necessariamente un diverso approccio alla misurazione della performance: i modelli di Corporate Social Performance si sono occupati di ciò fin dagli anni Ottanta, evidenziando innanzitutto la pervasività della responsabilità sociale, che si può rappresentare e misurare a livello di principi, di processi e di risultati concreti. Il filone della Corporate Social Performance riesce pertanto a conciliare l'approccio di responsabilità sociale basato sui valori e quello che, più pragmaticamente, mette in luce l'esigenza per l'impresa di dotarsi di processi e di strumenti per gestirla in ottica strategica. Se principi, processi e risultati sono ugualmente rilevanti, allora l'impresa deve ricorrere a diversi strumenti, di volta in volta finalizzati a: valutare la coerenza dei principi di RSI con la mission e le strategie, esplicitare le fasi dei processi e le attività da porre in essere per implementare la RSI, misurare e rendicontare la performance sociale, ovvero il grado di attuazione delle politiche sociali nell'ambito delle relazioni con gli stakeholder. Le strategie sociali comprendono pertanto gli obiettivi relazionali dell'azienda con i suoi stakeholder, e la misurazione delle performance diviene i tal senso uno dei momenti del più ampio processo di pianificazione e controllo delle strategie stesse. Ecco allora che la letteratura di riferimento nell'ambito della Corporate Social Responsibility si intreccia con gli studi che si sono occupati di dare un contenuto alle strategie sociali d'impresa e di classificarle sulla base di molteplici aspetti, quali ad esempio il diverso grado di reattività dell'impresa alle sollecitazioni del suo ambiente di riferimento, le categorie di stakeholder a cui le strategie si rivolgono e la tipologia di scambi di cui si compone la relazione con essi, la tipologia di problematiche sociali da monitorare e il tipo di organizzazione aziendale che si dimostra più adatta a ciò, o, infine, le strategie di influenza che gli stakeholder possono porre in essere per ottenere soddisfazione delle loro attese nei confronti dell'impresa. Dopo aver ribadito la rilevanza strategica della RSI e aver espresso i possibili contenuti sociali incorporabili negli obiettivi dell'impresa, si è ritenuto di dover trattare le modalità e gli strumenti di implementazione delle strategie sociali stesse. Il secondo capitolo è pertanto dedicato all'analisi di alcuni strumenti proposti nell'ambito della responsabilità sociale d'impresa, organizzati secondo l'approccio teorico della Corporate Social Performance (CSP). Partendo dall'osservazione della varietà di modelli e strumenti di riferimento, si è ritenuto infatti di procedere con una proposta di tassonomia che vede distinti: dichiarazioni di principi e di valori; standard di processo per la gestione della RSI; standard di rendicontazione, sia in termini di processi che di contenuti. La tassonomia ricalca la tripartizione principi-processi-risultati che caratterizza la CSP e inoltre corrisponde a grandi linee ad altre proposte di classificazione degli strumenti di RSI recentemente formulate in dottrina. Le dichiarazioni di principi e di valori sono quei documenti, quali ad esempio il Global Compact ONU, le linee guida OCSE per le imprese multinazionali, le convenzioni ILO, che contengono alcuni principi fondamentali sul rispetto dei diritti umani, dell'ambiente, dei diritti dei lavoratori, sulla lotta alla corruzione - per citarne solo alcuni - a cui le imprese sono chiamate ad aderire. Tali dichiarazioni di principi, oltre alla valenza intrinseca di sensibilizzazione delle imprese e di promozione delle buone prassi, possono dare utili suggerimenti sulla costruzione di strumenti interni aziendali quali la carta dei valori o il codice etico, o sull'incorporazione di obiettivi sociali nella mission. Questi strumenti interni aziendali caratterizzano quel livello di implementazione della RSI che nel capitolo 4 è stato ripreso e definito come "strategico", proprio perché di competenza del vertice aziendale e finalizzato alla creazione e diffusione nell'azienda di un'autentica cultura della responsabilità sociale. La seconda categoria di strumenti accoglie invece i cosiddetti "standard di gestione", che sostanzialmente svolgono la medesima funzione dei sistemi di gestione della qualità: trattasi infatti di una serie di norme, anche di tipo organizzativo e procedurale, il cui rispetto può comportare per l'impresa un riconoscimento esterno, una sorta di certificazione di qualità sociale. Nell'ambito di tale categoria se ne sono presentati due in particolare: la norma SA 8000 e il modello Q-RES. La norma SA 8000 è sostanzialmente uno strumento mono-stakeholder, trattando esclusivamente del rapporto con i lavoratori dipendenti; di fatto, però, assume rilevanza per il meccanismo, in essa contenuto, di ottenimento della certificazione sociale, che richiede la definizione e implementazione di un sistema di gestione. Il sistema di gestione SA 8000 sottolinea la necessità per l'impresa di dotarsi di una politica della responsabilità sociale, di sistemi di pianificazione, implementazione e controllo della stessa, e di un adeguato piano di rilevazione e comunicazione delle attività sociali poste in essere. Il modello Q-RES stimola l'azienda a gestire la responsabilità sociale come un processo, che partendo dalla visione etica e passando attraverso alcuni strumenti di attuazione e controllo, giunge alla rendicontazione sociale e alla verifica esterna. I diversi strumenti di Q-RES si ricompongono nell'unitario processo, finalizzato al raggiungimento dell'eccellenza nella gestione della RSI. La considerazione della RSI come processo porta con sé anche la positiva conseguenza di far emergere il vero ruolo della rendicontazione sociale: il bilancio sociale non viene più visto pertanto come fine in sé, ma diviene un mezzo, uno strumento informativo sulla gestione aziendale e uno strumento di comunicazione con gli stakeholder. Tra i modelli che si occupano dei processi di rendicontazione, inseriti nella terza categoria di strumenti, spiccano il modello AA 1000 e il modello della Copenhagen Charter. Il modello AA 1000 esprime le fondamentali fasi di cui si compone il processo: pianificazione, rilevazione, controllo e rendicontazione; ciascuna fase è integrata nel più ampio contesto dei processi di gestione aziendale e si caratterizza per opportune modalità di coinvolgimento degli stakeholder, in termini di fissazione degli obiettivi, di raccolta delle informazioni e di espressione di un giudizio sui risultati aziendali e sulla qualità del reporting sociale. Il modello della Copenhagen Charter, invece, sottolinea la rilevanza strategica della rendicontazione sociale; un costante dialogo con gli stakeholder permette di accorciare i circuiti di risposta dell'azienda agli eventi esterni, senza attendere che tali accadimenti siano rilevati dagli strumenti contabili tradizionali, nel momento in cui determinano conseguenze in termini di risultati economico-finanziari. In quest'ottica, pertanto, i contenuti della rendicontazione sociale devono essere rivisti, per accogliere al loro interno la misurazione delle performance sociali; il controllo delle strategie sociali, infatti, richiede parametri ad hoc, utilizzabili sia per finalità interne di gestione, che per scopi di comunicazione e relazione con gli stakeholder. Nel panorama degli standard di contenuto della rendicontazione sociale non è tuttavia molto diffuso l'utilizzo di indicatori di performance: tra i pochi esempi in tal senso si sono riscontrati il modello GRI e il Social Statement del progetto CSR-SC del Ministero del Welfare italiano; in entrambi i casi è stato analizzato il contenuto del modello, soprattutto con riferimento agli indicatori sociali proposti. Ciascuna azienda può, evidentemente, ipotizzare una propria lista di indicatori rilevanti, sulla base delle caratteristiche specifiche dell'operatività aziendale e dei propri stakeholder; tuttavia, nell'ambito della rendicontazione sociale, si ritiene di dover ribadire l'importanza di un livello minimo di standardizzazione degli indicatori. In assenza di uniformità sulle denominazioni e sui contenuti degli indicatori, il report sociale fallisce il suo fondamentale scopo di permettere agli stakeholder di esprimere un giudizio effettivo sulla responsabilità sociale dell'impresa, non rendendo possibile il confronto delle sue performance nel tempo e nello spazio. La ricerca degli indicatori sociali si è pertanto spostata dagli standard di riferimento alla prassi di rendicontazione: nel terzo capitolo della tesi si sono riportati gli esiti di una ricerca empirica effettuata sui report sociali delle società quotate italiane. La finalità della ricerca è stata quella di presentare un'elencazione di possibili indicatori di performance sociale, attraverso la raccolta e sistematizzazione di tutti quelli riscontrati nei bilanci sociali e di sostenibilità analizzati. La ricerca dei bilanci sociali è stata effettuata su internet; sono stati visitati i siti di tutte le società quotate italiane (277 società al 1 dicembre 2005), dai quali si sono riscontrati solamente 32 casi di bilanci sociali e di sostenibilità . Dalla lettura dei bilanci è stato possibile estrapolare gli indicatori sociali utilizzati da ciascuna società nel report; con il termine di indicatori sociali si sono intese, in questa sede, tutte quelle informazioni quantitative (monetarie e non, espresse in numero e in percentuale) inserite nel report a complemento delle informazioni discorsive, anche sotto forma di tabelle e grafici. Nella fase successiva, gli indicatori raccolti per ciascuna società sono stati resi uniformi, quanto a denominazioni e contenuto, e sono stati inseriti in alcune tabelle di sintesi, dalle quali è stato possibile estrapolare la frequenza con cui tali indicatori sono presenti nei diversi bilanci analizzati. Nelle tabelle di sintesi gli indicatori sono stati organizzati sulla base delle categorie, corrispondenti ai diversi stakeholder di riferimento, e all'interno delle categorie sono stati suddivisi per aspetto, ovvero per tipologia di problematica sociale (ad esempio, nella categoria delle risorse umane, gli aspetti possono essere la formazione, la salute e sicurezza, la remunerazione ecc.). L'analisi empirica ha evidenziato lo scarso livello di standardizzazione che caratterizza la prassi di rendicontazione sociale in Italia; gli indicatori utilizzati dalle società quotate italiane sono moltissimi, ma spesso dietro a denominazioni diverse si nascondono identici contenuti o misurazioni di performance analoghe, che tuttavia difficilmente esprimono tutto il loro potenziale informativo, nel momento in cui non sono chiaramente comprensibili e soprattutto confrontabili. Il processo di omogeneizzazione degli indicatori è stato pertanto piuttosto laborioso, ma ha comunque portato all'ottenimento del prodotto atteso: un elenco di indicatori di performance sociale che si prestano non solo ad essere inseriti nella rendicontazione sociale, ma anche ad essere utilizzati come strumenti di misurazione e controllo della responsabilità sociale dell'impresa. Nel quarto capitolo sono state infatti riprese le problematiche di implementazione delle strategie sociali, non più dal solo punto di vista dei modelli e degli strumenti utilizzabili in tal senso dalle imprese, ma con specifico riferimento ai processi di pianificazione e controllo. Il processo di pianificazione e controllo della RSI parte dalla mission aziendale, attraverso l'inserimento in essa del fondamentale obiettivo di equilibrio relazionale con gli stakeholder. Dalla mission discendono le strategie sociali, che si possono scomporre in politiche sociali verso le diverse categorie di stakeholder (ad esempio, politica dei dividendi verso gli azionisti, politica di pari opportunità nei confronti del personale). Le politiche sociali a loro volta si declinano in obiettivi sociali specifici, il cui raggiungimento può essere misurato e monitorato attraverso opportuni parametri, ovvero indicatori di performance sociale. L'individuazione degli specifici obiettivi, ovvero degli aspetti rilevanti nella relazione dell'impresa con le diverse categorie di stakeholder, ha permesso di effettuare una scrematura degli indicatori di performance rilevati nel terzo capitolo, selezionando quelli che appaiono più significativi rispetto agli obiettivi posti. Tali indicatori sono stati inseriti nell'ambito di un sistema di misurazione delle performance, che a sua volta è scaturito dalla fusione di alcune proposte dottrinali nell'ambito della Corporate Social Performance e degli studi di pianificazione e controllo strategico. Il set di indicatori proposto, tuttavia, non ha alcuna pretesa di esaustività, né tanto meno di risoluzione della complessa problematica della misurazione delle performance sociali, ma ci permette di fare alcune osservazioni conclusive: nel momento in cui si riconosce la rilevanza strategica per l'impresa del rapporto con gli stakeholder, nasce l'esigenza di un processo di gestione consapevole della responsabilità sociale; tale processo deve necessariamente avvalersi di strumenti ad hoc, tra i quali spiccano in particolare gli strumenti relazionali quali il bilancio sociale e il bilancio di sostenibilità; poiché non si può gestire ciò che non si conosce, anche gli strumenti di misurazione e reporting interno devono focalizzarsi sugli oggetti specifici del rapporto impresa-stakeholder; infine, la responsabilità sociale deve pervadere tutta l'organizzazione, dai vertici fino ai livelli più operativi; questo significa che anche i sistemi di valutazione e incentivazione devono essere ripensati in termini di obiettivi sociali attribuibili alle funzioni aziendali e ai singoli manager. La misurazione delle performance sociali ai diversi livelli dell'organizzazione potrebbe in particolare suggerire la costruzione di una balanced scorecard sociale; si ritiene che la proposta di un set di indicatori possa essere un primo passo in questa direzione. Infine, con riferimento alla rendicontazione agli stakeholder, e quindi verso l'esterno dell'impresa, si ritiene che gli indicatori di performance possano arricchire gli standard di contenuto esistenti, contribuendo in tal senso a diffondere una cultura del bilancio sociale come strumento di vera comunicazione, non solo di pura immagine. ; The thesis deal with the implementation of corporate social responsibility in planning and control processes. After a review of the main theories concerning the corporate social responsibility and the social strategy of the firm, the social reporting process is treated, with reference to main international and national standards of sustainability management and reporting (e.g. GRI, GBS). The empirical research presented in chapter three is aimed at showing the large variety of social and environmental indicators used in social reporting by a sample of big Italian firms: the sample is formed by all Italian listed companies with a social, environmental or sustainability report published in their website. The last chapter contains the conclusion on the empirical research, and a proposal of management process in terms of social responsibility implementation; in particular an hypothetical set of performance indicators is presented as a mean to measure, report and control the social responsibility of firms.
Il lavoro prende in considerazione i principali avvenimenti che hanno influenzato l'evoluzione economica finanziaria del nostro Paese nella crisi del cambio 1992,ho voluto concentrare l'attenzione sugli avvenimenti a partire dal 1979 e analizzando l'intervento delle autorità monetarie. Allora non esisteva l'Euro, esisteva il Sistema Monetario Europeo con una sorta di valuta di riferimento, l'ECU, a cui le varie valute nazionali aderenti al sistema dovevano stare agganciate, entro una percentuale di scostamento non superiore al 2,25% per alcune e al 6% per altre, fra cui la lira. La Germania vantava di un'economia più solida di altri, con un sistema produttivo di avanguardia e con una moneta forte che faceva da riferimento per tutte le economie. L'Italia aveva un' economia che si doveva adattare continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica. Nel marzo 1979, l'Italia aveva aderito al Sistema Monetario Europeo, una decisione orientata, insieme con la politica estera, al rafforzamento dei vincoli comunitari nell'intento di dar luogo alla creazione di un'Europa Unita; consapevoli che questa sarebbe stata una scelta più di carattere politico che economica. L'adesione allo Sme avvenne in un clima di divergenza, Paolo Baffi allora governatore della Banca d'Italia, faceva infatti presente che una valuta debole come la lira, avrebbe trovato difficoltà ad abbandonare il regime delle svalutazioni facile. diversi economisti, oltre a Baffi,al di là di dove sedessero, se in Parlamento come Luigi Spaventa o alla direzione della Banca d'Italia o ancora all'interno del governo come Rinaldo Ossola, sostenevano la loro contrarietà all'ingresso nel Sistema Monetario Europeo, esponendo motivazioni tra loro eterogenee. Tutti si attendevano che il vincolo esterno dei cambi stabili costringesse il paese a seguire una politica di rigorosa stabilità monetaria. L'Italia aveva ottenuto il privilegio di una banda di oscillazione del 6%, contro il 2,5% degli altri paesi, ma tutti intendevano che l'adesione all'accordo di cambio avrebbe imposto una politica di rientro all'inflazione. Contro le aspettative generali, l'inflazione proseguì invece più violenta di prima. Il tasso di cambio, assunse con l'avanzare del progetto unitario una significatività crescente, aggiungendo alla sua funzione di strumento di orientamento, quella di fattore di credibilità. Le autorità monetarie italiane non accettarono mai una svalutazione esterna della lira pari a quella interna. Fra il 1980 e il 1987, i riallineamenti di parità nell'ambito dello Sme si susseguirono numerosi e coinvolsero numerose valute. Ogni riallineamento segnò una svalutazione della lira rispetto al marco. Dopo il 1987, i riallineamenti vennero sospesi e il corso della lira subì un solo ritocco al ribasso, in occasione del rientro della banda stretta. La politica di fatto seguita fu dunque quella di una graduale rivalutazione della lira, in termini reali, rispetto al marco. All'inizio degli anni novanta venne firmato il trattato di Maastricht, il contenuto degli accordi si inseriva in un contesto politico- sociale interno altamente critico, nel quale le energie politiche a lungo represse dalla guerra fredda si erano liberate, grazie al crollo del Muro di Berlino, spingendo quindi gli equilibri del sistema politico e economico con una rottura che si verificò del tutto nel 1992. Se il processo d'integrazione europeo era stato spesso rappresentato dalla classe politica come una sorta di panacea alle tare italiane, a Maastricht, si celebrò l'innocenza dell'europeismo italiano che vide stravolgere e crollare la visione retorica con la quale aveva guardato alla costruzione europea a partire degli anni '70. Per la storia dell'integrazione europea, il trattato di Maastricht rappresenta una pietra miliare, anche se con l'entrata in vigore ha creato ancora più instabilità, in quanto caratterizzato da uno scarso realismo degli obiettivi di convergenza delle variabili macroeconomiche, da mancanza flessibilità e insieme da asimmetrie dei comportamenti possibili delle banche centrali. La scena economica internazionale era segnata da: tendenze divergenti dei tassi di interesse, al ribasso negli Stati Uniti per rilanciare l'economia, al rialzo in Germania per gli effetti dell'unificazione tedesca, con conseguenti indebolimenti del dollaro, rafforzamento del marco, tensione nello Sme; le incertezze circa il completamento della unificazione monetaria in Europa, quale è stata sancita nel trattato di Maastricht. Questi sviluppi esterni coglievano l'economia italiana in una fase di attività produttiva debole, inflazione in lenta discesa, squilibri irrisolti nella finanza pubblica. Tra gli accadimenti che sono susseguiti, sono da richiamare i seguenti: l'esito negativo del referendum danese sul trattato di Maastricht del 2 giugno, infatti il referendum di Copenaghen si conclude al fotofinish (50,7%) di no contro il (49,3%) di si; mancata riduzione dei tassi di interesse in Germania; voci di svalutazione della lira; rialzo dei tassi ufficiali in Germania. Nel corso dell'anno 1992 si assiste a una piena recessione, infatti con il debito pubblico al 105,5 del Pil, con un fabbisogno attorno al 10,4 del Pil, con il passivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente in crescita, la crisi era alle porte. Il 6 giugno la Banca d'Italia aumenta il tasso sulle anticipazioni a scadenza fissa di mezzo punto percentuale, irrigidendo così la politica monetaria, Moody's mise sotto controllo l'Italia per la sua incapacità nella riduzione del debito pubblico. Il 29 giugno il cambio contro il marco arrivò a 756,54 a fronte di una sostanziale stabilità nei confronti della sterlina e della peseta, Amato per effettuare un risanamento economico annunciò il 5 luglio la manovra da 30000 miliardi di lire, e con quella successiva di 100000 miliardi dà inizio al risanamento finanziario del Paese. Le vicende relative alle turbolenze che hanno sconvolto le parità valutarie dei paesi aderenti allo Sme hanno avuto inizio con la svalutazione del 7% della lira, la quale appariva quasi un riallineamento da manuale. Il 21 settembre, la Banca d'Italia, annunciò che le autorità monetarie si sarebbero astenute all'effettuare la quotazione ufficiale della lira. Questo fu un colpo durissimo per l'Italia che fino a quella data, aveva fatto del cambio della lira l'architrave della sua politica economica e finanziaria, sostenendo pesanti oneri in termini di riserve valutarie, infatti tra il giugno e il settembre vennero impiegate 53000 miliardi di riserve; colpo durissimo anche per la Comunità, colpita al cuore proprio nello strumento fondamentale, lo SME, investito nel ruolo di preparare e garantire le condizioni di stabilità, generalizzata e consolidata, che avrebbero dovuto, poi consentire quel salto di qualità dell'Europa, con il decollo della Unione Economica e monetaria, la moneta unica e il sistema delle banche centrali europee. Successivamente le tensioni speculative investono la lira , la sterlina e la peseta: momento in cui Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio. Subito dopo la svalutazione del 1992, si aprì un periodo di svalutazione generale della lira rispetto alle altre monete, periodo che si protrasse all'incirca fino al marzo 1993. Tra il 1992 e 1993 vennero firmati due accordi triangolari il protocollo Amato 31 luglio 1992 che abolì il sistema di scala mobile, completato da Ciampi nel luglio 1993, con la quale si fissarono gli obiettivi comuni di politica di reddito. Dopo di allora la lira rimase agganciata al dollaro. Il legame fra lira e dollaro potrebbe essere frutto dell'agire spontaneo dei mercati, ma potrebbe anche essere scaturito dalla decisione delle autorità monetarie italiane di ritornare alla vecchia linea di cambio differenziato, già seguita negli anni prima del 1979, fino all'ingresso dello Sme. Il problema essenziale delle autorità di governo era quello di evitare che la svalutazione esterna della lira si traducesse in inflazione importata, l'aver agganciato la lira al dollaro può essere inteso come una misura ragionevolmente coerente con l'obiettivo della stabilità monetaria. Di certo che la svalutazione della lira non ha contribuito alla soluzione del problema economico italiano, ha rischiato di aggravarlo producendo perdita di credibilità per il Paese. La crisi del sistema monetario europeo ha favorito una ripresa dei dibattiti teorici sui modelli di crisi valutarie, che si distinguono tra prima e seconda generazione, quelli di prima collegano l'emergere della crisi all'incompatibilità tra politiche macroeconomiche e stabilità del cambio; quelli di seconda, il cui sviluppo è stato stimolato dagli stessi fatti del 1992, nella quale l'emergere di una crisi appare come una scelta endogena, effettuata dalle autorità in base alle proprie preferenze e all'interazione con gli agenti economici privati. Analizzando i modelli si può concludere che mentre la rappresentazione di un regime di cambio fisso per mezzo di un livello puntuale del cambio non rappresenta un limite interpretativo rilevante, le ipotesi relative al processo di espansione del credito e all'esistenza di un livello di soglia delle riserve, nei modelli di Krugman, non sembrano dar conto adeguatamente della realtà dei fenomeni economici. I modelli di prima generazione