E' a seguito di numerose calamità naturali verificatesi dal dopoguerra ad oggi che il 24 febbraio 1992 con la legge n° 225 ,veniva istituito il servizio Nazionale della Protezione Civile. Quella legge sanciva la competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito al coordinamento ed alla promozione delle attività legate alla Protezione Civile. Da quella "storica" data ai giorni nostri molto è cambiato in seno alla Protezione Civile; tante le leggi che si sono succedute, per arrivare dapprima alla riforma Bassanini (legge.300) che nel 1999 ha istituito l'Agenzia della Protezione Civile e poi alla Legge n°401 del novembre 2001 che sopprimeva l'agenzia stessa per assegnare tutte le competenze ad un apposito dipartimento della Protezione Civile. Oggi la Protezione Civile è strutturata in questo modo: A coordinare le attività a livello nazionale è il Dipartimento della Protezione Civile posto alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le strutture di cui si avvale sono quelle del Corpo Nazionale dei vigili del Fuoco, delle Forze armate, delle Forze di Polizia Italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, i servizi tecnici nazionali, i gruppi di ricerca scientifica, l'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la C.R.I. il soccorso alpino , il S.S.N. e le organizzazioni di volontariato. Le Regioni partecipano all'organizzazione delle attività di Protezione Civile assicurandone lo svolgimento delle attività ad essa collegate. Predispongono ed attuano programmi regionali di previsione e prevenzione su direttive nazionali. Le Provincie assicurano lo svolgimento dei compiti relativi alla rilevazione, alla raccolta ed alla elaborazione dei dati interessanti alla Protezione Civile e predispongono dei programmi provinciali di previsione e prevenzione contro le calamità in armonia con i dettami nazionali e regionali. Il Prefetto sulla base di questi programmi di previsione e prevenzione predispone il piano per fronteggiare l'emergenza su tutto il territorio provinciale e ne cura 'attuazione. Il principale modello di intervento a seguito di calamità è il Metodo Augustus, uno strumento di riferimento per la pianificazione nel campo delle emergenze utilizzato dal Dipartimento della Protezione Civile. Sulla base di questo metodo un piano di emergenza viene schematizzato in tre parti: A) la raccolta di informazioni(Dati di Base); B) l'individuazione degli obiettivi da salvaguardare; C) la realizzazione di un modello di intervento operativo sul territorio. Al momento dell'evento calamitoso viene istituita immediatamente la DI.COMA.C.(direzione di comando e controllo), quindi il C.C.S.(Centro Coordinamento Soccorsi), il C.O.M.(Centro operativo misto) e il C.O.C(centro operativo Comunale) che è una struttura decentrata sul territorio e quindi più vicina alla popolazione. Il Metodo Augustus si compone di 15 funzioni: F1- Tecnica Scientifica e di pianificazione; F2- Sanità, assistenza e veterinaria; F3-Mass-media ed informazione; F4-Volontariato; F5-Materiali e Mezzi; F6-Trasporto, circolazione e viabilità; F7- Telecomunicazioni; F8- servizi essenziali; F9-Censimento danni a persone o cose; F10- Strutture operative e S.A.R.; F11- Enti Locali; F12- Materiali pericolosi; F13-Assistenza alla Popolazione: F14-Coordinamento dei centri operativi; F15-tutela dei beni culturali. Il Polo di Protezione della Provincia della Spezia nasce di fatto il 25 agosto 2007 quando i referenti di alcuni gruppi di volontari si riuniscono presso i locali del Centro Integrato di Protezione Civile di Santo Stefano Magra e costituiscono il Coordinamento dei Volontari di Protezione Civile della Provincia della Spezia. Lo scopo che si prefiggono è quello di coordinare le attività dei gruppi aderenti al coordinamento, partecipare quando richiesti, ad interventi di soccorso in ambito locale e nazionale, promuovere l'addestramento dei volontari di Protezione Civile ed incentivare lo spirito del volontario di protezione civile attraverso apposite manifestazioni. Successivamente alla costituzione del "Polo" presso le strutture di Santo Stefano Magra ha trovato una apposita sede parte della Colonna mobile regionale Ligure e d attualmente trovano ricovero numerosi automezzi tra cui cinque Land Rover Defender, due pulmini a nove posti, due furgoni Ducato allestiti SCAM, un ufficio mobile, una cucina mobile, un carrello mobile con servizi igienici, cinquanta tende dalla capacità di 6/8 posti letto, un potabilizzatore con insacchettatrice ed un generatore con container. Il primo grande intervento dei volontari liguri senza l'ausilio dell'esercito, dopo l'abolizione della leva militare, è stato quello relativo al terremoto in Abruzzo. All'indomani della prima grande scossa tellurica del 6 aprile 2009 che aveva distrutto il territorio Aquilano la colonna mobile della Liguria era pronta alla partenza. I volontari del Ponente Ligure partiti dall'Aeroporto Panero di Villanova d'Albenga giunti a Santo Stefano Magra si erano uniti a quelli del Levante ligure ed insieme si erano mossi per le zone terremotate. Quattordici interminabili ore di viaggio, una lunghissima colonna di mezzi e materiali, scortati dalla Polizia per tutto il viaggio necessario per raggiungere Tione degli Abruzzi e le frazioni di Goriano Valli e Santa Maria del Ponte dove erano stati incaricati dell'allestimento di tre tendopoli. A quella missione in Abruzzo avevano preso parte 258 volontari, 27 tra medici, paramedici ed agenti del Corpo Forestale dello Stato della Liguria. La Colonna mobile Ligure aveva organizzato gestito tre tendopoli fornendo pasti e un tetto caldo a circa 450 sfollati. L'opera dei volontari liguri era stata molto apprezzata dalla popolazione locale; il sindaco del paese sottolineava il "grande impegno del contingente ligure a Tione degli Abruzzi e si augurava che il contributo di amicizia e solidarietà fosse continuato nel tempo". Ancora oggi un solido legame di amicizia cimenta i rapporti tra la popolazione del paese Abruzzese e i volontari del Polo di Protezione Civile di Santo Stefano Magra. Il territorio del Comune di Arcola(SP) il 23 dicembre 2010 è stato colpito da un violento nubifragio che ha provocato danni ingenti al territorio arcolano. L'abitato di Romito, cosi come quello di Ressora e il Piano di Arcola sono rimasti completamente allagati. Numerose sono le frane attivate, fanno paura quelle sui fianchi della montagna in località Ressora e quella che è scesa dalla collina di Trebiano. I volontari , dopo l'apertura del C.O.C. in località Romito hanno prima provveduto a mettere in sicurezza le persone intrappolate dalle acque e successivamente hanno cominciato a spalare fango nelle varie frazioni per permettere il ripristino della circolazione e le normali attività. Le operazioni si sono protratte per diversi giorni; ogni sera un breefing al C.O.C. per valutare e coordinare le attività del giorno successivo; i volontari sopraggiunti da ogni parte della Liguria e dalla vicina Toscana hanno lavorato alacremente fino al termine dell'emergenza che si è protratto fino alla prima decade del gennaio 2011. Con la crisi dei governi dell'area Mediterranea Africana, dei paesi del Magreb è cresciuta l'emergenza profughi al punto che è diventata una emergenza nazionale. Gli sbarchi sulle coste italiane sono aumentate a dismisura ed il Canale di Sicilia è diventato improvvisamente una autostrada del mare attraverso la quale centinaia di migliaia di profughi hanno tentato di raggiungere l'Europa ricca e opulenta. A seguito di questo continuo esodo il 6 aprile 2011 tra Governo Italiano, Regioni, Provincie autonome ed Enti Locali era stato firmato un accordo che conferiva alla Protezione Civile Nazionale di pianificare l'accoglienza degli ospiti in strutture dedicate. Era stato così che a La Spezia presso il "Polo" di Protezione Civile erano stati alloggiati 35 ospiti provenienti da diversi paesi Africani e dal Bangladesh e dalle diverse professioni religiose. Far convivere Cristiani e Mussulmani non era cosa facile; gli usi, i costumi , le tradizioni religiose sono molto diverse tra le due grandi religioni monoteistiche, tuttavia nessuno tra gli ospiti ha mai rivendicato il diritto ad una predominanza religiosa rispetto all'altra. Anzi durante quel periodo il Camerunense Fotso Calvin aveva abbracciato la religione cattolica facendosi battezzare. I profughi erano stati seguiti dai volontari della Protezione Civile fino al 25 ottobre 2011 quando una grave alluvione aveva colpito il territorio Spezzino. L'alluvione aveva dirottato il personale volontario verso l'emergenza ed il supporto ai migranti era stato affidato alla cooperativa Maris. Il 25 ottobre 2011 circa 600 millimetri d'acqua sono caduti in poche ore sulle Cinqueterre, sulla Val di Vara e sulla Val di Magra provocando morte e distruzione. Le comunicazioni erano totalmente interrotte ed i volontari del Polo di Protezione Civile si sono resi immediatamente disponibili per interventi sul territorio. Vernazza e Monterosso al Mare erano due paesi spettrali con enormi colate di ghiaia che arrivavano fino al mare. Pignone, Brugnato e Borghetto Vara apparivano distrutte e tutta la pianura alluvionale dei fiumi Vara e Magra risultava fortemente allagata con il ponte della Colombiera in località Cafaggio di Ameglia crollato sotto la forza della piena. I volontari Spezzini si sono subito impegnati per soccorrere le popolazioni ferite ed in difficoltà. Importante è stato anche l'intervento delle colonne mobili del volontariato delle Regioni confinanti che sono scese nel territorio ligure per dare una mano, ripulire i paesi e ripristinare la viabilità. Il piazzale del "Polo" in quei giorni era diventato un immenso deposito di viveri e materiali stoccati in attesa di essere distribuiti alle popolazioni. C'erano numerosi elicotteri che planavano , caricavano merci e derrate alimentari per poi ripartire verso le località colpite. E' stato un lavoro immane e continuo per le migliaia di volontari che da tutta l'Italia sono accorsi nello spezzino ed in Lunigiana per far fronte all'emergenza alluvione. La scossa di terremoto che ha colpito l'Emilia Romagna la notte del 20 maggio 2012 ha scosso di fatto tutto il Nord Italia. Numerosi i morti ed i capannoni distrutti. La colonna mobile della Liguria con cinquanta tende, cucine da campo ha allestito in località San Biagio nel Comune di San Felice Sul Panaro una tendopoli per dare assistenza alle popolazioni colpite. All'interno del campo 250 sfollati di cui 60 bambini , ma soprattutto 15 etnie. C'erano le diverse attività ludiche per i numerosi bambini ospitati ma anche molte difficoltà per fare coesistere le molte religioni che per certi versi erano in contrasto tra loro. Tra le altre cose quello era il periodo del Ramadan e quindi molti assistiti mangiavano e bevevano solamente dopo il tramonto del sole. La Colonna Mobile Regionale Ligure è rimasta a San Biagio nel Comune di San Felice sul Panaro fino al 29 Luglio 2012 quando la Protezione Civile della Provincia Autonoma di Trento è subentrata nella gestione della Tendopoli Conclusioni: L'obiettivo condiviso dalle associazioni di volontariato di Protezione Civile associate al Centro Integrato della Protezione Civile di Santo Stefano Magra è stato quello di creare in ogni zona di territorio della Provincia della Spezia, un servizio di pronta risposta alle esigenze della popolazione. All'interno delle varie associazioni esistono tutte le professionalità della società moderna, insieme a tutti i mestieri e questo mix costituisce una grande risorsa, fondamentale nelle grandi emergenze, quando il successo degli interventi dipende dal contributo delle varie specializzazioni(medici, ingegneri, infermieri, cuochi, falegnami etc). L'impegno di ogni volontario è una risorsa preziosa e vitale, non solo per il territorio spezzino ma, per tutto il territorio nazionale. La gratifica più grande per un volontario di protezione civile è il cittadino che ti dice "Grazie", anche dopo aver spalato per una intera giornata fango dalla sua abitazione. Mentre la risorsa è una sola: "La voglia di fare qualcosa per se e per gli altri".
Uno dei problemi maggiori nello studio degli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni umane è senza dubbio il carattere fortemente multidisciplinare, che richiede un'analisi del fenomeno che incroci competenze e conoscenze che appartengono a diversi campi del sapere, come le scienze ambientali, per quanto riguarda i fattori scatenanti e le scienze sociali e giuridiche, per quanto riguarda le sue conseguenze. Alla luce di questi motivi il tema dei profughi climatici rappresenta un campo di ricerca interessante e ricco di molti spunti di riflessione, ma allo stesso tempo un'analisi complessa e non priva di una molteplicità di problemi epistemologici. Le principali difficoltà risiedono nella scarsità di documentazione e di letteratura sull'argomento. Nonostante non manchino gli studi ed i documenti prodotti dalle principali organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente e migrazioni internazionali in tutte le forme e varianti, il mondo scientifico, e in modo particolare quello italiano, non sembra aver ancora preso seriamente in considerazione il tema delle migrazioni internazionali causate dal mutamento delle condizioni climatiche, sia per cause naturali che per il degrado dell'ambiente prodotto dall'inquinamento e da un uso distorto delle risorse terrestri. La complessità estrema del fenomeno pone una serie di interrogativi riguardo all'individuazione dei soggetti che possono essere ricondotti alla categoria suddetta e in merito alla possibilità di riconoscere una qualche forma di tutela giuridica internazionale a questa categoria di persone, per le quali, sul piano strettamente giuridico è ancora improprio l'utilizzo del termine 'rifugiati' per identificarli. Ad aumentare le difficoltà già elencate vi è poi la scarsa attenzione dimostrata sull'argomento dai paesi economicamente sviluppati in genere, ed in particolare i principali inquinatori, e la sempre crescente difficoltà da parte dell'occidente a rispondere ai problemi generati dai movimenti forzati di massa. Il mancato riconoscimento internazionale dei profughi climatici complica ulteriormente la questione. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi "nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato" definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Il termine 'rifugiato ambientale', accettato orami a livello internazionale nel linguaggio comune, appare quindi improprio alla luce di questa considerazione e all'interno della comunità scientifica mondiale non è stato ancora sciolto il nodo di una definizione più propria soprattutto per la difficoltà di stabilire un legame diretto tra fattori ambientali e diversi casi di migrazioni internazionali massive. D'altra parte il termine "refugee" ha antica origine e diffusa circolazione: il fatto che dal 1951 implichi uno status non crea monopoli linguistici. Si può convenzionalmente accettare il suo utilizzo disciplinare critico e il suo utilizzo istituzionale limitato allo status connesso. Il suo significato resta sinonimo di "displaced", migrante forzato o costretto, con le sole specificazioni istituzionali dell'aver superato il confine e delle costrizioni previste dalla Convenzione nel 1951. L'aggettivo "environmental" non aiuta la definizione delle migrazioni e soprattutto non aiuta a chiarire la loro dimensione forzata. Rifugiato si, ma non "ambientale". La difficoltà forse sta proprio nel sostantivo, ambiente, che ha troppi usi e sinonimi nell'insostenibile sviluppo in cui siamo immersi. Le ricerche multidisciplinari sul fenomeno migratorio devono molto rivalutare la dimensione "ambientale" delle migrazioni. Le espressioni "environmental refugee" o "environmental migrants" o "environmental displaced people" possono essere utilizzate per sottolineare o distinguere la spinta a migrare connessa alle varie forme di inquinamento e di degrado ambientale, per le quali il riconoscimento scientifico della costrizione non è certo e il margine di libera scelta dei momenti e delle modalità è parzialmente maggiore. L'espressione "displaced people" diventa quella descrittiva di ogni migrazione forzata, qualunque sia lo Stato entro cui avviene o quanti e quali che siano gli Stati interessati. L'aggettivo "environmental" può invece risultare ridondante o superfluo, non classifica; meglio chiarire quale contesto geografico o climatico e quale specifica contestuale ragione socio ambientale. Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e all'assistenza di profughi climatici. Sulla via del riconoscimento internazionale dei rifugiati climatici si frappone inoltre il timore di compromettere la sensibilità che già è stata acquisita nei confronti dei rifugiati tradizionali e il timore da parte di governi ed istituzioni di trovarsi in difficoltà nel mettere in atto misure di protezione e di reinserimento dei rifugiati provenienti da zone degradate e dovendo provvedere al loro sostentamento economico. Già nel 1999, con la pubblicazione del libro Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena , Norman Myers, professore di economia ambientale e consulente per le Nazioni Unite, metteva il luce le difficoltà incontrate dalla comunità scientifica mondiale sulla via di una definizione sia del fenomeno, sia del livello di tutela giuridica internazionale che dovrebbe essere riservata a questa categoria di persone. In particolare, per quanto riguarda la definizione, egli pone l'accento sulla necessità di soffermarsi sulla differenza tra " persone in condizioni modeste ma tollerabili in patria che cercano altrove la possibilità di una vita in condizioni economiche migliori" e quelle persone che migrano perché sono "spinte da fattori di base del degrado ambientale" condizione che appare come la caratteristica principale per definire il concetto di rifugiato ambientale. Sono stati proposti numerosi termini alternativi per classificare i rifugiati ambientali, tra cui "persone sfollate per motivi ambientali" e "emigranti costretti da motivi ambientali", che pur essendo precisi risultano assai meno efficaci e, in effetti, sono quasi ridondanti. Altri suggerimenti spaziano da "eco-migranti" e "eco-evacuati" a "eco-vittime"; però i primi due termini non connotano l'idea di migrazione coatta, mentre l'ultimo non suggerisce affatto l'emigrazione. Ad ogni modo queste persone, comunque le si voglia designare, sono un'ampia componente fra tutti gli altri rifugiati e, entro la prossima metà del secolo, potrebbero addirittura superare di varie volte il numero degli altri rifugiati. Myers propone quindi la seguente definizione: "I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta". Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico dei sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da errati o mancati interventi dell'uomo. Possono concorrere fattori aggiuntivi che inaspriscono i problemi ambientali e che spesso, in parte, derivano da problemi ambientali: crescita demografica, povertà diffusa, fame e malattie pandemiche. Altri fattori ancora comprendono carenze delle politiche di sviluppo e dei sistemi di governo che 'marginalizzano' le persone in senso economico, politico, sociale e legale. In determinate circostanze, alcuni fattori possono fungere da 'scatenanti immediati' della migrazione, per esempio colossali incidenti industriali e costruzioni di dighe smisurate. Molti di questi fattori possono agire in concomitanza, spesso con effetti cumulativi. Di fronte ai problemi ambientali, le persone coinvolte ritengono di non avere alternative alla ricerca di sostentamento altrove, sia all'interno del loro paese che in altri paesi, sia su base semipermanente che su base permanente. Non c'è alcun motivo di pensare che chi fugge da condizioni di privazione estrema in conseguenza di collassi ambientali su vasta scala abbia una più attenuata percezione della propria marginalità sociale e una disperazione minore rispetto a chi fugge da oppressioni politiche o religiose. Non sta forse anch'egli cercando la stessa forma di sicurezza nel senso più definitivo del termine, ossia una sicurezza in grado di farlo sentire nuovamente accettato dalla società, in qualche luogo? Per decenni la scena è stata dominata dalle categorie di rifugiati che definiamo "convenzionali", ma ora è giunto il momento di abbandonare formule e definizioni che si rivelano troppo restrittive. Di fronte ai mutamenti che avvengono nel mondo reale non dovrebbero cambiare allo stesso modo anche le nostre categorizzazioni? Alla fine di questo primo approccio a ciò che si connota come un vero e proprio esodo ambientale, siamo già in grado di formulare una considerazione fondamentale: è necessario agire sui sintomi, prima che il problema inizi a causare effetti collaterali cui sarà tremendamente più difficile porre rimedio. Di diversa opinione appare invece il rapporto sul tema pubblicato dall' Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che sottolinea l'importanza di non utilizzare il termine rifugiati per indicare categorie di persone diverse da quelle previste nella Convenzione di Ginevra. A livello italiano, si è parlato del fenomeno in relazione della mancata tutela giuridica di coloro che sono costretti ad emigrare per questo genere di cause e possono essere quindi oggetto di provvedimenti di espulsione, e nel caso dell'Italia del possibile trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione che precedono il rimpatrio. E' certo che storicamente vi è sempre stata una qualche correlazione tra cambiamenti climatici, disastri naturali, modificazioni del clima e flussi migratori, ma molti sono convinti che il deterioramento dell'ambiente prodotto dal cambiamento climatico porrà negli anni a venire il tema del 'rifugiato' climatico al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica e degli organismi internazionali. Questo è un elemento di novità che in relazione alla rapidità con la quale si sta evolvendo il processo di cambiamento climatico, rende un fenomeno millenario ricco di spunti di ricerca, di riflessione e di azione mirata. Le vittime delle conseguenze del surriscaldamento sono una categoria di migranti ancora sconosciuta ai più, priva di uno statuto ufficiale, ma destinata a crescere rapidamente. E a pagarne lo scotto ancora una volta sono i paesi più poveri ed in primis le zone costiere e le isole del Sud-est asiatico, in particolare il Bangladesh come vedremo, così come le aree in via di desertificazione dell'Africa sub sahariana. Senza più casa, costretti ad abbandonare la propria terra perché a rischio o perché modificata nella struttura e composizione, stravolta dai processi di desertificazione, stress idrico o innalzamento del livello del mare, e in attesa di futuro incerto fatto di piani di trasferimento e re-insediamento. La nuova ferita apertasi sulla pelle di questo millennio allarma e fa discutere, per poi scivolare nuovamente nel dimenticatoio mediatico, assecondato da un'opinione pubblica oramai sempre più immune al dramma del disastro. Si vuole quindi invitare alla presa di coscienza e alla riflessione non solo sul disastro ecologico irrefrenabile ma anche sulle conseguenze che lo stesso sta provocando e quindi su possibili riconoscimenti e nuove possibilità di sopravvivenza per queste persone al fine di permettere loro una vita sicura e dignitosa.