danno una spiegazione "fondamentalista" delle crisi nel senso che fanno risalire la crisi allo sfasamento dei fondamentali macroeconomici dell'economia, in particolare l'esistenza di politiche fiscali espansive e prolungati deficit di bilancio incompatibili con un impegno di cambio fisso. I modelli di seconda generazione sottolineano il comportamento ottimizzante del policy-maker che non subisce più la crisi, ma decide di avviarla perché tale scelta minimizza i costi, nel senso che i costi in termini di reputazione a cui il governo va incontro uscendo dall'impegno sono comunque minori dei costi di rimanere in termini di incremento dei tassi di interesse e riduzione delle riserve valutarie. I modelli di terza generazione pongono enfasi sulla presenza di squilibri di natura finanziaria con la conseguenza che delle crisi valutarie non sono più viste come fenomeni a sé stanti ma come parte di una crisi sistemica in cui le crisi valutarie e bancarie si autoalimentano. Le ipotesi di perfetta previsione, d'altra parte, implicano che la razionalità degli agenti sia tale da non permette il realizzarsi di peso problem, i quali invece vengono osservati nella realtà. (Riassunto tradotto in inglese) Labour takes into account the main events that influenced the financial economic development of our country in the 1992 exchange rate crisis, I wanted to focus on the events since 1979 and analysing the intervention of the monetary authorities. At that time there was no euro, there was the European Monetary System with a kind of reference currency, the ECU, to which the various national currencies participating in the system had to be hooked, within a variance rate of no more than 2.25% for some and 6% for others, including the lira. Germany boasted of an economy stronger than others, with a state-of-the-art production system and a strong currency that was the benchmark for all economies. Italy had an economy that had to adapt continuously to the consequences of a reckless, short-sighted and short-term management of the country, the result of an incompetence of the political class. In March 1979, Italy had joined the European Monetary System, a decision aimed, together with foreign policy, at strengthening EU ties in order to create a united Europe; aware that this would be a more political than an economic choice. The accession to the Sme took place in a climate of divergence, Paolo Baffi then governor of the Bank of Italy, in fact, pointed out that a weak currency such as the lira, would find it difficult to abandon the regime of devaluations easy. several economists, in addition to Baffi, beyond where they sat, whether in Parliament as Luigi Spaventa or at the management of the Bank of Italy or even within the government as Rinaldo Ossola, argued their opposition to entry into the European Monetary System, exposing heterogeneous motivations among themselves. Everyone expected that the external constraint of stable exchange rates would force the country to follow a policy of strict monetary stability. Italy had obtained the privilege of a 6% swing band, compared with 2.5% in the other countries, but all wanted that accession to the exchange agreement would impose a policy of returning to inflation. Against general expectations, however, inflation continued more violent than before. The exchange rate, as the unitary project progressed, became increasingly significant, adding to its role as a guideline, that of a credibility factor. The Italian monetary authorities never accepted an external devaluation of the lira equal to the internal one. Between 1980 and 1987, the realignments of parity within the Sme followed numerous and involved numerous currencies. Each realignment marked a devaluation of the lira against the mark. After 1987, the realignments were suspended and the course of the lira underwent only one downward adjustment, on the occasion of the return of the narrow band. The policy followed was therefore that of a gradual revaluation of the lira, in real terms, with respect to the mark. At the beginning of the 1990s the Maastricht Treaty was signed, the content of the agreements was part of a highly critical internal political-social context, in which political energies long repressed by the Cold War had been freed, thanks to the collapse of the Berlin Wall, thus pushing the balance of the political and economic system with a break that occurred entirely in 1992. If the process of European integration had often been portrayed by the political class as a kind of panacea to the Italian tare, in Maastricht, the innocence of Italian Europeanism was celebrated, which saw the rhetorical vision with which it had looked to the construction of Europe since the 1970s, overturned and collapsed. For the history of European integration, the Maastricht Treaty represents a milestone, although with the entry into force it has created even more instability, as it is characterized by a lack of realism in the convergence objectives of macroeconomic variables, lack of flexibility and at the same time as asymmetries of the possible behaviour of central banks. The international economic scene was marked by: divergent trends in interest rates, downwards in the United States to boost the economy, up in Germany due to the effects of unification Germany, resulting in a weakening of the dollar, a strengthening of the mark, tension in the SME; The uncertainty about the completion of monetary unification in Europe, as enshrined in the Maastricht Treaty, is. These external developments caught the Italian economy in a period of weak production activity, slow-falling inflation, unresolved imbalances in public finances. Among the events that have followed, the following are to be recalled: the negative outcome of the Danish referendum on the Maastricht Treaty of 2 June, in fact the Copenhagen referendum ends at photofinish (50.7%) no versus (49.3%) yes; failure to reduce interest rates in Germany; rumours of the valuation of the lira; official interest rates in Germany. During the year 1992 there is a full recession, in fact with public debt at 105.5 of GDP, with a requirement around 10.4 of GDP, with the passive of the current account balance growing, the crisis was upon us. On 6 June, the Bank of Italy increased the rate on fixed-term advances by half a percentage point, thus tightening monetary policy, and Moody's brought Italy under control for its inability to reduce public debt. On 29 June, the exchange rate against the mark reached 756.54 in the face of substantial stability against the pound and the peseta, Amato to carry out an economic recovery announced on 5 July the maneuver of 30000 billion lre, and with the next one of 100000 billion begins the financial consolidation of the country. The events surrounding the turmoil that have disrupted the currency parities of the SME member countries began with the devaluation of 7% of the lira, which appeared to be almost a textbook realignment. On 21 September, the Bank of Italy announced that the monetary authorities would refrain from making the official listing of the lira. This was a very serious blow for Italy, which until that date had made the lira change the backbone of its economic and financial policy, bearing heavy burdens in terms of foreign exchange reserves, in fact between June and September 53 trillion reserves were used; It is also a very serious blow for the Community, which has been struck at the heart by the fundamental instrument, the EMS, which has been invested in the role of preparing and guaranteeing the conditions of stability, generalised and consolidated, which should have allowed Europe to jump in quality, with the take-off of the Economic and Monetary Union, the single currency and the system of European central banks. Subsequently, speculative tensions hit the lira, sterling and peseta, when Italy and Great Britain announced they were leaving the European Exchange Agreements. Immediately after the devaluation of 1992, a period of general devaluation of the lira against the other currencies opened up, which lasted approximately until March 1993. Between 1992 and 1993, two triangular agreements were signed, the Amato protocol on 31 July 1992, which abolished the escalator system, which was completed by Ciampi in July 1993, which set common income policy objectives. After that, the lira remained pegged to the dollar. The link between the lira and the dollar may be the result of the spontaneous action of the markets, but it could also have stemmed from the decision of the Italian monetary authorities to return to the old differentiated exchange line, which was already followed in the years before 1979, until the entry of the Sme. The main problem of the government authorities was to prevent the external devaluation of the lira from translating into imported inflation, the having pegged the lira to the dollar can be understood as a measure reasonably consistent with the objective of monetary stability. Certainly the devaluation of the lira did not contribute to the solution of the Italian economic problem, it risked aggravating it, producing a loss of credibility for the country. The crisis in the European monetary system has encouraged a resumption of theoretical debates on currency crisis patterns, which stand out between the first and second generations, those of first generation link the emergence of the crisis to the incompatibility between macroeconomic policies and exchange rate stability; Second, the development of which was stimulated by the same events of 1992, in which the emergence of a crisis appears to be a choice "It's not just a way of using private economic agents," he said. By analysing the models, it can be concluded that while the representation of a fixed exchange rate regime by means of a timely exchange rate does not represent a relevant interpretive limit, assumptions about the credit expansion process and the existence of a level of reserve threshold, in Krugman's models, do not seem to adequately account for the reality of economic phenomena. First-generation models give a "fundamentalist" explanation of crises in the sense that the crisis is traced back to the shift in macroeconomic fundamentals of the economy, in particular the existence of expansionary fiscal policies and prolonged budget deficits incompatible with a fixed exchange rate commitment. The second-generation models emphasize the optimising behaviour of the policy-maker who is no longer suffering from the crisis, but decides to start it because this choice minimizes costs, in the sense that the reputation costs that the government faces by exiting the commitment are still lower than the costs of staying in terms of raising interest rates and reducing currency reserves. Third-generation models place emphasis on financial imbalances, with the consequence that currency crises are no longer seen as stand-alone phenomena but as part of a systemic crisis in which currency and banking crises feed themselves. The hypotheses of perfect prediction, on the other hand, imply that the rationality of the agents is such that it does not allow the realization of weight problem, which instead are observed in reality.
Dottorato di ricerca in Diritto dei contratti pubblici e privati ; La persistente inefficienza nell'utilizzo delle risorse umane nel settore del lavoro pubblico impone l'attenzione sul come la pubblica amministrazione stia tentando di rispondere alle nuove complesse problematiche poste a livello nazionale, internazionale e globale. In un mercato del lavoro in rapido sviluppo il settore del lavoro pubblico mostra una scarsa dinamicità ed una certa resistenza ad accettare soluzioni innovative. Si parla da molto tempo della necessità di innovare il rapporto di lavoro nel settore pubblico "privatizzato" e la pubblica amministrazione in generale, ma solo da ultimo il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ha conosciuto uno stimolo all'uso dei fattori premiali e flessibili grazie all'introduzione della valutazione della performance. Innovare attraverso lo strumento della flessibilità contrattuale nel settore del lavoro pubblico significa raggiungere l'obiettivo dell'efficienza. Per questo bisogna indagare se il problema della mancata efficienza sia di carattere giuridico "contrattuale" o le ragioni vadano indagate anche rispetto ad una complessità progettuale che tenga conto della cultura e dei processi sociali. L'indagine, in questa sede, è finalizzata allo studio dell'adattabilità delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile, utilizzabili per l'organizzazione e la gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. L'uso di tali tipologie è divenuto, combinato con la necessità di produttività ed efficienza, fondamentale per la politica di sviluppo delle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto indispensabile per l'attuazione delle politiche di contenimento della spesa, (così dette di spending review), per il personale che, in modo particolare a partire dalla fine degli anni novanta, ha raggiunto un livello rilevante. Ciò ha generato una serie di provvedimenti limitativi tendenti a bloccare le nuove assunzioni nel tentativo di raggiungere nello stesso momento un contenimento dei costi ed una riduzione del personale ritenuto, non sempre a ragione, eccedente il fabbisogno, il tutto, ovviamente nel tentativo di incrementare l'efficienza dei servizi erogati. Per tipologie contrattuali flessibili di lavoro si intendono tutte quelle che differiscono dal contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, disciplinato dall'art. 2094 cod. civ. e definito contratto di lavoro standard. Partendo dalle linee guida tracciate dalla legge n. 15 del 4 marzo 2009, di riforma del pubblico impiego, sono state analizzate le misure che disciplinano le modalità attraverso le quali le pubbliche amministrazioni possono avvalersi delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile. Per meglio inquadrare l'attuale riforma del lavoro nel settore pubblico privatizzato (in questo studio indicata come Terza Riforma) è necessaria la ricostruzione storica della disciplina normativa del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, prendendo le mosse in un'ottica efficientistica e passando attraverso l'evoluzione dei modelli contrattuali che l'hanno caratterizzata, partendo dal modello unilaterale e autoritativo fino ad arrivare al modello contrattuale pattizio e paritario. Attraverso questa ricostruzione è possibile individuare i principi fondamentali, quali l'efficienza dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, l'intangibilità dell'organizzazione e del potere datoriale e la relativa responsabilità dirigenziale, la specialità dell'accesso agli uffici pubblici (anche in attuazione del principio costituzionale di uguaglianza contenuto nell'art. 3 e dell'imposizione della stessa Costituzione all'art. 97, co. 3, del concorso pubblico, salvo i casi di deroga stabiliti dalla legge, quale forma di reclutamento a garanzia dell'imparzialità della pubblica amministrazione), che sono il presupposto essenziale posto alla base del possibile utilizzo per le pubbliche amministrazioni sia dei contratti di lavoro standard sia dei contratti di lavoro flessibile. L'uso dei contratti di lavoro flessibile rappresenta uno strumento idoneo, quando inserito tra i vari strumenti ed obiettivi primari delle pubbliche amministrazioni, a garantire la migliore organizzazione degli uffici se finalizzato a perseguire il buon andamento della pubblica amministrazione, così come previsto dall'art. 97 della Costituzione. Grazie ad un opportuno utilizzo delle risorse umane diviene possibile raggiungere anche l'ulteriore obiettivo, primario per le pubbliche amministrazioni, del controllo delle risorse finanziarie. Una conoscenza approfondita della gestione delle risorse umane (dipendenti con contratto di lavoro standard e non) ed una attenta analisi del contesto di riferimento possono favorire una efficiente razionalizzazione delle risorse, non solo in merito all'organizzazione degli uffici e del lavoro, ma anche sul piano politico, economico e sociale, piani con cui fino ad oggi si è dovuto scontrare il datore di lavoro pubblico nell'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile inserite nella gestione del personale e delle risorse delle pubbliche amministrazioni. Non a caso l'art. 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001, Testo Unico del Pubblico Impiego, ed in particolare il comma 3, così come da ultimo modificato dall'art. 17, comma 26, del decreto legge n. 78 del 2009, ha evidenziato che un sistema che preveda l'uso delle predette tipologie contrattuali come strumento di gestione per le pubbliche amministrazioni deve essere finalizzato a combattere gli abusi derivanti dal suo uso distorto. L'abuso e l'uso distorto delle tipologie contrattuali flessibili ha dato vita ad un intenso precariato, sanato ciclicamente dalle norme dette di "stabilizzazione" (norme che sono state oggetto di valutazione di legittimità costituzionale). Attraverso una attenta analisi dell'attuale contenuto dell'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 è possibile individuare, tenendo a mente la disciplina che regola il rapporto di lavoro nel settore privato, da una parte gli aspetti critici dell'impianto regolativo che consentono di verificare la distanza tracciata tra le discipline che permettono l'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile da applicarsi al datore di lavoro privato con quelle riservate al datore di lavoro pubblico, e dall'altra individuare quanto sia ancora presente nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni del modello unilaterale ed autoritativo che caratterizzava il rapporto di pubblico impiego prima della privatizzazione del rapporto di lavoro. Partendo dalla prima versione contenuta nel decreto legislativo n. 29 del 1993, dei primi due commi del citato art. 36, è possibile individuare il campo di applicazione dei rapporti giuridici derivanti dalla stipulazione dei contratti di lavoro flessibile ivi elencati. Sono così messe in risalto le diversità esistenti tra la disciplina prevista per i rapporti di lavoro alle dipendenze del privato datore di lavoro e la disciplina prevista per il pubblico impiego privatizzato. Grazie alla comparazione tra il contenuto delle norme che disciplinano ciascuna tipologia contrattuale flessibile inclusa nel contenuto dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001 ed il suo valore precettivo è stato possibile verificare la specialità che caratterizza il rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l'uso delle tipologie contrattuali flessibili. Il rinvio inserito nel secondo comma dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 al contenuto dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che hanno il compito di disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, del lavoro accessorio e dei lavoratori socialmente utili, mette in luce la possibilità per l'autonomia collettiva di regolare ed integrare i singoli schemi contrattuali, realizzando, se così fosse, lo schema del modello contrattuale pattizio, ed evidenziando, in realtà, il limite costituito dall'essere circoscritta alla sola individuazione dei contingenti di personale da utilizzare. Una piccola parte dell'indagine è dedicata al lavoro a tempo parziale ed agli incarichi dirigenziali del personale inquadrato con contratto standard che, seppur inseriti nel contesto del rapporto a tempo indeterminato, sono anch'essi espressione di flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni considerati nell'ottica efficientistica dell'organizzazione amministrativa. Gli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa e gli incarichi dirigenziali a tempo determinato conferiti a dipendenti sia interni sia esterni all'amministrazione che pubblica il bando presentano degli aspetti critici che hanno avuto spazio per un breve sviluppo. L'analisi del comma 5, dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, ha permesso di sviluppare il tema della violazione delle disposizioni imperative; ipotesi che nel passato ha trovato scarsa applicazione ma oggi, grazie alla recente versione introdotta dalla legge n. 102 del 2009, ribadisce, con più forza, la misura disciplinare che prevede il recupero nei confronti dei responsabili dirigenti inosservanti delle somme erogate dall'Amministrazione per l'impiego di lavoratori assunti con contratti di lavoro flessibile illegittimi. Interessante, considerata l'abrogazione della conciliazione obbligatoria in materia lavoro, anche per gli esigui risultati ottenuti, risulta la possibile applicazione al settore pubblico privatizzato delle forme irrituali di deflazione del contenzioso quali l'arbitrato e la conciliazione alla luce delle recenti innovazioni introdotte con la legge n. 183 del 2010, cd. Collegato Lavoro e dalla disciplina emanata, da ultimo, in materia di mediazione con il D.Lgs. n. 28 del 2010 e il D.M. n. 180 del 2010, così come modificato ed integrato dal D.M. n. 145 del 2011. Ulteriori considerazioni giungono dalla previsione obbligatoria, per tutte le amministrazioni, di redigere ogni anno un rapporto informativo da trasmettere ai nuclei di valutazione nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate relativamente alla quantità numerica ed alla spesa relativa per tipologia. Tale rapporto informativo è uno strumento avente duplice finalità: la prima è quella di permettere di individuare il dirigente responsabile dell'irregolare utilizzo delle tipologie contrattuali non standard, attraverso la verifica degli atti gestionali posti in essere; la seconda si avvale della possibilità, offerta da una rapida conoscenza del fenomeno, di adottare misure mirate a migliorare sia l'aspetto normativo, sia quello organizzativo che di controllo della gestione delle risorse umane e finanziarie. Aspetti che rilevano la necessità di insediare in maniera efficace la cultura della buona amministrazione della cosa pubblica. Questa linea di condotta rappresenta la migliore politica per realizzare i principi di trasparenza ed imparzialità propri delle pubbliche amministrazioni. Principi idonei ad evitare che l'uso dei contratti di lavoro non standard degenerino in forme di precariato o realizzino una alternativa modalità di accesso ai ruoli professionali delle pubbliche amministrazioni, elusiva, grazie al collaudato ricorso a norme che introducono le procedure di stabilizzazione, dei previsti concorsi pubblici di accesso all'impiego pubblico per contratti di lavoro a tempo indeterminato. Alla luce dei recentissimi interventi normativi e giurisprudenziali, merita una trattazione il "caso" rappresentato dai rapporti di lavoro flessibili utilizzati dal Ministero della Pubblica istruzione, sia per il personale docente sia per il personale amministrativo definito ATA. Prendendo spunto dai testi normativi (legge n. 124 del 1999 e D.P.R. n. 430 del 2000), la ricerca ha evidenziato alcuni aspetti critici rispetto all'applicabilità della direttiva comunitaria in tema di contratti a termine. Nelle conclusioni vengono messi in luce i caratteri del modello contrattuale neo-autoritatio, attualmente utilizzato, nella Terza Riforma, dalle pubbliche amministrazioni. Ulteriori considerazioni finali sono orientate ad indagare gli effetti che la imminente riforma del mercato del lavoro, attualmente in discussione in Parlamento, avrà anche nel settore pubblico "privatizzato" ed in particolar modo quali novità introdurrà rispetto all'uso delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile; e quali di queste saranno sviluppate nel tentativo di fornire una soluzione circa l'opportunità che la pubblica amministrazione utilizzi - ancora una volta - uno schema negoziale previsto nel settore privato ma "riadattato" alle esigenze di specialità, insite nel rapporto di lavoro del settore pubblico, comunque insuperabili. ; The persistent inefficiency in human resources management in the public sector draws our attention on how the public administration is currently trying to face the new, complex issues raised on a national, international and global level. In a fast-developing labour market, the public sector is showing a scarce dynamism and a certain resistance to accepting innovative solutions. The discussion about the need to innovate the "privatised" working relationship and the public administration in general has been going on for quite some time; still, only recently performance evaluation has been introduced for "privatised" jobs within public administrations. Contractual flexibility in the public sector is an innovation that typically