Le motivazioni che mi hanno spinto a redigere questo elaborato sono diverse. Una su tutte il senso di responsabilità verso una frase di H., pastore palestinese e leader della resistenza nonviolenta nelle colline a sud di Hebron, che ho sentito particolarmente ispirante: "il vostro ruolo qui è molto importante, ma è più importante in Italia". Molte sono state le spinte che ho ricevuto in questo senso durante la mia esperienza in Palestina/Israele della primavera scorsa, quando, tramite Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, mi sono recato in qualità di volontario di breve periodo nella parte meridionale della Cisgiordania, nelle colline a sud di Hebron. Su queste colline ho trascorso tre mesi vivendo ad At-Tuwani, il villaggio più grande dell'area, situato nella zona denominata come Masafer Yatta. Questa esperienza, valida anche come tirocinio formativo del corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti, mi è stata utile, soprattutto, per conoscere la verità su quanto accade nei territori palestinesi occupati. Dopo aver conosciuto la triste situazione di precarietà che vivono le famiglie palestinesi della comunità delle South Hebron Hills e dopo aver visto con i miei occhi la prassi nonviolenta che hanno deciso di adottare come metodo di resistenza attiva all'occupazione militare e civile israeliana, in questo elaborato ho provato a trovare il risvolto pratico e "tornare alla teoria" di quanto studiato in Teoria dei conflitti. Le asimmetrie dei conflitti, le teorie e le strategie di resistenza e le differenze di approccio ai conflitti, dopo esser stato immerso totalmente all'interno di una comunità palestinese periferica, sono state ancor più nitide e trasparenti. Oltre ad aver ascoltato numerose testimonianze di volontari internazionali ed essermi informato mediante la lettura di articoli di giornale, saggistica e siti internet, ho conosciuto la situazione israelo-palestinese attraverso i racconti di tre ragazzi provenienti da altrettante famiglie palestinesi: Bashar, Khaled e Hassan. Quattro anni fa, tra il settembre 2008 e il febbraio 2009 ho studiato per sei mesi – tramite il programma Erasmus svolto all'interno del mio precedente ciclo di laurea triennale – presso l'università di Brno, in Repubblica Ceca. In quel luogo ho avuto la possibilità di conoscere giovani provenienti da tutto il mondo e stringere una forte amicizia con i tre ragazzi, due giordani e un siriano. Nel dicembre del 2008, durante i tristi giorni della violenta campagna militare israeliana su Gaza denominata "Piombo Fuso", mi sono trovato così a comprendere ciò che accadeva al di là del Mediterraneo, attraverso coloro che avevano, in un certo modo, subito le stesse sofferenze. Fu per me molto forte condividere quella situazione attraverso i racconti dei figli dei profughi palestinesi. Attraverso il quotidiano aggiornamento delle notizie, gli approfondimenti, le discussioni, le manifestazioni di piazza, la visione di documentari e filmati, audio, sessioni in arabo ed inglese di Al Jazeera e soprattutto mediante numerosi racconti personali di storie raccontategli a sua volta dai genitori e parenti, profughi del '48 e del '67, mi resi conto, in quei mesi, delle forti ingiustizie che avevano luogo in quello spicchio di terra, che prima, per me, non aveva un cosi forte significato. Avendo conosciuto la questione di "Palestina/Israele" tramite questi giovani e le storie delle loro famiglie, ho trovato le giuste motivazioni per svolgere, tre anni e mezzo più tardi, un esperienza con Operazione Colomba nei territori palestinesi. L'esperienza all'estero – anche se per soli tre mesi – è stata fondamentale per la scrittura di questo elaborato poiché ha stravolto il mio modo di vedere e leggere quella ingarbugliata situazione. I pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron non hanno il linguaggio tipicamente geopolitico che spesso si sente nei salotti televisivi o nelle discussioni europee mentre si argomenta riguardo la questione israelo-palestinese. La lingua della gente è quella della dignità e della resistenza, chiede a gran voce la tutela dei più elementari diritti di cui vengono privati ogni giorno e mostra in maniera pratica la possibilità che nei salotti televisivi non viene mai presa in considerazione: la rivoluzione nonviolenta e la trasformazione del conflitto. É questa la ragione, dopo aver esser stato volontario di Operazione Colomba, che mi ha suscitato l'intenzione di redigere questa tesi di laurea. Sentendo forte la necessità di aiutare quella resistenza nonviolenta anche in Italia, ho provato a concedergli lo spazio meritato all'interno di una discussione accademica e ho tentato di farla rientrare a pieno diritto all'interno delle categorie teoriche studiate nella Teoria dei conflitti. Per cercare di non focalizzare l'attenzione solo su una dimensione del conflitto, ho deciso di avvalermi di molteplici strumenti. Ho utilizzato i diari dei volontari, report e articoli scritti sui vari siti delle associazioni che lavorano "sul campo", classici manuali e saggi, documentari, film e interviste video e audio. Oltre alla mia esperienza e al mio diario, ho avuto il prezioso aiuto di alcuni volontari di Operazione Colomba che, attraverso una breve intervista composta da tre domande, hanno riflettuto e poi descritto quelle che sono, secondo il loro parere, le caratteristiche del Corpo Civile di Pace con cui sono partiti per un esperienza all'estero e la metodologia di intervento. Nel redigere questo elaborato, ho provato, come richiede una tesi di laurea magistrale, ad essere oggettivo nel descrivere in maniera analitica tutte le dimensioni, anche quelle che ho vissuto in prima persona. Da italiano e quindi da "parte terza" nel conflitto israelo-palestinese, ho cercato di essere imparziale, pur sapendo le difficoltà in cui incorre qualsiasi autore che redige un determinato documento, accademico o giornalistico che sia. Il mio desiderio è stato quello di cercare l'imparzialità e l'oggettività del narratore, seguendo il modello tracciato dalla nuova storiografia israeliana di T. Segev, B. Morris e I. Pappe. La storia – come sostiene un opuscolo pubblicato da un'associazione di Siena – va ricercata "nelle mani di chi coltiva la speranza, negli sguardi di chi è ebbro di vita, nella fatica di chi ara la terra e accudisce l'olivo"1. L'imparzialità nell'analisi della situazione israelo-palestinese, dal punto di vista grammaticale, è resistita sino alla fine del quarto capitolo, poiché, nella quinta ed ultima sezione, intervistando volontari con cui ho vissuto ad At-Tuwani o che comunque ho conosciuto di persona, raccontando e analizzando anche la mia esperienza personale con la Colomba, non son riuscito a trattenere il mio spirito di forte partecipazione. Se non son riuscito ad essere completamente oggettivo nella descrizione della storia e delle vicende di israeliani e palestinesi significa che sono stato colto da errore e me ne assumerò le responsabilità. Essendo quello su cui ho argomentato un conflitto – come molti altri – ricco di mitologia, le narrazioni presentate al grande pubblico sono quasi sempre solo due e sempre polarizzate una dall'altra. La realtà dei fatti è che entrambe le storie omettono molti passaggi ed eventi diventando così faziose. Il mio tentativo è stato quindi quello di cercare di andare oltre a questa dicotomia e raccontare la storia il piu veritiera e obiettiva possibile. "Lo storico francese Fernand Braudel ha ideato una teoria che paragona il processo storico a un fiume. Ciò che si trova in superficie scorre a grande velocità mentre ciò che si trova sott'acqua si sposta lentamente. Gli avvenimenti scorrono veloci ma nello stesso tempo si nota anche una grande stabilità delle vecchie strutture e dei vecchi modi di pensare. Questi ultimi cambiano molto più lentamente."2 Con questo concetto ben stampato nella mente, anch'io ho cercato di comprendere avvenimenti "di superficie" e i cambiamenti delle "vecchie strutture". Nel primo capitolo ho analizzato gli eventi storici in maniera alternativa, cercando di raccontare i fatti tramite le parole dei protagonisti e provando a ricostruire gli eventi attraverso una pluralità di informazioni. Non mi sono documentato solo dai classici manuali di saggistica, ma ho deciso di avvalermi anche di video-documentari, filmati, report di associazioni, articoli di giornale e siti internet. Inoltre non ho solo incrociato le fonti bibliografiche ma ho cercato di informarmi sottolineando le discrepanze tra le diverse letture che ho svolto. Avendo riflettuto molto sulle parti riportate in questo capitolo e non volendo rinunciare a segnalare alcun autore, forse, il risultato ne è stata una variante un po' troppo estesa. Mi sono prolungato sugli eventi dal 1880 in poi, perché ho considerato necessario soffermarmi su alcuni nodi storici per comprendere meglio la complessità della quotidianità palestinese e israeliana. Ho cercato di rappresentare alcuni aspetti e dimensioni della storia di tutta l'area dando un peso particolare alla questione della terra e delle risorse, evidenziando, quando ne ho avuto la possibilità, la situazione delle popolazioni periferiche, della situazione scolastica, e di coloro che svolgono un lavoro legato a pastorizia, allevamento e agricoltura. Ho tentato di analizzare maggiormente queste dimensioni per comprendere alla radice le cause dei problemi attuali che vivono i pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron. La situazione di quest'area periferica l'ho analizzata nel secondo capitolo, proponendo un percorso storico dal 1948 in poi, dal 1967 con l'occupazione militare, l'insediamento delle colonie e degli avamposti ebraici, fino ad arrivare alla divisioni in aree degli accordi di Oslo, sino alle ultime dinamiche ed eventi accaduti ai giorni nostri. Ho utilizzato esempi provenienti dalla quotidianità della politica di occupazione militare e civile israeliana e come agisce privando i palestinesi che vivono la zona dei più elementari diritti. La situazione paradossale che si crea in quell'area, che secondo gli accordi di Oslo è area C quindi a completa amministrazione militare e civile israeliana è ancora più forte se si pensa alla situazione dei bambini delle South Hebron Hills che, dal 2005 ad oggi, dopo una decisione della Commissione per i diritti dell'infanzia della Knesset, il parlamento israeliano, devono aspettare tutte le mattine e tutti i pomeriggi, una scorta armata dell'IDF che li protegga dagli attacchi dei coloni per poter fare in sicurezza il tragitto da casa a scuola, e viceversa. I capitoli tre e quattro rappresentano il nocciolo della questione, poiché rappresentano quanto mi ero proposto di analizzare e argomentare, espressione del titolo dell'elaborato. Nel terzo ho descritto la situazione di vita complessa e difficile e come viene ribaltata dalla scelta nonviolenta che ha adottato la comunità palestinese che abita le colline a sud di Hebron e del Comitato di Resistenza Popolare, nato nel 2000. Una resistenza, quella di questi palestinesi, che non ha nulla a che vedere con le immagini che i maggiori media nazionali ed internazionali propugnano alla televisione. Una paziente e quotidiana resistenza, che è attiva e decisa nel combattere le ingiustizie e che proviene, in prima istanza, dall'essenza pacifica dei pastori stessi. Alla minaccia di arresto da parte dei soldati o agli attacchi e alle provocazioni dei coloni ai danni di un palestinese su un dato territorio loro rispondono tornando su quell'area organizzando marce e manifestazioni pacifice. Alle demolizioni di strutture o danni ai caseggiati, i nonviolenti palestinesi rispondono ricostruendo quanto distrutto e denunciando le ingiustizie subite presso gli enti preposti. Ai danni degli oliveti e dei campi di grano che sono dislocati su tutte le colline intorno ai villaggi, i palestinesi replicano facendo rinascere la vita, piantando nuovi ulivi e seminando grano per l'anno successivo. Il Comitato, ente preposto per l'organizzazione della resistenza, ha anche il ruolo di organizzare marce per la pace, azioni nonviolente, training di formazione alla nonviolenza e ha avuto l'appoggio di numerosi gruppi di attivisti israeliani e internazionali che vivono e lavorano nell'area. Essendo quella nonviolenta una scelta di massa e popolare, i palestinesi che vivono ad At-Tuwani e nei villaggi vicini hanno avuto l'opportunità, oltre a ricevere in visita numerose delegazioni di israeliani, attivisti e non, di accogliere due gruppi di internazionali, i Christian Peacemaker Team e Operazione Colomba. Oltre alla solidarietà e al supporto, dal 2004 i due gruppi vivono nell'area, condividendo i pericoli e le ostilità quotidiane e accompagnando i pastori palestinesi che pascolano i loro greggi sulle colline. In particolare, sul finire del capitolo ho focalizzato l'attenzione su come il Comitato Popolare delle South Hebron Hills si inserisce nelle questioni nazionali e sulla forza delle donne del villaggio e il loro prezioso ruolo nella resistenza nonviolenta e nelle dinamiche della vita del villaggio. Nel quarto capitolo ho cercato di sintetizzare la resistenza nonviolenta all'interno delle categorie tipiche della Teoria dei conflitti: il conflitto asimmetrico e la risoluzione del conflitto mediante un cambiamento di paradigma. La trasformazione nonviolenta del conflitto, almeno per quanto concerne la situazione nelle South Hebron Hills, è partita dal circuito virtuoso scatenato dalla scelta nonviolenta della comunità palestinese. Le relazioni tra palestinesi e israeliani sono cominciate a differire e il cambiamento pacifico, descritto da Miall in Emergent Conflict and Peaceful Change, ha cominciato a mostrare sin da subito i risultati. Oltre a questioni teoriche legate al conflitto e alla sua trasformazione ho concentrato gli sforzi nel ripercorrere gli anni precedenti la nascita dello stato d'Israele e in particolare nell'accezione nonviolenta, culturale e religiosa di un tipo di sionismo, che con la nascita dello stato Ebraico non ha saputo vincere il braccio di ferro con il sionismo politico di Herzl e Ben Gurion. Infine ho portato altri esempi di prassi nonviolenta e possibili scenari futuri di pace per Palestina/Israele. Nel paragrafo intitolato "Immaginare un altro Israele", ho analizzato uno scambio di missive che è avvenuto sul finire degli anni '30 tra Gandhi e due intellettuali ebrei, seguaci del sionismo culturale, Martin Buber e Judah Magnes. In questo carteggio ho riscontrato differenze sostanziali tra i tre pensatori nonviolenti che ho poi sintetizzato sottolineando in particolare l'importante aspetto della relazione tra politica e religione nelle tre diverse accezioni. Nel quinto ed ultimo capitolo ho mi sono soffermato su Operazione Colomba, le attività che svolge in Palestina/Israele e negli altri luoghi in cui è presente attualmente. Ho portato alla luce la storia del Corpo Nonviolento di Pace che nel 2012 ha festeggiato i primi vent'anni di vita e i tre pilastri fondamentali con cui è intervenuto in zone di conflitto: la scelta nonviolenta, la condivisione della vita con le vittime della guerra e la neutralità dell'intervento o equivicinanza tra le parti. Mi sento orgoglioso del paragrafo "Essere una Colomba" poiché credo fermamente nell'azione di questa organizzazione e nel suo modo di agire. Con l'aiuto di alcuni volontari che ho intervistato, ho riflettuto sul significato di essere una Colomba, all'estero e in Italia e sulla forza della nonviolenza attiva. Infine ho preso ad esempio il lavoro di Operazione Colomba per rilanciare il discorso – ultimamente accantonato – sui Corpi Civili di Pace. La necessità di tale istituzione è, secondo la mia modesta opinione, un'urgenza e un bisogno impellente. Proveniendo dal corso di laurea di Scienze per la pace, ho avuto la possibilità di studiare in maniera interdisciplinare i parametri giuridici e la cornice burocratica all'interno della quale si dovrebbe vedere la nascita di tali Corpi Nonviolenti di Pace, il cui ruolo sarà decisivo per il raggiungimento di quell'obiettivo sancito nella costituzione repubblicana, che è la difesa della Patria con altri mezzi. Infine, ho trovato necessario concludere il mio elaborato, senza assumermi la responsabilità di mettere il punto finale ad una storia, che è ancora in divenire. Ho scelto quindi di chiudere il mio elaborato e il mio percorso di studi, tramite delle conclusioni (o nonconclusioni) dal finale aperto, perchè in corso di scrittura. Ho predisposto, in allegato all'elaborato, alcune mappe geografiche per poter comprendere meglio le complicate questioni dibattute in precedenza.
Il lavoro intende approfondire la disciplina dell'adozione internazionale vigente nel nostro ordinamento, focalizzando l'attenzione sui profili problematici derivanti dalla c.d. kafalah e la sua compatibilità con l'ordine pubblico interno e il diritto italiano più in generale. Solo negli ultimi anni tale istituto – anche per ragioni di ordine culturale e di flussi migratori – ha visto crescere l'attenzione degli studiosi nei suoi confronti, sulla spinta di taluni (invero, sporadici) arresti giurisprudenziali. Di sicuro interesse è il profondo dibattito sulla qualificazione dell'istituto islamico della kafalah non solo nell'ambito della disciplina delle adozioni internazionali ma anche in materia di immigrazione, in particolare del ricongiungimento familiare. Invero, molto si discute –e molto si discuterà– circa il diritto di cittadinanza (pieno, nullo o affievolito) che la kafalah può ottenere nel nostro ordinamento giuridico. --- Il cuore del problema è, infatti, costituito dalla possibilità o meno di sussumere la kafalah sotto gli istituti tipici di "protezione del minore" o, comunque, sotto uno dei fatti che, ai sensi della vigente normativa, rilevano ai fini della protezione del "nucleo familiare". Si è evidenziato che difficilmente può pervenirsi ad una soluzione accettabile del problema se ci si àncora a criteri meramente formali. --- Dopo una breve analisi dell'evoluzione storica della disciplina dell'adozione, si è analizzata la disciplina della stessa nell'età moderna focalizzando l'attenzione sull'adozione internazionale. Giungiamo in tal modo alla normativa attuale: la legge 4.5.1983, n. 184, "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori" che ha disciplinato le adozioni nazionali ed internazionali per quasi vent'anni sino all'intervento della l. 31.12.1998, n. 476, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni internazionali", che ha particolarmente inciso rispetto alla disciplina delle adozioni internazionali, e successivamente dalla l. 20.3.2001, n. 149, che è intervenuta quasi esclusivamente sul regime delle adozioni nazionali modificando, tra l'altro, il titolo della l. 184 del 1983, divenuto "diritto del minore ad una famiglia". Pertanto le fonti principali della disciplina delle adozioni internazionali nel nostro ordinamento sono la Convenzione de L'Aja del 29.5.1993 ed il titolo III della L. 184/1983, così come modificato dalla l. 476/1998 (che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione). Doveroso un accenno alle altre convenzioni internazionali tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20.11.1989. Essa, peraltro, è utile al corretto inquadramento dell'istituto della kafalah, ove al suo art. 20 sembra trovare una sorta di "legittimazione" internazionale: "Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambito familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti speciali dello Stato. Gli Stati Parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale. Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo di sistemazione in una famiglia, della kafalah di diritto islamico, dell'adozione o, in caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l'infanzia. Nell'effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità dell'educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica". La Convenzione de L'Aja del 29.5.1993, tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, richiama espressamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del minore del 20 novembre 1989. Essa enuncia gli essenziali obiettivi di garantire nell'adozione internazionale la realizzazione del miglior interesse del bambino ed il rispetto dei suoi diritti fondamentali, di creare un sistema di cooperazione tra gli Stati aderenti finalizzato a tale realizzazione, di garantire il riconoscimento in tutti gli Stati aderenti delle adozioni realizzate in conformità dei principi espressi dalla Convenzione Per dare effettiva attuazione ai principi da essa formulati, la Convenzione ha imposto l'obbligo per ogni Stato ratificante della creazione di un'apposita Autorità centrale e di un sistema di enti pubblici e/o privati controllato da tale Autorità, ai quali delegare il compito di coordinare, sorvegliare e realizzare il procedimento adottivo ponendo il divieto dello svolgimento dell'attività di ricerca del minore sia alle coppie, sia ad intermediari privati. In Italia l'Autorità centrale per l'adozione internazionale è rappresentata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali. --- Il 3° cap. affronta la tematica centrale, il cuore, della tesi: il divieto islamico di adozione e la kafalah. L'istituto in questione è inquadrato alla luce delle osservazioni effettuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il punto di partenza è il divieto di adozione vigente nei paesi di religione mussulmana, il quale trova il suo fondamento direttamente nel Corano: "Dio non ha posto nelle viscere dell'uomo due cuori, né ha fatto (…) dei vostri figli adottivi dei veri figli" (Sura XXXIII). Tale divieto sembra avere il fine di preservare la concezione islamica secondo cui la famiglia ha origine divina. Poiché i vincoli di filiazione sono espressione della volontà divina, l'uomo non può artificialmente determinarne la cessazione e costituirne di nuovi al di fuori della generazione biologica; essendo l'adozione un istituto giuridico volto a costituire un rapporto di filiazione indipendente dalla procreazione biologica, esso deve essere vietato". Fortunatamente il divieto di cui sopra non giunge al punto di impedire ogni forma di assistenza in favore di minori che versino in stato di abbandono o comunque di necessità: in queste eventualità viene in soccorso, per l'appunto, l'istituto della kafalah. Con essa un soggetto (kafil) promette davanti a un giudice o a un notaio di curare e mantenere – così come provvederebbe un buon padre di famiglia – un minore (makful) sino al raggiungimento della maggiore età (ma la kafalah è revocabile). Il kafil assume dunque l'obbligo di provvedere alla cura del minore, senza che a tale obbligo consegua alcun vincolo di filiazione o interruzione dei rapporti correnti tra il minore e la famiglia di origine. L'istituto può essere "giudiziale" ovvero meramente "negoziale" e il kafil acquisisce la potestà genitoriale sul makful. Il minore oggetto di kafalah non essendo considerato figlio del kafil non ne assume il nome, ma, nel testamento del kafil può essere equiparato ad uno dei suoi eredi. I profili problematici attengono i concreti effetti della kafalah nel nostro ordinamento anche (ma non solo) ai fini del ricongiungimento a maggiorenni qui residenti di minori ad essi legati da vincoli che conseguono alla kafalah. La kafalah infatti "pur mostrando alcune affinità sia con l'adozione sia con l'affidamento sia con la tutela, non può ovviamente essere identificata con nessuno di essi, a causa dell'esclusione (ad essa connaturata) del sorgere di qualsiasi rapporto di filiazione nonché del carattere (altrettanto immanente) di continuità – ma non di definitività – nella protezione del minore (ossia del raggiungimento della maggiore età)" (Clerici, La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con l'ordine pubblico internazionale, in Fam. e dir., 2009, 208) --- Per avere una cognizione piena del problema si è evidenziata la disciplina che la kafalah ha nel diritto marocchino e algerino. L'istituto de quo pone, con riferimento agli effetti che esso può determinare nel nostro ordinamento, soprattutto (per non dire esclusivamente) due problemi: -il primo, costituito dagli effetti riconducibili alla kafalah ai fini dell'adozione internazionale; -il secondo, rappresentato dall'idoneità della kafalah a consentire il ricongiungimento familiare ai sensi dell'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. E non poco ha pesato, in particolare sulla giurisprudenza, la preoccupazione che l'istituto in esame potesse costituire – sia con riferimento all'adozione internazionale sia con riferimento al ricongiungimento familiare – il "cavallo di Troia" capace di eludere la volontà di legge. Preoccupazione sicuramente giustificata, ma forse eccessiva, alla luce delle considerazioni svolte, soprattutto in dottrina, che appaiono idonee a dar vita ad un'elaborazione giurisprudenziale che sia, al tempo, cauta ed equa. --- La normativa vigente non sembra offrire soluzioni ad alcuni problemi di fondo, tra cui quello costituito dalla possibilità di adottare minori provenienti da paesi islamici, stanti le profonde differenze che a livello giuridico (oltre che, ovviamente, a livello religioso) contraddistinguono gli istituti volti alla tutela dei minori. Il quesito di fondo è il seguente: può la kafalah essere inquadrata, ai fini dell'adozione, in alcuno degli istituti previsti dal vigente ordinamento? La nostra normativa sembra risentire del fatto che la Convenzione de L'Aja del 1993 non fa alcun riferimento all'istituto della kafalah, sì che è comune l'opinione che detta Convenzione non si applichi all'istituto in esame. Infatti, l'art. 2, § 2 stabilisce che essa si applica ai soli rapporti di adozione da cui derivi un rapporto permanente tra padre e figlio, sì che, mentre vanno ricompresi tutti i rapporti così qualificabili (a prescindere dal fatto che essi interrompano del tutto o solo parzialmente il legame di filiazione naturale), non altrettanto può dirsi dei rapporti di diversa natura. Il Rapporto esplicativo della Convenzione dell'Aja del 19.10.1996 (firmata, ma non ratificata dall'Italia), al punto 237, che "il ragazzo che ne beneficia (della kafalah, ndr.) non diviene membro della famiglia del kafil ed è questo il motivo per cui la kafalah non è protetta dalla Convenzione sull'adozione del 29 maggio 1993". Si è evidenziato, peraltro, il ritardo nella ratifica da parte del Parlamento italiano. Il ritardo "politico" non è certo privo di effetti quanto all'eliminazione degli inconvenienti che conseguono all'impossibilità di declinare, secondo moduli sovrapponibili, adozione e kafalah. --- Il sistema cui si è pervenuti successivamente alle modifiche della legge n. 184 del 1983, prefigura – quanto alla possibilità di ottenere il riconoscimento di adozioni avvenute all'estero – tre possibili "scenari": a) nel primo l'adozione riguarda minori che provengono da Paesi che hanno aderito alla Convenzione de L'Aja (in questo caso l'adozione "è riconosciuta"); b) nel secondo il minore proviene da Paesi che non hanno aderito alla detta Convenzione (in questo caso l'adozione "può essere riconosciuta"); c) nel terzo, infine, il minore proviene da Paese nel quale i genitori adottivi hanno avuto residenza per almeno due anni (anche in questo caso, come nel primo, l'adozione "è riconosciuta"). Dunque il Paese di provenienza è fonte, per il giudice italiano, di maggiore o minore discrezionalità. Fondamentale ulteriore parametro può essere ricavato da quanto disposto dagli artt. 35 e 36 (comma 2 e comma 4) della citata legge 184 nel testo modificato. Per quanto concerne i paesi aderenti alla Convenzione de L'Aja, il riconoscimento deve avere ad oggetto o "adozioni" o "provvedimenti" finalizzati a consentire l'adozione nel Paese di destinazione. Nel caso in cui i provvedimenti "possono essere riconosciuti", essi debbono consistere unicamente in adozioni o affidamenti "preadottivi". Nel caso in cui si tratti di Paesi dove i genitori adottivi abbiano avuto residenza per almeno due anni, i provvedimento da riconoscere deve consistere in una "adozione". --- Ci si è chiesto, a questo punto, quale può essere la collocazione della kafalah in tale quadro normativo. Le soluzioni che paiono più convincenti sono le seguenti. -Non sembra, innanzitutto, che la kafalah possa essere "tradotta" in termini tali da consentire di apprezzarla, ai sensi e agli effetti del nostro ordinamento, come adozione o come affidamento preadottivo, non avendone i tratti essenziali e lo scopo loro propri. -Neppure potrebbe essere "convertita" da adozione semplice (della quale ha le caratteristiche) in adozione legittimante, per il semplice fatto che detta "conversione" è possibile solo quando l'adozione sia conforme alla Convenzione, la quale, all'art. 2, § 2, "contempla solo le adozioni che determinano un legame di filiazione". -Quanto all'ipotesi in cui i kafil siano cittadini italiani residenti all'estero da almeno due anni, neppure in questo caso potrebbero prodursi gli effetti di cui all'art. 36, 4 comma, legge 184/1993, atteso che detto articolo parla solo ed esclusivamente di "adozione". La kafalah, pur essendo del tutto incompatibile con l'adozione legittimante, ha tratti che la rendono assimilante all'adozione di cui all'art. 44 legge n. 184/1983 (tale adozione, qualificata dalla legge come "adozione in casi particolari", è anche detta "semplice", "semipiena", "ordinaria", "non legittimante"). In questo tipo di adozione "l'adottato non assume la posizione di figlio legittimo, non tronca il rapporto con la famiglia di origine, della quale mantiene il cognome anche si vi aggiunge quello del genitore adottivo, non perde il proprio status giuridico e la propria cittadinanza, con la conseguenza che se il minore viene trasferito all'estero, continua a sussistere la protezione offerta dal suo Paese di origine. Inoltre, come nel caso della kafalah, il genitore adottivo assume il dovere di educare, istruire e mantenere il figlio, esercita su di lui la patria potestà ed il minore non acquista diritti successori nella famiglia adottiva. A differenza di quanto avviene con la kafala, il minore oggetto di adozione semplice acquisisce i diritti successori nei confronti dell'adottante ed i rapporti giuridici che lo legano a lui non cessano con la maggiore età" (Orlandi). L'applicabilità alla kafalah della normativa concernente l'adozione in casi particolari sembra convincente, ancorché debba precisarsi che siffatta applicabilità non si ricava per dettato esplicito della legge n.184/1983 la quale, sul punto, nulla dice espressamente e dunque esplicitamente non autorizza né vieta la predetta adozione. Sembra potersi concudere che non esista una soluzione pacifica e lineare quanto agli strumenti idonei a "recepire" la kafalah ai fini dell'adozione internazionale dei minori. Pur tuttavia la necessità di trovare una forma di tutela dei minori – in un'ottica di salvaguardia del superiore interesse degli stessi – sembra spingere, del tutto ragionevolmente, verso la ricerca di un excamotage che si presenti in linea con le esigenze minime di coerenza del nostro sistema. A tali esigenze risponde pienamente l'adozione in casi particolari (pur con taluni inconvenienti) che si lascia dunque preferire rispetto ad altri strumenti ipotizzabili. --- La kafalah non pone problemi solo nel suo rapportarsi all'istituto dell'adozione internazionale: analoghe difficoltà sorgono allorché si tenta di sussumere il rapporto tra kafil e makful sotto la previsione normativa di cui all'art. 29, 2 comma, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Ci si è chiesto se il rapporto creato dalla kafalah possa essere assimilato a qualcuno dei rapporti indicati dalla norma appena citata, la quale, com'è noto, stabilisce che "ai fini del ricongiungimento (…) i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli". La prevalente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha affermato il principio secondo cui la kafalah può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 286/1998. La lettura prevalentemente offerta dalla Suprema Corte dell'art. 29, d.lgs. n. 286/1998 è ispirata ad un'ottica strettamente ancorata ai valori costituzionali presenti nel nostro ordinamento, utilizzando il canone ermeneutico della «esegesi costituzionalmente adeguata», per effetto del quale, ove i valori costituzionali di riferimento appaiano plurimi e antagonisti (come nel caso in esame: esigenza di protezione dei minori e tutela democratica dei confini dello Stato, con conseguente contenimento della immigrazione), la norma ordinaria può dirsi interpretata in maniera «adeguata» solo se sarà realizzato un «equo bilanciamento» di tali valori. Un bilanciamento effettuato «alla luce della scala di valori presupposta dal Costituente», e già operato in più occasioni dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze n. 198 e 295 del 2003) nel segno di una prevalenza del valore di protezione del minore, ovviamente anche straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio e contenimento della immigrazione. Una prevalenza che non può che apparire coessenziale ad una esegesi costituzionalmente orientata della disciplina del ricongiungimento familiare, tenendo in considerazione che «una pregiudiziale esclusione (come quella che pretende l'Amministrazione) del requisito per il ricongiungimento familiare per i minori affidati in "kafalah", penalizzerebbe (anche con vulnus al principio di uguaglianza) tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l'unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». La disposizione di cui all'art. 29, comma 2, d.lgs. 286/1998, deve, pertanto, essere interpretata estensivamente o comunque integrata in via analogica, sulla base della comparazione fra i presupposti e le caratteristiche del rapporto di kafalah e del rapporto di affidamento.
La ricerca in oggetto ha avuto lo scopo di analizzare la disciplina normativa e la rilevanza politico sociale di una delle pene più severe comminate dal tribunale della Santa Inquisizione: la confisca dei beni agli eretici. L'esame si è concentrato, in particolare, sulla centralità che questa pena assunse nei conflitti antiinquisitoriali che caratterizzarono i vari tentativi da parte della corona di introdurre, nel Regno di Napoli, un'Inquisizione di tipo spagnolo. La costante reazione popolare che vide uniti come mai prima popolo, nobili e ceto togato, apparve diretta più che contro l'Inquisizione, contro l'uso indiscriminato di una pena che, rappresentando un utilissimo strumento di progressione monarchica, minava alle basi l'autonomia delle organizzazioni politiche locali. Le fonti su cui si è diretta la nostra attenzione sono state per la prima parte della tesi quelle tipiche del diritto comune per la seconda, invece i manoscritti della biblioteca nazionale di Napoli e i numerosi documenti ritrovati nell'Archivio di Stato e in quello diocesano. Il primo capitolo della tesi si è concentrato sull'esatta ricostruzione normativa della pena attraverso il vaglio di norme sia del Corpus iuris civilis che del Corpus iuris canonici. L'esame ha dimostrato che la confisca, anche se limitatamente ai casi di lesa maestà umana, fu prescritta per la prima volta nelle leges QuisQuis di età imperiale che ne sancirono la caratteristica peculiare: a patire le colpe dei condannati erano anche i discendenti non colpevoli degli stessi i quali venivano spogliati dei loro beni, della capacità di contrarre e di ogni altra dignità civile. Parzialmente revocata dalla lex Sancimus e dalla lex Cognovimus la costituzione in esame non fu mai estesa dagli imperatori cristiani alla discendenza degli eretici. La pena venne, poi, adottata anche nel diritto canonico a partire dalla Vergentis di Innocenzo III con la quale il papato equiparò l'eresia ad un crimine di lesa maestà stabilendo in modo definitivo il carattere pubblico dei reati di fede. In particolare la confisca assunse carattere retroattivo con l'effetto di annullare tutti gli atti inter vivos e mortis causa stilati nel periodo intercorso tra il delitto e la sentenza. Più tardi, le Gazaros di Federico II prescrissero il castigo dell'infamia e della confisca anche contro i figli ortodossi degli eretici pertinaci sottolineando la maggiore gravità del reato di lesa maestà divina rispetto a quello di lesa maestà umana. Fu, infine, la Cum Secundum Leges di Bonifacio VIII a rendere la confisca una pena in ipso iure o latae sententiae a tutti gli effetti con l'obbligo per il colpevole di consegnare spontaneamente i beni alle autorità fiscali senza necessità di alcun intervento giudiziario. L'esame normativo della confisca ha cercato anche di evidenziare, seppur sinteticamente, le significative divergenze dottrinali e giuridiche sull'uso della pena che, nonostante le comuni basi di diritto canonico, esistevano tra Inquisizione romana e Inquisizione spagnola. Il riferimento ha riguardato, in particolare le istruzioni dettate dal Torquemada e il suo, meno noto, codice del 1484 ritrovato nella Storia Universale di Cesare Cantù . Da queste fonti è stato possibile desumere che i sequestri, in Spagna, venivano applicati, di norma, prima delle sentenze; che l'infamia e la perdita dei beni erano estese anche ai discendenti e l'esproprio finiva per riguardare persino i pentiti. Gli inquisitori, del resto, avevano poteri illimitati. Potevano, infatti, condannare alla tortura, come falso penitente, ogni riconciliato la cui confessione veniva giudicata, arbitrariamente, imperfetta e corroborata da un pentimento solo simulato, nonché, quanti erano accusati di aver nascosto molti peccati durante la confessione giudiziale. L'interesse si è, successivamente, spostato, sulla disputa relativa alla legittimità della pena che divampò nella prima metà del XVI secolo. L'esame delle fonti di diritto comune ha dimostrato che il punto centrale del dibattito riguardava l'ammissibilità di sanzioni, definite dalla storiografia "puramente penali", in cui il castigo era integralmente sganciato dagli elementi soggettivi della fattispecie normativa astratta e gli effetti della pena si estendevano anche a soggetti pienamente innocenti. I giuristi dell'umanesimo giuridico italiano e francese cercarono di restringere la portata della pena attraverso interpretazioni che ne riconducessero gli effetti entro ambiti di stretta legalità. L'Anarcano , ad esempio, considerava la confisca latae sententia contraria allo ius naturae e negava la liceità della condanna post mortem ammettendo la capacità di donare, testare e alienare del presunto eretico. Ancora De Vio avvalorava l'obbligo della sentenza prima dell'acquisizione fiscale dei beni del condannato e insisteva sul fatto che il reo poteva considerarsi obbligato solo ad assolvere una pena regolarmente prescritta non certo ad infliggersela spontaneamente. Fu poi Budè a sferrare l'attacco definitivo contro le leggi che colpivano gli eredi dei condannati per eresia nel Commento alle Pandectae del 1508 nel quale definiva la pena della confisca una norma orrenda estranea alla tradizione romana e contraria ai fondamenti stessi della giustizia. Eppure una revisione generale delle posizioni finora quasi unanimemente condivise, in materia d'Inquisizione, sembra attraversare la storiografia più recente . Su di essa è sembrato doveroso concentrare l'attenzione per comprendere i nuovi sviluppi delle attuali ricerche. Alla luce di questi studi la terminologia inquisitoriale avrebbe fuorviato non pochi studiosi contribuendo alla diffusione di una ingiustificata cattiva fama dell'istituzione che è durata per secoli. Il Sant'Ufficio non appare più, oggi come un tunnel di errori, abusi e violazioni dei diritti umani ma l'unico tribunale dell'epoca a garantire l'osservanza di un codice giuridico moderato e una prassi procedurale uniforme. Questi studi dimostrano come solo una piccola percentuale dei processi di fede si concluse, effettivamente, con la pena di morte e come, nelle sentenze, predominassero pene molto lievi. Il processo, del resto, assumeva connotati altamente garantisti concedendosi agli imputati la possibilità di chiedere il cambiamento della sede in caso di corruzione dell'inquisitore che si occupava del caso e di avvalersi sempre di un avvocato difensore. Queste tesi storiografiche lasciano, a mio avviso, non poche perplessità. La presunta clemenza del sacro tribunale viene largamente smentita oltre che dalle critiche dei giuristi dell'evo medievale e moderno da quei manuali che nel 500 rappresentarono il vademecum cui il giudice inquisitore avrebbe dovuto attenersi nell'amministrazione della giustizia. Il Directorium di Eymrich, poi ripreso e commentato dal Pena nel cinquecento, il Iudicale Inquisitorium di Umberto Locati ed il Sacro Arsenale di Eliso Masini , su cui pure si è concentrata la nostra analisi, rappresentano un esempio lampante in tal senso. Analizzarli ha significato comprendere, attraverso la forma della prassi giudiziaria, come la confisca dei beni venisse, effettivamente, applicata nel cinquecento. Dai manuali emerge che dopo la cattura del reo, nella stragrande maggioranza dei casi, la dimora dove abitava l'eretico o erano custodite cose eretiche era posta sotto sequestro. L'autorità politica, in collaborazione con quella ecclesiastica, entro un certo lasso di tempo, aveva l'obbligo