equals to more efficiency. That is why it seems necessary to us to investigate the reasons behind the lack of efficiency: is it only due to contractual issues or are there more complex causes, linked to cultural and social processes? Our study aims to investigate the adaptability of flexible employment contracts – that could be used to handle the organisation and management of personnel in public administrations – within the neo-authoritative contract model's framework. The use of these types of contracts, together with the need for improved productivity and efficiency, has become fundamental to the development policy of public administrations. It is also essential for the implementation of cost containment policies - the so-called spending review – for the personnel who, starting from the late 1990s, reached high levels in the organization. Control measures have been previously taken: aiming at improving the efficiency of the services provided, by containing costs and reducing personnel – wrongly deemed redundant –, new employments were blocked. By flexible employment contracts we mean all those types of contracts which are different from a full-time, permanent contract of employment, disciplined by the Article 2094 of the Italian civil code and defined as standard employment contract. Starting from the guidelines outlined in law n.15 of 4th March 2009 – which reformed public employment – we analyse the measures which discipline the way public administrations can avail themselves of flexible work contracts. To better understand the third reform of labour in the privatised public sector, it is necessary to examine the historical reconstruction of the normative discipline that regulates the working relationship within the public administrations: starting from the assumption of performance improvement, through the evolution of contract types which characterised it, from the unilateral and authoritative model to the pactional and equal one. Thanks to this reconstruction it is possible to identify the fundamental principles which are the basis of a possible use, by public administrations, of both standard employment contracts and flexible ones. This principles are "the efficiency of public administrations' organizations", "the intangibility of the organization, of the employer's power and its relative managerial responsibility", "the access to public offices" (relating to the application of the constitutional principle of equality, included in art.3, and to the imposition with the art.97 co.3 of the Constitution of public competitive examinations as the hiring method, except for dispensations stated by the law, in order to guarantee the public administration's impartiality). When included among the several instruments and primary objectives of public administrations, the use of flexible employment contracts represents a suitable tool to guarantee an improved organization of the offices, especially if it is aimed at pursuing the overall public administration's good performance (according to art.97 of the Constitution). Thanks to an appropriate management of human resources, it also becomes possible to reach a further target of primary importance for public administrations: the control of financial resources. An in-depth knowledge of human resources management (be them either employed through a standard contract or a flexible one), combined with a detailed analysis of the relevant context could support an efficient rationalisation of resources, not only on an organizational level but also on a political, economical and social one. The latter ones being so far the most complicated to deal with when managers tried to use flexible types of contracts within public administrations. It is not a coincidence that art. 36 of legislative decree n.165 of 2001 (Testo Unico per il Pubblico Impiego) and especially paragraph 3, eventually modified by art. 17 paragraph 6 of legislative decree n.78 of 2009, highlights that a system which foresees the use of the above-mentioned types of contracts as a management instrument for public administrations must be aiming at fighting the abuse deriving from its own distorted use. The abuse and distorted use of flexible employment contracts generated a large number of temporary employees, who are being cyclically helped by the so-called "stabilization norms" (norms which themselves have been under scrutiny for their legal validity). Through a detailed analysis of article 36 of legislative decree n.165 of 2001, and bearing in mind the norms that regulate the working relationship within the private sector, it is possible to pinpoint all the critical aspects of the legislative apparatus, thus verifying the separation between disciplines which allow the application of flexible employment contracts by private employers and public ones. This analysis also shows that the "unilateral and authoritative model", which regulated the working relationship within public administration before its privatisation, is still very much applied in that context. Starting from the first revision of the first two paragraphs of the already mentioned article 36, included in legislative decree n.29 of 1993, we can determine the field of application of legal relationships deriving from the stipulation of flexible employment contracts here listed. All the discrepancies between the discipline that regulates the working relationship with a private employer and the one with a privatised public administration are easily highlighted. By comparing the contents of the norms which regulate every single type of flexible contract, included in article 36 of legislative decree n. 165/2001, and its perceptive value, it is possible to verify the specification that characterizes the working relationship within public administrations and how flexible contracts are there applied. The cross-reference - included in the second paragraph of article 36 of legislative decree n. 165/2001 - to the content of the National collective labour agreements, which regulate temporary contracts, "paid apprenticeships" (contratti di formazione e lavoro), other vocational training and supply contracts (altri rapporti formativi e somministrazione del lavoro), ancillary casual labour (lavoro accessorio) and socially useful workers (lavoratori socialmente utili), highlights the possibility for the "collective autonomy" to regulate and integrate single contractual schemes thus realizing the scheme of the pactional contract model and at the same time emphasizing its limit in indicating only the categories of employees to whom that can be applied. A small part of this analysis is dedicated to part-time jobs and managerial assignments for personnel employed through standard contracts which, although falling under the category of permanent jobs, are nevertheless an expression of a certain labour flexibility within public administration on the basis of improved performance and administrative organization. The analysis of article 36, paragraph 5 of the legislative degree n. 165/2001 develops the topic of violation of imperative provisions: rarely applied in the past, a new revision has been re introduced with law n. 102/2009 and now strongly reasserts the application of disciplinary measures against non compliant managers in order to recover funds used to hire employees through illegal types of flexible contracts. Further considerations come from the mandatory requirement, for all public administrations, to present every year to their relevant evaluation board and to the Presidenza del Consiglio dei Ministri an informative report on all the types of flexible employment contracts applied in relation to the number of personnel and the relevant expenditure per type. This informative report has a double purpose: on one side it allows the board to easily locate the manager responsible for misusing non-standard contract types, by checking the managerial decisions taken; on the other side - and on a more general level - it offers the opportunity to adopt measures aimed at improving the legislative and organizational management of human resources and finances. As if to say, it is essential to effectively promote a culture that encourages a good management of the res publica. This trend represents, in our opinion, the best strategy to fulfill the principles of transparency and impartiality peculiar to public administrations. These principles will help avoiding that the implementation of non-standard employment contracts either degenerates into new forms of temporary employment or creates a new, elusive method to access professional jobs within public administrations thanks to the proven resort to the so-called "stabilization norms" and public competitive examinations for permanent positions. In light of the recent regulatory and jurisprudential interventions, we will separately analyze the case of flexible employment contracts applied by the Ministry of Education both for teachers and administrative personnel (called ATA). Starting from law n.124/1999 and D.P.R. n.430/2000, this section highlights the relationship between school employees and the applicability of the EU directive concerning temporary contracts. In the conclusions, we will describe the main characteristics of the neo-authoritative contract model, now used in public administrations. Further final reflections consider the effects that the imminent reform of the labour market, currently being discussed in Parliament, will produce also in the privatised public sector and especially what innovations will introduce in the flexible contractual typologies, in the attempt to provide a solution about whether or not the public administration should or could once again use a contractual scheme different from the one implemented in the private sector.
In questo lavoro abbiamo analizzato l'annata 1948 del quotidiano del Partito Comunista Italiano, «l'Unità», cercando di cogliere gli elementi che potevano contribuire a definire i confini dell'idea di patria che aveva il PCI. Abbiamo preso in considerazione articoli di fondo scritti dai massimi dirigenti del partito, articoli di personalità indipendenti candidatesi con il Fronte o di semplici simpatizzanti; abbiamo analizzato articoli non firmati, cioè considerati espressione del quotidiano nella sua interezza e alcuni disegni satirici. Abbiamo indagato le retoriche presenti in questi articoli, confrontandole con quelle dei testi canonici che hanno delineato l'idea della nazione italiana. Abbiamo collocato quest'analisi nel contesto dell'Italia del 1948, un anno decisivo per le sorti dell'Italia e per la storia del Partito Comunista Italiano. Abbiamo visto che il personaggio del traditore, fondamentale nelle narrazioni nazional-patriottiche del «canone risorgimentale» è diffusamente presente nelle pagine del quotidiano del PCI in funzione antigovernativa. Ciò non solo nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche dopo, quando il PCI cercava di riorganizzarsi dopo il disastroso esito delle elezioni e accusava la DC di non avere la volontà di applicare i principi sociali della Costituzione. L'accusa di tradimento sembra peraltro essere un elemento ricorrente nella visione del mondo del comunismo staliniano: il tradimento era ad esempio uno dei capi d'accusa che il partito comunista sovietico muoveva contro i dissidenti nel corso delle sue epurazioni. Il tradimento è anche la chiave di lettura con cui nel libro fatto redarre da Stalin per canonizzare la storia del comunismo sovietico, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, del 1938, venivano interpretate tutte le deviazioni di destra e di sinistra: da Bucharin, a Zinov'iev, da Trockij a Tito.1 Lo stesso procedimento era all'opera nella ricostruzione della storia del PCI fatta redarre da Togliatti in occasione del trentennale del partito: Tasca e Bordiga erano definiti traditori della classe operaia, l'uno per «opportunismo», l'altro per «settarismo». La formula del tradimento era quindi tradizionalmente presente nella cultura marxista-lenista e i massimi dirigenti del PCI erano impregnati di questa mentalità. Molti studiosi che si sono cimentati nello studio del profilo culturale dei comunisti italiani hanno sottolineato questo aspetto: David Kertzer ad esempio ha sostenuto che «at the heart of the PCI's symbolic world was the Manichean tradition of the international Communist movement».2 Per Kertzer questa visione del mondo risaliva alle origini ottocentesche del movimento operaio ed aveva ancor più antiche radici cristiane. On one side lay good, on the other evil. On one side the Communists; on the other, the capitalists and imperialists, Fascists and traitors. On the side of all that is virtuous, the Soviet Union; on the side of all evil, the United States.3 Questa ideologia che portava a identificare i propri avversari come una rete di cospiratori era tipica, aggiunge Kertzer, della retorica del dopoguerra ed aveva un corrispettivo speculare nell'anticomunismo degli USA e dei suoi paesi satelliti, come l'Italia democristiana. Kertzer evidenzia inoltre che il simbolismo manicheo del linguaggio comunista raggiunse il suo acme nel dopoguerra, quando si ebbe la necessità di isolare un nemico interno, come nel caso di Tito in sede internazionale e nel caso Magnani-Cucchi in ambito nazionale. Da questa visione del mondo manichea per Kertzer derivava una «metafora militare», in virtù della quale lo scontro elettorale era letto dai comunisti attraverso un simbolismo militare e gli avversari politici erano identificati come forze reazionarie al servizio degli stranieri.4 Angelo Ventrone ha provato a leggere la storia italiana utilizzando la chiave di lettura del «nemico interno» come strumento di lotta politica. Per Ventrone questo modo di concepire la lotta politica risalirebbe alla prima guerra mondiale quando i neutralisti vennero definiti disfattisti, e prima ancora alla guerra di Libia, e arriverebbe fino ai nostri giorni, passando ovviamente per le elezioni del primo dopoguerra.5 Giuseppe Carlo Marino ha inquadrato il tema nel clima paranoico del PCI postbellico: spie, provocatori e traditori potevano nascondersi ovunque, tanto più in un partito che era diventato di massa, per questo bisognava predisporre criteri rigidi di selezione del personale militante e dirigente. Di qui l'istituzione delle scuole di partito e l'imposizione della pratica autobiografica, perché bisognava conoscere il passato dei militanti per capire se nella loro condotta di vita, nella loro estrazione sociale e familiare, potevano esservi i germi del tradimento. Tutto ciò rendeva necessario spingere alla delazione sistematica: i compagni che notavano elementi potenzialmente anti-comunisti dovevano senza indugio denunciarli alle autorità di partito: il colpevole sarebbe stato poi giudicato e, in caso di colpa grave, sottoposto ad un processo pubblico (cioè alla presenza dei compagni).6 Sempre Kertzer situa questa ricerca del nemico interno nello spazio del mito che caratterizza la sfera politica. Citando l'antropologo francese Raoul Girardet, tra i temi che strutturano i miti politici Kertzer individua quello dell'esistenza di un diavolo cospiratore; l'esistenza di un salvatore; l'arrivo di un'età dell'Oro.7 Per lo studioso americano questi miti sono inoltre al centro della tradizione cristiana, oltre che nell'ideologia del PCI. Per Kertzer i comunisti elaborarono questa mitologia in virtù della loro visione manichea della realtà e della storia, che li portava ad identificare nell'URSS il baluardo del bene, che avrebbe strenuamente combattuto contro il male, cioè il capitalismo e l'imperialismo che in questa fase erano identificati con gli USA.8 Non bisogna però dimenticare che questa visione manichea è presente soprattutto nella prima fase della guerra fredda. Altri studiosi hanno dimostrato che i comunisti non erano una monade nella società italiana ma erano ben inseriti in essa e anche loro furono influenzati dalla cultura di massa americana. Inoltre mito americano, mito sovietico e antiamericanismo erano immagini che erano state variamente presenti nei vari strati della società italiana nel corso del Novecento.9 Due riviste come Il Politecnico e Vie Nuove sono un'ottima testimonianza di questo fatto. Patrick Mc Carthy ha ad esempio mostrato che presso gli intellettuali e i lettori di due delle principali riviste culturali del PCI, Rinascita e Il Politecnico era stato elaborato nel corso degli anni Quaranta un «mito dell'America democratica». Un mito che aveva radici nell'ammirazione della sinistra pre-marxista per l'America e che sembrava essersi rilanciato dopo la «svolta di Salerno» e l'alleanza tra URSS e angloamericani. Esso venne però schiacciato dall'inizio della guerra fredda, che aveva comportato il ritorno ad una visione acritica di un'America imperialistica e consumistica, salvo poi tornare in auge dagli anni '70.10 Stephen Gundle ha poi mostrato in un'analisi comparativa, che il settimanale popolare del PCI Vie Nuove spesso si occupava della cosiddetta «America democratica» e in generale le sue pagine erano familiari con i fenomeni «americanizzanti» che avevano influenzato le abitudini del dopoguerra, dato che si prefiggeva il compito di rispecchiare la mentalità dei suoi lettori.11 Il fatto che questa rivista fosse molto letta è assai significativo.12 Molti studiosi sono quindi concordi nel ritenere quello del tradimento un elemento centrale nella cultura del PCI del primo dopoguerra. In questo lavoro abbiamo cercato di dimostrare che il codice retorico utilizzato per sviluppare il tema in questione è tratto dal discorso nazional-patriottico ottocentesco, anche se quest'ultimo non è ripreso in blocco ma adattato alle diverse esigenze, ai differenti fini, al mutato contesto. Facciamo un altro raffronto, andando a sovrapporre quelle che Banti ha definito «quattro configurazioni sincrone»,13 con il discorso del tradimento lanciato invariabilmente da tutti i dirigenti comunisti su «l'Unità», nei confronti del governo democristiano: per Banti le narrazioni risorgimentali si svolgono sempre passando per le seguenti configurazioni: 1. « l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri; 2. la divisione interna degli italiani, che favorisce tale oppressione; 3. la minaccia al nucleo più profondo dell'onore nazionale, che tale oppressione direttamente o indirettamente comporta; 4. gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto».14 Dal raffronto con le quattro configurazioni delle narrazioni risorgimentali emergono le analogie e le peculiarità che il PCI innesta in questo discorso. Per i comunisti italiani, come abbiamo visto, l'integrità della nazione italiana è minacciata da un lato dallo straniero capitalista e imperialista americano, il quale vuole asservire militarmente il paese; dall'altro lato dall'atteggiamento servile mostrato dalla DC. I comunisti, viceversa, si considerano gli autentici difensori dell'unità e della salute della patria, insieme ai socialisti. A differenza dei patrioti del Risorgimento, però, i comunisti non esprimono avversione nei confronti degli stranieri in quanto tali, cioè gli americani, ma nei confronti del governo italiano, che si è reso servo dello straniero, e del governo degli Stati Uniti, che come abbiamo visto, in questa fase, è identificato con l'imperialismo e il capitalismo. Questo è quanto traspare dalle pagine de «l'Unità». In realtà, come abbiamo visto poco fa, l'atteggiamento del mondo comunista nei confronti dell'America è complesso e variegato nel corso degli anni e l'antiamericanismo può essere considerato un atteggiamento di avversione aprioristica nei confronti degli Usa in quanto considerato il paese in cui il capitalismo si esprime al massimo grado. Il governo d'altra parte è colpevole di accettare servilmente questa politica contraria agli interessi nazionali. Così facendo esso si macchia di tradimento, perché divide irresponsabilmente il corpo nazionale: cioè scinde la classe operaia che nella lettura propagandistica del PCI è rappresentata nella sua interezza dalle forze di sinistra, dal resto della popolazione. Invece nella visione togliattiana la classe operaia per mezzo della guerra di liberazione nazionale era diventata il nucleo della nazione e attorno ad essa si sarebbero dovute coagulare le altre forze sociali interessate ad una riforma in senso «progressivo» delle strutture economiche e sociali dell'Italia. Il PCI, viceversa, ritenendosi il principale e legittimo sostenitore della politica di unità nazionale era per Togliatti il vero sostenitore di una politica indipendente e autonoma dell'Italia in politica estera e interna. Abbiamo visto poi che i massimi dirigenti del PCI nel commemorare i caduti della Resistenza partigiana, hanno fatto ampio uso di immagini impregnate di retorica sacrificale. Le vite lasciate dai partigiani sulle montagne vengono lette cioè come un martirio che ha consentito la redenzione di un paese che si era macchiato della colpa di aver sostenuto il regime fascista e che grazie al sacrificio dei combattenti partigiani ora poteva risorgere. Questo discorso non era esclusivo del PCI: Guri Schwarz ha mostrato che negli anni del primo dopoguerra le neonate istituzioni repubblicane cercarono di ricostruire il paese dal punto di vista simbolico coniando un «patriottismo espiativo» basato sul culto dei caduti, commemorati come vittime, non come eroi. E almeno nei pochi casi che abbiamo visto, sembra proprio che quelle immagini, nelle loro fondamenta, fossero quelle coniate dal discorso nazionalista ottocentesco.15 Abbiamo poi visto che spesso viene evocato «l'onore dell'Italia». In questo caso abbiamo trovato anche alcuni tentennamenti rispetto all'utilizzo del termine «onore». Ad esempio quando l'onore viene evocato dai criminali di guerra nazisti o fascisti, su «l'Unità» si tiene a precisare che essi lo usano in un'accezione diversa o che lo fanno in modo non autentico. L'onore della patria per i comunisti è quello che i fascisti avevano vilipeso, i partigiani riscattato e che i democristiani, adesso, mettevano nuovamente a repentaglio. Ma cos'è l'onore per i comunisti, se è diverso da quello evocato dai fascisti? Evocare l'onore della nazione, da parte dei dirigenti comunisti, non sembra porre in questione la capacità degli italiani di dimostrare il proprio valore militare nel difendere la purezza delle loro donne, e quindi di mantenere puro il sangue dei membri della comunità nazionale, come avveniva nelle narrazioni risorgimentali. Forse perché questa parte del discorso nazionale era quella più compromessa con il fascismo, che aveva fatto della purezza del sangue un dato "scientifico", legato alla cosiddetta scienza della razza. Il concetto di «onore» nel lessico comunista sembra avere un'accezione lata: la parola sembra aver perso il contenuto che aveva nell'Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento. Questo cambiamento potrebbe anche essere legato alla crisi di quello che George Mosse ha definito «Mito dell'Esperienza della guerra».16 Dopo la seconda guerra mondiale non era più possibile replicare quel meccanismo per cui dopo la Prima guerra mondiale le stragi belliche erano state trasfigurate e rese nobili per essere sopportabili, pertanto il sistema di valori che lo spazio della figure simboliche metteva in circolo non era più attivabile nella sua interezza. I comunisti sembrano utilizzare il termine «onore» piuttosto nell'accezione in cui esso è usato nell'articolo 54 della Costituzione,17 che rimanda più alla «rispettabilità», così come è stata definita dallo stesso Mosse: cioè un sistema di valori e di comportamenti che a partire dall'Ottocento aveva portato a conferire precisi ruoli agli uomini e alle donne, aveva definito i confini della normalità e dell'anormalità dei comportamenti delle persone, e che grazie all'incontro con il nazionalismo era diventato il sistema di valori dominante.18 Rimane comunque la componente bellica: i partigiani, infatti, per i comunisti hanno restituito l'onore all'Italia con la guerra di resistenza. Guerra di resistenza che, però, come abbiamo visto con Schwarz, era letta, a posteriori, come «guerra alla guerra». Così quando si accusa il governo democristiano di disonorare l'Italia per la politica di asservimento agli interessi di una potenza straniera, non c'è, se non in modo molto implicito, alcun riferimento alla violazione dell'integrità sessuale delle donne. Potremmo pensare, però, che se l'Italia fosse vista simbolicamente come una donna, come nell'iconografia nazional-patriottica, chi la vende allo straniero, di fatto la disonora. Pensiamo a questo proposito ai disegni satirici di Guttuso che abbiamo incontrato, al