di provvedere, a sue spese, al recupero di tutti i beni in essa rivenuti e, su autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, di procedere alla distruzione della casa, dalle fondamenta . La confisca trovava un'applicazione spietata. Secondo i tre inquisitori non era ammessa alcuna possibilità di pentimento "salvifico" per i penitenti che confessavano spontaneamente le loro colpe dopo l'emanazione della sentenza; non era prevista nessuna grazia neppure per i recidivi e per coloro che avevano persistito nell'eresia «per multo vel parvo tempore» e si ammetteva, per prassi, la possibilità di procedere alla pubblicazione dei beni anche dopo la morte dell'eretico «non obstante», in tal caso, il principio per cui «crimine morte estinguntur quo ad temporales pena» . I figli degli eretici subivano la punizione anche se ortodossi. Questo passaggio della pena da padre in figlio, di generazione in generazione, trovava un fondamento preciso. Si consideravano "intrasmissibili", infatti, solo le pene dette "puramente" personali, come ad esempio la pena di morte, per le quali era impossibile scorporare la responsabilità per il fatto dall'autore del reato, essendo , invece, la confisca una pena patrimoniale, si ammetteva la possibilità che fosse espiata «per alium» . La pena non trovava applicazione solo contro i beni dei membri eretici del clero i quali andavano semplicemente restituiti alla Chiesa che li aveva loro erogati a titolo di mero mantenimento . L'interesse della ricerca, nella seconda parte della tesi, si è spostato sulla ricostruzione normativa e i riflessi socio-dottrinali che la pena della confisca ebbe nel Regno di Napoli. Incrociando i manoscritti inediti conservati presso la Biblioteca Nazionale, le carte dell'Archivio di Stato e i processi dell'Archivio diocesano si è potuto evincere che la storia della confisca dei beni nel Viceregno ha assunto connotati del tutto particolari intrecciandosi, inevitabilmente, con le travagliate vicende relative all'introduzione in esso della Santa Inquisizione. Per la prima tipologia di fonti particolarmente rilevanti appaiono, tra gli altri, gli scritti inediti di Rubino , Parrino , Gio Battista Giotti e Pietro Di Fusco , e i notamenti e le carte sciolte dell'Archivio di Stato quanto, invece, alla seconda tipologia lo spoglio dei processi del fondo Sant'Ufficio ha riportato in luce casi processuali di rilevantissimo significato. L'obbiettivo è stato quello di scardinare le tesi di quanti, semplicisticamente, liquidavano la centralità acquisita, nel napoletano, dai vescovi nella cura dell'ortodossia con la sufficienza della giurisdizione ordinaria alle cause di fede della città e quella di quanti, invece, riconducevano i loro poteri straordinari ad una delega segreta di Roma volta ad eludere l'opposizione popolare. Da una parte, infatti, appare con certezza che il fulcro reale intorno al quale ruotarono i tumulti che tra il cinquecento ed il seicento si scatenarono nel Viceregno spagnolo fu la confisca dei beni, dall'altro dubbi si pongono anche quanto alla provenienza del conferimento del titolo di inquisitori ai vescovi. L'uso indiscriminato della pratica della confisca dei beni fu introdotto, per la prima volta a Napoli, in seguito dell'entrata in vigore della prammatica aragonese "De Blasphementibus" del 1481 . Ferdinando il Cattolico avocava a se la competenza di uno dei reati di eresia considerato baluardo della cura dell'ortodossia e sanciva la pena della confisca di un terzo del patrimonio contro i blasfemi con modalità processuali del tutto diverse da quelle tipicamente adottate nei tribunali vescovili. La prammatica fu successivamente riconfermata dal sovrano nel1483 . La necessità di intervenire sul tema, a distanza di soli due anni, era legata all'urgenza di rimarcare la competenza regia su un crimine che avrebbe consentito indirettamente di estendere, non poco, il controllo sui reati di fede. L'impegno profuso in ambito penale collideva con i privilegi che in materia di Inquisizione lo Stato da sempre aveva concesso ai Napoletani. Quando il sovrano cercò di introdurre, per la prima volta, il Sacro Tribunale nel 1510 fu costretto ad emanare un editto nel quale rendeva noto «que la Inquisition espanola se quietasse par el sossiego y bien universal de todo, y con esso la confiscation» . Il "Re Cattolicissimo", dovendo rinunciare ad un tribunale alla spagnola stabile, emanava, nello stesso periodo, due prammatiche che concretizzavano nei fatti quello che il rescritto reale si proponeva di scongiurare realizzando i fini per cui l'Inquisizione era nata in Spagna: l'espulsione "Hebreorum sive Iudaorum". La prima prammatica ordinava che gli Ebrei, di sesso sia maschile che femminile, a partire dai dieci anni di età si rendessero riconoscibili ai membri della comunità cristiana indossando al petto un segno di panno rosso. Chi avesse contravvenuto a tale disposizione avrebbe pagato una multa pari ad un oncia d'oro. La seconda, più rigida, vietava ogni forma di «commixtio atque conversatio» tra i perfidi Giudei e i probi Cristiani e stabiliva che tutti «gli Ebrei e i nuovamente convertiti di Puglia e Calabria» nonché quelli che se n'erano fuggiti da Spagna e si trovassero condnnati da Santo Officio […]» fossero espulsi irreversibilmente «a Civitate Neapolis totque Regno» . Stessa tattica quella di Carlo V. Dopo la sua ascesa al trono, il sovrano cercò nuovamente di introdurre un tribunale alla spagnola stabile ma i dissidi popolari furono a tal punto cruenti da costringerlo a riconfermare, almeno in via formale, l'attribuzione agli ordinari della competenza dei reati di fede . Il sovrano in realtà era forte delle Prammatiche con cui ribadiva le disposizioni contro i blasfemi e i Giudei sancite dal suo predecessore acuendone la portata. Del resto, anche Filippo II per sedare i tumulti contro l'Inquisizione sorti tra il 1564-5, da una parte, emise una declaration nella quale dichiarava di «non haver dicto che la dicta Cità y Reyno habbia havere la Inquisition en la forma de Hespana» dall'altra riconfermava la pena della confisca dei beni per i Giudei e i blasfemi emettendo una prammatica nella quale aumentava le pene stabilite in precedenza aggravandole con quattro anni di galera. L'uso della confisca era, dunque, indubbiamente fissato in norme di legge astratte ma ciò che rileva alla luce delle più recenti scoperte è che anche la sua applicazione fu costante tanto che la resistenza alla pena non fu solo quella di carattere teorico-culturale condotta dagli autori anticuriali ma assunse le vesti di una vera e propria opposizione sociale. La riottosità alla confisca accomunava tutti gli strati della società realizzando una solidarietà cetuale mai conosciuta prima. La motivazione che spingeva nobili e toghe a restare uniti contro il Sacro Tribunale era svincolato dai privilegi di casta e legato piuttosto all'uso spietato della confisca che colpiva incondizionatamente la nobiltà come personaggi più direttamente legati al sovrano, quando con la loro ricchezza minacciavano di ricoprire un ruolo politico prestigioso nel Regno. Per questo motivo anche i togati che, nella polemica anticuriale, avevano da sempre difeso gli interessi della corona a scapito delle rivendicazioni della Chiesa, appoggiarono l'opposizione in principio innescata dalla nobiltà e propagandarono, a mezzo stampa, una visione negativa dell'Inquisizione in generale che serviva a garantire l'appoggio del popolo nella lotta anticuriale. Attraverso quest'opera di propaganda i cittadini condivisero l'opposizione dei ceti alti all'instaurazione di un tribunale di fede diverso da quello ordinario. Non è un caso che, nel riferire gli avvenimenti del 1661, Rubino ribadisca che « la Città tutta e tutti li cittadini », senza alcuna distinzione di ceto, « erano pronti ad abbrusiar le case» se il tribunale dell'Inquisizione avesse permesso l'uso della confisca dei beni e aggiungeva, ancora, che era questo il motivo che induceva « tutte le persone di qualsivoglia che fusse» a desiderare « che lo tribunale de lo Santo Officio vi fusse ma che si esercitasse dall'Ordinario e cancellando anco affatto il nome di Inquisizione » . Scopo di tutti era avere la certezza « acciò che da tutti si venisse sicuro che mai in questa Fid.ma Città e Regno ci debba essere confiscatione di beni per delitti di heresia come si sperava inviolabilmente per futura notizia di questa Città Ill.ma » . Anche il Parrino nell'opera dal titolo Teatro eroico e politico de governi del vicerè di Napoli individuava i motivi della rivolta nella necessità da parte di tutto il popolo di difendersi dagli attacchi della confisca. Nella disamina dei fatti è chiara l'unione tra ceti che distinse l'intera vicenda. I cittadini, senza distinzione di casta, erano uniti per ottenere contro la confisca «un rimedio» che durasse « per sempre » . A suo dire, infatti, i sequestri comminati per motivi di fede, erano numerosi. La stessa rivolta del 1661 non era legata solo al più noto caso del conte di Mola, ma nel suo manoscritto l'autore ne annoverava almeno altri sei. Nel rendere noto che per sanare i conflitti del 1661 si supplicava sua Altezza di « stabilire che mai vi fosse confiscatione de beni […] et che si facesse supplicatio S. A in generale a mantenere senza novità e senza confiscatione di beni negli delitti di heresia», annoverava tra gli inquisiti a cui erano stati confiscati i beni ad opera dell'Inquisizione, anche il conte delle Noci, due gentiluomini che erano al suo servizio, Vincenzo Liguoro rappresentante della piazza di Porto « et in ogni modo li altri signori Liraldo, Mirabello et Alessandro di Cassano » . A ribadire le osservazioni del Rubino e del Parrino fu Giò Battista Giotti, nel suo Raggioni per la Fidelissima Città di Napoli negli Affari della Santa Inquisitione. Nel manoscritto l'Inquisizione era considerata pericolosa perché portava con se la pretesa di confiscare i beni agli eretici. « I litigi ogn'ora agitati» fungevano, per il Giotti, da astuti stratagemmi per confiscare beni e soddisfare interessi meramente fiscali. Spesso questi interessi erano il pretesto per « figurare macchie di Religione in alcuni degli stipiti donde le azioni provengono» col solo scopo di sottrarre beni a coloro contro i quali venivano intentate azioni legali. Per ottenerne l'appoggio nella lotta anticuriale il popolo minuto diventava il principale bersaglio dell'Inquisizione. Essendo, infatti, gli artigiani, i lazzari, i bottegai ecc. i più inclini a commettere, anche involontariamente, peccati come « la nefanda libidine, la golosità ne cibi ne giorni vietati, l'inosservanza de digiuni, la trascuraggine de divini ufficij ne tempi stabiliti, lo studio delle scienze divinatorie e l'esercitio delle vane superstizioni » per i quali era prevista la pena della confisca e la perdita di tutti i beni era opportuno restare uniti nella difesa di interessi civili comuni a tutti i ceti. Ma la dimostrazione più tangibile dell'uso della confisca e delle sue ripercussioni sociali risulta particolarmente evidente nei processi conservati presso il fondo Sant'Ufficio dell'Archivio diocesano di Napoli. Dall'esame di questi processi emergono numerosi dati. Oltre alla certezza che la confisca, contrariamente che nel resto d'Italia, veniva comminata anche dal tribunale ordinario, il primo dato che salta agli occhi è che nel Regno la confisca dei beni colpiva gli Ebrei e i nobili locali per non trovare alcuna applicazione contro eretici "maggiori", come i Luterani, per i quali il tribunale del Sant'Ufficio era stato riformato con il Concilio di Trento. Appare desumibile, inoltre, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza della dottrina, accanto alla Curia vescovile esisteva, nel Regno, un tribunale delegato del Sant'Ufficio con giurisdizione, competenze e apparati autonomi. I processi contro i seguaci di religioni eterodosse, infine, a differenza di quanto sostenuto, ancora una volta, dagli autori anticuriali, erano molto numerosi. Se, infatti, nei loro manoscritti il candore di fede dimostrato dai Napoletani giustificava le esenzioni e i privilegi concessi dai sovrani e li induceva ad ammettere l'uso di procedure straordinarie solo contro Ebrei e Saraceni bersagli dell'Inquisizione spagnola, la presenza di processi contro luterani, calvinisti, anabattisti, greci-ortodossi, e perfino seguaci di Zwingli di cui l'Archivio diocesano è pieno, dimostrerebbe quanto l'eterodossia fosse, invece, radicata nel Regno. Il primo processo preso in esame è quello condotto dal ministro delegato del Sant'Ufficio di Roma Carlo Baldino che ha come protagonista Gio' Cola de Marinis barone del Cilento . Il processo risale al febbraio del 1587. I capi d'accusa contestati sono molteplici. All'accusa di «non aver compiuto quanto necessario alla salute dell'anima» si aggiungono quella «di non avere distinto il Paradiso da lo Inferno e dunque il bene da lo male; di non aver fatto astinenza né digiunato nei giorni stabiliti considerandoli abusi del Papa e della Madre Chiesa; di aver negato l'adorazione de' Santi ch'essa è idolatria; di non aver creduto alla necessità de' sacramenti ma solo alla parola del vangelo; di non aver creduto al sacramento della comunione e nella consustanziazione del Corpo di Cristo nell'eucarestia». Nell'abiura cui fu sottoposto, il De Marinis riporta un dato interessante ai fini della ricerca. Racconta, infatti, che «havendo fatto resolutione di far bona confessione generale» si era recato «dal P. R. de li Regolari Santo Apostolo di Napoli» il quale «havendo preso da me tutto il fatto mi dicea ch'era mia absoluto bene per non subjre li tormenti e la confiscatione confessar a l'altrui chi m'havea adescato per l'absolutione da simili eccessi […]». Era questo timore che l'aveva indotto a recarsi «prontamente a cercar perdono a N.S. Dio alla Santa Madre Chiesa » e a confessare « tutto il fatto […] e tutti li complici […] a V.S. come ministro de lo Santo Officio». Per quanto il processo si sia in effetti concluso con l'assoluzione dell'imputato dall'ultima affermazione riportata si desumono due dati interessanti. Inanzitutto contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia più risalente appare chiaro che nel Regno le cause di fede erano controllate anche da uffici dell'Inquisizione stabili, sostanzialmente autonomi dalla Curia vescovile e dipendenti direttamente dalla Congregazione del Santo Ufficio di Roma. Di poi l'altra osservazione riguarda la normalità con cui veniva avvertita la pena della confisca dei beni dagli "addetti alla confessione" la quale, alla stregua dei "tormenti", appariva quasi una tappa obbligata del processo inquisitorio. Le accuse imputate al De Marinis lo accostano ad un Luterano e, di fatti, dall'esame di altre carte processuali contenute nell'Archivio diocesano e prese in esame in questa sede, si profilava l'esistenza a Napoli, tra il cinquecento ed il seicento di una folta comunità di luterani e calvinisti che predicavano e diffondevano i loro dogmi tra gli strati più disparati della società. Luterano era Sigismondo Chemer , sponte comparente, giunto a Napoli da Norimberga per frequentare l'università, il quale denunciava all'Inquisitore di essere Luterano « da che havea havuto cognizione et uso di ragione ». Il Chemer confessava di aver continuato a vivere ereticamente « et a sequitare queglia vita et a essere hereticissimo» fino a sei mesi prima della sua spontanea comparizione. In particolare non aveva mai creduto alla potestà del Pontefice ed alla necessità delle indulgenze il che lo aveva indotto a non rispettare le censure e i divieti imposti dalla Chiesa; non aveva mai venerato le immagini dei Santi giacchè, non esistendo il Purgatorio, non era necessaria la loro intercessione per accedere al Paradiso e, quanto ai sacramenti, egli aveva creduto nella sacralità del solo battesimo e dell'eucarestia e, per questo motivo, aveva deciso di non sottoporsi alla confermazione. Per il resto confessava di mangiare carne di venerdì, sabato, nelle vigilie e nei giorni proibiti disprezzando i precetti papali, e di comunicarsi non secondo l'uso cristiano ma sub utraque spetie. Il Chemer raccontava di aver sempre approvato quei dogmi al punto da diffonderli « oppugnando e contrastando alla fede cattolica […]». Luterano era anche Joannes Ruf, di dicotto anni, proveniente da Villa Keinign un paese lontano circa otto leghe da Norimberga. Il ragazzo era nato da padre luterano e mamma cristiana e resiedeva in Napoli in via Toledo presso il maestro Lorenzo Flamengo per il quale esercitava la professione di scrivano. Dal racconto del Ruf emerge che era stato il padre ad iniziarlo alla nuova setta sicchè sin da piccolo aveva cominciato a confessarsi e a comunicarsi nel modo dei luterani. In particolare egli si confessava in generale senza esprimere i peccati singolarmente e dicendo « io me confesso haver peccato innanzi a Dio et innanzi al mondo con pregar Iddio di volere perdonare con animo di voler essere migliore per l'avvenire». Quanto al sacramento dell'eucarestia per ben cinque volte si era comunicato sub utraque spetie cioè senza credere che « sotto la spetie del pane e del vino fosse il vero corpo e sangue di Christo » opinione che aveva mantenuto fino al giorno del suo interrogatorio. Luterano, infine, Stefano Orellio , anch'egli, come gli altri, sponte comparente, venuto, apposta nel Regno per convertirsi. I capi di imputazione che gravavano su di lui erano molteplici. Al tedesco veniva obiettato di non aver creduto che Gesù Cristo fosse Dio « né che fusse stato di verginità concetto » ma di aver sostenuto e divulgato che era un uomo nato, come tutti gli altri, dalla congiunzione carnale tra Maria e Giuseppe. Come gli altri Luterani aveva dubitato che oltre all'inferno per i cattivi e al paradiso per i buoni esistesse il purgatorio per coloro che non avessero integralmente espiato i peccati sulla terra e non aveva mai prestato fede all'intercessione dei Santi considerando idolatria omaggiarne le immagini. Condivideva, del resto, con gli altri membri dell'empia setta a cui apparteneva, l'opinione per cui nell'ostia non c'era il vero corpo di Cristo «ma un poco di pasta cossì fatta» e veniva accusato, infine, di aver negato la potestà del Sommo Pontefice di ordinare le indulgenze additandolo, nei suoi sermoni pubblici, come l'anticristo inviato dal male. Il luterano aveva divulgato tutte queste credenze invitando i cattolici a contravvenire ai divieti della Chiesa. Tali divieti, non essendo supportati da alcuna autorità, potevano essere liberamente violati essendo lecito mangiare carne, latticini e gli altri cibi proibiti nei giorni dedicati al Signore. Al di là dei capi d'imputazione, ciò che si evince nei processi esaminati è che nonostante la molteplicità e la particolare gravità delle accuse mosse, le sentenze definitive di condanna apparivano particolarmente miti rispetto a quelle comminate dai tribunali delegati romani per gli stessi casi. I tre Luterani, del resto, erano stati indotti a presentarsi spontaneamente al tribunale di fede per confessare la propria eresia dopo aver soggiornato per circa sei mesi nella casa del vescovo, consultore della santa fede nonché inquisitore. Se ne deduce che per il controllo dell'eresia luterana nel Viceregno era stata escogitata una particolare procedura. I prelati che avessero avuto notizia, durante la confessione, di sospetti di luteranesimo avevano l'obbligo di informare il consultore della congregazione della fede, normalmente il vescovo, affinchè chiamasse a se la persona sospetta e cercasse, in un lasso di tempo non superiore ai sei mesi, di convertirla al cristianesimo. Se la conversione aveva buon esito, il convertito veniva indotto a sottoporsi ad un processo inquisitorio nel quale la confessione spontanea e la certezza della conversione fondavano la sentenza per assoluzione dalle pene maggiori, compresa quella di confisca dei beni, le quali venivano, normalemente, commutate in penitenze pubbliche come monito per gli altri eretici. Più complessa la ricostruzione del processo contro il duca salernitano Giovanni Sabbato Califre . L'accusa mossa era quella di bigamia. Il caso partiva dalla confessione resa da Valenzia Formisano, seconda moglie del Califre, al parroco del suo paese. Contro il Califre veniva aperto d'ufficio un processo che vedeva la comparizione di numerose persone. Chiusa la fase istruttoria apparve indubitabile che il duca contratto due matrimoni. Le deposizioni della difesa non bastarono ad evitargli una sentenza di condanna in contumacia. L'Arcivescovo fu irremovibile: « ipsum excomunicamus et intimamus confiscationem bonorum». La vertenza passava ad "ministrum aerarium fiscalem causarij". Citato a giudizio, questa volta il Califre decise di comparire all'udienza. In questo modo sperava di ottenere, attraverso la denuncia di persone sospette, la commutazione del sequestro dei beni con una pena di minore entità. Per le denunce e la confessione rese il Califre veniva, assolto « dalla scomunica maggiore, et tutte le altre censure, confiscationi et pene» a lui imposte, per essere condannato « a servire per remiero nelle Regie Galere per anni cinque prossimi continui» lasso di tempo dopo il quale le autorità si impegnavano a «rilasciare il sopravvenuto sequestro». Rileva nel processo che l'interrogatorio del vescovo era sempre seguito da uno del "Reggente" e che, dopo la condanna, il caso si aprì di nuovo questa volta "D.Nos Regentes et iudices Vicariae" rei di aver liberamente modificato la pena imposta per una causa già conclusa. A suscitare la controversia fu un ordine del duca D'Ossuna con il quale, probabilmente per l'intercessione del fratello e del suocero del Califre nonché di membri influenti del casale, dopo appena quattordici giorni di permanenza, il condannato fu fatto prelevare dalla galera per essere ricondotto nelle carceri della Vicaria. La giustificazione dell'ordine risiedeva nelle condizioni di salute dell'uomo. L'autorità politica, in realtà, subiva le pressioni della nobiltà napoletana ma cercava, allo stesso tempo, di protrarre quanto più a lungo possibile nel tempo gli effetti della pena. La sentenza emessa in secondo grado, infatti, aveva visto la commutazione della condanna dalla scomunica maggiore a cinque anni di triremi ma l'esenzione dalla confisca dei beni era stata solo parziale. A ben guardare, si prevedeva che la restituzione del patrimonio al Califre e l'annullamento del sequestro dovessero eseguirsi solo allo scadere della pena. Il che significava che, in caso di morte del duca prima dei cinque anni, cosa altamente probabile sulle galere, il legittimo successore nella titolarità dei suoi beni dovesse considerarsi l'ultimo che ne aveva detenuto il possesso e quindi, in questo caso, il fisco cui ne spettava, nel frattempo, il godimento e l'usufrutto. Spinti dalle pressioni della nobiltà, gli ufficiali regi avevano cercato di sedare gli animi con una parziale e limitata modifica della sentenza che serviva anche a scongiurare il tentativo dei membri del casale di chiederne l'annullamento, in ultima istanza, direttamente al Papa. Ma, placati gli animi, il casato dovette presto ritirare il suo intento. La sentenza conclusiva, emessa nelle persone di «Alessandro Bosolino in spiritualibus e temporali bus vicarius et officilibus vobis Ill.bus Dnõs Regenti, iudicibus Magnae Curiae Vicariae Neapolitana ac alijs», chiudeva definitivamente la questione ed eliminava ogni dubbio. Si stabiliva che per la salute della sua anima Giovanni Sabato Califre dovesse essere restituito alle triremi o quinqueremi regie essendo «nullum et impossibile appellari ad Summum Pontificem». Nel riconfermare la pena alla galera precedentemente imposta i giudici affermavano che il monitorio regio era nullo e nessun intervento era più possibile tanto ai secolari quanto al Papa perché la pena era già stata mutata una volta «ab declaratione excomunicationis» e perché «spettavit ac spectat cognitio huiusmodi criminis in Tribunalis S. O.» rientrando questa «heresis suspicione in abusu sacramenti matrimoni». Che il reale interesse fosse quello di ottenere il repentino dissequestro dei beni era dimostrato dal fatto che nella sentenza definitiva emessa dal tribunale in composizione mista l'impossibilità di commutare ulteriormente la pena era fondata su norme di diritto fiscale che, a quanto pare, «nec impugnationibus nolle ullo modo consentire in iudice nec potest componendi». Si conclusero con la condanna alla confisca anche i processi contro Giovan Giacomo Corcione e Francesco Castaldo accusati di ebraismo ratione peccati . Il caso si apriva per la denuncia di un certo Giovan Battista Ristaldo il quale, per discolparsi dai sospetti di eresia che cominciavano ad annidarsi