manifesto elettorale e alla fotografia della ceramica di Leoncillo, riprodotta su «l'Unità» per rammentare la barbarie fascista.19 Però credo che questo elemento agisca semmai a livello inconscio, cioè che sia una conseguenza diretta dell'uso di determinate componenti del discorso nazional-patriottico che, quando attivate, mettono in circuito un certo tipo di elementi simbolici che sono profondamente radicati nel profondo di ciascuno, perché legati a sentimenti percepiti e conoscibili da tutti: l'onore, l'amore, l'odio, il legame genitoriale e quello fraterno, il martirio, la redenzione e la resurrezione. Infine abbiamo visto che viene utilizzato talvolta un lessico legato alla dimensione parentale, sia in riferimento alla comunità nazionale, sia alla comunità di partito. A questo scopo viene utilizzato in blocco il lessico che il discorso nazional-patriottico aveva trasposto dalla famiglia alla patria: si parla infatti su «l'Unità» di figli, di fratelli, di padri e di madri della patria. Soprattutto le madri e i figli sono continuamente evocati. Questo dipende forse dalla vicinanza della Resistenza, che era letta dai comunisti come guerra di liberazione nazionale e come «secondo Risorgimento». Nella guerra partigiana molti giovani erano morti, molte madri avevano perso i loro figli, tanto che avevano costituito associazioni di madri e mogli di partigiani caduti.20 Quindi il tema era molto sentito. Un altro elemento da sottolineare è che il lessico parentale è utilizzato anche per la comunità di partito: i compagni sono anche fratelli, i predecessori padri e i successori figli, secondo quel processo di cui parla Emilio Gentile, per cui gli italiani dopo la seconda guerra mondiale spostarono «la fedeltà patriottica verso altre entità ideali, storiche, politiche – dalla religione, all'ideologia, dall'umanità al partito – considerate eticamente superiori alla nazione e allo Stato nazionale».21 Ed è proprio questo il punto che rende il discorso patriottico del PCI non completamente sovrapponibile al discorso nazional-patriottico ottocentesco: l'internazionalismo che caratterizza da sempre il movimento operaio e che sia pure con le differenze apportate dal comunismo cominternista, non può non caratterizzare anche il PCI, è un elemento nettamente contrapposto rispetto a qualsiasi contenuto del nazional-patriottismo ottocentesco. Quest'ultimo infatti non può concepire una solidarietà di classe che vada potenzialmente in contraddizione con la solidarietà nazionale. Infine abbiamo ricostruito il contesto in cui si verifica questo utilizzo dei tropi nazional-patriottici da parte del PCI: sin dal 1943 esso era impegnato nella costruzione di una propria tradizione, con la qual legittimarsi come partito italiano e nella diffusione presso i propri militanti di tale tradizione, nell'ambito della costruzione del «partito nuovo». Al contempo questa volontà doveva coesistere con il profilo internazionalista e di classe a cui il partito non rinunciava, di qui le oscillazioni che abbiamo visto negli interventi sopra riprodotti, che chiamano in causa quella che è stata da molti definita la «doppiezza» del PCI. Cioè la fedeltà da un lato alla patria statale, dall'altro a quella ideale.22 Poniamo l'attenzione anche su un altro elemento: le tre figure profonde, sacrificio, onore, parentela chiamano in causa, in modo più o meno intenso, caratteri già fortemente presenti nella moralità23 comunista: lo spirito di sacrificio è secondo Sandro Bellassai un tratto fondamentale del buon militante comunista, «unità di misura della fedeltà e dell'affidabilità politica di un comunista».24 La capacità di sacrificare se stessi, i propri affetti, le proprie risorse, è considerato un elemento formativo del militante: Bellassai ad esempio racconta che in un corso della scuola centrale di partito, le Frattocchie, gli allievi dovevano trasportare a spalla un mucchio di massi, a scopo di didattico.25 Si pensi poi a Marina Sereni, che scrive alla madre della sua decisione di rompere i rapporti con lei per le sue opinioni politiche.26 Sacrificio dunque anche dei propri affetti: questo perché il Partito era la vera famiglia e ad esso tutto doveva essere subordinato. Ciò nondimeno il PCI incentrava il proprio progetto politico sulle famiglie e si presentava come il vero difensore di esse.27 Abbiamo iniziato questo lavoro chiedendoci se i concetti di patria e di nazione fossero presenti nel discorso pubblico del Partito Comunista Italiano. Per far questo abbiamo analizzato un anno, prendendolo come campione. Per avere un quadro completo dell'idea di patria del PCI in questa fase della vita del paese sarebbe stato necessario visionare almeno tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956.28 Concentrarsi su un solo anno ha d'altra parte consentito un'analisi più sistematica e attenta dei singoli articoli. Quindi, pur tenendo presenti i limiti, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. I concetti di patria e di nazione sono presenti, nel contesto che abbiamo ricostruito, per le ragioni che abbiamo ipotizzato, seppure opportunamente modificati e ricontestualizzati. Inoltre non ho preso in considerazione due aspetti importanti: la visione dell'altro, dello straniero, che mi avrebbe portato a cercare esempi di come venivano rappresentati «gli altri» dei comunisti, cioè gli americani e magari i democristiani. In secondo luogo un altro elemento mancante o non approfondito è il rapporto tra i generi. Per ragioni di tempo e per mancanza di conoscenze adeguate non ho preso in considerazione questi due aspetti. Ciò nonostante credo di poter concludere che il fatto che anche i dirigenti del PCI abbiano utilizzato alcuni degli stilemi fondamentali del discorso nazional-patriottico testimonia una volta di più la profondità del radicamento di essi nella cultura dell'Italia contemporanea: il discorso nazional-patriottico è così profondamente radicato che ha la capacità di adattarsi ai contesti più diversi, di rimanere "in sonno" per molto tempo e di ritornare a galla, come accade in questi ultimi tempi. Emilio Gentile scrive che il tentativo del PCI di presentarsi nei primi anni del dopoguerra come partito nazionale, legittimo erede del primo Risorgimento e protagonista del secondo, è da considerarsi come «l'ultima metamorfosi laica del mito della Grande Italia e, per certi aspetti, potrebbe essere considerata come l'ultima versione del nazionalismo modernista».29 Se Gentile si riferisce al nazional-patriottismo ottocentesco, mi permetto di notare che manca uno de nuclei fondamentali del nazional-patriottismo, quello legato alla difesa dell'onore sessuale delle donne della nazione. In conclusione: il PCI, nel primo dopoguerra, in parte in virtù di un progetto strutturato e meditato di presentarsi come erede delle tradizioni nazionali «progressive»; in parte in virtù di un milieu che rendeva determinati i contenuti simbolici del nazionalismo familiari anche ai comunisti, portò i massimi dirigenti del comunismo italiano ad utilizzare ampiamente i concetti di patria e di nazione nel discorso pubblico. La persistenza, però, del contenuto internazionalista nell'ideologia marxista-leninista rendeva però quell'utilizzo non completamente coincidente con il nazional-patriottismo classico. Infine alcuni temi troppo compromessi dal nazionalismo fascista e nazista e dalla guerra non erano più riproducibili. Se nei successivi decenni della storia italiana il discorso nazional-patriottico è rimasto assente dallo spazio pubblico, per ricomparire magari in occasione delle partite della nazionale di calcio, non significa che sia scomparso. Le sue radici sono ancora presenti nel profondo e, come dimostra il neo-patriottismo rilanciato dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, sono facilmente riattivabili. Purtroppo i circuiti comunicativi del discorso nazional-patriottico sono innestabili anche in contesti e con intenti meno nobili. Si veda la vicenda dei due marò italiani arrestati in India per la morte di due pescatori indiani: aldilà delle effettive responsabilità, delle attenuanti, del contesto, che saranno ricostruite dai tribunali indiani, quello che in questa sede va sottolineato è che la vicenda ha fatto esplodere un'ondata di pulsioni nazionaliste e colonialiste da parte di giornalisti, politici e «popolo». Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono stati giudicati dall'opinione pubblica e dalla classe dirigente innocenti a-priori, e gli indiani degli incantatori di serpenti che hanno ingannato due soldati che facevano solo il loro dovere. La vicenda si è poi colorata in modo sinistro, con la presenza di sedicenti ingegneri provenienti da associazioni neofasciste come Casa Pound chiamati dal governo a ricostruire in parlamento il complotto indiano.30 E basta fare un giro sul web italiano per trovare messaggi come «Salviamo i nostri soldati» in stampatello maiuscolo sparato su fotografie dei due soldati ritratti in pose da «duri» con tricolore sullo sfondo e commenti razzisti non ripetibili in questa sede. E forse è un caso, forse no, che la stampa italiana, solitamente poco interessata alle questioni internazionali, abbia di recente prestato molta attenzione al problema degli stupri in India.
1.Introduzione Nel 2014, nell'ambito dell'Agenzia Europea Frontex, prese avvio l'operazione Triton, coordinata dall'Italia. Da quel momento e fino al 2018, tutte le persone soccorse in mare dovevano essere portate in salvo sulle coste italiane. Una volta arrivate sul territorio, queste persone dovevano essere messe nella condizione di potere avanzare una richiesta di asilo o di protezione internazionale. Il già esistente sistema di accoglienza dedicato alle persone richiedenti asilo (SPRAR) si basava sulla disponibilità volontaria degli enti locali e non era in grado di gestire l'elevato numero di persone in arrivo. Furono per questa ragione istituiti (art. 11 Dlgs. n.142/2015) i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sotto la diretta gestione degli Uffici Territoriali del Governo (Prefetture). I CAS erano quindi pensati come strutture temporanee ed emergenziali. Le azioni messe in atto dai CAS dovevano, innanzitutto, rispondere ai bisogni primari delle persone accolte, in termini di vitto, alloggio e assistenza sanitaria. Ma, a dispetto del loro carattere temporaneo, e alla stregua dello SPRAR, i CAS avevano l'obbligo di svolgere attività (apprendimento della lingua italiana, istruzione, formazione, inserimento nel mondo del lavoro e nel territorio, assistenza legale e psicosociale) finalizzate all'acquisizione di strumenti di base per favorire i migranti accolti nei processi di integrazione, di autonomia e di acquisizione di una cittadinanza consapevole. 1.1 I richiedenti asilo: L'accoglienza in Italia e una possibile traiettoria resiliente La maggior parte dei richiedenti asilo proveniva dall'Africa subsahariana o dall'Asia Meridionale (Afghanistan e Bangladesh e Pakistan) e aveva alle spalle un lungo viaggio di cui la traversata mortifera via mare o attraverso i Balcani o il Caucaso era solo l'ultima tappa. La durata media del viaggio dal paese di origine era di venti mesi, che si svolgevano quasi sempre al limite della soglia di sopravvivenza. È ormai ben documentato il fatto che la privazione di cibo, di ripari, l'affaticamento estremo, il senso di minaccia, i maltrattamenti ripetuti, i lutti dovuti alla perdita di persone care durante gli spostamenti sono condizioni che accomunavano tutti questi percorsi migratori. A queste, si aggiungeva, per la maggior parte di loro, un periodo di reclusione, che poteva superare l'anno, nei centri di detenzione della Libia dove le condizioni disumane, la pratica sistematica della tortura e della violenza sessuale sono state rese note e denunciate dalle principali organizzazioni internazionali, come Medici Senza Frontiere e Amnesty International (Fondazione Migrantes, 2018). Inoltre, l'alto potenziale traumatico di queste esperienze si aggiunge a vissuti altrettanto tragici legati alle circostanze di vita nel paese di partenza che aumentano la vulnerabilità dei migranti. Infatti, questi sono il più delle volte costretti a scappare da condizioni di instabilità politica, di gravi conflitti interni civili e di estrema povertà. È per quanto fin qui descritto che si può affermare che le persone in arrivo nei CAS sono portatrici di storie potenzialmente traumatiche e ad alta complessità psicosociale che richiedono un'attenzione particolare. Le pratiche d'accoglienza che vengono messe in atto nei centri devono tenere conto di tale complessità nel rispondere ai bisogni di ogni persona, sia nella dimensione psicologica sia in quella sociale. In questo modo, nel cercare di raggiungere l'obiettivo ultimo dell'integrazione dei richiedenti accolti, i progetti d'accoglienza potrebbero favorire la definizione di un loro processo di resilienza che li porti a vivere una condizione socialmente accettabile e di benessere. Il concetto di resilienza ha suscitato molto interesse in letteratura negli ultimi decenni. Un primo dato storico nell'evoluzione della teorizzazione di questo concetto (Cicchetti & Garmezy,1993) è lo spostamento dell'interesse dalla patologia e dalla vulnerabilità alla resilienza, che si può ricondurre alla diffusione di una prospettiva positiva e salutogena nella ricerca e nella pratica clinica e psicosociale (Bonanno & Diminitch, 2013; Bonanno, Westphal, & Mancini, 2011; Cicchetti, 2013; Cyrulnik & Malaguti,2015; Walsh, 2016). Negli anni il concetto di resilienza è stato indagato a partire da diversi approcci. Da alcuni autori (Costa & McRae, 1980) è stato studiato come un tratto di personalità, stabile e fisso, da altri (Wagnild & Young, 1993) come l'abilità di fronteggiare e adattarsi positivamente a eventi stressanti o avversivi. Cicchetti (2013), concettualizzando la resilienza come un processo, ha concentrato l'attenzione sui fattori che lo determinano, con particolare interesse a quelli genetici e neurali. Bonanno e Diminitch (2013) si sono, invece, concentrati su quei fattori di rischio o quelle condizioni esistenziali potenzialmente vulnerabili che possono determinare il processo e che gli autori (Bonanno et al., 2011) definiscono come eventi potenzialmente traumatici (EPT). Rutter (2012), da parte sua, ha teorizzato la resilienza come un concetto dinamico dato dalla continua interazione tra i fattori protettivi e di rischio, portando all'attenzione l'influenza ambientale. Tuttavia, sebbene l'autore (Rutter, 2012) abbia messo in luce la funzione dell'ambiente nel processo di resilienza, sono gli approcci più ecologici e sociali (Anaut, 2005; Cyrulnik, 2001; Cyrulnik & Malaguti, 2015; Malaguti, 2012; Walsh, 2016) che hanno enfatizzato e dato maggiore importanza ai fattori contestuali, sociali, familiari e relazionali nella definizione del processo di resilienza. In particolare, secondo Cyrulnik (2001), posti i fattori di protezione, il processo non può avvenire che nell'ambito di relazioni significative. Nello specifico, l'autore distingue tre elementi fondamentali che rendono conto, nell'insieme, del processo: 1- le esperienze pregresse nell'infanzia e nella storia personale dell'individuo, la qualità dei legami di attaccamento e la capacità di mentalizzazione; 2- il trauma e le sue caratteristiche (strutturali, contingenti ed emotive e sociali); 3- la possibilità di risignificare la tragedia avvenuta attraverso il sostegno affettivo e la relazione d'aiuto, descritta, genericamente come l'incontro con l'Altro. Secondo l'autore, la persona costruisce nel proprio passato, in particolar modo durante l'infanzia, attraverso il legame di attaccamento sufficientemente sicuro, le risorse e la capacità di mentalizzazione utili per affrontare e risignificare il trauma. È in questo spazio relazionale quindi che la persona forma una rappresentazione di Sé come persona amabile, capace di affidarsi e di costruire relazioni forti e significative anche in futuro. La capacità e la possibilità di costruire queste relazioni sono viste come le condizioni che possono aiutare la persona a riconoscere le risorse da attivare per superare la profonda ferita incisa dall'esperienza traumatica e per ristabilire un equilibrio nella propria esistenza. Nell'ultima fase della sua teoria l'autore specifica l'importanza di una figura che chiama tutore di sviluppo o di resilienza, le cui caratteristiche e funzioni sono approfonditamente delineate nella pubblicazione di Lighezzolo, Marchal, & Theis (2003). Secondo gli autori, il tutore di resilienza deve favorire un processo di autonomia e ri-strutturazione del sé, trasmettere sapere, fornire esempi e modelli che permettano e legittimino l'errore; non deve quindi ricoprire un ruolo insostituibile e onnipotente. Il tutore di resilienza, sia esso una persona adulta informale o una figura istituzionalizzata nel sistema di cura e presa in carico della persona, è una risorsa esterna che coadiuva nel processo di resilienza. In questo ultimo caso, la formazione e la definizione del ruolo dell'operatore nel processo di presa in carico contribuiranno alla costruzione di un efficace intervento sociale e clinico per la promozione della resilienza nell'assistito (Manciaux, 2001). Negli ultimi anni, una serie di rassegne internazionali (Agaibi & Wilson, 2005; Siriwardhana, Ali, Roberts, & Stewart, 2014; Sleijpen, Boeije, Kleber, & Mooren. 2016) e in Italia (Tessitore & Margherita, 2017), hanno tentato di sistematizzare i risultati degli studi sul processo di resilienza nell'esperienza potenzialmente pluritraumatica della migrazione, con particolare attenzione alla condizione esistenziale di rifugiato. I risultati evidenziano e si concentrano, soprattutto, sui principali fattori di rischio e quelli protettivi che possono intervenire nel processo di resilienza a seguito di queste esperienze pluritraumatiche. In questi lavori emerge, tuttavia, la necessità per la ricerca di individuare strategie e procedure per interventi e pratiche mirati ed efficaci a promuovere il processo di resilienza nei contesti dell'accoglienza. In particolare, rispetto al contesto italiano si riscontra che sono stati svolti pochi studi sul tema, ancora da approfondire (Tessitore & Margherita, 2017). L'analisi approfondita delle pratiche costruite e messe in atto nell'ambito dell'accoglienza negli ultimi anni in Italia risulta rilevante per una sistematizzazione di conoscenze e competenze e utili per la progettazione di interventi psicosociali efficaci. La presente ricerca si poneva l'obiettivo di studiare, se e in che misura, le pratiche dell'accoglienza e le strategie di intervento messe in atto nel sistema CAS di Parma e Provincia abbiano favorito un processo di resilienza nei richiedenti asilo accolti. Inoltre, si poneva l'obiettivo di comprendere se e in che modo l'operatore dell'accoglienza potesse svolgere una funzione di tutore di resilienza. Poiché basandosi sulla teorizzazione di Cyrulnik (2001), l'esito del processo di resilienza è dato dall'interazione dei fattori protettivi individuali, dalla qualità/intensità del trauma e/o comunque delle situazioni avverse e dall'incontro con i possibili tutori di resilienza, il progetto si è sviluppato in due fasi e ha tenuto conto sia dell'esperienza dei richiedenti asilo sia di quella degli operatori. Rispettivamente, nella prima fase l'obiettivo della ricerca si proponeva di individuare le risorse/vincoli personali presenti nella biografia dei richiedenti asilo, i vissuti emotivi e la qualità dei legami stabiliti nel passato, di individuare le risorse/vincoli messe in gioco durante il viaggio e, infine, di individuare le risorse/vincoli con funzione protettiva dal momento dell'arrivo in Italia e in particolare nel CAS di residenza e nella relazione con gli operatori. Nella seconda fase, la ricerca mirava a individuare le risorse e le competenze, rintracciabili nelle biografie degli operatori dei CAS messe in gioco nella pratica professionale e di conoscere le loro motivazioni alla base della scelta professionale, e a comprendere il significato e l'uso consapevole della relazione con i richiedenti asilo nella loro pratica professionale e, infine, a valutare la qualità della loro vita professionale tenendo conto del forte carico emotivo dovuto alla relazione con i richiedenti asilo e il loro vissuti traumatici. 2. Migrazione ed Europa: Una revisione sistematica sulla promozione della resilienza dei richiedenti asilo negli Stati membri dell'Unione Europea. La migrazione è un fenomeno complesso determinato dall'interazione di fattori di espulsione e di attrazione. L'Europa ha sempre svolto un ruolo di attrazione nei flussi migratori. Negli ultimi anni, le direttive per gli Stati membri hanno mirato a promuovere il benessere dei richiedenti asilo. È importante sviluppare la resilienza per raggiungere il benessere delle persone. L'obiettivo della revisione sistematica è stato quello di esplorare come viene studiata la resilienza nei richiedenti asilo nei paesi dell'UE. Sono stati consultati i database internazionali PsycINFO, PubMed, Web of science, Scopus, MEDLINE, Psychology e behavioural collection. Gli articoli sono stati analizzati secondo i criteri PRISMA. Sono stati ottenuti 12 articoli. Dall'analisi qualitativa sono emersi tre approcci principali e quattro principi teorici fondamentali che potrebbero guidare lo studio della resilienza in contesti migratori. Lo studio della resilienza può essere orientato verso un approccio clinico, clinico e sociale o psicosociale. Inoltre, la ricerca ha tenuto conto della necessità di costruire una nuova narrazione di sé e della propria storia nei richiedenti asilo, di restituire agency ai richiedenti asilo, di valorizzare il proprio contesto culturale e quello del paese ospitante e di promuovere una democratizzazione del sistema istituzionale di accoglienza. Si suggeriscono implicazioni per le politiche degli Stati membri dell'UE coinvolti in prima linea nella gestione dell'accoglienza in Europa. Data la limitata letteratura sull'argomento, questa rassegna suggerisce una nuova e originale visione di presa in carico dei richiedenti asilo attraverso una maggiore implementazione di interventi focalizzati sull'individuo e sulle sue risorse. 3. Promozione della salute psicosociale nei migranti: una revisione sistematica della ricerca e degli interventi sulla resilienza nei contesti migratori. La resilienza è identificata come una capacità chiave per prosperare di fronte a esperienze avverse e dolorose e raggiungere un buono stato di salute psicosociale equilibrato. Questa revisione mirava ad indagare come la resilienza è intesa nel contesto della ricerca sul benessere dei migranti e come gli interventi psicosociali sono progettati per migliorare la resilienza dei migranti. Le domande della ricerca hanno riguardato la concettualizzazione della resilienza, le conseguenti scelte metodologiche e quali programmi di intervento sono stati indirizzati ai migranti. Nei 63 articoli inclusi, è emersa una classica dicotomia tra la resilienza concettualizzata come capacità individuale o come risultato di un processo dinamico. È anche emerso che l'importanza delle diverse esperienze migratorie non è adeguatamente considerata nella selezione dei partecipanti. Gli interventi hanno descritto la procedura ma meno la misura della loro efficacia. 