sul suo conto, sviava l'attenzione dell'inquisitore su Corcione della Fragola e l'amico Castaldo. Era «cosa nota » affermava il denunciante che il Corcione « non senta bene de fide poiché porta molte profetie per provare che ancora non sia venuto il Messia». Secondo le deposizioni d'accusa era abitudine del Corcione «strappare l'ostia consacrata» e, di persona, aveva potuto assistere ad un rito nel quale l'ostia veniva «strappata havendola sopra andato con il corpo […] dicendola Idolo la quale ostia era stata consacrata da un prete de Fragola che non me volse nominare […] decendomi de più che avrebbe voluto trovare un altro che havesse voluto fare quell'esperientia». Il Corcione, appariva come il capo carismatico della setta. Conosceva, a memoria, «la gabbalà» e parlava perfettamente la «lingua canina». Quanto al Castaldo molti abitanti della Fragola, sua città natale, davano certezza della sua adesione alla setta ebraica. Gli ebrei non violavano solo il divieto di «conversatio atque commistio» con i cristiani sancito sia dall'Inquisizione romana che da quella spagnola ma si rendevano colpevoli di un delitto ancora più pesante. Avevano contrastato la fede cattolica cercando di convertire all'ebraismo individui pienamente cristiani. Per questo « in Curia Archiepti Neapolitana» nella vertenza «in super dnos fiscum inquirente contra Joannes Jacomo Corcione et Joannes Fracisco Castaldo inquisiti causae haeresiae» il «ministrum aerarium fiscalem causarij» intimava la confisca in modo anomalo. Precisava infatti l'ufficiale fiscale che gli eretici non venivano condannati a deporre al fisco l'«unum quartum» dei loro beni, come era previsto dalle Prammatiche reali precedentemente emesse, ma intimava «confisca ipsorum omnium honorum» per aver cercato di convertire altri cristiani.In conclusione, dall'esame condotto sui processi dell'Archivio diocesano appare indubitabile che la confisca dei beni nel Regno era regolarmente applicata solo per nobili ed Ebrei. Ma occorre porre attenzione su altri particolari interessanti. In primis i processi vescovili che seguivano la via straordinaria non erano affidati alla competenza generale della Curia ma ad un particolare ufficio preposto alla materia fiscale; altro dato da non sottovalutare, è che i presbiteri a cui venivano affidati i casi, erano indicati nelle formule di rito con il titolo non meglio precisato di ministri in spiritualibus et temporalibus de lo Santo Officio. Ciò, se si tiene conto della diversa dicitura usata per l'individuazione dei ministri con le stesse competenze nei tribunali delegati di Roma o dei tribunali alla spagnola, connota di una complessità ancora maggiore la struttura dell'inquisizione napoletana. Sembrerebbe, infatti, che i ministri in questione avessero ricevuto una doppia delega, sia ecclesiastica che temporale. Essi erano al tempo stesso servitori del vicerè di Napoli e commissari spetialiter deputati della Congregazione della Santa Inquisizione. Si realizzava una tipologia processuale che aveva alla base l' anomala struttura giudiziaria di un tribunale di fede misto che tendeva indubbiamente ad un prototipo più vicino per forma alla sua configurazione spagnola. La giustificazione a questo comportamento probabilmente risiedeva nella volontà dello Stato spagnolo di rivestire il ruolo di promotore delle campagne antiereticali sia stimolando il clero locale sia cercando di controllare indirettamente i tribunali di fede. Non potendo instaurare un tribunale di fede autonomo, l'intento, in pratica, era quello di rigettare il titolo di " Commissario delegato della Santa Inquisizione" imponendo, nello stesso tempo, nei tribunali di fede una presenza che fosse anche laica. Del resto nota è la tendenza spagnola di eleggere vescovi quali inquisitori. Se la teoria sposata fosse giusta verrebbe scardinata la tesi di Elena Brambilla e di tutti coloro che vedono in un accordo segreto tra i vescovi e Roma lo strumento che legittimava la Curia ad usare le procedure straordinarie nelle cause di fede. Semmai, secondo questa ricostruzione era l'appoggio del governo e la sua fiera resistenza ad un Inquisizione quale quella romana che estrometteva il potere laico dalla compagine giudiziaria a rendere la cura dell'ortodossia quasi di totale appannaggio della Curia vescovile. A questi elementi occorre aggiungere che con le prammatiche aventi ad oggetto il reato di blasfemia e quelle contro i Giudei i sovrani avevano mostrato chiaramente l'intento di mantenere il controllo delle cause di fede. In una prammatica, in particolare, ad esempio, si incaricava il Tribunale della Vicaria, le Udienze e tutti gli Ufficiali del Regno «si Regj che Baronali […] che usino tutta la sopraffina attenzione nella Inquisizione che dallo Stato si farà de' bestemmiatori » . Il Giotti, invece, nel descrivere cosa dovesse intendersi per modo di procedere ordinario alludeva ad una stretta collaborazione tra vescovi Collaterale e Vicerè. Chi amministrava le cause di fede, infatti, aveva il potere di imbastire autonomamente le cause, di provvedere alle indagini, di raccogliere gli elementi probatori, di valutarli ai fini della sentenza e anche quello di scegliere le pene più adatte al caso ma la condanna, doveva necessariamente essere sottoposta al vaglio del Consiglio Collaterale che, a sua volta, se lo riteneva opportuno, dava il beneplacito per l'esecuzione della sentenza su espressa autorizzazione del Vicerè. Questa stretta collaborazione è chiara nelle sue pagine. Scrive ad esempio, relativamente ad un caso, che «l'Arcivescovo cosentino dimanda a Regj del Collaterale di ottenere la castigatione di alcuni macchiati di eresia negli anni stessi, e scrittane parere favorevole al vicerè, rispose che presti all'Arcivescovo aiuto con che non si comandino se non come le leggi civili vogliono e nel tempo medesimo si ritrova, che il vescovo di Mottola procede contro il Barone di quel luogo come similmente in altri affari il Prelato di Agnola» . Ma il Giotti riporta anche molti esempi di inquisiti di religione catturati dalla Vicaria criminale e « con decreti poi agli ordinari conceduti» . A ciò si aggiunge che in un anonimo manoscritto dei primi del seicento nel difendere l'Inquisizione romana l'Autore affermava che la prassi di eleggere vescovi come inquisitori controllati dal sovrano di Spagna si perpetrò nei secoli. Questa consuetudine era stata introdotta da Ferdinando il Cattolico, si era rinnovata anche ai tempi di Carlo V e di Filippo II, ed era seguita fino al 1560 quando vennero eletti inquisitori il D.V. Bernardino Croce e nel 1561 il D.V. Annibale Moles al fine di «confiscare le robbe de condannati per delitti di eresia». La praticasi era perpetrata, «segretamente nelli secoli» da quando don Pietro da Toledo aveva emesso un editto in materia di Inquisizione nel quale stabiliva che non poteva ammettersi, nella cura dell'ortodossia, altro ministro « in questa occupazione più utile per colui che la esercita che amabile a chi l'esercita che tra i molti vescovi dependenti da Regj» . Il Parrino, infine, nella sua ricostruzione della rivolta del 1661, riporta un altro dato "anomalo". Racconta, infatti, che, durante i tumulti, il vicerè, per impedire al popolo l'invio di un'ambasceria al sovrano volta ad ottenere la liberazione dei beni del conte di Mola e degli altri eretici catturati da monsignor Piazza, aveva precisato che nelle cause di fede «non si dovesse andare da sua Altezza a supplicarlo per i detti dissequestri in osservanza alla bolla di Giulio III» in quanto il sovrano aveva rimesso ogni competenza su questa materia al Tribunale della Suprema Camera e «per prendere tali decisioni è convenevole andare dalla Camera né da altro Tribunale». Dalle analisi condotte risulta suffragata l'opinione di Adriano Prosperi sull'impossibilità di ricondurre l'Inquisizione ad un ideal tipo astratto dal momento che la sua struttura muterebbe in base alla realtà sociale politica e culturale in cui il tribunale attecchiva. Di certo appare improbabile, per la particolare organizzazione politica della corona spagnola, che i vescovi, nel Regno, operassero senza exequatur regio e alle dipendenze di Roma . Se il tribunale vescovile fosse stato dipendente unicamente da Roma e autorizzato a procedere da una delega segreta del Papa non si capirebbe il motivo dei conflitti, attestati dal Romeo , sorti con il tribunale delegato quando con la nomina ad inquisitore di Carlo Baldino esso fu introdotto, stabilmente, nel Regno. In conclusione è possibile attestare la presenza nel Regno di un' Inquisizione ibrida sottoposta al capillare controllo regio ma non completamente staccata dalla congregazione romana alle cui dipendenze rimaneva, nei fatti, il clero al contrario di quanto avveniva nell'Inquisizione spagnola.
La condizione della donna nella famiglia, e più in generale nel diritto privato, nel vasto arco di tempo che abbraccia il medioevo e la prima età moderna, è stata oggetto, come ben noto, di cospicue ricerche, da parte di una ricchissima storiografia giuridica che spazia dall'Ottocento fino ai giorni nostri. Per l'altomedievo, sono certamente fondamentali gli studi più risalenti di Criscuolo, Schupfer e Besta, accanto a quelli via via più recenti di Falletti, Bellomo, Cortese, di Cavanna, Arcari e Guerra Medici sulla condizione della donna nei diritti germanici e in particolare sulle rovinose conseguenze della discesa in Italia dei longobardi, che pure avevano in parte perso quell'originaria selvatichezza che li aveva fatti apparire, in età augustea, come l'espressione più feroce della ferocia germanica. Dall'Editto di Rotari alle poche norme di Astolfo, come anche nella prassi dei privati è stata infatti colta da un lato la sopravvivenza di antichi costumi di vita, ma anche una certa inclinazione ad un vivere più civile e l'immagine, sempre più nitida, di una nuova dimensione spirituale. E' stato ampiamente messo in luce, anche nelle pagine scritte al riguardo da Padoa Schioppa e Villata, come nel quadro della famiglia longobarda la donna costituiva un valore da tutelare e da difendere come persona fragile e disadatta alle armi ma ancor più come madre o futura madre di guerrieri: un valore che non era determinato da una personale condizione della donna, come avveniva invece per gli uomini, padri o figli che fossero, ma che dipendeva dalla dignità e dalla nobiltà della stirpe del parente più prossimo; la sua vita, in sostanza, non era altro che un riflesso di quella del padre, del fratello, del marito o addirittura del figlio. Tutti costoro avevano un potere su di lei, ma solo uno, normalmente il padre, disponeva del mundio, un potere più specifico, a prevalente contenuto patrimoniale, come hanno dimostrato le ricerche di Cortese, potere che legittimava alla riscossione del prezzo della donna in caso di uccisione o di matrimonio, in tal caso, detto per inciso, pagato dallo sposo con la consegna di un cavallo. E' stato ampiamente messo in luce come il mundoaldo interveniva con il suo consenso in tutti gli affari patrimoniali della donna, che era titolare della capacità giuridica ma non di quella di agire in autonomia. Agli uomini della famiglia in generale spettava invece il potere di uccidere la donna libera che si univa in matrimonio con un servo o che commetteva adulterio, di respingere con giuramento un'accusa di adulterio mossa contro di lei e di intervenire, insieme al mundoaldo, in tutti gli atti di straordinaria amministrazione coinvolgenti i beni femminili. Il padre e il fratello potevano poi costringere la donna al matrimonio, darla in sposa anche prima dell'età legittima di 12 anni e muoverle l'accusa di stregoneria, già allora la più pesante per il genus femminile, come ben evidenziato da Paola Arcari. Priva com'era di una sua distinta e completa personalità giuridica, la figlia era esclusa dalla successione paterna, perlomeno in presenza di fratelli, ma se andava a nozze riceveva dal padre un faderfio, per lo più modesto, da offrire allo sposo. La storiografia ha però anche messo in risalto come molti di questi costumi tradizionali col tempo si affinarono e si ingentilirono, grazie soprattutto all'influenza spiritualizzante e mitigatrice della Chiesa alla quale non fu estranea specialmente l'ultima legislazione longobarda: gli studi di Brandileone, Calasso e Zanetti hanno in particolare evidenziato come si sviluppa una concezione più matura e metafisica del matrimonio, che vede la donna divenire parte attiva nella cerimonia nuziale attraverso il rito suggestivo della subarrhatio cum anulo. Col tempo poi anche il marito comincia ad offrire doni alla moglie in occasione delle nozze, se non altro come pretium pudicitiae, ed evidentemente questo iniziò ad avvenire, in certi casi, con tale larghezza e generosità che Liutprando fu costretto a fissare la misura massima della donazione nuziale consentita nella famosa quarta parte del patrimonio dello sposo. Anche il ruolo del mundoaldo si trasforma nel tempo, tanto che in epoca carolingia si diffonde la nuova denominazione di advocatus e di defensor, a dimostrare con tutta evidenza le funzioni divenute prevalenti, una terminologia destinata a lunga fortuna nell'uso linguistico di molte regioni italiane, come hanno dimostrato le ricerche di Gaudenzi e di Solmi, quelle di Viora e Marongiu e più recentemente gli studi di Bellomo e De Stefano. Al confronto con la donna longobarda, quella che viveva secondo la legge romana godeva in linea di principio di una maggiore libertà: erano scomparsi i vecchi matrimoni cum manu, si era affievolita la straripante autorità paterna, mentre si era ampliata la capacità patrimoniale femminile e definita in senso più favorevole la successione mortis causa. Ma se questo era lo status fissato in una legislazione conosciuta in modo sempre più frammentario e indiretto, è stato messo in luce, in particolare da Vismara e Bellomo, come nella pratica quotidiana anche la vita della donna vivente a legge romana non era certamente né libera né facile, condizionata dalle punte polemiche della predicazione cristiana che la collocava pur sempre in uno stato di inferiorità rispetto all'uomo, ma anche per la sopravvivenza di antiche consuetudini o la formazione di nuove che la costringevano inesorabilmente all'autorità del padre o del marito negli atti e nei momenti determinanti della sua esistenza. Nell'età successiva al Mille, quando il vivere civile comincia ad organizzarsi in forme e modi nuovi, la sfavorevole considerazione della donna non subisce dal canto suo grossi scossoni, sia nel tessuto originale delle istituzioni comunali che nel contesto monolitico del Regno di Sicilia. Abbiamo qui i numerosi studi di Roberti, Torelli, Ungari, quelli di Ullmann, Cammarosano, Tabacco, di Vismara e di Bellomo, fino alle ricerche di Hilaire, Lefebvre, Villata e anche il suggestivo Male moyen age di Duby, che hanno tutti sottolineato come lo status femminile veniva a riflettere, sotto molteplici profili, il ruolo che l'ambiente circostante assegnava ora alla donna nel vivere quotidiano, subordinata agli interessi del gruppo e alla ragion di famiglia, in un'epoca di forte tensione creativa tra le consorterie che davano vita o difendevano i nuovi ordinamenti pubblici. Una ragion di famiglia, come è stato ampiamente messo in risalto, preludio e prima immagine della ragion di Stato; una ragione di famiglia che si affermava non solo per le più ambiziose finalità politiche dell'intero gruppo ma anche in vista di quelle più concretamente economiche. E' stato in proposito posto in rilievo, specialmente da Santarelli, Padoa Schioppa e Piergiovanni, non solo il ruolo della grande tradizione mercantile italiana, ma anche come sullo sfondo e alla base di qualsiasi attività agricola, artigianale e commerciale s'intravvedeva sempre la famiglia, col peso determinante del suo patrimonio immobiliare e della sua posizione sociale. Per una ragione di famiglia che era dunque alimentata da finalità politiche e da interessi economici, la donna non poteva sperare in una considerazione della sua persona e della sua personalità giuridica che non la vedesse subordinata agli obiettivi del casato. Finché restava nella casa paterna era assoggettata al forte potere dei genitori che comportava in generale la facoltà di correggere e di educare la figlia e di esigere da lei la debita reverentia, secondo modalità su cui si è soffermata in particolare l'attenzione di Cavina. Più nello specifico gravava sulla figlia la patria potestas del padre o del nonno, se ancora in vita, con la conseguenza che non poteva disporre di un suo patrimonio ma al limite di un modesto peculium, che comprendeva beni di varia provenienza e godibili in varia misura, in ogni caso non incrementabile con l'esercizio di arti o di mestieri, come avveniva invece per i fratelli, così come hanno sottolineato soprattutto le ricerche di Bellomo. Va da sé che la figlia non poteva acquistare nulla contro il volere paterno. A dispetto poi di una plurisecolare normativa canonistica sul libero consenso matrimoniale, su cui restano sempre basilari i contributi di Esmein e in tempi meno lontani quelli di Gaudemet, era sempre il padre che decideva se e a chi dare la figlia in sposa, in alternativa a chiuderla in convento, decisione spesso presa quando la figlia era ancora in fasce, e in ogni caso senza tenere conto, per lo più, delle sue inclinazioni naturali, ma al solo fine di salvaguardare la compattezza del patrimonio, la preferenza per i figli maschi, il rispetto delle norme sul maggiorasco e la primogenitura e più in generale le superiori esigenze del sistema di cui la famiglia era parte integrante. Una volta entrata nella casa coniugale, a dispetto delle norme romanistiche che la volevano sottoposta a vita alla patria potestas, la donna passava sotto il potere del marito, titolare di uno ius corrigendi che consentiva il ricorso alla frusta oltre che alle mani, sia pure "temperatamente", come puntualizzava la dottrina canonistica sulle orme di S. Agostino. A sua consolazione, però, la donna aveva il diritto, un vero e proprio diritto, di ricevere, generalmente dal padre, una dote, e di solito la riceveva. Vero e proprio pilastro portante del diritto di famiglia tardo medievale e di antico regime, la dote ha attirato l'attenzione di larghissima parte della storiografia giuridica, a partire dai lavori più risalenti di Alibrandi, Ercole, Brandileone, quelli di Vaccari e di Vismara, fino agli studi più recenti di Bellomo, Romano, Pene Vidari e a quelli di Kirshner, Massetto, Storti e Valsecchi. E' così emerso, pur nell'estrema varietà delle normative locali e delle posizioni dottrinali, che la dote doveva essere congrua, cioè confacente alla dignità e alle ricchezze del casato, anche se non di rado, nella pratica, si riduceva ad una misera porzione del patrimonio di famiglia, spesso, per di più, soltanto promessa e mai consegnata, con l'accondiscendenza dello sposo che, pur di vantare una dote, accettava obtorto collo di confessare di averla materialmente ricevuta. Talvolta i beni dotali venivano corrisposti senza stima, ma più spesso se ne stimava il valore per non avere dubbi sul passaggio di proprietà al marito, dubbi che invece rimanevano troppo numerosi nel caso opposto, insieme a tutti i rischi che ne derivavano. La dote rappresentava il sostegno della comune vita familiare, il mezzo ad sustinenda onera matrimonii, come si esprimeva la dottrina, in sostanza la fonte alla quale attingere per le spese necessarie al vivere quotidiano. Ma è stato messo in luce come era anche e soprattutto una garanzia per la moglie di ricevere mantenimento e cure nella casa coniugale, al punto che non pochi giuristi arrivavano a mettere in dubbio l'obbligo del marito di fornire alimenti e medicine alla moglie non dotata o poco dotata; e anche chi ammetteva in ogni caso il dovere del marito al mantenimento, lo faceva per la considerazione che la moglie era pur sempre al suo servizio. Per via della sua destinazione la dote, benché passata nella proprietà del marito, era inalienabile, in forza di un divieto che, in linea di principio, non ammetteva né deroghe né eccezioni. E' stato però chiaramente messo in evidenza come i mariti avessero gioco abbastanza facile nell'aggirare i divieti, coinvolgendo le mogli nell'atto di vendita e convincendole, in un modo o in un altro, a giurare sul vangelo di non impugnare l'atto in futuro. E a scongiurare il rischio di un successivo, plausibile, pentimento della donna, interveniva anche il diritto canonico col divieto dello spergiuro, che veniva così a salvare al tempo stesso l'anima delle mogli pentite e la validità delle vendite concluse dai mariti. Ormai privata degli antichi donativi nuziali, venuti in odio agli statuti, consolata da una dote esigua, consegnata direttamente al marito e passata nella sua proprietà, la donna era tenuta a distanza anche dall'eredità paterna, vittima dell'esclusione per causa di dote, praticata quasi ovunque, tranne rare eccezioni, come hanno dimostrato le numerose ricerche di Viora, Bellomo, Romano, di Guerra Medici, Zorzoli, Danusso e Valsecchi. Se poi la donna sopravviveva al marito, a prescindere dalla presenza di figli comuni, rimaneva generalmente a vivere coi parenti dello sposo, nella migliore delle ipotesi, come evidenziato soprattutto da Vismara, in posizione di domna, domina et usufructuaria a lei assegnata nel testamento del coniuge; una prerogativa che, a condizione di una casta vedovanza, avrebbe dovuto assicurarle una discreta autonomia nell'amministrazione del patrimonio, ma che, in realtà, generava per lo più tensioni, litigi, disagi e solo raramente un quieto vivere. E' anche vero che la donna sopravvissuta al marito poteva fare la scelta di tornare nella casa dalla quale era uscita il giorno delle nozze, ma questo raramente accadeva nella pratica, poiché con la dote aveva perso ogni diritto sul patrimonio paterno e con la vedovanza ogni chance di riavere la dote dai parenti del marito e persino dai suoi stessi figli, come ben chiarito anche in alcuni studi di Massetto. Esclusa quasi del tutto, come abbiamo visto, dalla partecipazione alla vita pubblica e rinserrata tra le mura domestiche, nel ritmo di una vita che si può immaginare sì ricca di affetti, ma certamente anche di rancori, e sicuramente povera di grandi passioni e di grandi ideali, la donna finiva con l'apparire all'occhio impietoso del giurista come attaccatissima alle sue poche cose, patologicamente avara, secondo un epiteto ossessivamente ricorrente nella dottrina di tutta l'età del diritto comune; come pure, nell'immaginario collettivo, le si associava una forte connotazione di astuzia e di malizia che portava a dipingerla come facilissima agli inganni e ai tradimenti. Diverso era invece, come si sa, l'occhio del poeta, rivolto però più ad un modello e ad un ideale assoluto di bellezza e di perfezione, ben incarnato dalla donna cantata dal Dolce stil novo di Dante e Petrarca. Col declino dei comuni centro-settentrionali e al passaggio del Regno di Sicilia nelle mani di angioini e aragonesi, si allenta indubbiamente la tensione politica tipica della famiglia di stampo medievale, come hanno evidenziato specialmente Tamassia un secolo fa, e Barbagli, Klapish Zuber e Brambilla in anni più vicini: non viene certo meno l'unità del gruppo, simboleggiata dal patrimonio e dal blasone, non cede la tradizionale coesione interna, ma subisce un drastico ridimensionamento il ruolo politico del casato, a tutto vantaggio di un'esasperata valorizzazione del suo substrato patrimoniale. E' stato messo in rilievo come la dignitas della famiglia si conservava ormai soltanto per divitias, diminuiva col cadere delle fortune economiche e si perpetuava solo attraverso la persona e le virtù dei maschi. Se dunque era necessario ostentare ricchezze per godere di onore e di decoro, era opportuno che anche le donne di famiglia avessero, o perlomeno, esibissero patrimoni di un certo peso. Da un lato dunque l'esigenza di salvaguardare le apparenze, dall'altro quella di tutelare l'unità e la dignità della famiglia riducendo al minimo le fuoriuscite patrimoniali. Una duplice e contrastante necessità, animata in realtà da una comune radice ideale, che dava vita ai fenomeni tanto curiosi quanto significativi delle doti simulate, delle confessioni non veritiere di doti e delle doti inofficiose, tanto stigmatizzate da Giovan Battista de Luca e ampiamente illustrate da Bellomo oltre che da Tamassia: gli interessi del padre e dello sposo convergevano perfettamente in questi falsi, tutti e due appagati dal fatto che, agli occhi della comunità, la donna data e ricevuta in moglie apparisse dotata più di quanto avrebbe mai potuto sperare. Gradualmente, però, coi tempi che sempre richiedono i grandi cambiamenti, comincia a farsi strada una nuova coscienza civile, destinata a prendere corpo in dottrine volte a promuovere una condizione femminile sempre più coerente coi principi di ragione. Fu evidentemente decisivo l'impulso impresso dal pensiero giusnaturalistico che, tra Sei Settecento, pose la famiglia e le persone al centro di stimolanti riflessioni, diverse tra loro ma tutte ugualmente volte a favorire il delinearsi di nuovi modelli, come hanno evidenziato soprattutto Mochi Onory, Solari, Bellomo e Villata, anche nel recentissimo volume "Diritto e religione tra passato e futuro". In particolare secondo il pensiero di Grozio, che in parte riecheggia anche negli scritti di Pufendorf e di Thomasius, la società familiare sorgeva sulla base di un libero consenso, il potere di entrambi i genitori, dunque anche della madre, era un diritto naturale fondato sulla generazione e i reciproci diritti e doveri dei componenti erano incardinati nel diritto di natura. E' però John Locke il vero restauratore dell'ordine naturale nella famiglia, secondo la felice espressione di Solari, in quanto promotore della sola famiglia naturale anteriore e indipendente dallo Stato, una comunità di affetti in cui il potere domestico spettava in ugual misura ad entrambi i genitori e non nel loro interesse ma in quello esclusivo dei figli e delle figlie. L'uguaglianza permeava i rapporti tra marito e moglie, che costituivano la società coniugale non solo per procreare, mantenere ed educare i figli, ma per stringere tra loro un legame affettivo ed offrirsi reciprocamente aiuto e assistenza. Formulata nel tardo Seicento, fu una concezione veramente anticipatrice, destinata a larga fortuna nell'età dei lumi. Nella Francia dei philosophes Rousseau, Diderot e Voltaire concorderanno sulla necessità di riformare l'organizzazione familiare e di sottrarla al dispotismo religioso e patriarcale. Si faceva però ancora fatica a considerare i rapporti tra marito e moglie come ispirati a piena uguaglianza e si ribadiva il ruolo necessario dell'autorità maritale, salvo condannarne gli eccessi e gli abusi. Una convinzione questa che poggiava sulla pretesa disuguaglianza naturale dei sessi, in nome di una superiorità fisica e spirituale dell'uomo sulla donna, che però, almeno per Voltaire, poteva in certi casi ribaltarsi a favore della donna, se dimostrava di avere "più polso e più spirito di suo marito". In Italia, come si sa, fu Beccaria a criticare più di ogni altro l'organizzazione familiare coeva, mettendo in discussione, come ha rilevato Vismara, non la famiglia quale organismo etico, in cui si esprime l'aspirazione dell'uomo ad amare e ad essere amato, e la libertà e l'uguaglianza dei componenti, ma quel tipo tradizionale di famiglia in cui le funzioni politiche ed economiche avevano sopraffatto la libertà e la parità dei suoi membri, a scapito della vita affettiva. C'era dunque in pieno Settecento aria di rinnovamento e la netta consapevolezza della sua necessità. E sarà ai codici moderni, più che alla poco coerente legislazione settecentesca, che spetterà il compito, non facile, di tentare di realizzare, anche su questo terreno, l'ambizioso progetto di un radicale superamento del mondo medievale.
In questo lavoro abbiamo analizzato l'annata 1948 del quotidiano del Partito Comunista Italiano, «l'Unità», cercando di cogliere gli elementi che potevano contribuire a definire i confini dell'idea di patria che aveva il PCI. Abbiamo preso in considerazione articoli di fondo scritti dai massimi dirigenti del partito, articoli di personalità indipendenti candidatesi con il Fronte o di semplici simpatizzanti; abbiamo analizzato articoli non firmati, cioè considerati espressione del quotidiano nella sua interezza e alcuni disegni satirici. Abbiamo indagato le retoriche presenti in questi articoli, confrontandole con quelle dei testi canonici che hanno delineato l'idea della nazione italiana. Abbiamo collocato quest'analisi nel contesto dell'Italia del 1948, un anno decisivo per le sorti dell'Italia e per la storia del Partito Comunista Italiano. Abbiamo visto che il personaggio del traditore, fondamentale nelle narrazioni nazional-patriottiche del «canone risorgimentale» è diffusamente presente nelle pagine del quotidiano del PCI in funzione antigovernativa. Ciò non solo nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche dopo, quando il PCI cercava di riorganizzarsi dopo il disastroso esito delle elezioni e accusava la DC di non avere la volontà di applicare i principi sociali della Costituzione. L'accusa di tradimento sembra peraltro essere un elemento ricorrente nella visione del mondo del comunismo staliniano: il tradimento era ad esempio uno dei capi d'accusa che il partito comunista sovietico muoveva contro i dissidenti nel corso delle sue epurazioni. Il tradimento è anche la chiave di lettura con cui nel libro fatto redarre da Stalin per canonizzare la storia del comunismo sovietico, cioè Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS, del 1938, venivano interpretate tutte le deviazioni di destra e di sinistra: da Bucharin, a Zinov'iev, da Trockij a Tito.1 Lo stesso procedimento era all'opera nella ricostruzione della storia del PCI fatta redarre da Togliatti in occasione del trentennale del partito: Tasca e Bordiga erano definiti traditori della classe operaia, l'uno per «opportunismo», l'altro per «settarismo». La formula del tradimento era quindi tradizionalmente presente nella cultura marxista-lenista e i massimi dirigenti del PCI erano impregnati di questa mentalità. Molti studiosi che si sono cimentati nello studio del profilo culturale dei comunisti italiani hanno sottolineato questo aspetto: David Kertzer ad esempio ha sostenuto che «at the heart of the PCI's symbolic world was the Manichean tradition of the international Communist movement».2 Per Kertzer questa visione del mondo risaliva alle origini ottocentesche del movimento operaio ed aveva ancor più antiche radici cristiane. On one side lay good, on the other evil. On one side the Communists; on the other, the capitalists and imperialists, Fascists and traitors. On the side of all that is virtuous, the Soviet Union; on the side of all evil, the United States.3 Questa ideologia che portava a identificare i propri avversari come una rete di cospiratori era tipica, aggiunge Kertzer, della retorica del dopoguerra ed aveva un corrispettivo speculare nell'anticomunismo degli USA e dei suoi paesi satelliti, come l'Italia democristiana. Kertzer evidenzia inoltre che il simbolismo manicheo del linguaggio comunista raggiunse il suo acme nel dopoguerra, quando si ebbe la necessità di isolare un nemico interno, come nel caso di Tito in sede internazionale e nel caso Magnani-Cucchi in ambito nazionale. Da questa visione del mondo manichea per Kertzer derivava una «metafora militare», in virtù della quale lo scontro elettorale era letto dai comunisti attraverso un simbolismo militare e gli avversari politici erano identificati come forze reazionarie al servizio degli stranieri.4 Angelo Ventrone ha provato a leggere la storia italiana utilizzando la chiave di lettura del «nemico interno» come strumento di lotta politica. Per Ventrone questo modo di concepire la lotta politica risalirebbe alla prima guerra mondiale quando i neutralisti vennero definiti disfattisti, e prima ancora alla guerra di Libia, e arriverebbe fino ai nostri giorni, passando ovviamente per le elezioni del primo dopoguerra.5 Giuseppe Carlo Marino ha inquadrato il tema nel clima paranoico del PCI postbellico: spie, provocatori e traditori potevano nascondersi ovunque, tanto più in un partito che era diventato di massa, per questo bisognava predisporre criteri rigidi di selezione del personale militante e dirigente. Di qui l'istituzione delle scuole di partito e l'imposizione della pratica autobiografica, perché bisognava conoscere il passato dei militanti per capire se nella loro condotta di vita, nella loro estrazione sociale e familiare, potevano esservi i germi del tradimento. Tutto ciò rendeva necessario spingere alla delazione sistematica: i compagni che notavano elementi potenzialmente anti-comunisti dovevano senza indugio denunciarli alle autorità di partito: il colpevole sarebbe stato poi giudicato e, in caso di colpa grave, sottoposto ad un processo pubblico (cioè alla presenza dei compagni).6 Sempre Kertzer situa questa ricerca del nemico interno nello spazio del mito che caratterizza la sfera politica. Citando l'antropologo francese Raoul Girardet, tra i temi che strutturano i miti politici Kertzer individua quello dell'esistenza di un diavolo cospiratore; l'esistenza di un salvatore; l'arrivo di un'età dell'Oro.7 Per lo studioso americano questi miti sono inoltre al centro della tradizione cristiana, oltre che nell'ideologia del PCI. Per Kertzer i comunisti elaborarono questa mitologia in virtù della loro visione manichea della realtà e della storia, che li portava ad identificare nell'URSS il baluardo del bene, che avrebbe strenuamente combattuto contro il male, cioè il capitalismo e l'imperialismo che in questa fase erano identificati con gli USA.8 Non bisogna però dimenticare che questa visione manichea è presente soprattutto nella prima fase della guerra fredda. Altri studiosi hanno dimostrato che i comunisti non erano una monade nella società italiana ma erano ben inseriti in essa e anche loro furono influenzati dalla cultura di massa americana. Inoltre mito americano, mito sovietico e antiamericanismo erano immagini che erano state variamente presenti nei vari strati della società italiana nel corso del Novecento.9 Due riviste come Il Politecnico e Vie Nuove sono un'ottima testimonianza di questo fatto. Patrick Mc Carthy ha ad esempio mostrato che presso gli intellettuali e i lettori di due delle principali riviste culturali del PCI, Rinascita e Il Politecnico era stato elaborato nel corso degli anni Quaranta un «mito dell'America democratica». Un mito che aveva radici nell'ammirazione della sinistra pre-marxista per l'America e che sembrava essersi rilanciato dopo la «svolta di Salerno» e l'alleanza tra URSS e angloamericani. Esso venne però schiacciato dall'inizio della guerra fredda, che aveva comportato il ritorno ad una visione acritica di un'America imperialistica e consumistica, salvo poi tornare in auge dagli anni '70.10 Stephen Gundle ha poi mostrato in un'analisi comparativa, che il settimanale popolare del PCI Vie Nuove spesso si occupava della cosiddetta «America democratica» e in generale le sue pagine erano familiari con i fenomeni «americanizzanti» che avevano influenzato le abitudini del dopoguerra, dato che si prefiggeva il compito di rispecchiare la mentalità dei suoi lettori.11 Il fatto che questa rivista fosse molto letta è assai significativo.12 Molti studiosi sono quindi concordi nel ritenere quello del tradimento un elemento centrale nella cultura del PCI del primo dopoguerra. In questo lavoro abbiamo cercato di dimostrare che il codice retorico utilizzato per sviluppare il tema in questione è tratto dal discorso nazional-patriottico ottocentesco, anche se quest'ultimo non è ripreso in blocco ma adattato alle diverse esigenze, ai differenti fini, al mutato contesto. Facciamo un altro raffronto, andando a sovrapporre quelle che Banti ha definito «quattro configurazioni sincrone»,13 con il discorso del tradimento lanciato invariabilmente da tutti i dirigenti comunisti su «l'Unità», nei confronti del governo democristiano: per Banti le narrazioni risorgimentali si svolgono sempre passando per le seguenti configurazioni: 1. « l'oppressione della nazione italiana da parte di popoli o di tiranni stranieri; 2. la divisione interna degli italiani, che favorisce tale oppressione; 3. la minaccia al nucleo più profondo dell'onore nazionale, che tale oppressione direttamente o indirettamente comporta; 4. gli eroici, quanto sfortunati, tentativi di riscatto».14 Dal raffronto con le quattro configurazioni delle narrazioni risorgimentali emergono le analogie e le peculiarità che il PCI innesta in questo discorso. Per i comunisti italiani, come abbiamo visto, l'integrità della nazione italiana è minacciata da un lato dallo straniero capitalista e imperialista americano, il quale vuole asservire militarmente il paese; dall'altro lato dall'atteggiamento servile mostrato dalla DC. I comunisti, viceversa, si considerano gli autentici difensori dell'unità e della salute della patria, insieme ai socialisti. A differenza dei patrioti del Risorgimento, però, i comunisti non esprimono avversione nei confronti degli stranieri in quanto tali, cioè gli americani, ma nei confronti del governo italiano, che si è reso servo dello straniero, e del governo degli Stati Uniti, che come abbiamo visto, in questa fase, è identificato con l'imperialismo e il capitalismo. Questo è quanto traspare dalle pagine de «l'Unità». In realtà, come abbiamo visto poco fa, l'atteggiamento del mondo comunista nei confronti dell'America è complesso e variegato nel corso degli anni e l'antiamericanismo può essere considerato un atteggiamento di avversione aprioristica nei confronti degli Usa in quanto considerato il paese in cui il capitalismo si esprime al massimo grado. Il governo d'altra parte è colpevole di accettare servilmente questa politica contraria agli interessi nazionali. Così facendo esso si macchia di tradimento, perché divide irresponsabilmente il corpo nazionale: cioè scinde la classe operaia che nella lettura propagandistica del PCI è rappresentata nella sua interezza dalle forze di sinistra, dal resto della popolazione. Invece nella visione togliattiana la classe operaia per mezzo della guerra di liberazione nazionale era diventata il nucleo della nazione e attorno ad essa si sarebbero dovute coagulare le altre forze sociali interessate ad una riforma in senso «progressivo» delle strutture economiche e sociali dell'Italia. Il PCI, viceversa, ritenendosi il principale e legittimo sostenitore della politica di unità nazionale era per Togliatti il vero sostenitore di una politica indipendente e autonoma dell'Italia in politica estera e interna. Abbiamo visto poi che i massimi dirigenti del PCI nel commemorare i caduti della Resistenza partigiana, hanno fatto ampio uso di immagini impregnate di retorica sacrificale. Le vite lasciate dai partigiani sulle montagne vengono lette cioè come un martirio che ha consentito la redenzione di un paese che si era macchiato della colpa di aver sostenuto il regime fascista e che grazie al sacrificio dei combattenti partigiani ora poteva risorgere. Questo discorso non era esclusivo del PCI: Guri Schwarz ha mostrato che negli anni del primo dopoguerra le neonate istituzioni repubblicane cercarono di ricostruire il paese dal punto di vista simbolico coniando un «patriottismo espiativo» basato sul culto dei caduti, commemorati come vittime, non come eroi. E almeno nei pochi casi che abbiamo visto, sembra proprio che quelle immagini, nelle loro fondamenta, fossero quelle coniate dal discorso nazionalista ottocentesco.15 Abbiamo poi visto che spesso viene evocato «l'onore dell'Italia». In questo caso abbiamo trovato anche alcuni tentennamenti rispetto all'utilizzo del termine «onore». Ad esempio quando l'onore viene evocato dai criminali di guerra nazisti o fascisti, su «l'Unità» si tiene a precisare che essi lo usano in un'accezione diversa o che lo fanno in modo non autentico. L'onore della patria per i comunisti è quello che i fascisti avevano vilipeso, i partigiani riscattato e che i democristiani, adesso, mettevano nuovamente a repentaglio. Ma cos'è l'onore per i comunisti, se è diverso da quello evocato dai fascisti? Evocare l'onore della nazione, da parte dei dirigenti comunisti, non sembra porre in questione la capacità degli italiani di dimostrare il proprio valore militare nel difendere la purezza delle loro donne, e quindi di mantenere puro il sangue dei membri della comunità nazionale, come avveniva nelle narrazioni risorgimentali. Forse perché questa parte del discorso nazionale era quella più compromessa con il fascismo, che aveva fatto della purezza del sangue un dato "scientifico", legato alla cosiddetta scienza della razza. Il concetto di «onore» nel lessico comunista sembra avere un'accezione lata: la parola sembra aver perso il contenuto che aveva nell'Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento. Questo cambiamento potrebbe anche essere legato alla crisi di quello che George Mosse ha definito «Mito dell'Esperienza della guerra».16 Dopo la seconda guerra mondiale non era più possibile replicare quel meccanismo per cui dopo la Prima guerra mondiale le stragi belliche erano state trasfigurate e rese nobili per essere sopportabili, pertanto il sistema di valori che lo spazio della figure simboliche metteva in circolo non era più attivabile nella sua interezza. I comunisti sembrano utilizzare il termine «onore» piuttosto nell'accezione in cui esso è usato nell'articolo 54 della Costituzione,17 che rimanda più alla «rispettabilità», così come è stata definita dallo stesso Mosse: cioè un sistema di valori e di comportamenti che a partire dall'Ottocento aveva portato a conferire precisi ruoli agli uomini e alle donne, aveva definito i confini della normalità e dell'anormalità dei comportamenti delle persone, e che grazie all'incontro con il nazionalismo era diventato il sistema di valori dominante.18 Rimane comunque la componente bellica: i partigiani, infatti, per i comunisti hanno restituito l'onore all'Italia con la guerra di resistenza. Guerra di resistenza che, però, come abbiamo visto con Schwarz, era letta, a posteriori, come «guerra alla guerra». Così quando si accusa il governo democristiano di disonorare l'Italia per la politica di asservimento agli interessi di una potenza straniera, non c'è, se non in modo molto implicito, alcun riferimento alla violazione dell'integrità sessuale delle donne. Potremmo pensare, però, che se l'Italia fosse vista simbolicamente come una donna, come nell'iconografia nazional-patriottica, chi la vende allo straniero, di fatto la disonora. Pensiamo a questo proposito ai disegni satirici di Guttuso che abbiamo incontrato, al manifesto elettorale e alla fotografia della ceramica di Leoncillo, riprodotta su «l'Unità» per rammentare la barbarie fascista.19 Però credo che questo elemento agisca semmai a livello inconscio, cioè che sia una conseguenza diretta dell'uso di determinate componenti del discorso nazional-patriottico che, quando attivate, mettono in circuito un certo tipo di elementi simbolici che sono profondamente radicati nel profondo di ciascuno, perché legati a sentimenti percepiti e conoscibili da tutti: l'onore, l'amore, l'odio, il legame genitoriale e quello fraterno, il martirio, la redenzione e la resurrezione. Infine abbiamo visto che viene utilizzato talvolta un lessico legato alla dimensione parentale, sia in riferimento alla comunità nazionale, sia alla comunità di partito. A questo scopo viene utilizzato in blocco il lessico che il discorso nazional-patriottico aveva trasposto dalla famiglia alla patria: si parla infatti su «l'Unità» di figli, di fratelli, di padri e di madri della patria. Soprattutto le madri e i figli sono continuamente evocati. Questo dipende forse dalla vicinanza della Resistenza, che era letta dai comunisti come guerra di liberazione nazionale e come «secondo Risorgimento». Nella guerra partigiana molti giovani erano morti, molte madri avevano perso i loro figli, tanto che avevano costituito associazioni di madri e mogli di partigiani caduti.20 Quindi il tema era molto sentito. Un altro elemento da sottolineare è che il lessico parentale è utilizzato anche per la comunità di partito: i compagni sono anche fratelli, i predecessori padri e i successori figli, secondo quel processo di cui parla Emilio Gentile, per cui gli italiani dopo la seconda guerra mondiale spostarono «la fedeltà patriottica verso altre entità ideali, storiche, politiche – dalla religione, all'ideologia, dall'umanità al partito – considerate eticamente superiori alla nazione e allo Stato nazionale».21 Ed è proprio questo il punto che rende il discorso patriottico del PCI non completamente sovrapponibile al discorso nazional-patriottico ottocentesco: l'internazionalismo che caratterizza da sempre il movimento operaio e che sia pure con le differenze apportate dal comunismo cominternista, non può non caratterizzare anche il PCI, è un elemento nettamente contrapposto rispetto a qualsiasi contenuto del nazional-patriottismo ottocentesco. Quest'ultimo infatti non può concepire una solidarietà di classe che vada potenzialmente in contraddizione con la solidarietà nazionale. Infine abbiamo ricostruito il contesto in cui si verifica questo utilizzo dei tropi nazional-patriottici da parte del PCI: sin dal 1943 esso era impegnato nella costruzione di una propria tradizione, con la qual legittimarsi come partito italiano e nella diffusione presso i propri militanti di tale tradizione, nell'ambito della costruzione del «partito nuovo». Al contempo questa volontà doveva coesistere con il profilo internazionalista e di classe a cui il partito non rinunciava, di qui le oscillazioni che abbiamo visto negli interventi sopra riprodotti, che chiamano in causa quella che è stata da molti definita la «doppiezza» del PCI. Cioè la fedeltà da un lato alla patria statale, dall'altro a quella ideale.22 Poniamo l'attenzione anche su un altro elemento: le tre figure profonde, sacrificio, onore, parentela chiamano in causa, in modo più o meno intenso, caratteri già fortemente presenti nella moralità23 comunista: lo spirito di sacrificio è secondo Sandro Bellassai un tratto fondamentale del buon militante comunista, «unità di misura della fedeltà e dell'affidabilità politica di un comunista».24 La capacità di sacrificare se stessi, i propri affetti, le proprie risorse, è considerato un elemento formativo del militante: Bellassai ad esempio racconta che in un corso della scuola centrale di partito, le Frattocchie, gli allievi dovevano trasportare a spalla un mucchio di massi, a scopo di didattico.25 Si pensi poi a Marina Sereni, che scrive alla madre della sua decisione di rompere i rapporti con lei per le sue opinioni politiche.26 Sacrificio dunque anche dei propri affetti: questo perché il Partito era la vera famiglia e ad esso tutto doveva essere subordinato. Ciò nondimeno il PCI incentrava il proprio progetto politico sulle famiglie e si presentava come il vero difensore di esse.27 Abbiamo iniziato questo lavoro chiedendoci se i concetti di patria e di nazione fossero presenti nel discorso pubblico del Partito Comunista Italiano. Per far questo abbiamo analizzato un anno, prendendolo come campione. Per avere un quadro completo dell'idea di patria del PCI in questa fase della vita del paese sarebbe stato necessario visionare almeno tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956.28 Concentrarsi su un solo anno ha d'altra parte consentito un'analisi più sistematica e attenta dei singoli articoli. Quindi, pur tenendo presenti i limiti, la risposta alla domanda iniziale è affermativa. I concetti di patria e di nazione sono presenti, nel contesto che abbiamo ricostruito, per le ragioni che abbiamo ipotizzato, seppure opportunamente modificati e ricontestualizzati. Inoltre non ho preso in considerazione due aspetti importanti: la visione dell'altro, dello straniero, che mi avrebbe portato a cercare esempi di come venivano rappresentati «gli altri» dei comunisti, cioè gli americani e magari i democristiani. In secondo luogo un altro elemento mancante o non approfondito è il rapporto tra i generi. Per ragioni di tempo e per mancanza di conoscenze adeguate non ho preso in considerazione questi due aspetti. Ciò nonostante credo di poter concludere che il fatto che anche i dirigenti del PCI abbiano utilizzato alcuni degli stilemi fondamentali del discorso nazional-patriottico testimonia una volta di più la profondità del radicamento di essi nella cultura dell'Italia contemporanea: il discorso nazional-patriottico è così profondamente radicato che ha la capacità di adattarsi ai contesti più diversi, di rimanere "in sonno" per molto tempo e di ritornare a galla, come accade in questi ultimi tempi. Emilio Gentile scrive che il tentativo del PCI di presentarsi nei primi anni del dopoguerra come partito nazionale, legittimo erede del primo Risorgimento e protagonista del secondo, è da considerarsi come «l'ultima metamorfosi laica del mito della Grande Italia e, per certi aspetti, potrebbe essere considerata come l'ultima versione del nazionalismo modernista».29 Se Gentile si riferisce al nazional-patriottismo ottocentesco, mi permetto di notare che manca uno de nuclei fondamentali del nazional-patriottismo, quello legato alla difesa dell'onore sessuale delle donne della nazione. In conclusione: il PCI, nel primo dopoguerra, in parte in virtù di un progetto strutturato e meditato di presentarsi come erede delle tradizioni nazionali «progressive»; in parte in virtù di un milieu che rendeva determinati i contenuti simbolici del nazionalismo familiari anche ai comunisti, portò i massimi dirigenti del comunismo italiano ad utilizzare ampiamente i concetti di patria e di nazione nel discorso pubblico. La persistenza, però, del contenuto internazionalista nell'ideologia marxista-leninista rendeva però quell'utilizzo non completamente coincidente con il nazional-patriottismo classico. Infine alcuni temi troppo compromessi dal nazionalismo fascista e nazista e dalla guerra non erano più riproducibili. Se nei successivi decenni della storia italiana il discorso nazional-patriottico è rimasto assente dallo spazio pubblico, per ricomparire magari in occasione delle partite della nazionale di calcio, non significa che sia scomparso. Le sue radici sono ancora presenti nel profondo e, come dimostra il neo-patriottismo rilanciato dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, sono facilmente riattivabili. Purtroppo i circuiti comunicativi del discorso nazional-patriottico sono innestabili anche in contesti e con intenti meno nobili. Si veda la vicenda dei due marò italiani arrestati in India per la morte di due pescatori indiani: aldilà delle effettive responsabilità, delle attenuanti, del contesto, che saranno ricostruite dai tribunali indiani, quello che in questa sede va sottolineato è che la vicenda ha fatto esplodere un'ondata di pulsioni nazionaliste e colonialiste da parte di giornalisti, politici e «popolo». Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono stati giudicati dall'opinione pubblica e dalla classe dirigente innocenti a-priori, e gli indiani degli incantatori di serpenti che hanno ingannato due soldati che facevano solo il loro dovere. La vicenda si è poi colorata in modo sinistro, con la presenza di sedicenti ingegneri provenienti da associazioni neofasciste come Casa Pound chiamati dal governo a ricostruire in parlamento il complotto indiano.30 E basta fare un giro sul web italiano per trovare messaggi come «Salviamo i nostri soldati» in stampatello maiuscolo sparato su fotografie dei due soldati ritratti in pose da «duri» con tricolore sullo sfondo e commenti razzisti non ripetibili in questa sede. E forse è un caso, forse no, che la stampa italiana, solitamente poco interessata alle questioni internazionali, abbia di recente prestato molta attenzione al problema degli stupri in India.