4. Il sistema d'accoglienza straordinaria di Parma e provincia: soddisfazione e benessere percepito dai migranti accolti. I servizi e le progettualità messi in atto nei CAS mirano a favorire integrazione, autonomia e benessere. Questi obiettivi si strutturano sull'attivazione e promozione di risorse dei richiedenti asilo. Nello specifico, vanno ad innestarsi sulle loro abilità, sulle conoscenze, sulle competenze, sulla loro agency e sulla capacità di proiettarsi verso un futuro. Poiché i richiedenti asilo sono i principali attori e fruitori di questi servizi, la valutazione di efficacia e di raggiungimento degli obiettivi preposti deve tenere conto necessariamente del loro punto di vista. I richiedenti asilo che hanno partecipato allo studio erano circa il 20% della popolazione dei richiedenti asilo adulti presenti nel territorio di Parma e provincia. Per la stratificazione del campione si è tenuto conto della variabile del paese di origine, della collocazione sul territorio provinciale (distretto) e il tempo di permanenza nel sistema CAS. È stato costruito un questionario ad hoc che mirava ad indagare la percezione di autonomia, di benessere personale, di soddisfazione verso sé stesso, la percezione di essere rispettato nelle proprie tradizioni culturali e la soddisfazione verso il servizio. Il questionario constava di una parte introduttiva, che forniva una breve descrizione al partecipante delle finalità d'indagine, e di diverse sezioni, che indagavano e approfondivano specifiche aree (temi) di interesse. Le prime due aree hanno rilevato i dati socio-anagrafici e il viaggio dei richiedenti asilo. La terza e la quarta area hanno indagato l'accoglienza nel centro e la struttura in cui risiedeva il beneficiario. Le altre aree si sono concentrate sui servizi primari (beni e servizi di prima necessità, assistenza medica) e servizi secondari (assistenza legale, lingua italiana, sostegno psicosociale, lavoro, mediazione culturale, orientamento al territorio e tempo libero) che gli venivano offerti. Le ultime sezioni si focalizzavano sul rapporto con gli operatori, sul progetto individualizzato e sui propri piani futuri. Alla fine del questionario vi era una breve sezione che mirava ad indagare la soddisfazione generale verso l'intero processo di accoglienza in Italia e la specifica esperienza nel territorio di Parma e provincia. Sono state effettuate delle analisi ed elaborazioni statistiche descrittive tramite il software SPSS. Dal questionario è emerso un quadro complessivo dei servizi offerti e una mappatura delle pratiche messe in atto all'interno delle strutture a partire dal punto di vista dei richiedenti asilo. Questi hanno espresso una generale soddisfazione del sistema accoglienza in Italia e in particolare di quella ricevuta a Parma. Hanno riportato un senso di protezione e sicurezza e una generale percezione di capacità e autonomia raggiunta in molti dei servizi e ambiti della quotidianità. Le aree più critiche sono risultate essere l'assistenza legale, l'avviamento lavorativo, la creazione di relazioni sociali con italiani nel tempo libero, la progettazione individualizzata e in particolare il sostegno psicosociale e, infine, la progettazione futura. In queste aree i richiedenti asilo hanno espresso una bassa soddisfazione verso il servizio di sostegno ricevuto, una scarsa consapevolezza di sé e delle proprie capacità e una bassa percezione di un'autonomia conquistata dal singolo servizio e, più in generale, dalla struttura d'accoglienza. 5. Vissuti, fattori di protezione e fattori di rischio nelle biografie dei richiedenti asilo: la definizione di traiettorie di resilienza nei Centri d'Accoglienza Straordinaria. I richiedenti asilo sono portatori di storie potenzialmente traumatiche a seguito delle quali possono vivere distress psicologico e PTSD nel paese d'accoglienza. Qui vengono inseriti in programmi che mirano a favorire benessere psicologico e integrazione. Tale processo è definito resilienza, La resilienza è un processo che vede le persone impegnate a guarire da esperienze dolorose, a prendersi cura della propria vita per continuare a svilupparsi positivamente in modo socialmente accettabile. Il presente studio mira a comprendere i fattori di protezione e le risorse personali e sociali che possono favorire il superamento dei traumi e un processo di resilienza nei richiedenti asilo. Sono stati somministrati 29 test CORE-10 e questionari costruiti ad hoc per il sostegno sociale percepito e condotte altrettante interviste in profondità. Con risultati moderati e gravi di distress psicologico nei partecipanti, sono emersi fattori protettivi e risorse già nella fase pre-migratoria. I legami di accudimento sembrano svolgere una funzione protettiva anche durante l'accoglienza, favorendo la costruzione di rapporti di fiducia. Il supporto sociale della comunità d'accoglienza e quello degli operatori nei centri possono influenzare la definizione di traiettorie resilienti. Lo studio solleva implicazioni di tipo clinico e sociale. Nei suoi limiti lo studio vuole essere un'apertura a nuovi approfondimenti di ricerca. 6. La qualità della vita professionale di chi lavora con i richiedenti asilo: Compassion Staisfaction, Burnout e Secondary Traumatic Stress negli operatori dell'accoglienza In Italia negli ultimi anni sono stati strutturati Centri di Accoglienza Straordinaria per rispondere ai bisogni primari e secondari dei richiedenti asilo approdati sulle coste mediterranee. A seguito dell'apertura dei CAS, sul territorio nazionale si è formato un nuovo corpo professionale, i professionisti dell'accoglienza. Poiché inizialmente non è stata richiesta una formazione specifica in base al contesto e agli obiettivi posti, il loro profilo professionale derivava tendenzialmente dai diversi percorsi formativi e lavorativi precedenti. Considerando il mandato istituzionale del loro lavoro, quale favorire l'accoglienza e una completa presa in carico dei richiedenti asilo, i professionisti dell'accoglienza sono quotidianamente coinvolti nella relazione con gli accolti ed esposti ai racconti traumatici o ai sintomi agiti di questi. Infatti, i richiedenti asilo sono persone spesso profondamente traumatizzate dalle esperienze passate, dal viaggio, ma anche disorientate e impreparate per la complessa esperienza dell'accoglienza e dell'integrazione. Questo aspetto del lavoro con i richiedenti asilo può influenzare il clima e la qualità della vita professionale dei professionisti dell'accoglienza. Infatti, come nelle altre professioni d'aiuto continuamente esposte a eventi stressanti o traumatici, anche nel lavoro di cura e accoglienza dei richiedenti asilo è alto il rischio di sviluppare i sintomi negativi associati al burnout e al trauma vicario. Sebbene, negli ultimi venti anni, la qualità della vita professionale sia stata ampiamente approfondita in diversi settori, non risultano studi che esplorino questo tema tra i professionisti del settore dell'accoglienza. In questo studio è stato sottoposto il questionario ProQOL 5 ai professionisti dell'accoglienza dei Centri di Accoglienza Straordinaria di Parma e provincia, attivamente coinvolti nella relazione d'aiuto con i richiedenti asilo, con lo scopo di definire lo stato di benessere psicosociale rispetto alla loro qualità di vita professionale. Anche se si è dimostrato che mediamente i professionisti dell'accoglienza riportano una buona soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, sono emersi tre profili. Il primo gruppo sembra esprimere soprattutto Burnout, il secondo gruppo una maggiore Compassion Satisfaction e il terzo gruppo un malessere evidente sia per il Burnout che per il Secondary Traumatic Stress. I dati ottenuti permettono di colmare parzialmente un vuoto nella letteratura di settore. Inoltre, la rilevanza dei dati spinge alla riflessione sulla possibilità di incoraggiare interventi efficaci di prevenzione e management delle organizzazioni, al fine di favorire il benessere psicosociale di questo corpo professionale emergente. 7. Essere professionisti dell'accoglienza: l'importanza di un uso consapevole del Se' nella relazione d'aiuto e la funzione del tutore di resilienza. All'interno dei CAS sono stati impiegati professionisti di differenti background formativi ed esperienziali. Appannaggio degli operatori è l'attivazione dei servizi interni ed esterni e il monitoraggio di tutte le fasi del progetto di accoglienza. La presa in carico si configurerebbe come una relazione d'aiuto possibile attraverso la compresenza di diversi aspetti di Sé. Chi lavora con i richiedenti asilo deve affrontare e gestire vissuti potenzialmente traumatici che influenzano il buon esito dell'intervento clinico-sociale. Nel favorire benessere psicologico nei beneficiari, gli operatori svolgono funzioni che richiamano quelle del tutore di resilienza. In questo studio si è esplorata la rappresentazione dei professionisti dell'accoglienza e la consapevolezza di Sé a partire dal loro punto di vista. Sono stati condotti tre focus group e le trascrizioni verbatim sono state analizzate secondo l'approccio IPA. Sono emersi tre aspetti del Sé (Sé personale, Sé professionale e Sé burocrate). Il Tempo e il Contesto sociale sono risultate possibili variabili che influenzano la relazione d'aiuto. Lo studio propone implicazioni di ricerche future e di policy. 8. Conclusioni Negli anni il sistema italiano dell'accoglienza si era ormai rodato e formalizzato su due principali dispositivi: il sistema SPRAR e i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Tuttavia, negli ultimi due anni, con il cosiddetto decreto Salvini (D.lg. 4/19/2018 n° 113), si è assistito ad un graduale ridimensionamento dei numeri degli accolti e ad una conseguente chiusura di strutture del sistema CAS. Pertanto, assume rilevanza e importanza capitalizzare le esperienze di accoglienza e comprenderne maggiormente le potenzialità e i limiti. Con la presente ricerca e le analisi delle pratiche d'accoglienza e delle progettualità messe in atto all'interno del sistema CAS sono emersi due risultati principali. Il primo risultato emerso è che i richiedenti asilo accolti abbiano consapevolezza delle risorse e dei fattori protettivi che hanno acquisito nell'arco di vita. Inoltre, si è evidenziata una forte e imprescindibile interdipendenza tra i vissuti psicologici, i bisogni e le risorse dei richiedenti asilo e la funzione relazionale dell'operatore dell'accoglienza. Dalla ricerca è emerso che il valore di tale interdipendenza, non essendo riconosciuto formalmente e quindi esplicitamente richiamato nelle norme e regolamentazioni, era dipeso da un reciproco riconoscimento dei richiedenti asilo accolti e degli operatori. Tuttavia, questa relazione, se opportunamente strutturata e formalizzata, può favorire la definizione di traiettorie di resilienza e il raggiungimento degli obiettivi di integrazione, autonomia e benessere psicosociale. Al momento in cui è stata condotta la ricerca, questi obiettivi erano parzialmente raggiunti. Infatti, sebbene nel sistema d'accoglienza i richiedenti asilo abbiano percepito di essere in un luogo sicuro e protetto e fossero generalmente soddisfatti dei servizi offerti, hanno riportato livelli medio-alti di disagio psicologico. Il valore traumatico delle loro esperienze di vita è stato esplorato e compreso nella sua diacronicità, in quanto i vissuti traumatici sono rintracciabili non solo durante il viaggio ma già nelle esperienze pre-migratorie. Le biografie dei richiedenti asilo sono segnate da profonde ferite, che spesso risalgono a perdite, lutti o tradimenti da parte delle figure significative dell'infanzia o della comunità allargata, fino a sentirsi espulsi dalle politiche disattente degli Stati d'appartenenza. Anche l'arrivo in Italia e l'inserimento nel sistema d'accoglienza comportano sfide esistenziali, che in alcuni casi arrivano a reiterare esperienze traumatiche passate. Nonostante questo, i richiedenti asilo hanno mostrato consapevolezza delle proprie risorse e dei fattori di protezione acquisiti già durante l'infanzia, attraverso le relazioni significative e di accudimento. Queste risorse hanno svolto una funzione di protezione e sostegno nel loro sforzo psicologico di fronteggiare e sopravvivere alle avversità incontrate in tutto l'arco di vita. Nonostante la loro consapevolezza e tenuto conto della permanenza relativamente lunga nel sistema d'accoglienza, è risultato che le esperienze traumatiche non trovano uno spazio adeguato di ascolto e di ri-significazione una volta inseriti nei progetti di accoglienza. Le caratteristiche strutturali e organizzative del sistema non sembrano favorire quell'incontro con l'Altro che può garantire la rielaborazione delle esperienze passate e riattribuire senso e agency alla propria vita, anche nella quotidianità. Al contrario, i richiedenti asilo sono consapevoli di ritrovarsi in una posizione di svantaggio rispetto al potere decisionale sui loro progetti di vita. Non sono coinvolti nelle scelte progettuali e non percepiscono una crescita personale nelle competenze e nelle capacità necessarie per rendersi autonomi. Tuttavia, i richiedenti asilo riconoscono negli operatori degli interlocutori diretti che svolgono un ruolo di congiunzione con la società ospitante. Nello svolgimento del proprio ruolo, gli operatori possono aprirsi ad un ascolto attivo di tutte le parti della biografia dei richiedenti asilo per costruire un rapporto di fiducia. Al fine di favorire la costruzione di tale rapporto, è importante che gli operatori nella loro pratica quotidiana mirino a riattribuire agency ai richiedenti asilo, coinvolgendoli nella progettazione individualizzata. Ciò favorirebbe la valorizzazione e l'attivazione delle risorse dei richiedenti asilo, l'instaurarsi di relazioni di fiducia che consentano la ricostruzione di significato delle proprie esperienze traumatiche di vita e la restituzione di una rappresentazione di Sé attiva e agente. In generale, si otterrebbe una maggiore adesione al progetto d'accoglienza. Inoltre, la valorizzazione della funzione relazionale degli operatori dell'accoglienza favorirebbe una maggiore qualità di vita professionale. I professionisti avrebbero così la possibilità di riconoscere e far riconoscere il proprio ruolo, che è stato profondamente messo in discussione dalla comunità e dalle politiche degli ultimi anni. Quindi, l'ascolto attivo, la riattribuzione di agency e l'esempio nella quotidianità da parte degli operatori favorirebbero il riconoscimento del loro ruolo come tutori di resilienza e promuoverebbero la definizione di traiettorie di resilienza. In questo modo si faciliterebbe il raggiungimento di uno stato di salute psicosociale nei richiedenti asilo. La legittimazione del ruolo funzionale della relazione tra i richiedenti asilo e gli operatori dell'accoglienza da parte del contesto sociale e istituzionale diventa un fattore necessario allo sviluppo di buone pratiche d'accoglienza e alla promozione di traiettorie di resilienza. 9. Riferimenti bibliografici Agaibi, E. C., & Wilson, J.P. (2005). Trauma, PSTD and resilience. A Review of the Literature. Trauma, Violence & Abuse, 6(3), 195-216. doi:10.1177/1524838005277438 Anaut, M. (2005). Le concept de résilience et ses applications cliniques. Recherche en soins infirmiers, 82(3), 4-11. doi.org/10.3917/rsi.082.0004 Berkham, M., Bewick, B., Mullin, T., Gilbody, S., Connell, J., Cahill, J., …Evans, C. (2013). The CORE-10: A short measure of psychological distress for routine use in the psychological therapies. Counselling and Psychotherapy Research, 13(1), 3-13. doi.org/10.1080/14733145.2012.729069 Bonanno, G., & Diminich, E. D. (2013). Annual Research Review. Positive adjustment to adversity – trajectories of minimal- impact resilience and emergent resilience. Journal of child psychology and psychiatry, 54(4), 378-401. doi:10.1111/jcpp.12021 Bonanno, A. G., Westphal, M., & Mancini, A. D. (2011). Resilience to loss and potential trauma. 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2009/2010 ; Considerazioni sul problema dei Rigassificatori tra Aggregazione del Consenso e Conflitto Ambientale 1. Il nostro Paese, per scelta politica e per una sostanziale limitata capacità di innovazione del mondo industriale, ha una quota attuale di produzione di energia da fonti rinnovabili poco significativa nonostante gli investimenti, i contributi e le agevolazioni fiscali che dovrebbero incentivare opportunamente ad esempio, l'utilizzo dell'energia solare che rappresenta una peculiarità del nostro territorio. Devono essere attuate velocemente le scelte strategiche e programmatiche che permettano di guardare al futuro, caratterizzato da una già quantificata scarsità di fonti fossili, con sufficienti margini di prevedibilità e di sostenibilità dello sviluppo, gli obiettivi da raggiungere entro il 2015 per il fabbisogno energetico nazionale dovrebbero essere quantificati nel 25% da fonti di energie rinnovabili, il 25% di energie da fonte nucleare e il rimanente 50% da fonti energetiche tradizionali. In attesa di potenziare la produzione di energia da fonti rinnovabili, come il solare, sarà scelta obbligata la costruzione di infrastrutture energetiche tradizionali, tra cui la necessità di dotarsi di alcuni terminali di rigassificazione con progetti attentamente valutati sia per la logistica che per la dislocazione, la riduzione degli impatti ambientali (non dimentichiamo la vocazione turistica del nostro paese), la massimizzazione delle ricadute per l'area interessata in termini di indotto e occupazione. Infatti, la flessibilità, offerta dal Gas Naturale Liquefatto, rappresenta un fattore di successo non solo per la diversificazione delle fonti, ma anche per la maggiore possibilità di modulare gli approvvigionamenti. Benché l'Italia sia tra i Paesi meglio posizionati per ricevere gas via tubo, la realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione consentirebbe di potenziare la capacità di ricezione del sistema, incrementandone la flessibilità, con il risultato non solo di diversificare le fonti di approvvigionamento, ma anche di favorire la concorrenza, agevolando l'ingresso nel mercato di nuovi operatori e riducendo la possibilità di "colli di bottiglia" dal lato dell'offerta. La tecnologia del GNL consente ai Paesi non collegabili per motivi logistici ai mercati di consumo tramite i tradizionali gasdotti, di esportare la materia prima che altrimenti rimarrebbe non sfruttabile. La tecnologia di liquefazione ha permesso uno sviluppo accelerato dell'utilizzo del gas a livello globale: già oggi il GNL rappresenta circa il 25% degli scambi internazionali di gas. In Italia, invece, il GNL rappresenta oggi solo il 5% del gas importato, ma è destinato a giocare un ruolo crescente, diversificando le fonti tradizionali di importazione e quindi aumentando la sicurezza e la competitività degli approvvigionamenti. Il Gas Naturale è indispensabile al mondo moderno, in quantità sempre maggiori e la sua produzione, il suo trasporto, lo stoccaggio e la sua distribuzione non possono che essere effettuate in condizioni di sicurezza crescente ed a costi tendenzialmente moderati. Il mercato del gas naturale è forse quello che presenta maggiori complessità e profili particolarmente sensibili dal punto di vista ambientale, tecnologico ed economico. Queste complessità si traducono nell'esigenza di contemperare varie esigenze, tutte meritevoli di tutela ed attenzione, ed il quadro normativo che ne risulta pone non pochi problemi interpretativi ed applicativi agli operatori. La localizzazione, la costruzione e l'esercizio di un grande impianto di rigassificazione può portare vantaggi o disagi alla popolazione residente o non residente nell'area che ospiterà il rigassificatore. I vari profili connessi alla sua realizzazione si sono progressivamente fatti spazio nella legislazione di settore fino a rispecchiarsi, in vario modo, in vere e proprie fasi del procedimento autorizzativo. L'accettabilità sociale dei terminali di rigassificazione da parte delle comunità locali è uno dei fattori condizionanti la realizzazione di infrastrutture diventate una delle priorità dell'agenda politica italiana. La capacità di comprendere e interagire con le dinamiche di conflitto ambientale che si sviluppano intorno ai progetti di realizzazione di infrastrutture energetiche da parte dei diversi attori coinvolti, è un fattore cruciale che appare ancora fortemente sottovalutato. Tale capacità chiama in causa il rapporto delle imprese con il territorio in cui operano e, in questa prospettiva, l'uso che viene fatto degli strumenti di informazione e partecipazione che sono presenti nei procedimenti autorizzativi. La sottovalutazione circa il ruolo di questi strumenti è sicuramente uno degli elementi che hanno reso particolarmente critico l'andamento dei processi autorizzativi dei terminali di rigassificazione. Il corretto ed efficace uso di questi strumenti, che coinvolge gli attori pubblici con ruoli determinanti nei processi decisionali, le imprese proponenti e il pubblico interessato dovrebbe essere una preoccupazione prioritaria sia della pubblica amministrazione che delle imprese. Bisogna provare a cambiare mentalità ed atteggiamento verso nuove iniziative, nuovi progetti, nuove tecnologie e nuove idee. E' necessario superare la c.d. sindrome di NIMBY (acronimo inglese per Not In My Back Yard, lett. "Non nel mio cortile") e l'atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui siti in cui verranno realizzate, come ad esempio grandi opere pubbliche. L'atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull'ambiente locale. Sarà questa la sfida da affrontare in futuro: aggregare il consenso per opere come i Rigassificatori. Opere che non sono rinviabili nel quadro della razionalizzazione dell'uso delle fonti energetiche intesa come risparmio e riduzione progressivi della dipendenza nazionale da paesi terzi. 2. Il problema dei rigassificatori non è un problema locale, poiché dovrebbe essere inquadrato nelle scelte strategiche che interessano in primo luogo il piano energetico nazionale (PEN). Tale piano, di fatto, è obsoleto e non aggiornato, e nello stesso manca di una visione strategica degli investimenti e delle diverse forme di approvvigionamento del paese (combustibili fossili, idroelettrico, geotermico, eolico, solare e da ultimo nucleare previsto nel programma dell'attuale governo). In merito al fabbisogno di approvvigionamento di gas metano, difatti, non esiste un piano che preveda il numero necessario di rigassificatori ed una corretta pianificazione sull'ubicazione degli stessi. Oggi la pianificazione è fatta dalle società private e lo Stato è soggetto passivo che deve solo esprimersi sulla compatibilità ambientale di detti impianti, senza un intesa tra i vari ministeri (Ambiente, Sviluppo Economico, Economia, Lavori Pubblici, Rapporti Comunitari ecc), denotando, perciò, un deficit di coordinamento. 3. In Friuli Venezia Giulia, esiste un Piano Energetico Regionale (PER) che è stato approvato con Decreto del Presidente della Regione 21 maggio 2007, n. 0137/Pres. (Legge regionale 30/2002, art. 6). In tale piano non sono evidenziate le scelte pianificatorie sulla costruzione in Regione di impianti di rigassificazione e non si fa riferimento specifico alla costruzione di impianti di rigassificazione, che sembra lasciata a "scenari di offerta spontanea" come definiti dal piano. La Regione FVG, al fine di favorire la diversificazione delle fonti energetiche, ha inserito nel Piano Territoriale Regionale (PTR) la possibilità di insediare impianti di rigassificazione all'interno delle zone industriali programmatiche regionali e negli ambiti portuali. Detti impianti non sono previsti dal PER pur non essendo esclusi dal PTR. In base al Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, i progetti devono essere sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica e a Valutazione d'Impatto Ambientale, rientrando gli impianti nell'applicazione del combinato disposto degli articoli 6 e 7 del citato decreto. In particolare: l'art. 25 prevede che la competenza sui progetti di opere ed interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli aventi impatto ambientale interregionale o internazionale, spetta al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali; l'art. 26 prevede altresì che il committente o proponente l'opera o l'intervento deve inoltrare all'autorità competente apposita domanda allegando il progetto, lo studio di impatto ambientale e la sintesi non tecnica. Copia integrale della domanda di cui al comma 1 e dei relativi allegati deve essere trasmessa alle regioni, alle province ed ai comuni interessati e, nel caso di aree naturali protette, anche ai relativi enti di gestione, che devono esprimere il loro parere entro sessanta giorni dal ricevimento della domanda. Decorso tale termine l'autorità competente rende il giudizio di compatibilità ambientale anche in assenza dei predetti pareri. Un caso concreto in Friuli Venezia Giulia: il progetto "Zaule" relativo alla costruzione di un impianto di rigassificazione, sito nel Vallone di Muggia, progetto presentato dalla multinazionale "Gas Natural". Su di esso si sono espressi i seguenti enti: a. Parere Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza prot. n01020/15.0 di data 25.02.2005; b. Conferenza del 19.10.2005 convocata dalla Pianificazione Regionale, Energia, Mobilità e Infrastrutture di Trasporto delle Regione Friuli Venezia Giulia. Enti invitati presenti: Ministero dell'Ambiente - Servizio VIA (Valutazione Impatto Ambientale), Ministero delle Infrastrutture e Trasporti –Capitaneria di Porto, Agenzia delle Dogane, Ministero dell'Interno Vigili del Fuoco, Autorità Portuale di Trieste, EZIT, Comune di Trieste, Provincia di Trieste. Enti invitati assenti:Ministero delle attività produttive, Ministero dei beni culturali - Soprintendenza, Ministero della Salute. (Comune di Muggia non invitato); c. Delibera del Consiglio Comunale di Muggia n° 31 di data 26 maggio 2006 e n2. di data 18 gennaio 2007; d. Delibera del Consiglio Comunale di San Dorligo di data 17 gennaio 2007; e. Delibera del Consiglio Comunale di Trieste di data 18.01.2007; f. Delibera della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia n01996 di data 25.08.2006. Dai pareri e delibere sopra riportati, si evidenziano la positività o negatività al progetto di cui sintetizzo alcune motivazioni: a. Parere negativo espresso dal Ministero per i Beni e le attività culturali – Soprintendenza prot. n01020/15.0 di data 25.02.2005, con le seguenti motivazioni: degrado paesaggistico, modifiche linee di costa ed anche alla sola costruzione del pontile di attracco delle navi metaniere, illogico sovrapporre ulteriore degrado al degrado esistente; b. Conferenza del 19.10.2005 - Segnalazione del sindaco di Trieste sull'opportunità di invitare alle successive riunioni anche il Sindaco di Muggia. Potrà essere ammesso ma senza diritto di voto. La società proponente illustra il progetto. Il Ministero dell'ambiente fa presente che è propedeutica a qualsiasi attività l'approvazione del piano di bonifica delle aree interessate, che la società non ha presentato formale istanza di VIA al Ministero, precisa inoltre che la VIA dovrà essere eseguita sia per le parti a mare che a terra compreso collegamento gasdotto alla rete nazionale. Dovrà essere inoltre richiesta una variante al Piano Regolatore Portuale, previo assenso del Ministero LL.PP.; c. Le deliberazioni del Comune di Muggia - nn. 31 e 1 datate rispettivamente 26 maggio 2006 e 18 gennaio 2007 - hanno bocciato il progetto onshore di rigassificazione GNL " Gas Natural Intemational SDG" per motivazioni legate a fattori di sicurezza, ambientali, socio economici e a carenze progettuali. La seconda delle due delibere aggiunge la mancanza di tempo necessario per esaminare un così complessa e copiosa documentazione. Per gli stessi motivi le deliberazioni del Consiglio Comunale di Muggia n. 30 di data 26 maggio 2006 e n. 2 di data 18 gennaio 2007 hanno espresso un parere non favorevole al terminale offshore di rigassificazione; d. La delibera del Comune di San Dorligo della Valle ha espresso in data 17 gennaio 2007, all'unanimità parere non favorevole sulla compatibilità ambientale del progetto del rigassificatore della Gas Natural di Zaule. Tra i motivi del "no" vi sono il cambiamento nel progetto che indica in un condotta sottomarina fino a Grado il sistema del trasporto del gas, il perdurare dei timori sulla sicurezza, ma anche la mancanza di tempo per un approfondimento puntuale della documentazione presentata; e. Delibera del Consiglio Comunale di Trieste di data 18.01.2007 in merito alla pronuncia di compatibilità ambientale del progetto – con cui è stato espresso parere negativo con le seguenti motivazioni: progetto carente della "prospettazione del rapporto tra costi preventivati e benefici stimati" (analisi costi-benefici); f. Delibera della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia n01996 datata 25.08.2006 in merito alla Valutazione d'impatto ambientale - non si esprime parere perche' di non competenza regionale ma si evidenziano al ministero tutta una serie di carenze documentali e progettuali chiedendo integrazioni. Le principali carenze del progetto della Società Gas Natural in esame, riportate nella relazione istruttoria del Servizio Valutazione Impatto Ambientale della Regione riguardano i seguenti punti: • Quadro programmatico: effetti sul versante dell'offerta e dei consumi di gas e quindi sulla contemporanea presenza di altri impianti, sul sottoutilizzo di detti impianti, effetti sul traffico marittimo, ragioni della scelta del sito rispetto ad altre soluzioni, connessioni delle attività di programmazione con sito inquinato, compatibilità con il piano regolatore di Trieste e del Porto, ricaduta sulle attività di pesca, sul turismo e sulla nautica da diporto. • Quadro progettuale:ragioni della scelta sotto il profilo dell'impatto ambientale, analisi dei costi benefici, numero degli occupati nella fase di esercizio, attività economiche esistenti (turismo, pesca, traffici marittimi) per l'intero ciclo di vita dell'impianto proposto. • Quadro ambientale: In generale: attività correlate alla bonifica del sito inquinato a mare e a terra afferente alla realizzazione dell'impianto; Suolo e sottosuolo: posizionamento dei cantieri, impatti causati dalla realizzazione del terminal, provenienze e destinazione dei materiali di risulta (scavi, dragaggi), provvedimenti ed azioni di mitigazione dell'impatto ambientale; Ambiente marino e costiero: descrizione e distribuzione popolazioni ittiche, dati meteomarini del golfo (venti, correnti, geometria della costa, batimetrie, moto ondoso, ecc.), descrizione situazione ex-ante impianto, definizione modello di dispersione scarichi acque clorate, effetti diretti ed indiretti attività a medio-lungo periodo, alternative alla clorazione dell' acqua, impatti sull'ecosistema marino dei dragaggi, impatti sull'ecosistema dovuto alla movimentazione delle gasiere; Atmosfera: dati meteoclimatici, studi approfonditi, descrizione relativa situazione ex-ante, emissioni in atmosfera, ecc.; Rumore: valutazione dell'impatto del rumore, studi ad hoc ai fini della valutazione del progetto, descrizione relativa situazione ex-ante, analisi dei rumori provocati dai cantieri e dal successivo esercizio dell'impianto; Paesaggio: simulazioni visive dell'intero impianto di giorno e di notte, soluzioni mitigatrici; Aspetti relativi alla sicurezza: impatti derivanti dai possibili rischi (tecnologici, di funzionamento nelle fasi di esercizio e manutenzione, atti terroristici, ecc.), anche in correlazione con gli altri impianti esistenti, quantificazione in particolare del rischio derivante dalla collisione delle metaniere con altre navi, indicazione dei sistemi di controllo del traffico marittimo. 4. Il Piano energetico regionale (PER), già citato sul punto 3, è lo strumento di pianificazione primaria e di indirizzo fondamentale per le politiche energetiche regionali. Esso riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo socio-economico della regione, e per questo è essenziale il suo raccordo con la programmazione economica regionale. È quindi essenziale che la Regione individui i punti di forza e fissi gli interventi prioritari in materia di energia che forniscano valide indicazioni per una pianificazione integrata delle risorse in una visione d'azione intersettoriale: l'energia è occasione per cogliere le opportunità di crescita del territorio. L'energia, in quanto motore di sviluppo economico e sociale, rappresenta quindi un tema strategico per l'azione di governo del Friuli Venezia Giulia. La liberalizzazione e privatizzazione dei mercati dell'elettricità e del gas, sancita con i decreti "Bersani" del 1999 e "Letta" del 2000, e la progressiva devoluzione di competenze dallo Stato alle Regioni nella logica del principio di sussidiarietà, a partire dalla riforma Bassanini sino a quella costituzionale del Titolo Quinto, hanno inciso in modo significativo e determinante sulla competenza delle Regioni. Con la riforma costituzionale del Titolo Quinto alle Regioni è stato attribuito in materia di energia un ruolo nuovo e attivo, affidando alle stesse la potestà legislativa concorrente su produzione, trasporto e distribuzione nazionale di ogni forma di energia, lasciando allo Stato il potere di legiferare sui principi generali (sicurezza nazionale, concorrenza, interconnessione delle reti, gestione unificata dei problemi ambientali). Le amministrazioni regionali hanno quindi potuto, a seguito di tale nuovo scenario normativo, utilizzare i loro piani energetici come strumenti attraverso i quali predisporre un progetto complessivo di sviluppo dell'intero sistema energetico, coerente con lo sviluppo socio-economico e produttivo del loro territorio. Accanto agli obiettivi iniziali, di incremento e di sviluppo delle fonti rinnovabili e di un uso più razionale dell'energia che spinsero il legislatore nazionale ad istituire, con la legge n. 10/1991, lo strumento dei Piani Energetici Regionali relativi alle fonti rinnovabili, l'avvento della liberalizzazione del mercato, il peso delle questioni relative alla tutela e salvaguardia dell'ambiente, dello sviluppo sostenibile e dei temi del Protocollo di Kyoto, e la devoluzione di competenze energetiche Stato-Regioni hanno determinato l'esigenza di trasformare la programmazione energetica regionale in uno strumento di programmazione strategico e interdisciplinare. Il PER della Regione Friuli Venezia Giulia, approvato con Decreto del Presidente della Regione 21 maggio 2007, n. 0137/Pres. (Legge regionale 30/2002, art. 6), elabora, anzitutto, l'analisi dello scenario energetico regionale attuale, con dati a consuntivo relativi all'anno 2003 sostanzialmente applicabili anche alla data odierna, riguardanti l'offerta di energia relativamente a fonti convenzionali, infrastrutture energetiche e fonti rinnovabili, e la domanda complessiva di energia, con infine un bilancio dell'attuale situazione elettrica regionale complessiva. Viene quindi fornito un completo quadro della disponibilità energetica regionale potenziale relativamente alle fonti convenzionali, alle infrastrutture energetiche e alle fonti rinnovabili sulla base degli studi e delle analisi svolte dai consulenti. Il PER delinea una proiezione dei principali dati energetici in assenza di interventi regionali. Fa una previsione sull'evoluzione del libero mercato energetico tenendo conto dei finanziamenti in corso, regionali, nazionali o comunitari. Vengono quindi definiti gli obiettivi di politica energetica regionale. Per ogni singolo obiettivo strategico vengono individuati i relativi obiettivi operativi e per ognuno di essi vengono individuate azioni. Il Piano passa quindi a delineare una sintesi degli scenari globali di domanda ed offerta (attuale, spontaneo e programmato) mettendoli a confronto. Vengono indicati gli investimenti necessari per la realizzazione di impianti e di interventi energetici programmati, calcolati sulla base della differenza tra le azioni previste nello scenario programmato e quelle relative allo scenario di previsione spontanea. E' previsto, infine, per ogni tipologia di fonte rinnovabile e per ogni settore di risparmio energetico, una percentuale di incentivazione pubblica al fine di rendere sufficientemente attraente l'investimento privato e al fine di avviare gli investimenti del mercato. Per attuare il Piano secondo gli obiettivi indicati e secondo le azioni selezionate vengono previste specifiche schede di programmi operativi riguardanti gli adempimenti di diverse Direzioni centrali della Regione, competenti per materia. Le schede danno attuazione sia alle azioni di incentivazione pubblica (azioni da scenario programmato), sia alle azioni comunque derivanti dagli obiettivi fissati (azioni derivate). Il PER quantifica l'impatto delle scelte pianificatorie relativamente alle emissioni inquinanti e climalteranti imputabili alle attività energetiche programmate. La Regione, a seguito della liberalizzazione dei mercati elettrico e del gas e del trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione, ha avviato un processo di pianificazione energetica che ha portato ad una definizione concertata con associazioni di categoria, sindacati, associazioni ambientali dei principali obiettivi del Piano. 5. L'aspetto di primaria rilevanza per quanto riguarda gli impianti di rigassificazione è quello dei rischi connessi con la loro realizzazione. Per avere un quadro chiaro dei rischi di un impianto di rigassificazione è opportuno, prima di tutto, esaminare le tre direttive "Seveso" sugli incidenti industriali rilevanti. La "Seveso 1" è una direttiva europea che in Italia è stata recepita con il DPR 175 del 1988. Essa ha imposto il censimento degli stabilimenti a rischio, con l'identificazione delle sostanze pericolose. Tra le tipologie degli stabilimenti che svolgono "attività a rischio di incidente rilevante" sono compresi i rigassificatori. Successivamente, con la legge 137/97 (articolo 1, comma 1) è stato introdotto l'obbligo per i sindaci di informare preventivamente la popolazione sulle misure di sicurezza da adottare in caso di incidente. Con la "Seveso 2" (ossia il decreto legislativo 334 del 1999 che recepisce la direttiva comunitaria 96/82/CE), gli obblighi per le attività a rischio di incidente rilevante sono diventati ancora più stringenti imponendo: • per ogni stabilimento a rischio di incidente rilevante la redazione di un piano di prevenzione e di un piano di emergenza; • la cooperazione tra i gestori per limitare l'effetto domino (ossia le possibili "reazioni a catena" fra impianti vicini a rischio di incidente rilevante); • il controllo dell'urbanizzazione attorno ai siti a rischio; • l'informazione degli abitanti delle zone limitrofe; • la costituzione di un'autorità preposta all'ispezione dei siti a rischio. Infine, con la "Seveso 3", che ha recepito la direttiva europea 2003/105/CE sugli incidenti rilevanti, viene ad aggiungersi l'obbligo di consultare la popolazione interessata per una più efficace redazione dei piani di emergenza e l'introduzione di misure per la salvaguardia di eventuali vie di trasporto presenti nell'area circostante lo stabilimento. Le tre direttive Seveso impongono dunque precisi obblighi da rispettare al fine di prevenire ogni rischio possibile per la costruzione di un impianto di rigassificazione. Tali rischi sono stati ampiamente studiati ed ipotizzati da numerosi addetti ai lavori nel mondo. Fra i tanti studi internazionali cito solo, in questo testo, quello autorevole condotto nel 2003 dalla Commissione Energia della California. 6. I rischi e la loro tipologia, che sono stati sintetizzati nel paragrafo precedente, generano a loro volta il conflitto ambientale. Il conflitto genera il dissenso e il dissenso deve essere riportato a un consenso motivato e partecipato sui progetti della rigassificazione, sulla loro praticabilità e sostenibilità. L'approccio interpretativo ai fenomeni di conflitto ambientale che viene preso come riferimento è quello adottato nelle analisi di carattere generale più rilevanti condotte sulle infrastrutture energetiche in Italia relative al settore elettrico. La natura del conflitto può essere ricondotta a quattro modalità fondamentali che lo caratterizzano: - conflitto di valori; - conflitto di interessi; - conflitto di tipo cognitivo; - conflitto di rapporto. Il conflitto di valori emerge quando si ritiene che la realizzazione di un impianto o la tecnologia adottata ledano qualcosa che non è considerato negoziabile, i casi più tipici sono costituiti dalla minaccia alla salute, alla sicurezza o a particolari valori paesaggistici culturali o naturalistici. In questo caso il conflitto si struttura su elementi profondi che rendono più radicale la contrapposizione e difficile il dialogo tra le parti coinvolte. Il conflitto di interessi mette in evidenza la dimensione economica coinvolta dagli effetti che la realizzazione di un infrastruttura può avere sugli attori presenti nel territorio coinvolto. E' questo il caso degli effetti negativi sul valore dei patrimoni immobiliari e/o della compromissione delle condizioni che consentono lo svolgimento di determinate attività economiche. Il riconoscimento o meno degli interessi messi in gioco è un elemento che può incidere in modo decisivo sulle relazioni tra gli attori dello scenario di conflitto. Il conflitto di tipo cognitivo caratterizza le situazioni in cui la dinamica conflittuale si fonda sulla mancanza di conoscenza e informazioni circa gli impatti di un progetto. In questo caso le azioni volte a fornire un adeguato livello di conoscenza e informazione a tutti gli attori coinvolti, sulla natura del progetto, possono incidere sulle motivazioni dell'opposizione. Infine, il conflitto di rapporto coinvolge il carattere delle relazioni che intercorrono tra gli attori degli scenari di conflitto in termini di fiducia e credibilità, in particolare quando vi sono dei precedenti negativi nelle relazioni. Questo può essere il caso in cui l'impresa proponente o l'autorità pubblica abbiano precedenti negativi nel fornire informazioni dovute o nel garantire il rispetto delle norme di tutela ambientale. Questi quattro profili nella natura delle dinamiche di conflitto ambientale non caratterizzano in modo esclusivo le situazioni che si presentano concretamente ma sono invece in vario modo compresenti. Saper riconoscere nelle situazioni concrete quanto e come questi profili caratterizzano le relazioni tra i protagonisti degli scenari di conflitto è essenziale per qualsiasi forma di intervento. Per ciò che concerne il rischio e la sua percezione, c 'è da evidenziare che uno degli aspetti più critici che condizionano le dinamiche di conflitto ambientale e che rimanda in larga misura agli aspetti di tipo cognitivo, riguarda la discrepanza che in genere esiste tra il rischio oggettivamente definito (ambientale, sanitario, incidentale) tramite strumenti tecnicoscientifici dal proponente o dalle autorità pubbliche che lo devono valutare, e il rischio soggettivamente percepito da parte del pubblico interessato che diventa protagonista del dissenso. Ancora troppo spesso sia i proponenti che le autorità pubbliche, con funzioni di valutazione tecnico scientifica, ritengono che la mancanza di adeguate conoscenze e strumenti di valutazione del rischio effettivo da parte del pubblico interessato, diminuisca la percezione soggettiva del rischio che viene espressa come motivazione del dissenso. Un tipo di atteggiamento che in genere aggrava le dinamiche di conflitto ambientale compromettendo le possibilità di dialogo. E' invece fondamentale, sia per l'impresa proponente che per la pubblica amministrazione, comprendere quale sia la percezione soggettiva del rischio legata alla realizzazione di un impianto da parte del pubblico interessato, perché solo così è possibile dare delle risposte ai motivi del dissenso che non hanno fondamento tecnico-scientifico e che alimentano il conflitto. 7. Il problema dell'aggregazione del consenso intorno ai progetti sopradescritti, o meglio il problema politico-sociale, dell'accettabilità sociale, come si può ben comprendere, non è di facile soluzione. La cd. direttiva Seveso 3 aveva messo in luce la necessaria congiunzione tra i progetti relativi ai rigassificatori e la consultazione ed informazione delle popolazioni interessate: trasponendo, o meglio ravvivando e rafforzando a livello del diritto comunitario e nazionale quella nozione di sviluppo sostenibile che non può prescindere dalla partecipazione dall'intervento e dalla stessa presenza fisica dei soggetti che da quei progetti potrebbero trarre dei vantaggi ovvero degli svantaggi. La nozione di sviluppo sostenibile, che viene rapidamente analizzata nel testo finale permette di introdurre anzitutto il concetto di persona umana, e quindi la procedura partecipativa all'interno del discorso, più tecnico, affrontato sinora, nonché la problematica relativa alla aggregazione del consenso. 8. Prendendo a prestito dalla terminologia anglosassone il termine di stakeholders, che si riferisce a quei portatori di interesse che nella teoria della Responsabilità Sociale di Impresa sono i diretti interessati alle decisioni dell'impresa stessa pur non essendone azionisti, ho cercato di ricostruire la nozione di "consenso" in relazione alla costruzione dei rigassificatori, evidenziando limiti e prospettive della partecipazione dei cittadini. In buona sostanza, il tema dell'aggregazione del consenso può essere trattato facendo riferimento al grado ed alla profondità della partecipazione dei cd. stakeholders, e quindi dei portatori di interessi: ad esempio dipendenti delle imprese costruttrici degli impianti e delle imprese che li gestiscono una volta attivi, cittadini delle zone limitrofe, associazioni ambientaliste interessate alla tutela della salute e del paesaggio intaccato da quelle opere. La partecipazione, nell'ambito delle esperienze maturate all'interno dei circuiti dei sistemi democratico-rappresentativi, si svolge per lo più nell'ambito dell'istruttoria procedimentale, secondo gli schemi tracciati dagli istituti di partecipazione disciplinati dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e secondo alcuni Autori, come si è visto con Crisafulli e Paladin, attraverso ulteriori istituti previsti dalla stessa Costituzione italiana. Tuttavia si tratta di una tipologia di intervento e di partecipazione dei cittadini limitata al momento amministrativo e quindi esecutivo, ovvero al momento indiretto dell'esercizio della sovranità, senza alcuna influenza sul momento realmente politico, di programmazione e decisione generale. La sfida posta dalle dottrine neo-partecipazioniste (definiremmo in questi termini quegli studi che si sono occupati di analizzare i limiti del sistema rappresentantativo) ha a che fare, invece, con l'intervento e la partecipazione dei cittadini interessati, e più in generale dei portatori di interesse ad un altro livello, quello cioè della decisione, del programma, il momento più genuinamente politico. Già da qualche anno la dottrina giuspubblicistica guarda con interesse alle questioni poste dalla cd. democrazia partecipativa e dalla cd. democrazia deliberativa: ragionando astrattamente, però, ho operato una distinzione tra i termini di partecipazione e di deliberazione, soprattutto per quanto riguarda la loro struttura teoretica: è indubbio tuttavia che in entrambi i casi la partecipazione dei soggetti interessati può trasformarsi in una mera ingegneristica del consenso, in grado di favorire decisioni già prese altrove, invece di suscitare una sincera adesione piuttosto che una schietta opposizione dei cittadini, debitamente informati. In questo senso può distinguersi tra una nozione di partecipazione in senso formale ed un'altra, intesa in modo sostanziale. L'intero argomento ovviamente può dar luogo a facili fraintendimenti ed esasperazioni, in quanto la partecipazione, come ho cercato di spiegare, degenera facilmente sino a diventare strumentale e quindi formale. L'aggregazione del consenso e quindi la partecipazione in senso sostanziale dev'essere così sviluppata secondo due direttrici fondamentali: Anzitutto i portatori di interessi devono essere messi in grado di giudicare un progetto di pubblica utilità com'è un impianto di rigassificazione avendo bene in mente gli argomenti a favore e quelli contrari, e ricordando che l'approvigionamento energetico è un tema di primissimo piano in un periodo storico come quello in cui viviamo, condizionato dall'endemica scarsità di materie prime e quindi di energia. In secondo luogo ogni decisione deve essere presa nelle sedi istituzionali opportune, prevedendo una fase all'interno della quale debbano essere obbligatoriamente prese in considerazione le posizioni di tutti gli stakeholders titolati a partecipare attraverso l'iscrizione ad un registro all'uopo predisposto per un periodo di tempo stabilito. Corollari di questa impostazione sostanziale, sono invece i termini di sviluppo sostenibile, cittadinanza e responsabilità: infatti, secondo l'ottica di una partecipazione di tipo politico (e quindi non meramente amministrativa, né formale), l'orizzonte di crescita all'interno del quale quelle stesse decisioni devono essere prese dai portatori di interessi è quello dello sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè concreto ed integrale della persona umana e dell'ambiente in cui si trova a vivere; sviluppo possibile soltanto rivisitando lo statuto di cittadinanza così com'è inteso dal pensiero moderno, rivestendo il cittadino della responsabilità che gli è richiesta per poter veramente prendere parte ad un più ampio sviluppo dell'umanità. 9. In ragione della vicinanza del progetto al confine sloveno, secondo le disposizioni della Convenzione sulla valutazione dell'impatto ambientale in contesto transfrontaliero, fatto a Espoo il 25.02.1991 e dell'articolo 7 della direttiva 85/337, l'avvio della procedura di valutazione di impatto ambientale è stato comunicato con nota del Ministero dell'Ambiente italiano n. DSA/2006/9866 del 31/1/2006 al Ministero dell'ambiente e al Ministero degli affari esteri della Repubblica di Slovenia. A seguito della detta notifica di avvio del procedimento di valutazione dell'impatto ambientale sono state avviate consultazioni con il Ministero dell'ambiente della Repubblica di Slovenia. Nell'ambito delle suddette consultazioni, il Ministero della Repubblica di Slovenia, ha trasmesso le proprie osservazioni e valutazioni sul progetto contenute in un documento intitolato "Rapporto sugli impianti transfrontalieri prodotti dai due Terminali di rigassificazione nel Golfo di Trieste e sulla zona costiera". In particolare è stato acquisito il parere favorevole con prescrizioni n. 73 del 2008 formulato dalla Commissione tecnica di verifica dell'Impatto Ambientale VIA - VAS successivamente integrato a seguito del proseguimento della consultazione transfrontaliera con il Ministero dell'ambiente della Repubblica Slovena. E' stato acquisito, altresì, il parere n. 251 del 13.03.2009 formulato dalla Commissione tecnica di verifica dell'Impatto Ambientale VIA – VAS. A seguito della riunione di data 16.06.2009 con le Autorità della Repubblica di Slovenia, la Commissione Tecnica di Verifica dell'impatto ambientale VIA-VAS ha integrato ed aggiornato il quadro prescrittivo del parere n. 251 del 13.03.2009 poi votato in Assemblea Plenaria del 03.07.2009. A conclusione del procedimento in esame il Ministero dell'Ambiente e della tutela del mare, di concerto con il Ministero per i beni culturali, con decreto n. 808 del 17.7.2009 ha pronunciato parere di compatibilità ambientale, con prescrizioni, al progetto presentato dalla Società Gas Natural International SDG su cui è subentrata la Società Gas natural Rigassificazione Italia Spa . Con ricorso numero di registro generale 564 del 2009, nei confronti: - del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - del Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali; - della Regione Friuli Venezia Giulia; - della Societa' Gas Natural Rigassificazione Italia Spa - della Societa' Gas Natural Sdg Sa; - della Repubblica della Slovenia; - del Comune di Muggia; il Comune di San Dorligo della Valle ha chiesto l'annullamento del citato decreto n. 808 di compatibilità ambientale relativo al progetto del rigassificatore di Zaule del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare dd. 17.7.2009. Il TAR Fvg, Sez I, con sentenza n. 167 di data 11 marzo 2010, si è pronunciata in merito, affermando che la materia "rigassificatori", per la sua rilevanza in relazione alla tutela di pubblici interessi di portata generale e nazionale, oltre che internazionale (posto che coinvolge interessi anche di nazioni vicine), indubbiamente trascende quell'interesse territorialmente limitato che è il presupposto per la competenza territoriale dei singoli Tribunali Regionali. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente e ha ritienuto la propria incompetenza e ai sensi dell'art. 41 della L. 99/09 disponendo la trasmissione del fascicolo al competente TAR del Lazio, sede di Roma, per le conseguenti determinazioni, in rito, nel merito e in ordine alle spese. ; XXIII Ciclo ; 1965