1. Arte, Storia, Memoria. Halbwachs e la memoria collettiva. Arte e Storia formano la memoria come fatto pubblico; e la memoria è costitutiva di qualsiasi comunità che voglia essere tale; essa è un fattore decisivo per l'identità della comunità (Toscano, 2008, p. 15). Questo passaggio di Mario Aldo Toscano ci rende subito consapevoli dei primi elementi da considerare: arte, storia, memoria. L'intreccio tra questi fattori è determinante e scaturisce da un processo non sempre pacifico o pacificato: I Beni Culturali non sono né pace né armonia: sono manifestazioni dell'avanzata faticosa di una frazione di umanità per gli itinerari impervi del mondo. Essi sono un riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori (Ivi, p. 38). Il Bene Culturale è quindi il prodotto complesso di negoziazioni ma anche di imposizioni spesso conflittuali. Che la memoria possa diventare oggetto conflittuale ce lo spiega già Maurice Halbwachs, quando sostiene che la memoria collettiva "si accorda con i pensieri dominanti della società" (Halbwachs, 1987, p. 21). Se appare forzata, nella prospettiva halbwachsiana, l'idea che il ricordo individuale esista soltanto perché appoggiato su uno strato di memorie condivise da più persone e non vi sia spazio per una prospettiva psicologica del soggetto singolo, è altrettanto interessante il fatto per cui, in questa lettura basicamente durkheimiana, il ruolo dell'insieme societario sia determinante e vincolante per il soggetto. La memoria diviene quindi un'istituzione e come tale deve essere affrontata come problema delle forme istituzionalizzate che l'immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi, e dei modi e le forme di questa istituzionalizzazione. Nessun gruppo potrebbe riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un'immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall'insieme dei membri. Affinché però ciò avvenga, la memoria si costituisce di ricostruzioni parziali e selettive del passato. L'idea chiave di Halbwachs è dunque che ricordare sia attualizzare la memoria di un gruppo. L'immagine del passato che il ricordo attualizza non è tuttavia qualcosa di dato una volta per tutte: se il passato si "conserva", si conserva nella vita degli uomini, nelle forme oggettive della loro esistenza e nelle forme di coscienza che a queste corrispondono. Ricordare è un'azione che avviene nel presente, e dal presente dipende. La ricostruzione del passato dipende agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia (…) l'immagine del passato che ogni società si rappresenta è, in ogni epoca determinata, qualcosa che si accorda con i pensieri dominanti della società stessa. I contenuti della memoria collettiva costituiscono dunque un insieme denso e mobile, che (…) costantemente è modificato, del passato è sempre un fenomeno dinamico. Ora, questa dinamica non esclude il conflitto. (…) L'idea forse più fruttuosa che si può ricavare da Halbwachs è proprio quella che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti. (…) La memoria collettiva rappresentata dalla coscienza comune di queste società riflette effettivamente il risultato di uno scontro nel quale sono decisivi i rapporti di potere fra i gruppi diversi dei quali la società globale è composta (Halbwachs, 1987, p. 28). 2. Gruppi in conflitto: la posta in gioco. Memoria vs oblio. Ora la questione si sposta dunque sui gruppi che spostano l'equilibrio della "posta in gioco", come l'ha definita poco sopra Paolo Jedlowski. Il controllo di ciò che in qualche modo deve diventare memoria è allora elemento decisivo per chi si sfida nell'arena dei significati simbolici e contemporaneamente politici. Allo stesso modo, da contraltare, oltre a ciò che deve diventare memoria si affianca ciò che deve essere escluso dalla memoria, in un processo selettivo sia positivo che negativo. Un oggetto, un avvenimento, un artefatto, un luogo, possono essere elevati qualcosa da ricordare come essere cancellati con impeto e velocità. Gli esempi sono disparati e forse anche, apparentemente, contraddittori. Si può ricordare una vittoria militare, come la vittoria di Stalingrado per le forze sovietiche ed in generale antinaziste. Al contempo si può ricordare anche una sconfitta, come monito per non ripetere errori commessi e guardare ad un futuro migliore: i giapponesi ogni anno fanno tesoro delle esperienze di Hiroshima e Nagasaki. Si può però anche ricordare una sconfitta per creare un mito: i serbi trovano nel massacro di Kosovo Polje il loro mito fondativo. Si può creare un monumento ad hoc anche lontano dal luogo fisico in cui è avvenuto il fatto. Allo stesso modo è possibile distruggere un qualcosa del gruppo avverso: a Mostar i croati hanno bombardato lo Stari Most, testimonianza del passaggio ottomano in Bosnia e simbolo della città erzegovese. 3. "Le nuove guerre" e il ruolo dell'etnia Il contesto delle "nuove guerre" (Kaldor, 1999), è quindi terreno di coltura per questo tipo di conflitti, manifestatisi soprattutto successivamente alla caduta del Muro di Berlino. Attori deputati a poter dichiarare guerra nei confronti di attori di pari grado. Lo scenario disegnato da Kaldor è decentralizzato e disordinato a causa della fine dell'era dei blocchi contrapposti. Contemporaneamente lo stato nazione non solo è meno forte fuori dei propri confini, ma anche internamente ha subito e sta subendo un processo di progressiva erosione dei propri poteri coercitivi e di prevenzione delle minacce interne. Secondo alcuni autori, tra cui W. Pfaff (1993), la fine del mondo diviso in blocchi ha fatto sì che finissero i conflitti tra stati e nascessero quelli tra gruppi divisi da identità e modelli di vita inconciliabili. Le divisioni di oggi in azione sarebbero però decisamente più violente di quelle espresse nella prima modernità in quanto le identità astratte e laiche della cittadinanza statale tendono ad essere sostituite da altre di natura culturale, religiosa ed etnica tra le quali è più difficoltoso il compromesso (Maniscalco, 2008), dando vita ad un ambiente neo-barbarico. Va qui ricordato anche Huntington (1997), con la sua teoria dello scontro delle civiltà, "secondo la quale i conflitti successivi alla guerra fredda si spiegano in termini di divergenze culturali piuttosto che ideologiche o economiche; più che particolari stati, esse tendono ad interessare coalizioni di stati omogenei tra loro rispetto alle 'civilizzazioni' di appartenenza" (Maniscalco, 2008, p. 29). Secondo Kaldor siamo quindi in presenza di conflitti intrastatali che però differiscono dalle guerre civili dell'epoca pre-1989. Le differenze si riscontrano negli scopi, nei metodi di combattimento (guerriglia per eliminare l'altro), per la tipologia delle unità di combattenti (privatizzazione dei corpi) e nei metodi di finanziamento (ottenuto con attività malavitose). Questi conflitti vengono infatti combattuti sulla base di etichette etniche, in cui una nuova politica dell'identità, fondata su un comunitarismo esclusivo, annulla le politiche inclusive statali. L'etnia, in questo rinnovato quadro, diviene quindi l'attore principale intorno al quale poter sviluppare il gruppo di riferimento nei conflitti intrastatali. Questi conflitti, come ricordato, si basano su etichette che vengono affibbiate da un gruppo all'altro: si diviene gruppo per creazione autonoma o per esclusione da un determinato contesto. La lingua (in moltissimi casi si dovrebbe parlare di dialetti), la religione, il clan, i tratti somatici, una storia condivisa, sono gli elementi che fanno sì che il gruppo tracci un confine in-out netto e non valicabile. L'esclusione, più che l'inclusione, è il fattore che determina l'appartenenza. 4. I Beni Culturali nelle "nuove guerre": gli spazi interstiziali, sospesi e marginali. I Beni Culturali assumono un ruolo determinante all'interno dei conflitti sopra descritti, per vari motivi tra loro collegati. Anzitutto, il bene culturale, come abbiamo detto all'inizio, è traccia della memoria del gruppo etnico ed anzi viene accettato, creato, ricreato, protetto dal gruppo stesso proprio per dare delle basi comuni a tutti gli appartenenti della formazione sociale. Il bene culturale è testimonianza del passato, emblema dell'esistenza/persistenza presente e segno di continuità protesa al futuro. Può provenire dal passato, come nel caso dello Stari Most (1555) che riconduce direttamente al passaggio ottomano nell'area. Oppure può essere creato nel presente per ricordare il passato (antico o recente) e proiettarlo nel futuro. Rimanendo nell'ex-Jugoslavia possiamo pensare alla Torre di Gazimestan, un luogo spoglio e dal basso significato artistico e architettonico, ma situato nella Piana dei Merli laddove i serbi furono sconfitti dagli ottomani nel 1389, data da cui i serbi fanno partire la fondazione delle proprie radici comuni. L'intreccio Arte-Storia-Memoria si esplica quindi in un rapporto triangolare e paritetico, in cui i tre elementi si danno forza l'uno con l'altro. La Storia può essere selezionata per meglio indirizzare la Memoria nel senso halbwachsiano. L'Arte può diventare il campo di applicazione visiva ed emotiva del triangolo suddetto. L'opera artistica però è situata in luoghi ben precisi, sia momentanei (mostre) sia stabili (opere monumentali) e questi luoghi sono configurabili quindi come spazi determinati, riconoscibili e soprattutto riconosciuti dai gruppi chiamati al loro utilizzo. In questo caso siamo di fronte a quelli che qui definiamo come "spazi intensivi". Prima però di arrivare agli spazi intensivi, necessitiamo di riflettere sulle altre categorie dello spazio. Il problema dello spazio è stato quindi oggetto, da parte della letteratura sociologica, di intense elaborazioni e revisioni. Già Simmel, nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, sottolineava sin da subito la natura multiforme dello spazio, in quanto unione di elementi psichici e di intuizioni dell'anima: Nell'esigenza di funzioni specificatamente psichiche per le particolari configurazioni storiche dello spazio si riflette il fatto che lo spazio è soltanto un'attività dell'anima, è soltanto il modo umano di collegare in visioni unitarie affezioni sensibili in sé slegate (Simmel, 1998, p. 524). Siamo allora di fronte ad una realtà composta da tanti "spazi particolari" che, come ci dice Emanuele Rossi (2006), "potremmo definire come spazi sospesi, i quali, pur differenziandosi nella loro strutturazione (…) e nelle loro finalità, si presentano sociologicamente interessanti soprattutto per ciò che contengono, per le forme di relazione e di convivenza che sono in grado di ospitare, di produrre o semplicemente di annullare" (p. 9). Per fare ciò "abbiamo bisogno quindi di re-imparare ad osservare e ad interpretare lo spazio, di riconoscere allo spazio e alle diverse forme che di volta in volta è in grado di assumere, la funzione di strumento di lettura privilegiato di tutte le cose, vero e proprio deposito a cui è necessario attingere per comprendere in modo qualitativo il gioco incessante delle passioni, degli entusiasmi, degli antagonismi, così come dei tormenti e delle sofferenze che da sempre caratterizzano gli esseri umani; ma per far ciò bisogna saper di nuovo lasciare spazio all'immaginazione e soprattutto non ridurre gli spazi a semplici rapporti geometrici (.)" (Ivi, p. 15). E' solo in questo modo che è possibile quindi scoprire, mediante "una speciale lente sociologica, individuata nel concetto di sospensione" (Ivi, p. 9), alcuni di questi "spazi particolari", in cui è possibile sospendere il normale corso degli eventi. Siamo quindi in grado di determinare diverse declinazioni di questi "spazi sospesi": "spazi interstiziali", "di margine", "di consumo". Qui ci interesseremo in particolar modo dei primi due, per il loro diretto collegamento con l'idea di "spazio intensivo". Il concetto di "interstizio", esaminato da Gasparini (2002), è di difficile e complessa collocazione ed anzi lo stesso autore dubita che si possa parlare di vero e proprio concetto. È altrettanto vero però che l'interstizio riesce "ad illuminare una serie di fenomeni specifici della vita quotidiana", divenendo "il tramite, la cerniera, la porta, il ponte o il guado che consente il passaggio verso altri sistemi organici di significati". Già Simmel (1998) aveva però evidenziato, sempre nel suo Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, lo "stare fra" (p. 523) come funzione sociologica. Lo spazio infatti è una "forma priva di qualsiasi efficacia che, però, proprio in quella naturale situazione dello stare fra, può svolgere quella fondamentale funzione di elemento necessario alla configurazione di tutte le cose, rendendo in tal modo effettivamente possibile lo strutturarsi di qualsiasi forma di interazione" (Rossi, 2006, p. 56). Il vivere in comune quindi si sostanzia all'interno di uno spazio comune e condiviso che viene continuamente svuotato e riempito dalle interazioni che si susseguono di volta in volta. È lo spazio interstiziale quindi quello in cui si creano le relazioni, un "terreno di incontro" tra individui e/o gruppi comunicanti. Un altro contributo interessante che riguarda lo "stare tra" è offerto da Henry Pross, che si è cimentato nell'elaborazione del concetto di "spazi intermedi". Per questo autore infatti qualunque forma spaziale è prodotta dal potere, che ne determina le configurazioni, i confini ed i limiti. Anche la costruzione di elementi fisici spaziali (palazzi, strade, accessi) sono una forma del potere vivente, ma accanto agli ordini che si susseguono in termini di spazio (superiore e inferiore) e di tempo (…) sono individuabili gli spazi e i tempi della transizione. Edifici, accessi, limiti sono le manifestazioni quotidiane di differenti ordini; ci sono però corridoi, angoli, differenze di altezze e di profondità, fuori dal controllo: per questo si configurano come spazi intermedi che procurano un senso di liberazione e di riparo dalla pressione dei tempi sociali (Pacelli, 2010, p.188). Anche in Pross è quindi possibile ravvisare quello "stare tra" simmeliano, come luogo di eventi sociologici reciproci continuamente in atto e che quindi senza sosta si creano, ricreano e rinnovano in un'arena sempre aperta ad una perpetua negoziazione di socialità o di socievolezza, per citare ancora Simmel. Tuttavia questo continuo muoversi tra "morire e divenire, e divenire e morire" fa sì che questi spazi intermedi, nonché quelli interstiziali, siano quindi contenitori ad "intermittenza", i quali vivono dell'intensità temporanea delle relazioni che vi insistono all'interno, quando coloro i quali li percorrono e vi sostano decidono di instaurare dei rapporti di socialità con gli altri. Sono spazi quindi senza storia e senza futuro, lontani dal "luogo antropologico" di Augè (1993), eppure capaci di accogliere la costruzione di nuovi simboli e di rituali che lì vengono messi in atto e permangono per poco tempo. Queste occasioni di breve intensità fanno sì che però vi si verifichino degli accumuli energetici, diventando, come intuì Simmel, dei "centri di rotazione" (1998, pp. 540-1) intorno ai quali "si sviluppano relazioni con forte carica emotiva" (Rossi, 2006, p. 64). In altri termini, siamo in presenza di uno spazio non identitario, a relazionalità forte soltanto in alcuni momenti e su cui non si radicano forme fisse data la continua transizione di soggetti che vi transitano all'interno. Un'altra tipologia di spazio di forte interesse è quella rappresentata dagli "spazi di margine". Per andare a trovare queste forme spaziali bisogna anzitutto risalire ai luoghi che ogni giorno sperimentiamo nelle nostre esistenze. Bauman (2006, p. 116) osserva come nelle nostre società contemporanee lo spazio sociale tende a formarsi prevalentemente sulla base di ciò che egli definisce proteofobia, ovvero la paura della diversità. Questa paura fa sì che all'interno delle nostre "mappe mentali" si vengano a creare dei "buchi" creati volontariamente al fine di distinguere ciò che attraversiamo necessariamente e ciò che altrettanto volontariamente escludiamo in un tentativo di razionalizzare e di dare maggiore importanza ai luoghi che viviamo ed in cui transitiamo, ci situiamo e ci relazioniamo quotidianamente. Il margine è quindi un qualcosa che è nello stesso momento all'interno ma anche all'esterno dell'ambiente percepito: interno per ubicazione ma esterno per quanto riguarda l'interezza delle relazioni sociali. Siamo quindi in presenza di uno spazio che viene inteso come un luogo di difesa, che serve per preservare e sottolineare la specificità del proprio ambiente: un modo per porre un "altro da sé", per sospendere alcune questioni scottanti ed infine per dare una collocazione a quelle "società a fianco" che risultano un qualcosa da nascondere alla vista. Ed è proprio in questi margini che coloro i quali vi sono confinati possono ricreare zone di sociazione, sfruttando quell'oscurità di cui gli spazi di margine sono creati proprio dall'ambiente "di maggioranza" circostante. Nell'"effervescenza sociale" (Rossi, 2006, p. 90) esistente dentro ai margini risiede l'interesse verso questi nuovi centri di creazione di simboli e di senso. In conclusione, gli spazi interstiziali e di margine risultano quindi essere delle forme sospese, non ben definite, volatili. Proprio per questa loro condizione di transitorietà sono però attraversati da momenti ad altissima intensità relazionale ed emozionale che ne determinano l'importanza per i suoi "abitanti". Nonostante la loro posizione defilata gli "spazi particolari" rimangono sempre in contatto con lo spazio principale, proprio perché sono prodotti da questo o perché sono popolati da coloro i quali in esso non devono risiedere o al massimo possono sostarvi/transitarvi per pochi, innocui, attimi. 5. Una nuova categoria concettuale: lo "spazio intensivo" Lo spazio intensivo si configura come una forma spaziale che sicuramente trae alcuni elementi dagli spazi descritti precedentemente, ma al contempo ne scarta alcuni fattori per accoglierne altri. Lo spazio intensivo è la "residenza" del bene culturale attorno al quale i gruppi si riuniscono, caricando di emotività e di senso il luogo/bene prescelto. Anzitutto, come ci ricorda Maurice Halbwachs (1987, pp. 135- 42), c'è una piena identificazione del gruppo con il luogo ed anzi la "fisicità" del bene culturale descrive, arricchisce e dà sostanza al luogo stesso. Luogo e bene culturale agiscono simultaneamente, dato che l'uno non può esistere senza l'altro. Il bene culturale diviene tale proprio perché è situato e sussiste in un dato luogo, che può essere, ad esempio, teatro di rivendicazioni territoriali (come nel caso della Torre di Gazimestan nella Piana dei Merli in Serbia). Il luogo invece diventa rilevante, unico e "degno" di riconoscibilità proprio per la presenza del bene culturale. Tuttavia, non basta la presenza del bene culturale per dotare di intensività lo spazio. Altri fattori diventano determinanti. Anzitutto, rispetto agli spazi interstiziali e a quelli di margine, lo spazio intensivo è anch'esso uno spazio "sospeso", laddove la ritualità che vi insiste è frutto di momenti di richiamo politico/religioso collettivo. In confronto allo spazio interstiziale, lo spazio intensivo ne condivide la condizione di "stare fra": spesso infatti lo spazio intensivo sta fra due gruppi in conflitto ed anzi segna il confine di uno rispetto all'altro. Può essere un confine sia fisico (quando ad esempio viene ricoperto d'importanza il limite dello stato) o simbolico/religioso, quando per esempio prendiamo come punto di analisi un luogo di culto, in cui accede solo chi condivide la medesima fede. È inoltre un terreno d'incontri, tra gruppi diversi ma molto più spesso tra appartenenti ad uno stesso gruppo. Di certo al suo interno possiamo trovare quella intermittenza interazionale che fa sì che lo spazio intensivo "viva" in determinati momenti: le celebrazioni, le ricorrenze, gli anniversari, una funzione religiosa. Al pari degli "spazi intermedi", lo spazio intensivo può fungere da temporanea via dalle strutture del potere, anche se è una funzione diretta del potere. All'interno dello spazio intensivo infatti il forte coinvolgimento emozionale fa sì che si vada oltre ai sentimenti tipicamente nazionalisti o di identificazione con lo spazio medesimo. Quando si fa pratica di qualche rito o cerimonia (religiosa e/o civile) all'interno dello spazio intensivo, si trascende la dimensione puramente politica o religiosa per anelare ad un obiettivo per l'appunto trascendentale, immanente. L'appello per esempio di un leader nazionalista diventa destino di un popolo, la terrena funzione religiosa invece si trasforma in appuntamento con l'infinito. Di certo, come abbiamo visto in Simmel, lo spazio intensivo è un "centro di rotazione", dato l'alto investimento emozionale che su questo fanno gli appartenenti ai gruppi. Oltre a ciò, lo spazio intensivo può essere paragonato anche agli spazi di margine. Al pari di questi infatti lo spazio intensivo può crearsi come ghettizzazione di una minoranza all'interno di un luogo che diviene poi il nucleo di rivendicazioni della minoranza stessa. La differenza principale dello spazio intensivo rispetto agli altri "spazi particolari" risiede nel contrasto tra fissità ed intermittenza. Mentre gli spazi di margine e interstiziale rimangono comunque delle zone di transito senza una storia, un passato o un futuro, lo spazio intensivo, nonostante la transitorietà dei suoi eventi, è sempre presente. È uno sfondo che può essere riattivato socialmente, politicamente o religiosamente in ogni istante. È uno spazio in cui la narrazione riparte sempre dal punto in cui era stata interrotta e all'interno del quale la stessa narrazione non viene continuamente rinegoziata ma parte da punti fissi nella memoria e nella storia del gruppo. Possiamo parlare quindi di una "intermittenza stabile", dove "stabile" può essere declinato in due modi: anzitutto perché è un'intermittenza che si ripete ad intervalli di tempi regolari (dodici mesi per gli anniversari civili, sette giorni per la maggior parte delle funzioni religiose); in secondo luogo perché vi è una stabilità ripetitiva e certa dei contenuti non negoziabili che vengono ogni volta riscoperti, riaffermati e, se possibile, ancora più arricchiti nella loro funzione simbolica e distintiva. Si tratta quindi di spazi in cui la storia, il mito, il rito, il simbolo, hanno un alto impatto e sono costitutivi dello spazio stesso. Siamo in un campo molto vicino a quello che conosciamo come "luogo antropologico". Marc Augè (1993) ha proposto per primo questo concetto. Il "luogo antropologico è simultaneamente principio di senso per coloro che l'abitano e per colui che l'osserva". Il luogo antropologico diventa così una parte importante nell'elaborazione delle identità personali e nelle relazioni tra membri del medesimo gruppo, dato che coloro che vi "nascono all'interno (…) hanno la possibilità di sviluppare con questo un rapporto esclusivo" (Rossi, 2006, p.101) in cui le stesse relazioni reciproche interne diventano circoscritte e realizzabili solo da chi vive quel luogo. Allo stesso tempo il luogo antropologico possiede anche un carattere storico proprio perché la dimensione relazionale ed esclusiva è inoltre ripetitiva e costituisce una garanzia di stabilità ai membri appartenenti. Queste qualità, unite al fatto che per la memoria il luogo essendo l'elemento sensibilmente più visibile, dispiega abitualmente una forma associativa più forte che non il tempo (…), proprio lo spazio si collega (.) inscindibilmente (…) nella memoria e (.) il luogo continua a rimanere il centro di rotazione intorno al quale il ritorno avviluppa gli individui in una correlazione ora diventata ideale (Simmel, 1998, p.540). Questa unione di luogo antropologico e "centro di rotazione" a forte carica emotiva fa sì che lo spazio diventi quindi "intensivo" nel senso delle relazioni che vanno ad inserirsi all'interno di quest'ultimo. 6. Conclusioni La situazione così descritta è quindi immediatamente ricollegabile all'importanza che i beni culturali rivestono all'interno dei nuovi conflitti del Ventunesimo secolo. Il ruolo determinante che questi luoghi "intensivi" hanno nell'unire il gruppo etnico di riferimento, riprendendo Smith (1984), sotto i punti di vista dei miti, delle storie e dei simboli condivisi, rende immediatamente determinante la posizione delle dispute attorno ai beni culturali. Tali beni possono essere quindi visti, come detto all'inizio, alla stregua di un "riassunto delle dimensioni più ordinarie e più straordinarie, di eterni contrasti, di lotte tra valori" (Toscano, 2008, p. 31). Non si può trascendere da essi ed anzi il gruppo etnico ne richiede l'esistenza, come riserve di memoria e di coesione univoca. Proprio però per questo ruolo determinante e così tanto identificante, è possibile, allo stesso tempo, rovesciare questa natura "polemizzante" per renderla invece dialogante: l'avvicinamento tra culture e gruppi diversi può avvenire solamente riconoscendo ed apprezzando l'unicità dell'altro. È per questo motivo quindi che, attorno al bene culturale, si sviluppa una duplice energia che gli attori sul campo devono saper ben indirizzare.