L'applicazione del principio di avidità in un mondo caratterizzato da incertezza, quale di fatto è quello su cui vengono scambiati i prodotti finanziari, implica la necessità che alla considerazione del possibile rendimento futuro di qualsivoglia portafoglio finanziario debba essere associata la considerazione del rischio finanziario concernente la variabilità del futuro valore del medesimo. All'interno delle diverse tipologie di rischio che concorrono alla formazione del rischio finanziario di un portafoglio, quelle sulle quali si è maggiormente incentrato l'interesse degli studiosi e degli operatori, anche in adempimento a precise normative legislative relative alle attività di vigilanza degli intermediari finanziari, sono costituite dal rischio di mercato e dal rischio di credito. Mentre il rischio di mercato si associa al rischio di prezzo di un dato portafoglio, incentrando così l'analisi sulle possibili fluttuazioni delle variabili di mercato rilevanti, il rischio di credito (credit risk) considera l'eventualità che il valore di un portafoglio sia influenzato dalla situazione finanziaria dei soggetti in esso coinvolti. La quarta fonte di rischio è il rischio internazionale (international risk). Un'impresa si trova a dover fronteggiare questo tipo di rischio quando la valuta nella quale sono misurati gli utili ed è espresso il prezzo del titolo azionario è diversa dalla valuta dei flussi di cassa del progetto, come accade nel caso di progetti intrapresi al di fuori del mercato nazionale. La principale innovazione introdotta da Markowitz nella misurazione del rischio di un portafoglio consiste nella considerazione della distribuzione congiunta dei rendimenti di tutti i titoli in esso presenti. Il modello media varianza, sebbene sia tuttora largamente utilizzato nella pratica, presenta limiti intrinseci dovuti alla considerazione esclusiva dei primi due momenti della distribuzione dei rendimenti. In primo luogo, deve tenere in debito conto la dispersione dei rendimenti effettivi attorno al rendimento atteso, misurata dalla varianza (o dallo scarto quadratico medio) della distribuzione; maggiore è la differenza fra rendimenti effettivi e rendimento atteso, maggiore è la varianza. 2.2.2. Rendimento e rischio: la frontiera efficiente Supponiamo che un investitore abbia delle stime dei rendimenti attesi, degli scarti quadratici medi dei singoli titoli e delle correlazioni tra i titoli. Nella scelta della migliore combinazione di titoli da detenere, un investitore cercherà ovviamente un portafoglio con un rendimento atteso elevato e un basso scarto quadratico medio dei rendimenti. Pertanto è opportuno considerare: la relazione tra il rendimento atteso dei singoli titoli e il rendimento atteso di un portafoglio composto da questi titoli; la relazione tra gli scarti quadratici medi dei singoli titoli, le correlazioni tra questi titoli e lo scarto quadratico medio di un portafoglio composto dagli stessi. Consideriamo un portafoglio composto da due titoli. Il titolo A ha un rendimento atteso di µA e una varianza dei rendimenti di σ2A, mentre il titolo B ha un rendimento atteso di µB e una varianza dei rendimenti di σ2B . Il rendimento atteso e la varianza di un portafoglio di due titoli può essere scritta come funzione di questi input e del peso che questi hanno sul valore del portafoglio. Dove e rappresentano la quota del titolo A e del titolo B nell'intero portafoglio. L'eliminazione di parte del rischio è possibile perché di solito i rendimenti dei singoli titoli non sono perfettamente correlati tra loro; pertanto parte del rischio viene "eliminata grazie alla diversificazione". Concettualmente, il rischio di un singolo titolo dipende da come il rischio di un portafoglio cambia quando quel titolo viene aggiunto. Come avremo modo di evidenziare in seguito, il Capital Asset Pricing Model (CAPM) mostra che il rischio di un singolo titolo è rappresentato dal suo coefficiente beta che, in termini statistici, indica la tendenza di un titolo azionario a variare nella stessa direzione del mercato (per esempio, l'indice composito S&P): il beta misura la reattività del rendimento di un singolo titolo rispetto al rendimento del portafoglio di mercato. In generale, il numero dei termini di covarianza può essere scritto come una funzione del numero dei titoli. dove n è il numero dei titoli presenti nel portafoglio. Per motivi di semplicità, assumiamo che i titoli abbiano in media una deviazione standard dei rendimenti di , che la covarianza dei rendimenti tra coppie di titoli sia in media e che i tutti i titoli siano presenti nel portafoglio nella stessa proporzione: Il fatto che la varianza possa essere stimata per portafogli composti da un ampio numero di titoli suggerisce un approccio di ottimizzazione nella costruzione del portafoglio, nel quale gli investitori contrappongono rendimento atteso e varianza. Se un investitore può specificare l'ammontare massimo di rischio che è disposto a sopportare (in termini di varianza), il problema dell'ottimizzazione del portafoglio diventa la massimizzazione dei rendimenti attesi dato questo livello di rischio. Graficamente, questi portafogli possono essere rappresentati sulla base delle dimensioni del rendimento atteso e della deviazione standard come nella figura sottostante. Per passare dall'approccio tradizionale di Markowitz a quello del Capital Asset Pricing Model, dobbiamo considerare l'aggiunta di un titolo privo di rischio all'interno del mix dei titoli rischiosi. Il titolo privo di rischio, per definizione, ha un rendimento atteso che risulta sempre uguale al rendimento attuale. Mentre il rendimento dei titoli rischiosi varia, l'assenza di varianza nei rendimenti dei titoli privi di rischio li rende non correlati con i rendimenti dei titoli rischiosi. Per esaminare ciò che accade alla varianza di un portafoglio che combina un titolo privo di rischio con un portafoglio rischioso, assumiamo che la varianza del portafoglio rischioso sia e che sia la quota dell'intero portafoglio investita in questi titoli rischiosi. Il rendimento atteso cresce data la pendenza positiva della retta passante per il livello del tasso privo di rischio. Detta retta prende il nome di Linea del mercato dei capitali o Capital Market Line (CML). Piuttosto, combinerà i titoli di M con l'attività priva di rischio nel caso in cui abbia un'alta avversione al rischio. In un mondo in cui gli investitori tengono una combinazione di due soli titoli (titolo privo di rischio e portafoglio rischioso) il rischio di ogni titolo individuale verrà misurato in base al portafoglio di mercato. In particolare, il rischio di ogni asset diverrà il rischio aggiunto al portafoglio di mercato. Per giungere all'appropriata misurazione di questo rischio aggiunto assumiamo che sia la varianza del portafoglio di mercato prima dell'aggiunta del nuovo titolo, e la varianza del titolo individuale che verrà aggiunto a questo portafoglio sia . Il peso del titolo sul valore di mercato del portafoglio è e la covarianza dei rendimenti tra il titolo individuale e il portafoglio di mercato è . Conseguentemente, il primo termine dell'equazione dovrebbe essere prossimo a zero, e il secondo termine dovrebbe tendere a , lasciando così il terzo termine ( , la covarianza) come misura del rischio aggiunto dal titolo i. Dividendo questo termine per la varianza dei rendimenti del portafoglio di mercato si determina il beta del titolo: Beta del titolo = 2.2.3. Un esempio di diversificazione Supponiamo di fare le seguenti tre ipotesi : 1. tutti i titoli hanno la stessa varianza, che indichiamo con . Il rischio di portafoglio ( ), è il rischio corso anche dopo aver raggiunto la completa diversificazione. Il rischio di portafoglio è spesso chiamato anche rischio sistematico o rischio di mercato. Nel modello base si stabilisce una relazione tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, detto beta. Il beta misura quanto il valore del titolo si muova in sintonia col mercato. Matematicamente, il beta è proporzionale alla covarianza tra rendimento del titolo e andamento del mercato; tale relazione è comunemente sintetizzata tramite la Security Market Line (SML) , illustrata nel grafico sottostante. Figura 3.1. La Security Market Line: relazione tra rischio (beta) e rendimento atteso nel CAPM La SML, solitamente chiamata linea di "mercato degli investimenti", presenta come intercetta il tasso privo di rischio e come pendenza la differenza tra il rendimento del mercato e quello privo di rischio: la retta è positivamente inclinata se il rendimento atteso del mercato è maggiore del tasso privo di rischio ( È facile dimostrare che la linea della Figura 5 è retta. Questo aggiustamento dei prezzi farebbe aumentare i rendimenti attesi dei due titoli e continuerebbe finché i due titoli non si trovassero sulla linea di mercato degli investimenti. La linea del mercato rappresenta la frontiera dei portafogli efficienti formati sia da attività rischiose che dall'attività priva di rischio; ogni punto sulla retta rappresenta un intero portafoglio. Il portafoglio composto da ogni attività trattata sul mercato viene chiamato portafoglio di mercato (market portfolio). Seguendo tale impostazione ogni investitore sceglierà lo stesso identico portafoglio, cioè il portafoglio di mercato, quindi la diversa propensione al rischio di ciascun investitore nelle scelte di investimento emerge nella decisione di allocazione, vale a dire nella decisione di quanto investire nel titolo privo di rischio e quanto nel portafoglio di mercato. Investitori più avversi al rischio sceglieranno di investire gran parte o la totalità del proprio patrimonio nel titolo privo di rischio, mentre investitori meno avversi al rischio investiranno principalmente o esclusivamente nel portafoglio di mercato. Anzi, potranno investire nel portafoglio di mercato non solo tutto il loro patrimonio, ma anche fondi presi a prestito al tasso privo di rischio. La prima è che esista un titolo privo di rischio, ovvero un titolo il cui rendimento atteso sia certo. La seconda è che gli investitori, per ottenere la combinazione ottimale fra titolo privo di rischio e portafoglio di mercato (data la propria propensione al rischio), possano dare e prendere in prestito fondi al tasso privo di rischio. Come già ricordato in precedenza il rischio di ciascuna attività per un investitore corrisponde al rischio aggiunto da quell'attività al suo portafoglio. Nel contesto del CAPM, dove tutti gli investitori scelgono di detenere il portafoglio di mercato, il rischio di una singola attività per un investitore corrisponde al rischio che quest'attività aggiunge al portafoglio di mercato. Statisticamente, questo rischio addizionale è misurato dalla covarianza dell'attività con il portafoglio di mercato. Maggiore è la correlazione fra l'andamento di un'attività e l'andamento del portafoglio di mercato, maggiore è il rischio aggiunto da tale attività ( i movimenti non correlati all'andamento del portafoglio di mercato vengono invece eliminati quando si aggiunge un'attività al portafoglio). Possiamo tuttavia standardizzare la misura del rischio dividendo la covarianza di ciascuna attività con il portafoglio di mercato per la varianza del portafoglio di mercato. Otteniamo in questo modo il cosiddetto beta di un'attività: Dato che la covarianza del portafoglio di mercato con se stesso non è altro che la varianza del portafoglio di mercato, il beta del portafoglio di mercato (e quindi il beta di una ipotetica attività media) è 1. Quindi le attività più (meno) rischiose della media saranno quelle con un beta superiore (inferiore) ad 1. Il titolo privo di rischio avrà ovviamente un beta pari a zero. Il fatto che ciascun investitore possieda una combinazione del titolo privo di rischio e del portafoglio di mercato ha un'importante implicazione: il rendimento atteso di un'attività è strettamente correlato al suo beta. In particolare, il rendimento atteso di un'attività sarà una funzione dal tasso di rendimento del titolo privo di rischio e del beta dell'attività. Il nucleo del CAPM è una relazione attesa tra il rendimento di un qualsiasi titolo ( ) e il rendimento del portafoglio di mercato, che può essere espressa come: dove sono il rendimento lordo del titolo in questione e del portafoglio di mercato e è il rendimento lordo privo di rischio. Secondo questa formula il rendimento atteso di un'attività rischiosa è dato dal rendimento di un titolo privo di rischio maggiorato di un premio per il rischio, che sarà più o meno elevato a seconda del rischio aggiunto dall'attività al portafoglio di mercato. È chiaro quindi che per usare il CAPM sono necessari i seguenti tre input: Tasso di rendimento del titolo privo di rischio. Per titolo privo di rischio si intende il titolo il cui rendimento atteso nel periodo di riferimento sia noto all'investitore con certezza. Di conseguenza, il tasso di rendimento di un titolo privo di rischio da utilizzare nel CAPM varierà a seconda che il periodo di riferimento sia 1, 5 o 10 anni. • Premio per il rischio. Il premio per il rischio indica la remunerazione richiesta dai risparmiatori per investire nel portafoglio di mercato (che comprende tutte le attività rischiose) piuttosto che nel titolo privo di rischio. Il beta è l'unico input specifico del titolo analizzato (ad es. un'azione). Per esempio, abbiamo ipotizzato che investire nei Buoni del Tesoro sia completamente senza rischio. (Nel CAPM, tali portafogli sono i Buoni del Tesoro e il portafoglio di mercato.) Nei CAPM modificati i rendimenti attesi dipendono ancora dal rischio sistematico, ma la definizione di rischio sistematico dipende dalla natura del portafoglio di riferimento. Il CAPM ipotizza che un investitore richieda un rendimento atteso più elevato per un rischio maggiore, e non ammette che un investitore accetti un rendimento minore, o un rischio maggiore, ceteris paribus. L'ipotesi cruciale nella derivazione proposta sopra è che le preferenze degli investitori siano formulate esclusivamente in termini di media e varianza dei rendimenti dei titoli; l'ipotesi di normalità dei rendimenti (lognormalità dei prezzi) è una condizione sufficiente, ma non necessaria, affinché ciò sia verificato. Il CAPM ipotizza che il profilo rischio-rendimento atteso di un portafoglio possa essere ottimizzato, determinando un portafoglio ottimo, che presenti il minimo livello di rischio possibile per il proprio rendimento atteso. Nel secondo passo, si utilizzano le stime come osservazioni dei regressori nei modelli di regressione lineare, nella dimensione cross-section: Il CAPM risulterà non rifiutato se, sulla base della regressione sopra, il coefficiente a sarà pari al tasso d'interesse privo di rischio , e se il coefficiente b sarà pari al premio per il rischio del portafoglio di mercato. Usando dati dagli anni trenta agli anni sessanta, alcuni ricercatori dimostrarono che il rendimento medio di un portafoglio di azioni è una funzione crescente del beta del portafoglio , una scoperta coerente con il CAPM. In sostanza, qualunque test del CAPM sarebbe per Roll riconducibile all'ipotesi che il portafoglio di mercato, il cui rendimento è indicato da sopra, appartenga alla porzione efficiente della frontiera dei portafogli. Un test del CAPM si tradurrebbe di fatto in un test sull'appartenenza alla frontiera efficiente della particolare proxy del portafoglio di mercato utilizzata. La popolarità del CAPM è essenzialmente legata alla sua semplicità, nonché alla capacità di ricondurre il valore di un titolo a un singolo fattore di rischio, rappresentato dal rischio legato al portafoglio di mercato. Dunque, un investitore può creare un portafoglio abbastanza simile al portafoglio di mercato del CAPM combinando vari fondi indicizzati, ciascuno in proporzione al valore di mercato del mercato cui l'indice fa riferimento. Così, in questo periodo di 60 anni, i rendimenti sono davvero aumentati all'aumentare del beta. Come risulta dalla Figura 3.2, il portafoglio di mercato negli stessi 60 anni ha fornito un rendimento medio di 14 punti percentuali sopra il tasso risk-free e , è ovvio, ha avuto un beta pari a 1. Il CAPM sostiene che il premio per il rischio dovrebbe aumentare in proporzione al beta, in modo che i rendimenti di ciascun portafoglio si collochino sulla linea del mercato azionario inclinata positivamente delle Figure 3.4 e 3.5. Figura 3.4. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1931-1965 Figura 3.5. Premio per il rischio e beta dei dieci investimenti nel periodo 1966-1991 Poiché il mercato ha fornito un premio per il rischio del 14%, il portafoglio dell'investitore 1, con un beta di 0,49, dovrebbe avere fornito un premio per il rischio leggermente inferiore al 7% e il portafoglio dell'investitore 10, con un beta di 1,52, dovrebbe avere fornito un premio leggermente superiore al 21%. Sia l'APT che il CAPM implicano una relazione crescente tra rendimento atteso e rischio. Inoltre l'APT considera il rischio in maniera più generale rispetto alla semplice covarianza standardizzata o al beta di un titolo con il portafoglio di mercato. Come il CAPM, anche l'Arbitrage Pricing Model scompone il rischio in rischio specifico d'impresa e rischio-mercato. In primo luogo, il rendimento normale o atteso del titolo, cioè la parte del rendimento che gli azionisti sul mercato prevedono o si aspettano. La seconda parte è il rendimento incerto o rischioso del titolo. Nella misura in cui gli azionisti avevano previsto l'annuncio del governo, tale previsione dovrebbe essere incorporata nella parte attesa del rendimento calcolato all'inizio del mese, cioè in . D'altro canto, se l'annuncio del governo è una sorpresa, nella misura in cui influenza il rendimento del titolo azionario farà parte di U, la parte non anticipata del rendimento. La parte non anticipata del rendimento, quella che deriva dalle sorprese, costituisce il vero rischio di ogni investimento. In termini statistici, 4.2. Le fonti del rischio-mercato Il fatto che le componenti non sistematiche dei rendimenti di due società non siano correlate tra loro non implica che anche le componenti sistematiche siano incorrelate. Nonostante il CAPM e l'APM facciano entrambi una distinzione fra rischio specifico d'impresa e rischio-mercato, essi si differenziano poi nell'approccio alla misurazione del rischio-mercato. Il coefficiente beta, β, indica la reazione del rendimento di un titolo azionario a un tipo di rischio sistematico. Nel CAPM il beta misurava la variazione del rendimento di un titolo a uno specifico fattore di rischio, il rendimento del portafoglio di mercato. Viene utilizzato questo termine perché l'indice impiegato come fattore è un indice dei rendimenti dell'intero mercato (azionario). Il modello di mercato può essere quindi espresso come M) + ε dove rappresenta il rendimento del portafoglio di mercato e β è detto coefficiente beta. Considerando Xi la proporzione del titolo i nel portafoglio, sappiamo che la loro somma deve essere pari a 1 e che il rendimento del portafoglio è la media ponderata dei rendimenti delle singole attività nel portafoglio Nel paragrafo precedente abbiamo visto che il rendimento di ciascuna attività è a sua volta determinato sia dal fattore F che dal rischio non sistematico rappresentato da . La prima riga è la media ponderata dei rendimenti attesi dei singoli titoli. Il rendimento di un portafoglio può essere rappresentato come la somma di due medie ponderate: la media ponderata dei rendimenti attesi delle attività nel portafoglio e al media ponderata dei beta associati a ciascun fattore. La componente dei rendimenti specifica della singola impresa (ε) scompare a livello di portafoglio per effetto della diversificazione. Se assumiamo infatti che il portafoglio sia composto da molti titoli tutti presenti nella medesima proporzione , possiamo notare che al crescere del numero dei titoli compresi nel portafoglio la componente del rischio idiosincratico si annulla: Per ogni singola azione ci sono due fonti di rischio. Il premio atteso per il rischio di un'azione dipende dai fattori macroeconomici di rischio e non è influenzato dal rischio specifico. Il portafoglio A ha un beta (rispetto a questo unico fattore) di 2,0 e un rendimento atteso del 20%; il portafoglio B ha un beta di 1,0 e un rendimento atteso del 12%; il portafoglio C ha un beta di 1,5 e un rendimento atteso del 14%. Si noti che investendo la metà del proprio patrimonio nel portafoglio A e la metà nel portafoglio B, si potrebbe ottenere un portafoglio con un beta (sempre rispetto all'unico fattore) pari a 1,5 e un rendimento atteso del 16%. Di conseguenza nessun investitore vorrà investire nel portafoglio C finché non scenderanno i prezzi delle attività in tale portafoglio, portandone così il rendimento atteso al 16%. In alternativa, un investitore può comprare la combinazione dei portafogli A e B, con un rendimento atteso del 16%, e vendere il portafoglio C, con un rendimento atteso del 15%, ottenendo così un profitto pulito dell'1% senza investire nulla e senza assumere alcun rischio. Per impedire tale "arbitraggio", il rendimento atteso di ciascun portafoglio deve essere una funzione lineare del beta. Ogni azione deve offrire un rendimento atteso coerente con il suo contributo al rischio del portafoglio. Secondo l'APM questo contributo dipende dalla sensibilità dei rendimenti dell'azione alle variazioni inattese dei fattori macroeconomici. 5.1. Il tasso di interesse privo di rischio La maggior parte dei modelli di rischio e rendimento in finanza partono da un investimento definito "privo di rischio" e considerano il rendimento atteso da quell'investimento come tasso privo di rischio . I rendimenti attesi da investimenti rischiosi vengono poi calcolati aggiungendo al tasso privo di rischio un premio per il rischio atteso. Abbiamo definito "investimento privo di rischio" un'attività della quale l'investitore conosce con certezza il rendimento atteso. Il rendimento atteso su di un portafoglio pienamente diversificato deve essere misurato in relazione al tasso di rendimento atteso su un titolo privo di rischio . Quando ci riferiamo ai rendimenti (yields) di un titolo di stato come titolo risk-free rate, ci riferiamo al fatto che esso sia privo del rischio di fallimento, riconosciamo però che esso incorpori il maturity risk: la sola parte del rendimento che risulta priva di rischio è dunque la componente degli interessi. Come risultato, l'evidenza empirica di lungo termine è che i rendimenti dei bond a lunga scadenza in media eccedono i rendimenti dei T.Bill. L'horizon premium compensa gli investitori per questo rischio di mercato. Nel primo caso, dovrebbe utilizzare come tasso privo di rischio il tasso di un Treasury Bond statunitense, nel secondo invece un tasso privo di rischio in pesos. Per calcolare un rendimento atteso in termini reali, è necessario partire da un tasso di rischio espresso in termini reali. La soluzione più comune in questi casi (sottrarre al tasso di interesse nominale un tasso di inflazione attesa) fornisce nel migliore dei casi soltanto una stima approssimativa del tasso privo di rischio in termini reali. Nell'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, la stima dell'ERP è il premio per il rischio (rendimento azionario realizzato in eccesso rispetto al tasso privo di rischio) che gli investitori hanno, in media, realizzato su periodi di investimento passati. Se i rendimenti periodali dei titoli azionari (ad esempio rendimenti mensili) non sono correlati (i rendimenti di questo mese non sono stati adeguatamente predetti dai rendimenti dell'ultimo mese) e se i rendimenti attesi sono stabili nel tempo, allora la media aritmetica dei rendimenti storici fornisce un'adeguata stima dei rendimenti futuri attesi. Conseguentemente, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati fornisce una stima appropriata dei premi per il rischio futuri attesi (ERP). Differenze nell'approccio per la stima dell'ERP scaturiscono dalla misurazione dei rendimenti attesi sui titoli rischiosi (equity securities). Nell'applicare l'approccio basato sul premio per il rischio realizzato, l'analista seleziona il numero di anni dei rendimenti storici da includere nella media. L'SBBI Yearbook contiene il riassunto dei rendimenti delle azioni e dei titoli di Stato degli USA derivanti da questi dati . (Nel primo periodo, il mercato era composto quasi interamente da titoli bancari, mentre nella metà del diciannovesimo secolo, il mercato era dominato dai titoli delle ferrovie. ) Per questi periodi sono stati assemblati anche i rendimenti dei titoli governativi. La tabella 5.1 fornisce il premio per il rischio medio annuo realizzato da titoli azionari tratti da varie fonti con riferimento a differenti periodi fino al 2006. Si misura il premio per il rischio realizzato confrontando i rendimenti del mercato azionario realizzati durante il periodo con il rendimento dei titoli governativi di lungo termine (o lo yield to maturity per gli anni precedenti il 1926). Dall'osservazione del tabella quello che può risultare sorprendente è che il valore più grande della media aritmetica dei rendimenti annui è quello degli 81 anni dal 1926 al 2006. Per il calcolo dell'ERP viene impiegato il rendimento dei titoli governativi a lungo termine perché in ogni periodo rappresenta il rendimento atteso dei titoli al tempo dell'investimento. Tabella 5.1 Premi per il rischio storici: Rendimenti del mercato azionario – T.Bond 5.3. Il premio per il rischio (risk premium) Il premio per il rischio è un elemento essenziale nel contesto dei modelli di rischio e rendimento. Nel presente paragrafo esamineremo le determinanti fondamentali del premio per il rischio e diversi approcci pratici alla sua stima. Nel CAPM il premio per il rischio misura il rendimento addizionale richiesto in media dagli investitori per spostarsi da un investimento privo di rischio a investimenti rischiosi (il portafoglio di mercato). Ne consegue che il premio per il rischio dovrebbe essere una funzione di due variabili: L'avversione degli investitori al rischio: maggiore l'avversione al rischio, maggiore il premio richiesto dagli investitori. Tale avversione al rischio è in parte congenita, ma dipende anche dalla situazione economica (in un'economia in crescita, gli investitori saranno più propensi ad assumere rischi) e dalla recente performance del mercato (il premio per il rischio tende a salire in seguito a un significativo calo del mercato). Allo stesso modo, nell'APM e nei modelli multifattoriali, i premi per il rischio utilizzati per ciascuno dei fattori saranno pari alla media ponderata dei premi richiesti dai singoli investitori per ciascuno dei fattori. 5.3.1. Equity Premium Puzzle In finanza, l'Equity Premium Puzzle o enigma del premio azionario si riferisce all'osservazione empirica che i rendimenti osservati sui mercati azionari nell'ultimo secolo sono stati superiori a quelli dei titoli di stato; in particolare, il premio per il rischio medio per i titoli azionari nell'ultimo secolo sarebbe pari a circa il 6%, laddove il rendimento medio dei titoli di stato a scadenza breve (considerato una buona approssimazione del rendimento privo di rischio) sarebbe intorno all'1%. La teoria economica suggerisce che gli investitori dovrebbero sfruttare l'evidente opportunità d'arbitraggio rappresentata dalla differenza tra premio per il rischio azionario e rendimento medio dei titoli di stato. Una maggiore domanda provocherebbe a sua volta un aumento dei prezzi medi dei titoli azionari; essendo il rendimento nient'altro che una misura dello scarto tra il prezzo attuale e quello futuro, un aumento del prezzo attuale, ceteris paribus, riduce il rendimento atteso, e con esso il premio per il rischio (dato dalla differenza tra rendimento atteso e tasso di rendimento privo di rischio). In equilibrio, si ridurrebbe dunque lo scarto tra il premio per il rischio dei titoli azionari e il tasso di rendimento privo di rischio, fino al punto in cui tale scarto riflette il premio per il rischio che un investitore rappresentativo richiede per investire nei titoli azionari, caratterizzati da una maggiore rischiosità. Rovesciando questo ragionamento, lo scarto osservato tra i due rendimenti dovrebbe riflettere la valutazione del rischio da parte dell'investitore medio. Gli studiosi che negano l'esistenza del premio per il rischio fondano il proprio convincimento nelle seguenti considerazioni: L'evidenza empirica mostra che negli ultimi quaranta anni (1969-2009) non c'è stato un significativo premio per il rischio azionario sul mercato USA; - Errori di selezione (selection bias) del mercato statunitense: il mercato azionario di maggior successo nel corso del XX° secolo. 5.4.2. Premi storici Il metodo più comune per stimare il premio (o i premi) per il rischio nei modelli di rischio e rendimento è l'estrapolazione da dati storici. Nel CAPM il premio viene calcolato come differenza fra rendimenti medi azionari e rendimenti medi su titoli privi di rischio lungo un esteso periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi, questo tipo di approccio consta di tre tappe successive: 1) definire un arco temporale per la stima; 2) calcolare il rendimento medio di un indice azionario e il rendimento medio di un titolo privo di rischio nel periodo in questione; 3) calcolare la differenza fra tali rendimenti e utilizzarla come stima del premio per il rischio atteso per il futuro. La rischiosità media del portafoglio "rischioso" (l'indice azionario nel nostro caso) non sia cambiata in modo sistematico nel tempo. 5.4.3. Premi azionari impliciti Esiste un altro approccio alla stima dei premi per il rischio che non richiede dati storici né correzioni per tenere conto del rischio-Paese. Sottraendo da tale rendimento il tasso privo di rischio, si ottiene un premio implicito per il rischio azionario. Inoltre affinché il premio per il rischio risultasse positivo , dovrebbe verificarsi che: Al fine di illustrare questo metodo, supponiamo che il livello attuale dell'indice S&P 500 sia 900, che il tasso di dividendo atteso sull'indice sia del 2%, e che il tasso di crescita atteso degli utili e dei dividendi nel lungo termine sia del 7%; risolvendo per il rendimento atteso sul capitale netto otteniamo: ; Dato un tasso privo di rischio del 6%, il premio implicito per il rischio azionario sarà pari al 3%. • Risolvendo l'equazione per r, si ottiene una stima del rendimento atteso sul capitale netto pari a 8,39%. Sottraendo da tale stima il tasso dei Treasury Bond (4,02%) si ottiene un premio azionario implicito del 4,37%. Da tali input emerge un rendimento azionario atteso del 10,70% che, se confrontato con il tasso dei Treasury Bond a quella data (4%), implica un premio azionario implicito del 6,70%. Questo fatto ha interessanti implicazioni per la stima del premio per il rischio. Allo stesso modo, il premio del 2% che abbiamo osservato alla fine della bolla speculativa delle società Internet (dot-com boom) degli anni '90 è tornato rapidamente ai livelli medi, durante la correzione del mercato del 2000-2003. Data questa tendenza, possiamo concludere con una migliore stima del premio per il rischio implicito, guardando non solo al premio corrente, ma anche alle linee di tendenza storiche. Tre motivi, tuttavia, spiegano l'esistenza di stime del premio per il rischio così diverse. Ad esempio, data una deviazione standard annuale dei prezzi azionari fra il 1928 e il 2003 pari al 20%, la Tabella 6.1 riporta l'entità dell'errore standard associato alla stima del premio per il rischio in funzione della lunghezza del periodo di stima. Tabella 6.1 Errori standard nelle stime dei premi di rischio La scelta del titolo privo di rischio La banca dati Ibbotson riporta i rendimenti si a dei Treasury Bill sia dei Treasury Bond, sicchè il premio per il rischio degli investimenti azionari può essere stimato rispetto a entrambi. Il tasso privo di rischio alla base della stima del premio deve essere coerente con il tasso privo di rischio utilizzato nel calcolo dei rendimenti attesi. Nella maggior parte dei casi, in finanza aziendale, il tasso privo di rischio rilevante è quello di lungo periodo. Le medie aritmetiche e geometriche Un ultimo elemento di controversia nella stima dei premi storici consiste nel modo in cui calcolare le medie dei rendimenti. La media aritmetica consiste nella semplice media dei rendimenti annuali, mentre la media geometrica si riferisce al rendimento composto. In effetti, se i rendimenti annui non sono correlati nel tempo, la media aritmetica rappresenta la stima più corretta del premio per il rischio atteso per l'anno prossimo. In primo luogo, studi empirici sembrano indicare che i rendimenti degli investimenti azionari sono negativamente correlati nel corso del tempo. Tabella 6.2 Premi di rischio storici (%) del mercato statunitense, 1928-2008 Tirando le somme, le stime del premio per il rischio possono variare a seconda delle differenze in termini di periodo di stima, scelta del titolo di Stato come tasso privo di rischio (a breve o lungo termine), e utilizzo di medie aritmetiche oppure geometriche. Se ci atteniamo al proposito di selezionare un premio basato sulla media geometrica a lungo termine rispetto al tasso dei Treasury Bond a lungo termine, la stima migliore del premio per il rischio sulla base di dati storici è 4,82%. 6.1. Periodicità dei dati storici Anche se accettiamo l'ipotesi che i rendimenti siano effettivamente indipendenti, la media aritmetica dei premi per il rischio realizzati basati su rendimenti di 1 anno potrebbe non essere la migliore stima dei rendimenti futuri. I tradizionali modelli dei rendimenti dei titoli (es. CAPM) sono generalmente modelli uniperiodali che stimano i rendimenti su orizzonti di tempo non specificati. Allora nell'utilizzare i rendimenti realizzati per stimare i rendimenti attesi, dobbiamo calcolare i rendimenti realizzati su periodi di due anni (media geometrica dei rendimenti annui di due anni consecutivi) e poi calcolare la media aritmetica delle medie geometriche dei due anni per ottenere una stima incondizionata dei rendimenti futuri. Gli autori mostrano che l'utilizzo della media geometrica dei rendimenti storici a un anno produce una stima dei rendimenti cumulati che approssima maggiormente la mediana dei rendimenti cumulati (il 50% degli investitori realizzerà un rendimento maggiore di quello mediano e il 50% un rendimento inferiore a quello mediano). Essi dimostrano che la differenza tra la mediana dei rendimenti cumulati ottenuta dall'impiego della media aritmetica rispetto alla media geometrica dei rendimenti storici a un anno aumenta poiché aumenta l'orizzonte d'investimento atteso. 6.2. Selezione del periodo di riferimento Il premio per il rischio realizzato medio risulta essere sensibile al periodo che viene scelto per calcolare tale media. I modelli di rendimento possono cambiare nel tempo. Concentrandosi sul recente passato si ignorano i drammatici eventi storici e il loro impatto sui rendimenti del mercato. Gli anni dal 1942 fino al 1951 furono un periodo di stabilità artificiale dei tassi dei bond statunitensi. Includendo questo periodo nel calcolo dei rendimenti realizzati equivale a valutare i titoli delle linee aere di oggi facendo riferimento ai titoli delle linee aeree prima della deregulation. Tabella 6.4 Premi per il Rischio realizzati sui rendimenti dei T.Bond Se il premio per il rischio medio è cambiato nel corso del tempo, allora la media del rischio realizzato utilizzare la più lunga serie dei dati disponibili diviene discutibile. A partire dalla metà degli anni '50 fino al 1981, i rendimenti dei bond hanno registrato un trend crescente, dettando una generalizzata diminuzione del prezzo dei medesimi. I rendimenti realizzati dai bond erano generalmente più bassi dei rendimenti attesi al momento della loro emissione (l'investitore che avesse venduto prima della scadenza avrebbe registrato una perdita). Dal 1981 i rendimenti dei titoli di Stato hanno iniziato a diminuire, provocando una generalizzata crescita del loro prezzo. Nella tabella 6.5 presentiamo statistiche riassuntive per i rendimenti dei titoli azionari, dei Treasury Bill a 6 mesi e dei Treasury Bond a 10 anni dal 1928 al 2008: Tabella 6.5 Statistiche riassuntive Utilizzando questa tabella possiamo iniziare a stimare un premio per il rischio facendo la differenza tra il rendimento medio delle azioni e il rendimento medio dei titoli di Stato: il premio per il rischio è del 7,30% per le azioni rispetto ai T.Bills (11,09% - 3,79%) e 5,64% per le azioni rispetto ai T.Bonds (11,09% - 5,45%). I premi per il rischio storici per i mercati emergenti possono fornire interessanti spunti di riflessione, ma non possono essere impiegati nei modelli di rischio e rendimento. Consideriamo per prima cosa l'assunzione fondamentale che il premio per il rischio per gli investitori non sia cambiato nel corso del tempo e che l'investimento rischioso medio (nel portafoglio di mercato) sia rimasto stabile nel periodo di tempo esaminato. Nel periodo compreso tra il 1926 e il 2000, gli investimenti in molti degli altri mercati dei capitali avrebbero prodotto premi molto più contenuti rispetto al mercato USA, e alcuni di essi si sarebbero tradotti, per gli investitori, in rendimenti più contenuti o negativi nel corso del periodo. Tabella 6.7 Premi per Rischio storici di differenti mercati: 1900-2005 Dall'analisi della tabella risulta che i premi per il rischio, risultanti dalla media dei 17 mercati, sono più bassi dei premi per il rischio degli Stati Uniti. Per esempio, la media geometrica del premio per il rischio tra i vari mercati è solo del 4,04%, più bassa del 4,52% del mercato USA. La figura 5.1 riporta i premi per il rischio – ossia i rendimenti addizionali – ottenuti investendo in azioni piuttosto che titoli di Stato a breve e lungo termine nel periodo in questione per ciascuno dei diciassette mercati. In Francia, invece, le cifre corrispondenti sarebbero state del 9,27% e del 6,03%. Nella prima parte di questa sezione, rimarremo all'interno del mercato statunitense tentando di apportare delle modifiche al premio per il rischio facendo riferimento a specifiche caratteristiche dell'impresa (la capitalizzazione del mercato rappresenta l'esempio più comune). Nella seconda parte, estendiamo l'analisi osservando mercati emergenti come Asia, America Latina e Europa orientale, provando l'approccio basato sulla stima del premio per il rischio Paese che aumenta poi il premio per il rischio statunitense. Il primo si riferisce a se ci dovrebbe essere un premio per il rischio addizionale quando si valutano i titoli in questi mercati, dovuto al rischio Paese. Il secondo quesito si ricollega invece alla stima del premio per il rischio dei mercati emergenti. L'altro è considerare i rendimenti eccedenti come l'evidenza che i beta sono misure inadeguate del rischio e come compensazione del rischio tralasciato. Per giungere a questo premio gli analisti fanno riferimento ai dati storici sui rendimenti degli small cap stocks e del mercato, aggiustato per il beta risk, e attribuiscono il rendimento eccedente allo small cap effect. Tabella 6.8 Excess Returns per classi del valore di mercato: titoli USA 1927-2007 Se si aggiunge al costo del capitale delle piccole imprese uno small cap premium del 4-5%, senza attribuire tale premio ad un rischio specifico, siamo esposti al pericolo di conteggiare doppiamente tale rischio. 6.5.2. Il Premio per il Rischio Paese Per molti mercati emergenti, sono disponibili pochissimi dati storici, e quelli che esistono sono troppo volatili per giungere a una stima sensata del premio per il rischio. In questi casi, il premio per il rischio può essere così calcolato: Il premio per il rischio-Paese riflette il rischio addizionale associato a un mercato specifico. Per determinare il premio base per un mercato azionario maturo è opportuno fare riferimento al mercato azionario statunitense che, oltre ad essere il mercato finanziario più efficiente, offre dati storici sufficienti a ottenere una stima ragionevole del premio per il rischio. 1. Gli analisti che utilizzano i differenziali per il rischio di insolvenza come misure del rischio-Paese di solito li sommano sia al costo del capitale netto sia a quello del debito di ciascuna impresa quotata nel Paese in questione. Per esempio, il costo del capitale netto di una impresa brasiliana, stimato in dollari statunitensi, sarà del 2,15% maggiore del costo del capitale netto di un'impresa statunitense simile. Dato un premio per il rischio per i mercati azionari maturi (Stati Uniti) del 4,00% e un tasso privo di rischio del 3,80% (Treasury Bond statunitensi), il costo del capitale netto di una società brasiliana con un beta di 1,2 può essere stimato nel modo seguente: Alcuni analisti sommano il differenziale per il rischio di insolvenza al premio per il rischio statunitense, moltiplicando la somma così ottenuta per il beta. Questo procedimento risulta in un maggiore (minore) costo del capitale netto per le imprese con beta maggiore (minore) di 1. Volatilità del mercato azionario rispetto a mercati azionari maturi Alcuni analisti ritengono che i premi per il rischio azionario dei mercati debbano riflettere le differenze in termini di volatilità fra i diversi mercati. Una misura convenzionale del rischio azionario è la deviazione standard dei prezzi azionari: deviazioni standard più elevate indicano di solito un rischio maggiore. Questa deviazione standard relativa, moltiplicata per il premio utilizzato per le azioni statunitensi, fornisce una possibile stima del premio per il rischio totale di un mercato. Se assumiamo una relazione lineare tra il premio per il rischio e la deviazione standard del mercato azionario, oltre alla possibilità di calcolare il premio per il rischio del mercato statunitense (utilizzando ad esempio dati storici), allora il premio per il rischio del Paese X è: Assumiamo, per il momento, di utilizzare per gli Stati Uniti un premio per il rischio del 4%. La tabella 6.9 elenca i dati della volatilità del Paese per alcuni mercati emergenti ed i risultanti premi per il rischio totale e Paese per questi mercati, basato sull'assunzione che il premio per il rischio degli Stati Uniti sia del 4%. Tabella 6.9 Volatilità del mercato azionario e Premi per il rischio Per esempio, il premio per il rischio della Cina è 5,52%, utilizzando questo approccio, ben al di sopra del premio per il rischio di Nigeria, Namibia e Egitto, ognuno dei quali dovrebbe essere un mercato rischioso quanto la Cina. Differenziali per il rischio di insolvenza + volatilità del mercato rispetto ai titoli di Stato I differenziali per il rischio di insolvenza del Paese associati ai rispettivi rating, pur rappresentando una prima tappa importante, misurano soltanto il premio per il rischio di insolvenza. Per capire di quanto, si può calcolare la volatilità del mercato azionario di un Paese rispetto alla volatilità dei titoli di Stato utilizzati per la stima del premio per il rischio azionario del Paese. A titolo illustrativo, prendiamo il caso del Brasile. Il premio addizionale per il rischio azionario del Paese che ne risulta per il Brasile è il seguente: Va notato che il premio per il rischio del Paese aumenterà al crescere del differenziale per il rischio di insolvenza del Paese e della volatilità del mercato azionario. Inoltre, va ricordato che esso va sommato al premio per il rischio azionario di un mercato maturo. I primi due approcci per la stima dei premi per il rischio del Paese tendono a risultare in una stima più bassa rispetto al terzo. Nel caso del Brasile, per esempio, i premi per il rischio del Paese vanno dal 2,76% (secondo approccio), al 6,01% (primo approccio), fino a un picco del 4,43% (terzo approccio). Va ricordato che l'unico rischio rilevante ai fini della stima del costo del capitale netto è il rischio di mercato, ossia il rischio non diversificabile. Se, al contrario, i mercati azionari dei Paesi si muovono nella stessa direzione, il rischio-Paese avrà una componente di rischio di mercato no diversificabile e per la quale è necessario un premio. 7. PARAMETRI DI RISCHIO Gli ultimi dati di cui abbiamo bisogno per mettere in pratica i nostri modelli di rischio e rendimento sono i parametri di rischio per una specifica attività. Nel CAPM il beta di un'attività deve essere stimato rispetto al portafoglio di mercato. Nel contesto del CAPM, il beta viene poi ottenuto esaminando la relazione fra questi rendimenti e i corrispondenti rendimenti di un indice del mercato azionario. Infine, nell'APM è l'analisi fattoriale dei rendimenti azionari a fornire i vari beta. 7.1.1. Procedura per la stima dei parametri del CAPM Il beta di un'attività può essere stimato come coefficiente di una regressione dei rendimenti di una singola azione (Rj) sui rendimenti del mercato azionario (Rm). L'intercetta della regressione fornisce una semplice misura della performance effettivamente ottenuta nell'arco temporale analizzato, rispetto alla performance attesa alla luce del CAPM. Dal punto di vista finanziario va interpretato come proporzione del rischio complessivo di un'azione (varianza) attribuibile al rischio di mercato; ne segue che la differenza (1-R2) indica invece la proporzione del rischio complessivo di un'azione attribuibile al rischio specifico d'impresa. Un ultimo dato statistico di interesse è l'errore standard della stima del beta. La prima riguarda la durata del periodo di stima. 7.1.2. Procedura di stima dei parametri di rischio nell'APM e nel modello multifattoriale Come il CAPM, anche l'APM considera solo il rischio non diversificabile; tuttavia, nella misurazione del rischio, a differenza del CAPM, l'APM tiene conto di una molteplicità di fattori economici. Sebbene il processo di stima dei parametri di rischio sia diverso, molti problemi legati alle determinanti del rischio nel CAPM si presentano anche per l'APM. La derivazione del beta dai fondamentali rappresenta un approccio alternativo alla stima del beta, in cui si dà minore rilievo alla stima basata su dati storici e maggiore rilievo all'intuizione economica. Intensità della leva finanziaria (financial leverage) Il beta delle attività dell'impresa è la media ponderata del beta del capitale netto (rischio a carico degli azionisti) e del beta del debito (rischio a carico degli obbligazionisti). A parità di condizioni, a un aumento della leva finanziaria (cioè del rapporto d'indebitamento ) seguirà un aumento del rischio a carico degli azionisti (e quindi del beta del capitale netto). Il beta dell'insieme di due attività è la media ponderata del beta di ciascuna attività, con i pesi proporzionali al loro valore di mercato. 1. Calcolare il beta unlevered dell'impresa come media ponderata dei beta unlevered delle varie attività, usando come pesi la percentuale del valore di mercato dell'impresa rappresentata da ciascuna attività.