L'albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell'esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall'Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d'azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L'aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: "il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all'ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia" . L'angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il dramma che suscitò nell'animo di Carlo Alberto lo "scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma "pura": incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti "descrittori di battaglie" della nostra letteratura recente. L'apparente normalità della sua vita si spezza l'8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l'Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D'Azione, cadrà vittima di quell'orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come "strage di Porzus", che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell'età storica dell'antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell'acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma "passiva" (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L'evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un'"ingenua furia romantica" del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l'eclissi e l'oblio dell'arcaicità d'espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell'Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell'ottobre-novembre 1945 all'associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all'estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l'impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell'ordine e la magistratura sono tutt'altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come "lo sfondo mitico e contadino del romanzo "romano" (per) l'epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita" . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all'applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del "romanzo" Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all'impianto ontologico tipico della sua classe sociale, "che mai gliel'avrebbero perdonato", per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo "inconscio antropologico" (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice, ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l'omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca "in folle caccia notturna" i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell'odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell'aria l'odore dell'Estate. O anche "ciò che più tortura è il "cedere"/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]". Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un "poeta" inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all'espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l'occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell'horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come "pornografico". Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una "colonna sonora"), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell'estate del 1955 assegna al "romanzo" il premio "Colombi- Guidotti". Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un'opera, forse l'unica che- data l'organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei "romanzi", Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un'intervista apparsa sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1959 dirà io credo soltanto nel romanzo "storico" e "nazionale", nel senso di "oggettivo" e "tipico". Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, "i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo" "una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l'opera di Pasolini" il cui segreto sta "nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l'angoscia dell'inafferrabilità e dell'impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio" , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l'obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre "mai tolto al tempo" (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L'occasione è data da una visita di Pasolini al "Cimitero degli Inglesi", accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, "in esso c'è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo". In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell'Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini "umile fratello", completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell'uomo e dalla crudeltà della storia. L'interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall'essere "diverso", nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall'omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l'evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all'interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all'interno del partito domina l'intransigenza teologica dei marxisti ("sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L'usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L'attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L'editoriale del direttore Una nuova cultura apre il "Politecnico". Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell'organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell'orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell'Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista "Il Politecnico". Il "ceto intellettuale" svolge una funzione di prim'ordine nell'analisi gramsciana, per la formazione del "blocco storico" perché è l'unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di "intellettuale organico" per indicare quell'intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell'Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di "apoteosi e crisi del neorealismo" ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l'idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, "Il contemporaneo", fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla "Guerra Fredda" corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti "paesi non allineati" nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all'Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l'Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l'uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l'agricoltura che all'inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell'agricoltura, all'arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant'anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all'economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l'Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L'"urbanizzazione" cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell'"homo italicus" (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il "miracolo economico" in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione: il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Dunque, l'altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il "boom" e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l'episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica "legge e ordine", opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l'ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d'oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l'antifascismo è nel dna dell'ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l'ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l'Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l'aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. "Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un "cortocircuito perverso" che agisce in profondità, sotto l'apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all'"esplosione" del 1968" . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal "culto della divinità" a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di "vie nazionali del socialismo", l'originalità di confondersi con quella liberale. Quest'ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all'aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell'incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell'italiano nell'epoca del "miracolo economico" e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista "Rinascita" nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall'avvento dell'industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un'automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all'iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il "Corriere della Sera". A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla "strategia della tensione", allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l'irruzione dell'estraneità e della diversità, l'oggetto inerte e passivo del rifiuto. L'essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili. Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema ("la lingua scritta della realtà"), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell'emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L'avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c'è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l'onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l'onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall'alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica. Accanto c'è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt'altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del "piccole patrie". Una nuova "Bibbia dei poveri". Un cinema che fa dell'intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l'ipocrisia dei benpensanti attraverso l'esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, "passione per la vita", un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. "[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia") mentre successive altre significative produzioni, dall'Edipo Re (1967), a Medea (1969-'70), da la "Trilogia della vita" (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della "mancanza della vita", affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell'abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L'innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell'Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell'autore all'Idroscalo di Ostia. Riservandoci un'analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere "assoluto". Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d'animo del Pasolini degli ultimi anni è di "disperata vitalità": sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l'esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l'inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L'ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un'Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l'introduzione (1962) della scuola media dell'obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d'ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze "terzomondiste" provenienti dall'America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell'autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l'affermazione del primato dell'assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l'intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l'istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l'introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell'Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall'esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l'esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l'analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della "nuova sinistra" Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull'anomalia del "bipartitismo imperfetto", sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul "revisionismo" del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l'accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l'accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l'individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che "cadrà" dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi durante l'interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l'incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno "Italicus" nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L'unico argine, nell'opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall'esigenza pasoliniana di un "Processo etico" al "Potere", ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il "coraggio intellettuale della verità" non manca: Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un "Processo come metafora" con cui "determinare nel paese una nuova coscienza politica" sancendo definitivamente la fine di "un'epoca millenaria di un certo potere", rendendo preclara una verità fondamentale, "che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere", ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l'invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del "Giornale Nuovo", Indro Montanelli, a votare Dc "turandosi il naso") mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell'ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell'area di governo, passeranno alla storia come governi di "solidarietà nazionale" all'interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all'abilità del fine statista Aldo Moro, che con l'ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole: la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. A provocare il fallimento della "solidarietà nazionale" è proprio l'assenza del soggetto "nazionale" con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull'importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del "compromesso storico", si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell'"Unità" rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui "si possono e si devono cambiare" gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all'interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d'accordo con l'istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l'idea del potere. Il "perturbatore della quiete" Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l'opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un'omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del "Corriere della sera" (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una "Tribuna aperta"). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l'esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull'aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l'identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla "borghesizzazione", dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l'occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l'abolizione immediata della scuola media dell'obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I "fascisti di sinistra" dal punto di vista della prassi, sono frange attive all'interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. "Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l'eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l'alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell'Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell'umiltà dei poveri Pasolini l'aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un'attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Gli anni del boom economico italiano vedono un'incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l'impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall'abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l'una all'altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c'è libertà ma un nuovo "dentro": il "penitenziario del consumismo" i cui "personaggi principali" sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l'ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama "paura della perdita della propria presenza" e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti. La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana, Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano. Pasolini parla di "genocidio" richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori, il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia . La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un "testamento spirituale- intellettuale", mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) . Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l'errore dell'Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una "unità del mondo". Tutto questo perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) . Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l'analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di "neocapitalismo", dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l'industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell'Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all'espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una "rivoluzione antropologica". Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l'aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall'edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l'unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l' "Italietta" ma l'universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell'Uomo. Una orrenda "Nuova Preistoria" sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell'antropologia classica, ora agonizzante. L'industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia . È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l'elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. "Illuminismo culturale". Il sacro è l'elemento dell'esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una "sospensione della ragione" che affida l'uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa . La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L'ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l'atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l'affermazione del passaggio dell'umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l'accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la "liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame", con queste parole: Sai cosa mi sembra l'Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l'antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge "Sono ricchi! Stanno bene!". Alla domanda di Arbasino "Tu cosa vedi?", la risposta è illuminante: Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell'uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l'avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo "caro ai liberali", depositari di un'ideologia tipicamente borghese. Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta . Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma "nuova umanità", nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli. Non può che dire, da intellettuale, "no" alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall'interno) perché non individua in questo strumento un'autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell'insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la "presa diretta", il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L'idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo "culturame": Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi . La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall'ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L'ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita . Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini . Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (" […] sono disperatamente pessimista"). Nei teppisti meridionali non c'è un'inconscia protesta moralistica, ma un'inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale . Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all'edonè consumista: Pasolini è apocalittico. Un'analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l'"economia delle aspettative" scoperta dai grandi classici dell'economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all'interno della società" . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l'oggettività dell'analisi. Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all'affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, "anzitutto l'omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse" . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario "non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali" per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L'assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall'analisi della "nuova donna" calata all'interno della rivoluzione delle classi medie: l'essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e "codificarle" per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della "nuova donna", istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di "Roma giovani" del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all'alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco "no". La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra "progresso" e "sviluppo" viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l'urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori. Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato "Bologna, città consumista e comunista", contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul "Corriere della Sera", su "Mondo" e su "Vie Nuove" nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull' Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza