MALTI: L-istorja ta' Sqallija mis-seklu disgħa sas-seklu tnax intisġet madwar sensiela ta' ġrajjiet li bidlulha darba għal dejjem il-karattru tagħha. Sakemm ħakmu l-gżira minn idejn il-Biżantini, l-Għarab damu mis-sena 827 sas-sena 902. Il-kontroll ta' l-ikbar gżira Mediterranja tahom is-setgħa li jikkolonizzawha, u dan wassal sabiex l-ilsien, it-twemmin u l-kultura tad-dinja Għarbija rabbew l-għeruq bis-saħħa tal-klassi ġdida mexxejja u ta' parti mdaqqsa mill-popolazzjoni li waslet hekk kif il-gżira saret parti minn Dar l-Islam. Madankollu, fi Sqallija tas-seklu ħdax kien għadhom jgħixu eluf ta' nsara Griegi, kif ukoll għadd imdaqqas ta' Lhud. Il-ħakma Normanna ta' Sqallija ġabet magħha bidla kbira fil-ġerarkija politika u soċjali tal-pajjiż. Minn tmiem is-seklu ħdax il-gżira ssieħbet ma' l-Ewropa Latina, u dan nissel tibdil mill-qiegħ fl-istrutturi tal-ħajja u fl-identitajiet individwali u kollettivi ta' sa differenti. Fis-seklu tnax Sqallija kellha sehem ewlieni fit-tfassil tas-Saltna Normanna, u l-belt ewlenija tagħha, Palermo, nbidlet minn metropoli Gharbija f'belt kapitali rjali. Dan l-istudju qasir jifli l-iżviluppi li seħħew taħt in-Normanni, u jingħaqad ma' storiċi ta' żmienna li leħħnu dubji dwar il-kwadru pożittiv ta' tolleranza reliġjuża u etnika fl-istorjograja tradizzjonali ta' Sqallija minn Ruġġieru II sa Federiku II. Minflok, qegħdin joħorġu iżjed ċari t-tensjonijiet u l-firdiet bejn komunitajiet differenti Sqallin skond twemmin reliġjuż u nisel etniku. Sa nofs is-seklu tlettax, il-popolazzjoni Musulmana ta' Sqallija kienet għebet għal kollox, bl-aħħar ftit eluf itturufnati fil-belt ta' Lucera; fil-waqt li l-kultura nisranija Griega ġiet imwarrba, u l-Għarbi baqa' mitkellem biss mill-minoranza Lhudija, flimkien man-nies ta' Malta, Għawdex u Pantellerija. L-iSqalli ta' tmiem is-seklu tlettax ftit li xejn kellu x'jaqsam ma' l-imgħoddi Għarbi tal-gżira, bħallikieku l-istorja ta' Sqallija bdiet fl-1091.
In seguito all'emanazione del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008, l'adozione di un 'SGSL rappresenta una notevole opportunità per le aziende in termini di gestione e contenimento dei rischi aziendali Il presente lavoro analizza e mette a confronto due sistemi di gestione, il Safety Management System, che risponde ad una norma cogente imposta dall'Enac per le società di gestione aeroportuali, ed il Sistema di Gestione della salute e Sicurezza sul Lavoro sul modello delle linee guida UNI-INAIL, mettendo in risalto i diversi punti in comune e i margini di miglioramento di entrambi. Le differenze principali tra i due sistemi risiedono nell'obiettivo che si prefiggono di raggiungere, nell'approccio alla definizione della politica e degli obiettivi. L'obiettivo che l'SMS si prefigge è analizzare e modificare le attività lavorative al fine di assicurare principalmente l'incolumità degli utenti coinvolti nelle operazioni aeroportuali, mentre il SGSL mira a definire un sistema di gestione orientato alla sicurezza sul lavoro. Nel presente studio si giunge alla conclusione che i due sistemi potrebbero essere integrati all'interno di realtà aziendali quali società di gestione aeroportuali, compagnie aeree o aziende a rischio di incidente rilevante. Dal confronto visto emerge una proposta: nella prospettiva di emettere una norma certificabile da parte di un ente accreditato, perché non integrare le due linee guida anche alla luce delle esperienze positive acquisita in questi anni di sperimentazione?
In questo saggio l 'autore propone una rivisitazione critica delle teorie sul nazionalismo. Infatti, stando alle teorie contemporanee, la nazione è una comunità che per garantirsi legittimità politica deve costituire la maggioranza della popolazione residente in un determinato territorio. Tale requisito, in realtà, risale ai romantici e all'impatto della democratizzazione in politica. Questo lavoro mette in discussione l 'utilità di questa concezione politica per lo studio della storia del nazionalismo e propone un cambiamento di terminologia. La nazione è un gruppo di persone che è consapevole di essere (o aspira a diventare) il legittimo corpo politico che rappresenta uno Stato territoriale. In questo modo possiamo tracciare i percorsi della formazione dei discorsi nazionali a partire dai rappresentanti delle istituzioni politiche dello Stato da cui essi originano e non dalle masse popolari che semmai li subiscono. ; Prema s uvr em enim teorijama nacija j e zaj ednica koja, da bi stekla zajamceni politicki l egitimitet, treba predstavljati v eéinu stanovnistva na odr edenom t eritorij u. Taj uvj et zapravo ima korij en e u romantizm u t e utj ecaj u d emokratizacij e u politici. Ovaj esej postavlja pitanj e valjanosti ov e politicke koncepcij e u proucavanj u povij esti nacionalizma i predlaze izmj en u t erminologij e. Nacija je grupa lj udi koja j e svj esna da j est (ili z eli p estati) l egitimno politicko tij elo koj e predstavlja t eritorijalnu d davu. Na taj nacin mozemo slij editi put formiranja nacionalnih pitanja, poc ev od predstavnika politickih instit ucija d dave iz koj e oni potj ec u, a n e od narodnih masa koj e ih u najbolj em sl ucaj u trpe.
Il notaio Felice Glezer (1841-1915) rappresenta una delle personalità più in vista della movimentata scena politico-culturale di Pola tra la seconda metà del secolo XIX e la prima decade di quello successivo. Eletto nel consiglio municipale, fu stretto collaboratore del podestà N. Rizzi, sostenitore di precisi programmi politici di ispirazione liberalnazionale. Attivo anche nelle vicissitudini giornalistico editoriali e culturali, conseguì buoni risultati pure quale storico e verseggiatore, pubblicando tra il 1884 e il 1887 quale autore / curatore le Notizie degli Istriani viventi di P. Stancovich, le Memorie di Rovigno e le Prose e poesie edite e inedite di J. A. Contento. Il carteggio (12 lettere) con Tomaso Luciani rivela il loro intenso rapporto di amicizia e la contestuale condivisione delle scelte politico- culturali. ; Rovinjski javni bilje'nik Felice Glezer (Rovinj, 1841. – Pula, 1915.) jedna je od najistaknutijih li~nosti 'ivahne politi~ko-kulturne scene Pule u drugoj polovici 19. i prvom desetlje}u 20. stolje}a. Nakon {to je izabran u op}insko vije}e, bio je bliski suradnik gradona~elnika N. Rizzija i pobornik posebnih politi~kih programa liberalno-nacionalnog nadahnu}a. Aktivan u novinskim, izdava~kim i kulturnim krugovima, postigao je dobre rezultate kao povjesni~ar i pjesnik, objaviv{i izme|u 1884. i 1887. u svojstvu autora/urednika slijede}a djela: Notizie degli Istriani viventi (Vijesti o 'ivu}im Istranima) P. Stancovicha; Memorie di Rovigno (Rovinjska sje}anja) i Prose e poesie edite e inedite di J. A. Contento (Objavljene i neobjavljene proze i poezije J. A. Contenta). Dopisivanje (12 pisama) s T. Lucianijem otkriva njihov prisan prijateljski odnos i kontekstualno dijeljenje istog mi{ljenja po pitanju politi~ko-kulturnog izbora. Glezer je 1884. bio me|u utemeljiteljima dru{tva Società Politica Istriana (Istarsko politi~ko dru{tvo), dok je 1894. izabran iz redova Trgova~ke komore za zastupnika u Istarskom saboru. Vi{e godina obna{ao je du'nost predsjednika dioni~kog dru{tva Pro Concordia i pulske grupe Lega Nazionale, te je kroz dugo vremensko razdoblje bio predsjedatelj dru{tva Società operaia polese (Pulsko radni~ko dru{tvo). 1904. ve}ina njegovih ~lanova kandidirala ga je za gradona~elnika Pule, ali bez rezultata.
Negli ultimi decenni l'interesse per i Sistemi Radar Passivi è cresciuto sempre più. Questa tipologia di sistema infatti offre dei vantaggi non indifferenti: la totale assenza di emissioni radio ad esempio li rendono estremamente compatibili con l'ambiente, poiché non aggiungono all'ambiente ulteriori segnali e.m. e inoltre non necessitano di una licenza a trasmettere. Questi sistemi basano il loro funzionamento su segnali già presenti per altri scopi, come il DVB-T, il 3G/UMTS e il segnale radio FM. Inoltre l'assenza di progettazione, realizzazione e manutenzione del trasmettitore abbatte i costi del sistema stesso, garantendo allo stesso tempo le funzioni di un radar convenzionale, come la capacità di monitoraggio all weather 24/24h. La tesi in oggetto, realizzata congiuntamente al CNIT (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni) attraverso il Laboratorio Nazionale RaSS (Radar and Surveillance Systems) e con la collaborazione del Centro di Supporto e Sperimentazione Navale - Istituto "G. Vallauri" - Livorno (CSSN-ITE), ha avuto come obiettivo l'ottimizzazione e il miglioramento di uno strumento software, sviluppato in ambiente Matlab, utile a simulare le prestazioni radar del dimostratore "Software-Defined Multiband Array Passive Radar" (SMARP), progettato e costruito nell'ambito del PNRM (Piano Nazionale della Ricerca Militare) e installato proprio all'Istituto "G.Vallauri" di Livorno. È stato dunque realizzato un vero e proprio "Mission Planning Tool" (MPT), ovvero un software che permette di valutare le prestazioni a priori di un sistema radar passivo localizzato in una qualsiasi posizione geografica italiana, grazie all'inserimento dei Digital Elevation Model (DEM) relativi all'intero territorio italiano, in modo del tutto automatizzato. Si è poi reso necessario modificare l'equazione del calcolo del SNR. L'equazione radar bistatica convenzionale infatti non tiene conto della funzione di ambiguità del segnale utilizzato, della potenza del segnale diretto che arriva sul ricevitore e di altri tipi di interferenti. Si è fatto in modo quindi che le prestazioni radar in uscita dal MPT venissero calcolate a partire dal SINR (Signal to Interference and Noise Ratio), il quale include i contributi sia del rumore AWGN (additional White Gaussian Noise) che degli interferenti, tra cui il segnale diretto e il multipath. Un altro fattore che influisce in modo consistente sulle prestazioni Radar sono le perdite per effetto della propagazione elettromagnetica. Per rendere quindi i risultati simulati quanto più veritieri e confrontabili con la realtà, è stata implementata sul MPT la raccomandazione ITU-R P.1546-5 "Method for point-to-area predictions for terrestrial services in the frequency range 30 MHz to 3 000 MHz". Infine, è stata effettuata una campagna di misure. Dapprima si sono volute quantificare le perdite dovute alla catena ricevente del dimostratore SMARP. Successivamente invece sono state eseguite delle misure in modo da confrontare i risultati a priori che il MPT fornisce con quello che è lo scenario reale. È stato quindi scelto sia uno scenario fisso, finalizzata alla stima del segnale diretto proveniente dall'Illuminatore di Opportunità e misurato sul sito di installazione di SMARP, che uno dinamico, ovvero la tratta Livorno-Capraia, per verificare i valori di segnale incidente sul target durante la navigazione.
Nella lunga e ricca storia dei rapporti intercorsi fra italiani e tunisini, un periodo di particolare interesse è quello fra la metà degli anni '30 del XX secolo e la fine della seconda guerra mondiale, quando decine e decine di oppositori politici al regime fascista trovarono rifugio in Tunisia e organizzarono lì una rete di lotta. Il contesto in cui si trovarono a vivere e operare era quello di una Tunisia protettorato francese, già scossa da forti fermenti anticoloniali e nazionalistici (nel 1934 Habib Burghiba fonda il partito del Neo-Destur), ed il ruolo che gli italiani svolsero fu non irrilevante, sia nel settore della stampa (e della stampa di sinistra in particolare) sia nelle organizzazioni politiche e sindacali locali. In questo contesto il mio intervento si focalizzerà sulla figura di Velio Spano, nato a Teulada in Sardegna nel 1905, espatriato clandestinamente in Francia, dove entrò nell'apparato esteri del PCI, poi condannato a sei anni di reclusione dal Tribunale speciale fascista, successivamente inviato dal partito comunista in Tunisia per organizzare la resistenza. Qui rimase cinque anni, sfuggendo a ben due condanne a morte da parte dei nazisti. Proprio in Tunisia, nel 1939, sposò Nadia Gallico, che come lui farà parte della Costituente. Il rapporto fra gli italiani e francesi che operavano per il PCF e il PCI e i nazionalisti tunisini non fu sempre idilliaco, ma l'incontro fra le diverse sensibilità fu assolutamente fecondo per gli uni e per gli altri. Ne è testimonianza il fatto che nel 1941 Velio Spano riorganizzò il Partito Comunista Tunisino divenendone di fatto il principale dirigente. ; In the long and rich history of ongoing relations between Italian and Tunisian people, a period of particular interest is that between the mid-30s of the twentieth century and the end of World War II, when dozens of political opponents of the fascist regime found shelter in Tunisia and they organized there a fight network. The context in which they found themselves to live and work was the French protectorate. Tunis ia was already shaken by strong anti-colonial and nationalist ferment (Habib Bourguiba in 1934 founded the Neo-Destour Party), and the role that Italians had in that period was not irrelevant, in the press (and the Left press in particular) in the political organizations and the local trade unions. In this context, my essay will focus on the figure of Velio Spano, b orn in 1905 in Teulada, in Sardinia, clandestinely fled to France, where he entered in the foreign apparatus of PCI. Sentenced to six years' imprisonment by the Special Fascist Cour t, subsequently sent in Tunisia from the Communist party to organize the resistance. He has been living in Tunisi for five years, escaping two death sentences by the Nazis. In Tunis ia, in 1939, he married Nadia Gallico (who, like him, will be a member of the Constituent Assembly in Italy in 1946). The relationship between Italians and French who worked for the PCF and the PCI and the Tunisian nationalists was not always idyllic, but the contacts among the various sensibilities were very fruitful. This is attested by the fact that in 1941 Velio Spano reorganized the Tunisian Communist Party and became actually its main leader.
Il mio lavoro consiste in un'analisi che coinvolge il turismo, il teatro e gli spettacoli dal vivo come possibili motori di rilancio culturale, economico e turistico per le destinazioni. Inizio la mia analisi riflettendo sul turismo e sul teatro cercando ed indagando una possibile relazione tra queste due dimensioni ed il ruolo che queste giocano nello scenario turistico italiano ed europeo. Inizio proponendo una presentazione generale dello scenario italiano ed europeo dal punto di vista turistico: chiedendomi quanto sia importante il turismo ed in quale parte il quest'ultimo contribuisca al P.I.L italiano ed europeo? Dopo aver analizzato il ruolo del turismo nello scenario italiano ed europeo, passo alla riflessione sul teatro e gli spettacoli dal vivo: come vengono impiegati nel settore turistico e in che misura vi contribuiscono? Sempre rimanendo nell'ottica del teatro e degli spettacoli dal vivo, passo ad analizzare il ruolo che svolgono più specificatamente in relazione alle destinazioni e ai territori che li ospitano, al fine di capire in che modo il teatro si configura come motivo di attrazione turistica per le destinazioni e come si relaziona col mondo dell'"hospitality. Propongo quindi una serie di esempi di progetti "site-specific" per la valorizzazione del territorio e "case-studies" con un focus specifico su alcuni territori sia a livello nazionale che internazionale. Fornisco, quindi, un'analisi più "microscopica", commentando ed analizzando alcuni progetti esistenti, messi in atto da alcune associazioni e fondazioni, accumunate dall'essere fondate sull'idea del teatro come motore di rilancio turistico e culturale per le destinazioni. A riguardo, mi sembrava cosa interessante, essendo il Comune in cui vivo, dare un piccolo spazio anche alla realtà, sicuramente più piccola, della comunità di Buti. Nonostante le modeste dimensioni, ospita una piccola ma grande risorsa che è il teatro Francesco di Bartolo. Il teatro, per la comunità, è una ricchezza, sia dal punto di vista turistico che culturale. Patrocinato da Regione Toscana e dal M.I.B.A.C,T. intrattiene collaborazioni anche all'estero, ospitando spesso prestigiose compagnie itineranti e, grazie alla collaborazione dell'associazione locale "Compagnia del Maggio" porta avanti iniziative per la promozione e conservazione del patrimonio immateriale della cultura popolare butese. L'ultima parte del mio lavoro si concentra sul ruolo del teatro e degli spettacoli dal vivo in un'ottica di scenario post Covid-19, come possibili trampolini di ri-lancio per una ripresa in chiave economico-turistica del paese. Infatti, il turismo, gli spettacoli dal vivo ed il teatro sono i settori che hanno risentito profondamente e maggiormente dei danni dovuti alla diffusione del Corona Virus. In questo capitolo cerco di capire come il teatro e gli spettacoli dal vivo possono configurarsi come motori propulsori per auspicare ad una ripresa in chiave economico, turistica e culturale del paese, contestualizzando questa riflessione nello scenario di emergenza sanitaria ed economica che il nostro paese ha fronteggiato e sta tutt'ora fronteggiando in questo periodo, scontando ancora le conseguenze di questa grave epidemia. Propongo nuove idee e metodi con i quali poter riprendere le rappresentazioni in sicurezza, con l'osservanza delle regole ma riuscendo ad assicurare l'imprescindibile presenza della componente più importante: il pubblico. My work consists of an analysis that involves tourism, theatre and live entertainment as possible ways for a cultural, economic and tourist revival for destinations. I begin my analysis with a reflection on tourism and theatres investigating a possible relationship between these two dimensions and the role they play in the Italian and European tourism scenario. I start proposing a general presentation of the Italian and European scenario from a tourist point of view: I asked myself how important tourism is and in which part it contributes to the Italian and European P.I.L. After analyzing the role of tourism in the Italian and European scenario, I turn my reflection on theatres and live shows: how are they used in the tourism sector and how they contribute to it? I move on analyzing the role they play in relation to destinations that host them, in order to understand how theatre could be a reason to attract tourists in the destinations and how it relates to the world of hospitality. I therefore propose a series of examples of "site-specific" projects with a specific focus on some places both national and international. Therefore, I provide a more "microscopic" analysis, commenting and analyzing some existing projects, realized by some associations and foundations, united by being founded on the idea of theatres as a motor for tourist and cultural revitalization of destinations. I also have a look at the community of Buti, with its Francesco di Bartolo's theater. The theatre is sponsored by the Region Toscana and M.I.B.A.C, T. and it also collaborates abroad, often hosting prestigious itinerant companies and, thanks to the collaboration with the local association "Compagnia del Maggio", it carries out projects for the promotion and conservation of the intangible heritage of Buti's popular culture. The last part of my work focuses on the role of theatre and live entertainment in a post-Covid-19 scenario, as possible re-launching trampolines for an economic-tourist recovery of destinations. Tourism, live shows and theatres are the sectors that have been deeply and most affected by the damage caused by the spread of the Corona Virus. In this chapter I try to understand how theatres and live shows can be configured as driving forces to hope for an economic, tourist and cultural recovery of the country, contextualizing this reflection in the scenario of health and economic emergency that our country has faced and still facing in this period. I propose new ideas and methods with which to be able to begin again with representations in safety, managing to ensure the presence of the most important component: the public.
Cosa significa 'appartenere' a una comunità politica? La cittadinanza è la maniera moderna di pensare il rapporto che intercorre tra gli individui e la comunità politica alle cui leggi essi sono sottoposti. Uno dei motivi per cui usiamo la parola 'cittadinanza' per indicare ciò che ci lega a uno stato, e non 'catalogo di diritti e doveri', è il fatto che la cittadinanza implichi, oltre a essi, qualcosa che chiamiamo appartenenza o membership. Nel Regno Unito, la disuguaglianza tra le classi portò T. H. Marshall a delineare nel saggio Cittadinanza e classe sociale (1950) lo status della cittadinanza come forma di uguaglianza fondamentale, sulla quale edificare anche la struttura della disuguaglianza economica. La cittadinanza implica una eguale dotazione per ognuno di diritti civili, politici e sociali: così, il contratto – che rappresenta la struttura dello stato moderno – può realmente essere un accordo tra esseri umani liberi e uguali. Secondo Marshall l'eguale dotazione di diritti per tutti avrebbe integrato la classe lavoratrice inglese dell'epoca, avrebbe realizzato la loro appartenenza allo stato inglese. Alla base dello stesso contratto marshalliano c'era «un legame di genere differente, una percezione diretta dell'appartenenza alla comunità, appartenenza fondata sulla fedeltà a una civiltà che è possesso comune». Possiamo prescindere da quest'ultima? Quali sono i 'confini' dell'appartenenza a uno stato? A cosa precisamente apparteniamo? In questo lavoro affronterò tali domande all'interno della teoria politica di Immanuel Kant. Svilupperò il tema a partire da un'analisi del rapporto tra teoria politica e antropologia. Ogni cittadinanza si giustifica a partire da qualche assunzione sulla nostra natura: ovvero, ciò che pensiamo di essere e chiediamo a noi stessi, come cittadini, è strettamente legato a come ci pensiamo come esseri umani. Pertanto, nel primo capitolo del lavoro affronterò il legame che sussiste tra cittadinanza, appartenenza e antropologia. Illustrerò quindi, a partire dalla visione antropologica che li giustifica, due modelli di cittadinanza, ovvero quella liberale e quella comunitarista. Nel secondo capitolo affronterò gli scritti antropologici di Kant, cercando di fare un confronto tra l'antropologia kantiana, l'antropologia liberale e quella comunitarista. Come si relaziona ciò che dobbiamo fare con ciò che siamo? Kant elabora una chiara distinzione tra il carattere empirico dell'essere umano, che costituisce l'oggetto dell'antropologia, e il carattere intelligibile, che è il punto di partenza della sua filosofia morale. Il dato antropologico, l'«insocievole socievolezza» che contraddistingue la specie umana, segna la difficoltà nella realizzazione di una comunità politica, che resta nondimeno possibile e doverosa. Il terzo capitolo si occupa della elaborazione a priori di un ordine politico, che in ultima istanza per Kant si identifica con un ordine giuridico cosmopolitico. Vedremo anche il significato delle nazioni nel pensiero kantiano. Kant è un filosofo del tardo illuminismo; col romanticismo il concetto di nazione sarebbe poi divenuto ciò attorno a cui edificare l'ordine politico, ma Kant resta ancora al di fuori da una tale prospettiva. Quale significato hanno allora le nazioni nella sua teoria politica? Nel quarto capitolo, e ultimo, cercherò di capire cosa significa essere cittadini per Kant. La cittadinanza kantiana è connessa alla repubblica, che è l'apice del suo pensiero politico. La repubblica è la comunità politica che sola si addice a esseri liberi, dotati di una ragione autonoma, di un carattere intelligibile, e che allo stesso tempo ha il compito di "gestire" la natura umana, la nostra «insocievole socievolezza». Studiando il repubblicanesimo kantiano si può cogliere tutta la tensione insita nei concetti di cittadinanza e di appartenenza, ovvero il tentativo di portare a unità la pluralità di esseri umani con desideri e attitudini differenti. Kant propone una visione unitaria della cittadinanza: tutti i diritti che possiamo pensare devono essere ricondotti all'unico diritto innato, la libertà come indipendenza dall'arbitrio costrittivo altrui. Quale partecipazione e appartenenza ci chiede la cittadinanza kantiana? Nella repubblica siamo legislatori di noi stessi, impegnandoci con gli altri a costruire una giustizia politica comune, grazie alla quale tutti possiamo trovare la nostra eguale libertà e alla cui autorità possiamo sottometterci senza ricorrere a visioni organiche o nazionalistiche. Come nella tradizione repubblicana classica, anche nel pensiero di Kant è presente una necessaria connessione tra libertà e patriottismo. Si tratta di un patriottismo civico, esclusivamente concentrato sulla propria comunità politica come res publica, che include la critica come un elemento necessario dell'appartenenza e ci lascia l'autonomia di scegliere in quale maniera concretizzare l'attenzione speciale per il nostro stato. Questo tipo di partecipazione e di patriottismo è stato successivamente sviluppato nella "terza via" di Philip Pettit e di Jürgen Habermas, oltre l'idea dell'antica città-stato e quella dello stato-nazione, ma fu Kant a vederlo per primo.
DUCROT, MOBILI E ARTI DECORATIVE Attiva fin dagli anni Settanta del XIX secolo fino al 1970, estendendosi gradualmente da Palermo alle maggiori città d'Italia e poi a diverse aree del Mediterraneo, la fabbrica assume la denominazione Ducrot, Mobili e Arti Decorative, Società Anonima per Azioni a partire dal 1907, quando viene registrata alla Borsa di Milano, con capitale sociale di L. 1.500.000 sede e officine a Palermo in via Paolo Gili, nella contrada dell'Olivuzza. Dal 1939, in seguito al rilevamento dell'impresa ad opera di un gruppo finanziario genovese, muta il nome in Società Anonima Ducrot. Mobili, Sede Genova – Officine Palermo, con uffici anche in piazza Piccapietra n. 83 a Genova. Fra il 1902 e il 1907, prima della trasformazione in società, l'impresa opera con la denominazione Ducrot, Successore di Carlo Golia & C. e di Solei Hebert & C., Palermo, essendone diventato proprietario unico Vittorio Ducrot, figliastro di Carlo Golia, fondatore della omonima ditta, originariamente di rappresentanza dei prodotti (stoffe per l'arredamento) della Solei Hebert & C. di Torino. Già negli anni Settanta del XIX secolo la ditta, con lussuoso negozio in corso Vittorio Emanuele a Palermo, integrava l'attività di emporio di stampo britannico per l'arredo alto borghese, con quella di atelier per tappezzerie e, poi, per la costruzione di mobili (inizialmente da giardino) e per la realizzazione di decorazioni di interni. È Vittorio Ducrot, prima come direttore poi come comproprietario (dal 1900 fino alla morte di Carlo Golia avvenuta nel 1901), a innescare l'accelerazione industriale grazie anche al reperimento di nuovi capitali di giovani benestanti palermitani, che sottraggono la ditta al fallimento (sfiorato nel 1895) e alla parziale dipendenza commerciale dalla Solei Hebert. Oltre a mettere a punto prototipi, poi derivati in serie economiche di alta qualità tecnico-formale, e a ideare arredi completi autonomamente, interpreti del principio della Gesamtkunstwerk, coordinando l'opera di scultori (Antonio Ugo, Gaetano Geraci), di pittori (Ettore de Maria Bergler, Giuseppe Di Giovanni, Michele Cortegiani, Rocco Lentini, Giuseppe Enea e Salvatore Gregorietti), di qualificate imprese artigiane o industriali nel campo delle arti applicate (la Ceramica Florio, il maestro ferraio Salvatore Martorella, la fabbrica di lampadari e apparecchi di illuminazione Carraffa, tutti di Palermo o straniere come la viennese fabbrica di tappeti Haas), Ernesto Basile, in accordo con Vittorio Ducrot, mette in atto uno dei rari esperimenti riusciti in ambito internazionale, di parziale "riorganizzazione del visibile" atto a connotare, propagandisticamente, in maniera unitaria l'immagine colta di una impresa produttiva. Di questa ricercata ufficialità modernista la manifestazione più eclatante, oltre alla progettazione delle carte intestate, dei locali di vendita dei marchi, delle nuove officine (progetto poi non realizzato), è costituita dalla partecipazione della ditta Ducrot, sempre in coppia con Ernesto Basile, ad alcune delle più importanti mostre ed esposizioni di arti decorative e industriali organizzate in Italia nel primo decennio di questo secolo. In alcuni consistenti settori, i più rappresentativi, la ditta consegue un'inappuntabile peculiarità figurale siciliana (tanto come espressioni di cultura "alta" quanto come rivalutazione e risemantizzazione di tradizioni tecnico-artistiche popolari) sostenuta dalla collaborazione di Ernesto Basile e della sua cerchia di artisti e da qualificati disegnatori di mobili (non di rado allievi di Basile) fra i quali primeggiano Michele Sberna e Ludovico Li Vigni. Conforme alla messa a punto di logiche serie di mobili aderenti ad una estetica della riproducibilità industriale, e tuttavia strutturati in insiemi dalle espressività (localizzate o complessiva) di matrice fisio-psicologica, il programma di riorganizzazione dell'impresa, attuato da Vittorio Ducrot, comprendeva anche la documentazione sistematica dell'attività produttiva, la rigida divisione del lavoro (anche all'interno delle due categorie creativa ed esecutiva), la realizzazione di nuovi e dettagliati cataloghi di vendita, l'espansione del mercato con moderni criteri persuasivi (fondati sul concetto di irrinunciabilità inoculato nei potenziali acquirenti dalle stesse comunicative e riconoscibili qualità tecnico-formali dei prodotti e da un'abile azione propagandistica). In quest'ottica rientra, oltre all'impegnativa partecipazione alle manifestazioni espositive, la proliferazione sul territorio nazionale di eleganti succursali di vendita, in gran parte arredate da Basile: a Catania, in via Stesicoro, nel 1904; a Milano, in via T. Grassi, nel 1907; a Roma, in via del Tritone, nel 1910 (poi trasferita in via Condotti); a Napoli, in via G. Filangeri, nel 1917. Fra gli arredi particolari realizzati prima della guerra del 1915-1918 ricordiamo, inoltre, quelli del 1906 per il Palazzo d'Estate dell'Ambasciata Italiana a Therapia (Istanbul) nell'Impero Ottomano e quelli per gli uffici della FIAT a Milano del 1911. Dal 1912 al 1930 Giuseppe Capitò, sia pure in maniera discontinua, collabora con la Società come Direttore Artistico. Durante il Primo Conflitto Mondiale gli impianti vengono adattati alla costruzione di biplani idrovolanti caccia-bombardieri per i governi italiano, francese e inglese; viene realizzato, pertanto, un distaccamento delle officine sull'arenile della città balneare di Mondello. Dal 1919 inizia la produzione di arredi navali; dopo la realizzazione dei mobili e delle decorazioni per il Regio Yacht Savoia i principali committenti saranno la Navigazione Generale Italiana e la Società Italiana di Servizi Marittimi. Per queste società di navigazione (soprattutto per la prima creata dai Florio), dal 1919 al 1932 gli stabilimenti di via P. Gili (poi coadiuvati nelle sole fasi di montaggio, nei Cantieri di Genova, da una ditta subalterna dell'ingegnere Tiziano De Bonis) arredano la turbonave Esperia (1919-20), i transatlantici Giulio Cesare (1920-21), Duilio (1922-23), Roma (1925-26) e Augustus (1926), la turbonave Ausonia (1926-28), i transatlantici Città di Napoli (1927-28) e Rex (1930-32). Dal 1923 al 1930 nella Sezione Navale dell'Ufficio Tecnico operano Giuseppe Spatrisano e altri giovani architetti e artisti palermitani, fra cui Vittorio Corona. Fra le tante collaborazioni per gli arredi navali figura quella di Galileo Chini. A cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta la Ducrot realizza innumerevoli arredi, spesso déco, per navi di privati (del 1931 è l'incarico per la nave dello Scià di Persia), per panfili, per sontuose residenze patrizie. Nel 1930 Carlo Ducrot, figlio di Vittorio, assume la carica di Direttore Tecnico e imprime la definitiva svolta "moderna" all'impresa paterna. Nel 1932 entrano in produzione i mobili in tubolare metallico, ma appena due anni dopo la Società accusa forti difficoltà economiche causate anche dalla caduta delle grandi commesse navali (fra questi ricordiamo gli arredi per le cabine e gli ambienti comuni degli ufficiali nelle unità della Regia Marina Militare). Nel 1936 l'estensione degli stabilimenti si riduce a soli 8.500 mq.; i rimanenti due terzi del complesso vengono riformati per l'istallazione della Società Anonima Aeronautica Sicula creata in seguito alla fusione con la fabbrica Caproni: Vittorio Ducrot ne è Vice Presidente. La fabbrica di mobili nel 1939 cade nelle mani del gruppo finanziario capeggiato da Tiziano De Bonis; Vittorio Ducrot conserva la carica di Presidente della nuova Società (sarebbe morto tre anni dopo). Dopo le forniture per il Consolato Alleato (1943-45), l'attività del mobilificio ritorna al mercato libero e alle grandi commesse, perpetuando, nei venticinque anni di attività del secondo dopoguerra, la proverbiale fama di imperabilità tecnica e onestà costruttiva dei suoi prodotti, ma perdendo inesorabilmente il ruolo di propositrice di forme nuove e originali. La Società continua ad avvalersi di qualificati progettisti palermitani e non (fra questi ricordiamo V. Monaco, A. Luccichenti, M. Marchi, M. Collura, M. De Simone) e della collaborazione di artisti di primo piano (fra cui Giuseppe Capogrossi e Edgardo Mannucci), ma non persegue una originale politica culturale, limitandosi a registrare, con garbato gusto reinterpretativo, gli esiti dei nuovi orientamenti della cultura della progettazione industriale.
2008/2009 ; L'ecologia è una disciplina storica: i processi ecologici in corso sono il risultato di quello che è accaduto nel passato. Non conosciamo però quando e con che intensità l'uomo ha iniziato ad alterare l'ambiente marino, e non conosciamo lo stato "naturale" degli ecosistemi. L'ecologia storica ha come obiettivo lo studio degli ecosistemi e delle sue componenti a posteriori, attraverso il recupero e la meta-analisi di documenti del passato. La ricostruzione dello stato passato (historical baseline) degli ecosistemi è essenziale per la definizione di punti di riferimento (reference points) e direzioni di riferimento (reference directions) per valutare i cambiamenti e per stabilire obiettivi di ripristino. Basare gli studi di biomonitoraggio solo su dati recenti può, infatti, indurre la sindrome del "shifting baseline", ovvero uno spostamento di generazione in generazione del punto di riferimento cui confrontare i cambiamenti, con la conseguenza di sottostimare eventuali processi di degrado in atto. Inoltre, i processi ecologici agiscono su scale temporali diverse (da anni a decenni), e per capirne le dinamiche è quindi necessario considerare un'adeguata finestra temporale. Studiare le dinamiche a lungo termine delle comunità marine permette quindi di monitorare e valutare lo stato e i cambiamenti degli ecosistemi rispetto ad un adeguato riferimento, in cui le comunità marine sono usate come indicatori. La raccolta e lo studio di documentazione storica rappresentano, quindi, un'attività imprescindibile nell'ambito del monitoraggio ambientale. La pesca rappresenta uno dei principali fattori di alterazione negli ecosistemi marini, ed è considerata la principale causa di perdita di biodiversità e del collasso delle popolazioni. I suoi effetti, diretti e indiretti, costituiscono una fonte di disturbo ecologico in grado di modificare l'abbondanza delle specie, gli habitat, la rete trofica e quindi la struttura e il funzionamento degli ecosistemi stessi. Essa rappresenta una fonte "storica" di disturbo, essendo una delle prime attività antropiche di alterazione dell'ambiente marino. Inoltre, la sovra-pesca (overfishing) sembra essere un pre-requisito perché altre forme di alterazione, come l'eutrofizzazione o la diffusione di specie alloctone, si manifestino con effetti più pervicaci. La pesca rappresenta però anche una sorta di campionamento estensivo non standardizzato delle popolazioni marine. Dal momento che dati raccolti ad hoc per il monitoraggio delle risorse alieutiche (fishery-independent) sono disponibili solo dopo la seconda metà del 20° secolo, e in alcuni casi (come in Mediterraneo) solo per le ultime decadi, lo studio delle dinamiche a lungo termine richiede il recupero di informazioni che sostituiscono le osservazioni strumentali moderne e possono essere comunque considerati descrittori dei processi di interesse (proxy). La principale criticità nel ricostruire serie storiche a lungo termine nasce dall'eterogeneità dei dati storici e dalla necessità di elaborare metodologie per l'analisi e l'integrazione dei dati qualitativi o semi-quantitativi del passato con i dati moderni. A seconda del periodo considerato e dell'ampiezza della finestra temporale di studio, quindi, è necessario applicare diverse metodologie d'analisi. La gestione sostenibile dello sfruttamento delle risorse alieutiche è un tema sempre più rilevante nel contesto della pesca mondiale, come conseguenza del progressivo aumento della capacità e dell'efficenza di pesca stimolati dal progresso tecnologico. Ciò ha portato all'impoverimento delle risorse ittiche determinando effetti negativi sia in termini ecologici che socio-economici. Tradizionalmente la gestione della pesca si è basata sulla massimizzazione delle catture di singole specie bersaglio, ignorando gli effetti sugli habitat, sulle interazioni trofiche tra le specie sfruttate e le specie non bersaglio, e su altre componenti dell'ecosistema. Questo ha portato al depauperamento delle risorse e all'alterazione della struttura e funzionamento degli ecosistemi, rendendo le misure gestionali spesso inefficaci. Per questo motivo è necessario applicare una gestione della pesca basata sull'ecosistema (Ecosystem-based fishery management), che ha come obiettivi: prevenire o contenere l'alterazione indotta dalla pesca sull' ecosistema, valutata mediante l'applicazione di indicatori; tenere in considerazione gli effetti indiretti del prelievo sull'insieme delle componenti dell'ecosistema e non solo sulle specie bersaglio (cascading effect); proteggere habitat essenziali per il completamento del ciclo vitale di diverse specie; tutelare importanti componenti dell'ecosistema (keystone species) da pratiche di pesca distruttive; monitorare affinchè le attività antropiche non compromettano le caratteristiche di struttura delle comunità biotiche, per preservare caratteristiche funzionali quali la resilienza e la resistenza dell'ecosistema, prevenendo cambiamenti che potrebbero essere irreversibili (regime-shifts). A tale scopo è necessario essere in possesso di adeguate conoscenze relative alle caratteristiche ecologiche ed allo stato degli stock sfruttati, monitorandone le dinamiche e consentendo l'applicazione di modalità gestionali adeguate. L'approccio ecosistemico alla gestione della pesca prevede l'applicazione di indicatori che siano in grado di descrivere lo stato degli ecosistemi marini, le pressioni antropiche esercitate su di essi e gli effetti di eventuali politiche gestionali sull'ambiente marino e sulla società. Nell'ambito dell'ecologia storica l'Alto Adriatico rappresenta un caso di studio interessante, sia per la disponibilità di fonti storiche, sia perché è un ecosistema che nei secoli ha subito diversi impatti ed alterazioni. La presente tesi di dottorato si inserisce nell'ambito del progetto internazionale History of Marine Animal Populations (HMAP), la componente storica del Census of Marine Life (CoML), uno studio decennale (che si concluderà nel 2010) per valutare e spiegare i cambiamenti della diversità, della distribuzione e dell'abbondanza della vita negli oceani nel passato, nel presente e nel futuro. HMAP è un progetto multidisciplinare che, attraverso una lettura in chiave ecologica delle interazioni storiche tra uomo e ambiente, ha come obiettivo la ricostruzione delle dinamiche a lungo termine degli ecosistemi marini e delle forzanti (sia naturali che antropiche) che li hanno influenzati. Tale ricostruzione permette di migliorare la nostra comprensione dei processi ecologici, di ridefinire i punti di riferimento sullo stato dell'ecosistema (historical baseline), e di valutare la variabilità naturale su ampia scala temporale (historical range of variation). Gli obiettivi del presente progetto di dottorato sono: i) descrivere le attività di pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli, quale principale forzante che ha agito sull'ecosistema; ii) analizzare i cambiamenti a lungo termine della struttura della comunità marina; iii) valutare ed interpretare i cambiamenti intercorsi mediante applicazione di indicatori. Allo scopo è stata condotta un'estensiva ricerca bibliografica nei principali archivi storici e biblioteche di Venezia, Chioggia, Trieste, Roma e Spalato al fine di individuare, catalogare e acquisire informazioni e dati sulle popolazioni marine e le attività di pesca nell'Alto Adriatico nel 19° e 20° secolo. La tipologia delle fonti raccolte include documenti storici e archivistici, cataloghi di specie, fonti statistiche come i dati di sbarcato dei mercati ittici e informazioni sulla consistenza delle flotte e gli attrezzi da pesca utilizzati. Si rileva come la ricerca d'archivio abbia evidenziato un'ampia disponibilità di documenti storici, inerenti sia le popolazioni marine che le attività di pesca. La tesi è organizzata in tre capitoli. Il primo è parzialmente tratto dal libro "T. Fortibuoni, O. Giovanardi, e S. Raicevich, 2009. Un altro mare. Edizioni Associazione Tegnue di Chioggia – onlus, 221 pp." e ricostruisce la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli; il secondo rappresenta una versione estesa del manoscritto "T. Fortibuoni, S. Libralato, S. Raicevich, O. Giovanardi e C. Solidoro. Coding early naturalists' accounts into historical fish community changes" (attualmente sottomesso presso rivista internazionale ISI), e ricostruisce, attraverso l'intercalibrazione ed integrazione di fonti qualitative e quantitative, i cambiamenti della struttura della comunità ittica avvenuti tra il 1800 e il 2000; il terzo capitolo analizza, mediante l'applicazione di indicatori, i cambiamenti qualitativi e quantitativi della produzione alieutica dell'Alto Adriatico dal secondo dopoguerra ad oggi (1945-2008), inferendo informazioni sui cambiamenti cui è stata sottoposta la comunità marina alla luce di diverse forzanti (manoscritto in preparazione). L'obiettivo del primo capitolo è descrivere l'evoluzione della capacità di pesca, principale forzante che storicamente ha interagito con l'ecosistema marino, in Alto Adriatico dal 1800 ad oggi. La diversificazione, sia per varietà di attrezzi utilizzati che per la molteplicità delle specie sfruttate, delle attività di pesca storicamente condotte in Alto Adriatico è un tratto caratteristico di tale area. Le differenze morfologiche e biologiche delle due sponde, occidentale e orientale, e le diverse vicende storiche e politiche, hanno portato infatti ad uno sviluppo delle attività di pesca nettamente diversificato. Sulla sponda orientale la pesca ha rappresentato, almeno fino all'inizio del 20° secolo, un'attività di sussistenza. Era praticata quasi esclusivamente nelle acque costiere, con un'ampia varietà di attrezzi artigianali e mono-specifici, concepiti cioè per lo sfruttamento di poche specie e adattati a particolari ambienti. Al contrario, lungo la costa occidentale operavano flotte ben sviluppate, come quella di Chioggia, che si dedicavano alla pesca in mare su entrambe le sponde adriatiche con attrezzi a strascico, compiendo migrazioni stagionali tra le due sponde per seguire le migrazioni del pesce. La capacità di pesca in Alto Adriatico è aumentata a partire dalla seconda metà del 19° secolo, periodo in cui si è osservato uno sviluppo sia in termini di numero di imbarcazioni che di addetti, grazie ad una congiuntura economica, sociale e storica favorevole. Fino alla I Guerra Mondiale, però, le tecniche di pesca sono rimaste pressoché invariate, e le attività erano condotte con barche a vela o a remi. Già all'inizio del 20° secolo l'Alto Adriatico era sottoposto ad un'intensa attività di pesca che, compatibilmente con le tecnologie disponibili all'epoca, riguardava principalmente le aree costiere, mentre l'attività era più moderata in alto mare. Durante la II Guerra Mondiale si è assistito al fermo quasi totale della pesca, con conseguente disarmo della maggior parte dei pescherecci. Nell'immediato dopoguerra il numero di imbarcazioni è aumentato molto velocemente, e sono state introdotte alcune innovazioni che in breve tempo hanno cambiato radicalmente le attività di pesca tradizionali (industrializzazione della pesca). Innanzitutto l'introduzione del motore, con conseguente espansione delle aree di pesca ed aumento delle giornate in mare, grazie all'indipendenza della navigazione dalle condizioni di vento. Il motore ha anche permesso l'introduzione di nuovi attrezzi da pesca, più efficienti ma al contempo più impattanti, che richiedono un'elevata potenza per essere manovrati (ad esempio il rapido e la draga idraulica). Altre innovazioni hanno determinato un miglioramento delle condizioni dei pescatori e un aumento consistente delle catture. Analizzando la storia della pesca in Alto Adriatico negli ultimi due secoli si possono quindi distinguere principalmente due periodi diversi: pre-1950, quando aveva notevole importanza su entrambe le coste la pesca strettamente costiera, praticata con attrezzi artigianali e mono-specifici, mentre la pesca a strascico in mare aperto era prerogativa delle flotte italiane (ed in particolare di Chioggia) ed era praticata con barche a vela; il periodo successivo al 1950, che ha visto l'introduzione del motore, un aumento esponenziale del tonnellaggio e del numero di barche e la sostituzione graduale di attrezzi artigianali mono-specifici con attrezzi multi-specifici ad elevato impatto. Se nel primo periodo la pesca si basava sulle conoscenze ecologiche del pescatore, che adattava le proprie tecniche in funzione della stagione, dell'habitat e degli spostamenti delle specie, nel secondo si è visto un maggior investimento nella tecnologia e nell'utilizzo di attrezzi multi-specifici. Negli ultimi vent'anni la capacità di pesca delle principali flotte italiane operanti in Alto Adriatico si è stabilizzata su valori elevati, e in alcune marinerie all'inizio del 21° secolo è iniziata una lieve diminuzione, in linea con i dettami della Politica Comune della Pesca dell'Unione Europea. A tutt'oggi comunque lo sforzo di pesca in questo ecosistema è molto elevato; ad esempio, alcuni fondali possono essere disturbati dalla pesca a strascico con intensità superiori a dieci volte in un anno, determinando un disturbo cronico su habitat e biota. Il secondo capitolo presenta una nuova metodologia per intercalibrare ed integrare informazioni qualitative e quantitative sull'abbondanza delle specie, per ottenere una descrizione semi-quantitativa della comunità ittica su ampia scala temporale. La disponibilità di dati quantitativi sulle popolazioni marine dell'Alto Adriatico prima della seconda metà del 20° secolo è, infatti, scarsa, e la ricostruzione di cambiamenti a lungo termine richiede l'integrazione e l'analisi di dati provenienti da altre tipologie di fonti (proxy), tra cui i cataloghi dei naturalisti e le statistiche di sbarcato dei mercati ittici. Le opere dei naturalisti rappresentano la principale e più completa fonte d'informazione sulle popolazioni ittiche dell'Alto Adriatico nel 19° secolo e almeno fino alla seconda metà del 20° secolo. Consistono in cataloghi di specie in cui ne vengono descritte l'abbondanza (in termini qualitativi: ad esempio raro, comune, molto comune), le aree di distribuzione, la taglia, gli aspetti riproduttivi e altre informazioni ancillari. Sono stati raccolti trentasei cataloghi di specie per il periodo 1818-1956, in cui sono descritte un totale di 255 specie ittiche. I dati di sbarcato costituiscono l'unica fonte quantitativa per un elevato numero di specie disponibile per l'Alto Adriatico a partire dalla fine del 19° secolo. I dati utilizzati nel presente lavoro sono riferiti ai principali mercati e aree di pesca dell'Alto Adriatico e coprono il periodo 1874-2000, e sono espressi come peso umido di specie o gruppi di specie commerciate in un anno (kg/anno). Poiché i naturalisti basavano le proprie valutazioni sull'abbondanza delle specie su osservazioni fatte presso mercati ittici, porti e interviste a pescatori, è stato possibile sviluppare una metodologia per intercalibrare ed integrare le due fonti di dati, permettendo un'analisi di lungo periodo dei cambiamenti della comunità ittica. L'intercalibrazione e l'integrazione dei due datasets ha infatti permesso di descrivere, con una scala semi-quantitativa, l'abbondanza di circa 90 taxa nell'arco di due secoli (1800-2000). Mediante l'applicazione di indicatori basati sulle caratteristiche ecologiche dei taxon è stato così possibile analizzare cambiamenti a lungo termine della comunità ittica. Sono stati evidenziati segnali di cambiamento che precedono l'industrializzazione della pesca, con una diminuzione significativa dell'abbondanza relativa dei predatori apicali (pesci cartilaginei e specie di taglia elevata) e delle specie più vulnerabili (specie che raggiungono la maturità sessuale tardi). Questo lavoro rappresenta uno dei pochi casi in cui è stato studiato il cambiamento della struttura di un'intera comunità ittica su un'ampia scala temporale (due secoli), e presenta una nuova metodologia per l'intercalibrazione ed integrazione di dati qualitativi e quantitativi. In particolare le testimonianze dirette dei naturalisti – considerate per molto tempo dai biologi della pesca "aneddoti" e non "scienza" – si sono rilevate un'ottima fonte per ricostruire cambiamenti a lungo termine delle comunità marine. La metodologia elaborata in questo lavoro può essere estesa ad altri casi-studio in cui è necessario integrare informazioni qualitative e quantitative, permettendo di estrarre nuove informazioni da vecchie – e talvolta sottovalutate – fonti, e riscoprire l'importanza delle testimonianze di naturalisti, viaggiatori e storici. Il terzo capitolo affronta un'analisi quantitativa dei cambiamenti ecologici dell'Alto Adriatico, condotta mediante analisi dello sbarcato del Mercato Ittico di Chioggia tra il 1945 e il 2008 e l'applicazione di indicatori. È stato scelto questo mercato per la disponibilità di dati per un ampio periodo storico (circa 60 anni), che ha permesso di valutare i cambiamenti avvenuti in un arco di tempo in cui si è assistito all'industrializzazione, ad una rapida ascesa e al successivo declino della pesca. Chioggia rappresenta il principale mercato ittico dell'Alto Adriatico rifornito dalla più consistente flotta peschereccia dell'area, che sfrutta sia zone costiere che di mare aperto. Oltre ad un'analisi dell'andamento temporale dello sbarcato totale, sono stati applicati alcuni indicatori trofodinamici (livello trofico medio, Fishing-in-Balance, Relative Price Index e rapporto Pelagici/Demersali) e indicatori basati sulle caratteristiche di life-history delle specie (lunghezza media della comunità ittica e rapporto Elasmobranchi/Teleostei). L'utilizzo complementare di più indicatori, sensibili in misura diversa alle fonti di disturbo ecologico e riferite a diverse proprietà emergenti dell'ecosistema e delle relative caratteristiche strutturali, ha permesso di descrivere i cambiamenti avvenuti dal secondo dopoguerra ad oggi e identificare le potenziali forzanti che hanno agito sull'ecosistema. Ad una rapida espansione della pesca, cui è conseguito un aumento significativo delle catture (che hanno raggiunto il massimo negli anni '80), è seguita una fase di acuta crisi ambientale. L'effetto sinergico di diverse forzanti (pesca, eutrofizzazione, crisi anossiche, fioriture di mucillaggini) ha modificato la struttura e la composizione della comunità biologica, inducendo una graduale semplificazione della rete trofica. Fino agli anni '80 l'aumento della produttività legato all'incremento di apporto di nutrienti ha sostenuto l'elevata e crescente pressione di pesca, malgrado progressivi cambiamenti strutturali della comunità (regime-shifts), rendendo l'Adriatico il più pescoso mare italiano. Successivamente il sistema sembra essere entrato in una situazione di instabilità, manifestatasi con un drastico calo della produzione alieutica, bloom di meduse (soprattutto Pelagia noctiluca), maree rosse (fioriture di dinoflagellati potenzialmente tossici), crisi anossiche e conseguenti mortalità di massa, regressione di alcune specie importanti per la pesca come la vongola (Chamelea gallina), e fioriture sempre più frequenti di mucillaggini. L'analisi conferma che la sovra-pesca ha agito da pre-requisito perché altre forme di alterazione si manifestassero, e attualmente non sono evidenti segnali di recupero, probabilmente a causa sia di una diminuzione della produttività primaria che della pressione cronica e tuttora crescente indotta dalla pesca. L'approccio di ecologia storica utilizzato ha permesso di ricostruire la storia della pesca in Alto Adriatico, evidenziandone le dinamiche di sviluppo, i cambiamenti tecnologici, strutturali e di pressione ambientale. L'insieme delle analisi e delle fonti raccolte ha permesso di ricostruire - in termini semi-quantitativi - le attività di pesca in Alto Adriatico dal 19° secolo a oggi, analizzare i cambiamenti della comunità ittica nell'arco di due secoli, e infine approfondire le analisi per gli ultimi sessanta anni attraverso l'applicazione di indicatori quantitativi. Da questo studio emerge come già all'inizio del 20° secolo la pesca fosse pienamente sviluppata nell'area, causando cambiamenti strutturali nella comunità ittica, ben prima dell'industrializzazione. Dal secondo dopoguerra si è verificato un rapido incremento dell'intensità delle diverse forzanti antropiche, il cui effetto sinergico ha alterato profondamente l'ecosistema portandolo ad uno stato di inabilità, culminato in gravi crisi ambientali e un netto calo della produzione alieutica. ; XXII Ciclo ; 1979
Le motivazioni che mi hanno spinto a redigere questo elaborato sono diverse. Una su tutte il senso di responsabilità verso una frase di H., pastore palestinese e leader della resistenza nonviolenta nelle colline a sud di Hebron, che ho sentito particolarmente ispirante: "il vostro ruolo qui è molto importante, ma è più importante in Italia". Molte sono state le spinte che ho ricevuto in questo senso durante la mia esperienza in Palestina/Israele della primavera scorsa, quando, tramite Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, mi sono recato in qualità di volontario di breve periodo nella parte meridionale della Cisgiordania, nelle colline a sud di Hebron. Su queste colline ho trascorso tre mesi vivendo ad At-Tuwani, il villaggio più grande dell'area, situato nella zona denominata come Masafer Yatta. Questa esperienza, valida anche come tirocinio formativo del corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti, mi è stata utile, soprattutto, per conoscere la verità su quanto accade nei territori palestinesi occupati. Dopo aver conosciuto la triste situazione di precarietà che vivono le famiglie palestinesi della comunità delle South Hebron Hills e dopo aver visto con i miei occhi la prassi nonviolenta che hanno deciso di adottare come metodo di resistenza attiva all'occupazione militare e civile israeliana, in questo elaborato ho provato a trovare il risvolto pratico e "tornare alla teoria" di quanto studiato in Teoria dei conflitti. Le asimmetrie dei conflitti, le teorie e le strategie di resistenza e le differenze di approccio ai conflitti, dopo esser stato immerso totalmente all'interno di una comunità palestinese periferica, sono state ancor più nitide e trasparenti. Oltre ad aver ascoltato numerose testimonianze di volontari internazionali ed essermi informato mediante la lettura di articoli di giornale, saggistica e siti internet, ho conosciuto la situazione israelo-palestinese attraverso i racconti di tre ragazzi provenienti da altrettante famiglie palestinesi: Bashar, Khaled e Hassan. Quattro anni fa, tra il settembre 2008 e il febbraio 2009 ho studiato per sei mesi – tramite il programma Erasmus svolto all'interno del mio precedente ciclo di laurea triennale – presso l'università di Brno, in Repubblica Ceca. In quel luogo ho avuto la possibilità di conoscere giovani provenienti da tutto il mondo e stringere una forte amicizia con i tre ragazzi, due giordani e un siriano. Nel dicembre del 2008, durante i tristi giorni della violenta campagna militare israeliana su Gaza denominata "Piombo Fuso", mi sono trovato così a comprendere ciò che accadeva al di là del Mediterraneo, attraverso coloro che avevano, in un certo modo, subito le stesse sofferenze. Fu per me molto forte condividere quella situazione attraverso i racconti dei figli dei profughi palestinesi. Attraverso il quotidiano aggiornamento delle notizie, gli approfondimenti, le discussioni, le manifestazioni di piazza, la visione di documentari e filmati, audio, sessioni in arabo ed inglese di Al Jazeera e soprattutto mediante numerosi racconti personali di storie raccontategli a sua volta dai genitori e parenti, profughi del '48 e del '67, mi resi conto, in quei mesi, delle forti ingiustizie che avevano luogo in quello spicchio di terra, che prima, per me, non aveva un cosi forte significato. Avendo conosciuto la questione di "Palestina/Israele" tramite questi giovani e le storie delle loro famiglie, ho trovato le giuste motivazioni per svolgere, tre anni e mezzo più tardi, un esperienza con Operazione Colomba nei territori palestinesi. L'esperienza all'estero – anche se per soli tre mesi – è stata fondamentale per la scrittura di questo elaborato poiché ha stravolto il mio modo di vedere e leggere quella ingarbugliata situazione. I pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron non hanno il linguaggio tipicamente geopolitico che spesso si sente nei salotti televisivi o nelle discussioni europee mentre si argomenta riguardo la questione israelo-palestinese. La lingua della gente è quella della dignità e della resistenza, chiede a gran voce la tutela dei più elementari diritti di cui vengono privati ogni giorno e mostra in maniera pratica la possibilità che nei salotti televisivi non viene mai presa in considerazione: la rivoluzione nonviolenta e la trasformazione del conflitto. É questa la ragione, dopo aver esser stato volontario di Operazione Colomba, che mi ha suscitato l'intenzione di redigere questa tesi di laurea. Sentendo forte la necessità di aiutare quella resistenza nonviolenta anche in Italia, ho provato a concedergli lo spazio meritato all'interno di una discussione accademica e ho tentato di farla rientrare a pieno diritto all'interno delle categorie teoriche studiate nella Teoria dei conflitti. Per cercare di non focalizzare l'attenzione solo su una dimensione del conflitto, ho deciso di avvalermi di molteplici strumenti. Ho utilizzato i diari dei volontari, report e articoli scritti sui vari siti delle associazioni che lavorano "sul campo", classici manuali e saggi, documentari, film e interviste video e audio. Oltre alla mia esperienza e al mio diario, ho avuto il prezioso aiuto di alcuni volontari di Operazione Colomba che, attraverso una breve intervista composta da tre domande, hanno riflettuto e poi descritto quelle che sono, secondo il loro parere, le caratteristiche del Corpo Civile di Pace con cui sono partiti per un esperienza all'estero e la metodologia di intervento. Nel redigere questo elaborato, ho provato, come richiede una tesi di laurea magistrale, ad essere oggettivo nel descrivere in maniera analitica tutte le dimensioni, anche quelle che ho vissuto in prima persona. Da italiano e quindi da "parte terza" nel conflitto israelo-palestinese, ho cercato di essere imparziale, pur sapendo le difficoltà in cui incorre qualsiasi autore che redige un determinato documento, accademico o giornalistico che sia. Il mio desiderio è stato quello di cercare l'imparzialità e l'oggettività del narratore, seguendo il modello tracciato dalla nuova storiografia israeliana di T. Segev, B. Morris e I. Pappe. La storia – come sostiene un opuscolo pubblicato da un'associazione di Siena – va ricercata "nelle mani di chi coltiva la speranza, negli sguardi di chi è ebbro di vita, nella fatica di chi ara la terra e accudisce l'olivo"1. L'imparzialità nell'analisi della situazione israelo-palestinese, dal punto di vista grammaticale, è resistita sino alla fine del quarto capitolo, poiché, nella quinta ed ultima sezione, intervistando volontari con cui ho vissuto ad At-Tuwani o che comunque ho conosciuto di persona, raccontando e analizzando anche la mia esperienza personale con la Colomba, non son riuscito a trattenere il mio spirito di forte partecipazione. Se non son riuscito ad essere completamente oggettivo nella descrizione della storia e delle vicende di israeliani e palestinesi significa che sono stato colto da errore e me ne assumerò le responsabilità. Essendo quello su cui ho argomentato un conflitto – come molti altri – ricco di mitologia, le narrazioni presentate al grande pubblico sono quasi sempre solo due e sempre polarizzate una dall'altra. La realtà dei fatti è che entrambe le storie omettono molti passaggi ed eventi diventando così faziose. Il mio tentativo è stato quindi quello di cercare di andare oltre a questa dicotomia e raccontare la storia il piu veritiera e obiettiva possibile. "Lo storico francese Fernand Braudel ha ideato una teoria che paragona il processo storico a un fiume. Ciò che si trova in superficie scorre a grande velocità mentre ciò che si trova sott'acqua si sposta lentamente. Gli avvenimenti scorrono veloci ma nello stesso tempo si nota anche una grande stabilità delle vecchie strutture e dei vecchi modi di pensare. Questi ultimi cambiano molto più lentamente."2 Con questo concetto ben stampato nella mente, anch'io ho cercato di comprendere avvenimenti "di superficie" e i cambiamenti delle "vecchie strutture". Nel primo capitolo ho analizzato gli eventi storici in maniera alternativa, cercando di raccontare i fatti tramite le parole dei protagonisti e provando a ricostruire gli eventi attraverso una pluralità di informazioni. Non mi sono documentato solo dai classici manuali di saggistica, ma ho deciso di avvalermi anche di video-documentari, filmati, report di associazioni, articoli di giornale e siti internet. Inoltre non ho solo incrociato le fonti bibliografiche ma ho cercato di informarmi sottolineando le discrepanze tra le diverse letture che ho svolto. Avendo riflettuto molto sulle parti riportate in questo capitolo e non volendo rinunciare a segnalare alcun autore, forse, il risultato ne è stata una variante un po' troppo estesa. Mi sono prolungato sugli eventi dal 1880 in poi, perché ho considerato necessario soffermarmi su alcuni nodi storici per comprendere meglio la complessità della quotidianità palestinese e israeliana. Ho cercato di rappresentare alcuni aspetti e dimensioni della storia di tutta l'area dando un peso particolare alla questione della terra e delle risorse, evidenziando, quando ne ho avuto la possibilità, la situazione delle popolazioni periferiche, della situazione scolastica, e di coloro che svolgono un lavoro legato a pastorizia, allevamento e agricoltura. Ho tentato di analizzare maggiormente queste dimensioni per comprendere alla radice le cause dei problemi attuali che vivono i pastori palestinesi che abitano le colline a sud di Hebron. La situazione di quest'area periferica l'ho analizzata nel secondo capitolo, proponendo un percorso storico dal 1948 in poi, dal 1967 con l'occupazione militare, l'insediamento delle colonie e degli avamposti ebraici, fino ad arrivare alla divisioni in aree degli accordi di Oslo, sino alle ultime dinamiche ed eventi accaduti ai giorni nostri. Ho utilizzato esempi provenienti dalla quotidianità della politica di occupazione militare e civile israeliana e come agisce privando i palestinesi che vivono la zona dei più elementari diritti. La situazione paradossale che si crea in quell'area, che secondo gli accordi di Oslo è area C quindi a completa amministrazione militare e civile israeliana è ancora più forte se si pensa alla situazione dei bambini delle South Hebron Hills che, dal 2005 ad oggi, dopo una decisione della Commissione per i diritti dell'infanzia della Knesset, il parlamento israeliano, devono aspettare tutte le mattine e tutti i pomeriggi, una scorta armata dell'IDF che li protegga dagli attacchi dei coloni per poter fare in sicurezza il tragitto da casa a scuola, e viceversa. I capitoli tre e quattro rappresentano il nocciolo della questione, poiché rappresentano quanto mi ero proposto di analizzare e argomentare, espressione del titolo dell'elaborato. Nel terzo ho descritto la situazione di vita complessa e difficile e come viene ribaltata dalla scelta nonviolenta che ha adottato la comunità palestinese che abita le colline a sud di Hebron e del Comitato di Resistenza Popolare, nato nel 2000. Una resistenza, quella di questi palestinesi, che non ha nulla a che vedere con le immagini che i maggiori media nazionali ed internazionali propugnano alla televisione. Una paziente e quotidiana resistenza, che è attiva e decisa nel combattere le ingiustizie e che proviene, in prima istanza, dall'essenza pacifica dei pastori stessi. Alla minaccia di arresto da parte dei soldati o agli attacchi e alle provocazioni dei coloni ai danni di un palestinese su un dato territorio loro rispondono tornando su quell'area organizzando marce e manifestazioni pacifice. Alle demolizioni di strutture o danni ai caseggiati, i nonviolenti palestinesi rispondono ricostruendo quanto distrutto e denunciando le ingiustizie subite presso gli enti preposti. Ai danni degli oliveti e dei campi di grano che sono dislocati su tutte le colline intorno ai villaggi, i palestinesi replicano facendo rinascere la vita, piantando nuovi ulivi e seminando grano per l'anno successivo. Il Comitato, ente preposto per l'organizzazione della resistenza, ha anche il ruolo di organizzare marce per la pace, azioni nonviolente, training di formazione alla nonviolenza e ha avuto l'appoggio di numerosi gruppi di attivisti israeliani e internazionali che vivono e lavorano nell'area. Essendo quella nonviolenta una scelta di massa e popolare, i palestinesi che vivono ad At-Tuwani e nei villaggi vicini hanno avuto l'opportunità, oltre a ricevere in visita numerose delegazioni di israeliani, attivisti e non, di accogliere due gruppi di internazionali, i Christian Peacemaker Team e Operazione Colomba. Oltre alla solidarietà e al supporto, dal 2004 i due gruppi vivono nell'area, condividendo i pericoli e le ostilità quotidiane e accompagnando i pastori palestinesi che pascolano i loro greggi sulle colline. In particolare, sul finire del capitolo ho focalizzato l'attenzione su come il Comitato Popolare delle South Hebron Hills si inserisce nelle questioni nazionali e sulla forza delle donne del villaggio e il loro prezioso ruolo nella resistenza nonviolenta e nelle dinamiche della vita del villaggio. Nel quarto capitolo ho cercato di sintetizzare la resistenza nonviolenta all'interno delle categorie tipiche della Teoria dei conflitti: il conflitto asimmetrico e la risoluzione del conflitto mediante un cambiamento di paradigma. La trasformazione nonviolenta del conflitto, almeno per quanto concerne la situazione nelle South Hebron Hills, è partita dal circuito virtuoso scatenato dalla scelta nonviolenta della comunità palestinese. Le relazioni tra palestinesi e israeliani sono cominciate a differire e il cambiamento pacifico, descritto da Miall in Emergent Conflict and Peaceful Change, ha cominciato a mostrare sin da subito i risultati. Oltre a questioni teoriche legate al conflitto e alla sua trasformazione ho concentrato gli sforzi nel ripercorrere gli anni precedenti la nascita dello stato d'Israele e in particolare nell'accezione nonviolenta, culturale e religiosa di un tipo di sionismo, che con la nascita dello stato Ebraico non ha saputo vincere il braccio di ferro con il sionismo politico di Herzl e Ben Gurion. Infine ho portato altri esempi di prassi nonviolenta e possibili scenari futuri di pace per Palestina/Israele. Nel paragrafo intitolato "Immaginare un altro Israele", ho analizzato uno scambio di missive che è avvenuto sul finire degli anni '30 tra Gandhi e due intellettuali ebrei, seguaci del sionismo culturale, Martin Buber e Judah Magnes. In questo carteggio ho riscontrato differenze sostanziali tra i tre pensatori nonviolenti che ho poi sintetizzato sottolineando in particolare l'importante aspetto della relazione tra politica e religione nelle tre diverse accezioni. Nel quinto ed ultimo capitolo ho mi sono soffermato su Operazione Colomba, le attività che svolge in Palestina/Israele e negli altri luoghi in cui è presente attualmente. Ho portato alla luce la storia del Corpo Nonviolento di Pace che nel 2012 ha festeggiato i primi vent'anni di vita e i tre pilastri fondamentali con cui è intervenuto in zone di conflitto: la scelta nonviolenta, la condivisione della vita con le vittime della guerra e la neutralità dell'intervento o equivicinanza tra le parti. Mi sento orgoglioso del paragrafo "Essere una Colomba" poiché credo fermamente nell'azione di questa organizzazione e nel suo modo di agire. Con l'aiuto di alcuni volontari che ho intervistato, ho riflettuto sul significato di essere una Colomba, all'estero e in Italia e sulla forza della nonviolenza attiva. Infine ho preso ad esempio il lavoro di Operazione Colomba per rilanciare il discorso – ultimamente accantonato – sui Corpi Civili di Pace. La necessità di tale istituzione è, secondo la mia modesta opinione, un'urgenza e un bisogno impellente. Proveniendo dal corso di laurea di Scienze per la pace, ho avuto la possibilità di studiare in maniera interdisciplinare i parametri giuridici e la cornice burocratica all'interno della quale si dovrebbe vedere la nascita di tali Corpi Nonviolenti di Pace, il cui ruolo sarà decisivo per il raggiungimento di quell'obiettivo sancito nella costituzione repubblicana, che è la difesa della Patria con altri mezzi. Infine, ho trovato necessario concludere il mio elaborato, senza assumermi la responsabilità di mettere il punto finale ad una storia, che è ancora in divenire. Ho scelto quindi di chiudere il mio elaborato e il mio percorso di studi, tramite delle conclusioni (o nonconclusioni) dal finale aperto, perchè in corso di scrittura. Ho predisposto, in allegato all'elaborato, alcune mappe geografiche per poter comprendere meglio le complicate questioni dibattute in precedenza.
1.Introduzione Nel 2014, nell'ambito dell'Agenzia Europea Frontex, prese avvio l'operazione Triton, coordinata dall'Italia. Da quel momento e fino al 2018, tutte le persone soccorse in mare dovevano essere portate in salvo sulle coste italiane. Una volta arrivate sul territorio, queste persone dovevano essere messe nella condizione di potere avanzare una richiesta di asilo o di protezione internazionale. Il già esistente sistema di accoglienza dedicato alle persone richiedenti asilo (SPRAR) si basava sulla disponibilità volontaria degli enti locali e non era in grado di gestire l'elevato numero di persone in arrivo. Furono per questa ragione istituiti (art. 11 Dlgs. n.142/2015) i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) sotto la diretta gestione degli Uffici Territoriali del Governo (Prefetture). I CAS erano quindi pensati come strutture temporanee ed emergenziali. Le azioni messe in atto dai CAS dovevano, innanzitutto, rispondere ai bisogni primari delle persone accolte, in termini di vitto, alloggio e assistenza sanitaria. Ma, a dispetto del loro carattere temporaneo, e alla stregua dello SPRAR, i CAS avevano l'obbligo di svolgere attività (apprendimento della lingua italiana, istruzione, formazione, inserimento nel mondo del lavoro e nel territorio, assistenza legale e psicosociale) finalizzate all'acquisizione di strumenti di base per favorire i migranti accolti nei processi di integrazione, di autonomia e di acquisizione di una cittadinanza consapevole. 1.1 I richiedenti asilo: L'accoglienza in Italia e una possibile traiettoria resiliente La maggior parte dei richiedenti asilo proveniva dall'Africa subsahariana o dall'Asia Meridionale (Afghanistan e Bangladesh e Pakistan) e aveva alle spalle un lungo viaggio di cui la traversata mortifera via mare o attraverso i Balcani o il Caucaso era solo l'ultima tappa. La durata media del viaggio dal paese di origine era di venti mesi, che si svolgevano quasi sempre al limite della soglia di sopravvivenza. È ormai ben documentato il fatto che la privazione di cibo, di ripari, l'affaticamento estremo, il senso di minaccia, i maltrattamenti ripetuti, i lutti dovuti alla perdita di persone care durante gli spostamenti sono condizioni che accomunavano tutti questi percorsi migratori. A queste, si aggiungeva, per la maggior parte di loro, un periodo di reclusione, che poteva superare l'anno, nei centri di detenzione della Libia dove le condizioni disumane, la pratica sistematica della tortura e della violenza sessuale sono state rese note e denunciate dalle principali organizzazioni internazionali, come Medici Senza Frontiere e Amnesty International (Fondazione Migrantes, 2018). Inoltre, l'alto potenziale traumatico di queste esperienze si aggiunge a vissuti altrettanto tragici legati alle circostanze di vita nel paese di partenza che aumentano la vulnerabilità dei migranti. Infatti, questi sono il più delle volte costretti a scappare da condizioni di instabilità politica, di gravi conflitti interni civili e di estrema povertà. È per quanto fin qui descritto che si può affermare che le persone in arrivo nei CAS sono portatrici di storie potenzialmente traumatiche e ad alta complessità psicosociale che richiedono un'attenzione particolare. Le pratiche d'accoglienza che vengono messe in atto nei centri devono tenere conto di tale complessità nel rispondere ai bisogni di ogni persona, sia nella dimensione psicologica sia in quella sociale. In questo modo, nel cercare di raggiungere l'obiettivo ultimo dell'integrazione dei richiedenti accolti, i progetti d'accoglienza potrebbero favorire la definizione di un loro processo di resilienza che li porti a vivere una condizione socialmente accettabile e di benessere. Il concetto di resilienza ha suscitato molto interesse in letteratura negli ultimi decenni. Un primo dato storico nell'evoluzione della teorizzazione di questo concetto (Cicchetti & Garmezy,1993) è lo spostamento dell'interesse dalla patologia e dalla vulnerabilità alla resilienza, che si può ricondurre alla diffusione di una prospettiva positiva e salutogena nella ricerca e nella pratica clinica e psicosociale (Bonanno & Diminitch, 2013; Bonanno, Westphal, & Mancini, 2011; Cicchetti, 2013; Cyrulnik & Malaguti,2015; Walsh, 2016). Negli anni il concetto di resilienza è stato indagato a partire da diversi approcci. Da alcuni autori (Costa & McRae, 1980) è stato studiato come un tratto di personalità, stabile e fisso, da altri (Wagnild & Young, 1993) come l'abilità di fronteggiare e adattarsi positivamente a eventi stressanti o avversivi. Cicchetti (2013), concettualizzando la resilienza come un processo, ha concentrato l'attenzione sui fattori che lo determinano, con particolare interesse a quelli genetici e neurali. Bonanno e Diminitch (2013) si sono, invece, concentrati su quei fattori di rischio o quelle condizioni esistenziali potenzialmente vulnerabili che possono determinare il processo e che gli autori (Bonanno et al., 2011) definiscono come eventi potenzialmente traumatici (EPT). Rutter (2012), da parte sua, ha teorizzato la resilienza come un concetto dinamico dato dalla continua interazione tra i fattori protettivi e di rischio, portando all'attenzione l'influenza ambientale. Tuttavia, sebbene l'autore (Rutter, 2012) abbia messo in luce la funzione dell'ambiente nel processo di resilienza, sono gli approcci più ecologici e sociali (Anaut, 2005; Cyrulnik, 2001; Cyrulnik & Malaguti, 2015; Malaguti, 2012; Walsh, 2016) che hanno enfatizzato e dato maggiore importanza ai fattori contestuali, sociali, familiari e relazionali nella definizione del processo di resilienza. In particolare, secondo Cyrulnik (2001), posti i fattori di protezione, il processo non può avvenire che nell'ambito di relazioni significative. Nello specifico, l'autore distingue tre elementi fondamentali che rendono conto, nell'insieme, del processo: 1- le esperienze pregresse nell'infanzia e nella storia personale dell'individuo, la qualità dei legami di attaccamento e la capacità di mentalizzazione; 2- il trauma e le sue caratteristiche (strutturali, contingenti ed emotive e sociali); 3- la possibilità di risignificare la tragedia avvenuta attraverso il sostegno affettivo e la relazione d'aiuto, descritta, genericamente come l'incontro con l'Altro. Secondo l'autore, la persona costruisce nel proprio passato, in particolar modo durante l'infanzia, attraverso il legame di attaccamento sufficientemente sicuro, le risorse e la capacità di mentalizzazione utili per affrontare e risignificare il trauma. È in questo spazio relazionale quindi che la persona forma una rappresentazione di Sé come persona amabile, capace di affidarsi e di costruire relazioni forti e significative anche in futuro. La capacità e la possibilità di costruire queste relazioni sono viste come le condizioni che possono aiutare la persona a riconoscere le risorse da attivare per superare la profonda ferita incisa dall'esperienza traumatica e per ristabilire un equilibrio nella propria esistenza. Nell'ultima fase della sua teoria l'autore specifica l'importanza di una figura che chiama tutore di sviluppo o di resilienza, le cui caratteristiche e funzioni sono approfonditamente delineate nella pubblicazione di Lighezzolo, Marchal, & Theis (2003). Secondo gli autori, il tutore di resilienza deve favorire un processo di autonomia e ri-strutturazione del sé, trasmettere sapere, fornire esempi e modelli che permettano e legittimino l'errore; non deve quindi ricoprire un ruolo insostituibile e onnipotente. Il tutore di resilienza, sia esso una persona adulta informale o una figura istituzionalizzata nel sistema di cura e presa in carico della persona, è una risorsa esterna che coadiuva nel processo di resilienza. In questo ultimo caso, la formazione e la definizione del ruolo dell'operatore nel processo di presa in carico contribuiranno alla costruzione di un efficace intervento sociale e clinico per la promozione della resilienza nell'assistito (Manciaux, 2001). Negli ultimi anni, una serie di rassegne internazionali (Agaibi & Wilson, 2005; Siriwardhana, Ali, Roberts, & Stewart, 2014; Sleijpen, Boeije, Kleber, & Mooren. 2016) e in Italia (Tessitore & Margherita, 2017), hanno tentato di sistematizzare i risultati degli studi sul processo di resilienza nell'esperienza potenzialmente pluritraumatica della migrazione, con particolare attenzione alla condizione esistenziale di rifugiato. I risultati evidenziano e si concentrano, soprattutto, sui principali fattori di rischio e quelli protettivi che possono intervenire nel processo di resilienza a seguito di queste esperienze pluritraumatiche. In questi lavori emerge, tuttavia, la necessità per la ricerca di individuare strategie e procedure per interventi e pratiche mirati ed efficaci a promuovere il processo di resilienza nei contesti dell'accoglienza. In particolare, rispetto al contesto italiano si riscontra che sono stati svolti pochi studi sul tema, ancora da approfondire (Tessitore & Margherita, 2017). L'analisi approfondita delle pratiche costruite e messe in atto nell'ambito dell'accoglienza negli ultimi anni in Italia risulta rilevante per una sistematizzazione di conoscenze e competenze e utili per la progettazione di interventi psicosociali efficaci. La presente ricerca si poneva l'obiettivo di studiare, se e in che misura, le pratiche dell'accoglienza e le strategie di intervento messe in atto nel sistema CAS di Parma e Provincia abbiano favorito un processo di resilienza nei richiedenti asilo accolti. Inoltre, si poneva l'obiettivo di comprendere se e in che modo l'operatore dell'accoglienza potesse svolgere una funzione di tutore di resilienza. Poiché basandosi sulla teorizzazione di Cyrulnik (2001), l'esito del processo di resilienza è dato dall'interazione dei fattori protettivi individuali, dalla qualità/intensità del trauma e/o comunque delle situazioni avverse e dall'incontro con i possibili tutori di resilienza, il progetto si è sviluppato in due fasi e ha tenuto conto sia dell'esperienza dei richiedenti asilo sia di quella degli operatori. Rispettivamente, nella prima fase l'obiettivo della ricerca si proponeva di individuare le risorse/vincoli personali presenti nella biografia dei richiedenti asilo, i vissuti emotivi e la qualità dei legami stabiliti nel passato, di individuare le risorse/vincoli messe in gioco durante il viaggio e, infine, di individuare le risorse/vincoli con funzione protettiva dal momento dell'arrivo in Italia e in particolare nel CAS di residenza e nella relazione con gli operatori. Nella seconda fase, la ricerca mirava a individuare le risorse e le competenze, rintracciabili nelle biografie degli operatori dei CAS messe in gioco nella pratica professionale e di conoscere le loro motivazioni alla base della scelta professionale, e a comprendere il significato e l'uso consapevole della relazione con i richiedenti asilo nella loro pratica professionale e, infine, a valutare la qualità della loro vita professionale tenendo conto del forte carico emotivo dovuto alla relazione con i richiedenti asilo e il loro vissuti traumatici. 2. Migrazione ed Europa: Una revisione sistematica sulla promozione della resilienza dei richiedenti asilo negli Stati membri dell'Unione Europea. La migrazione è un fenomeno complesso determinato dall'interazione di fattori di espulsione e di attrazione. L'Europa ha sempre svolto un ruolo di attrazione nei flussi migratori. Negli ultimi anni, le direttive per gli Stati membri hanno mirato a promuovere il benessere dei richiedenti asilo. È importante sviluppare la resilienza per raggiungere il benessere delle persone. L'obiettivo della revisione sistematica è stato quello di esplorare come viene studiata la resilienza nei richiedenti asilo nei paesi dell'UE. Sono stati consultati i database internazionali PsycINFO, PubMed, Web of science, Scopus, MEDLINE, Psychology e behavioural collection. Gli articoli sono stati analizzati secondo i criteri PRISMA. Sono stati ottenuti 12 articoli. Dall'analisi qualitativa sono emersi tre approcci principali e quattro principi teorici fondamentali che potrebbero guidare lo studio della resilienza in contesti migratori. Lo studio della resilienza può essere orientato verso un approccio clinico, clinico e sociale o psicosociale. Inoltre, la ricerca ha tenuto conto della necessità di costruire una nuova narrazione di sé e della propria storia nei richiedenti asilo, di restituire agency ai richiedenti asilo, di valorizzare il proprio contesto culturale e quello del paese ospitante e di promuovere una democratizzazione del sistema istituzionale di accoglienza. Si suggeriscono implicazioni per le politiche degli Stati membri dell'UE coinvolti in prima linea nella gestione dell'accoglienza in Europa. Data la limitata letteratura sull'argomento, questa rassegna suggerisce una nuova e originale visione di presa in carico dei richiedenti asilo attraverso una maggiore implementazione di interventi focalizzati sull'individuo e sulle sue risorse. 3. Promozione della salute psicosociale nei migranti: una revisione sistematica della ricerca e degli interventi sulla resilienza nei contesti migratori. La resilienza è identificata come una capacità chiave per prosperare di fronte a esperienze avverse e dolorose e raggiungere un buono stato di salute psicosociale equilibrato. Questa revisione mirava ad indagare come la resilienza è intesa nel contesto della ricerca sul benessere dei migranti e come gli interventi psicosociali sono progettati per migliorare la resilienza dei migranti. Le domande della ricerca hanno riguardato la concettualizzazione della resilienza, le conseguenti scelte metodologiche e quali programmi di intervento sono stati indirizzati ai migranti. Nei 63 articoli inclusi, è emersa una classica dicotomia tra la resilienza concettualizzata come capacità individuale o come risultato di un processo dinamico. È anche emerso che l'importanza delle diverse esperienze migratorie non è adeguatamente considerata nella selezione dei partecipanti. Gli interventi hanno descritto la procedura ma meno la misura della loro efficacia. 4. Il sistema d'accoglienza straordinaria di Parma e provincia: soddisfazione e benessere percepito dai migranti accolti. I servizi e le progettualità messi in atto nei CAS mirano a favorire integrazione, autonomia e benessere. Questi obiettivi si strutturano sull'attivazione e promozione di risorse dei richiedenti asilo. Nello specifico, vanno ad innestarsi sulle loro abilità, sulle conoscenze, sulle competenze, sulla loro agency e sulla capacità di proiettarsi verso un futuro. Poiché i richiedenti asilo sono i principali attori e fruitori di questi servizi, la valutazione di efficacia e di raggiungimento degli obiettivi preposti deve tenere conto necessariamente del loro punto di vista. I richiedenti asilo che hanno partecipato allo studio erano circa il 20% della popolazione dei richiedenti asilo adulti presenti nel territorio di Parma e provincia. Per la stratificazione del campione si è tenuto conto della variabile del paese di origine, della collocazione sul territorio provinciale (distretto) e il tempo di permanenza nel sistema CAS. È stato costruito un questionario ad hoc che mirava ad indagare la percezione di autonomia, di benessere personale, di soddisfazione verso sé stesso, la percezione di essere rispettato nelle proprie tradizioni culturali e la soddisfazione verso il servizio. Il questionario constava di una parte introduttiva, che forniva una breve descrizione al partecipante delle finalità d'indagine, e di diverse sezioni, che indagavano e approfondivano specifiche aree (temi) di interesse. Le prime due aree hanno rilevato i dati socio-anagrafici e il viaggio dei richiedenti asilo. La terza e la quarta area hanno indagato l'accoglienza nel centro e la struttura in cui risiedeva il beneficiario. Le altre aree si sono concentrate sui servizi primari (beni e servizi di prima necessità, assistenza medica) e servizi secondari (assistenza legale, lingua italiana, sostegno psicosociale, lavoro, mediazione culturale, orientamento al territorio e tempo libero) che gli venivano offerti. Le ultime sezioni si focalizzavano sul rapporto con gli operatori, sul progetto individualizzato e sui propri piani futuri. Alla fine del questionario vi era una breve sezione che mirava ad indagare la soddisfazione generale verso l'intero processo di accoglienza in Italia e la specifica esperienza nel territorio di Parma e provincia. Sono state effettuate delle analisi ed elaborazioni statistiche descrittive tramite il software SPSS. Dal questionario è emerso un quadro complessivo dei servizi offerti e una mappatura delle pratiche messe in atto all'interno delle strutture a partire dal punto di vista dei richiedenti asilo. Questi hanno espresso una generale soddisfazione del sistema accoglienza in Italia e in particolare di quella ricevuta a Parma. Hanno riportato un senso di protezione e sicurezza e una generale percezione di capacità e autonomia raggiunta in molti dei servizi e ambiti della quotidianità. Le aree più critiche sono risultate essere l'assistenza legale, l'avviamento lavorativo, la creazione di relazioni sociali con italiani nel tempo libero, la progettazione individualizzata e in particolare il sostegno psicosociale e, infine, la progettazione futura. In queste aree i richiedenti asilo hanno espresso una bassa soddisfazione verso il servizio di sostegno ricevuto, una scarsa consapevolezza di sé e delle proprie capacità e una bassa percezione di un'autonomia conquistata dal singolo servizio e, più in generale, dalla struttura d'accoglienza. 5. Vissuti, fattori di protezione e fattori di rischio nelle biografie dei richiedenti asilo: la definizione di traiettorie di resilienza nei Centri d'Accoglienza Straordinaria. I richiedenti asilo sono portatori di storie potenzialmente traumatiche a seguito delle quali possono vivere distress psicologico e PTSD nel paese d'accoglienza. Qui vengono inseriti in programmi che mirano a favorire benessere psicologico e integrazione. Tale processo è definito resilienza, La resilienza è un processo che vede le persone impegnate a guarire da esperienze dolorose, a prendersi cura della propria vita per continuare a svilupparsi positivamente in modo socialmente accettabile. Il presente studio mira a comprendere i fattori di protezione e le risorse personali e sociali che possono favorire il superamento dei traumi e un processo di resilienza nei richiedenti asilo. Sono stati somministrati 29 test CORE-10 e questionari costruiti ad hoc per il sostegno sociale percepito e condotte altrettante interviste in profondità. Con risultati moderati e gravi di distress psicologico nei partecipanti, sono emersi fattori protettivi e risorse già nella fase pre-migratoria. I legami di accudimento sembrano svolgere una funzione protettiva anche durante l'accoglienza, favorendo la costruzione di rapporti di fiducia. Il supporto sociale della comunità d'accoglienza e quello degli operatori nei centri possono influenzare la definizione di traiettorie resilienti. Lo studio solleva implicazioni di tipo clinico e sociale. Nei suoi limiti lo studio vuole essere un'apertura a nuovi approfondimenti di ricerca. 6. La qualità della vita professionale di chi lavora con i richiedenti asilo: Compassion Staisfaction, Burnout e Secondary Traumatic Stress negli operatori dell'accoglienza In Italia negli ultimi anni sono stati strutturati Centri di Accoglienza Straordinaria per rispondere ai bisogni primari e secondari dei richiedenti asilo approdati sulle coste mediterranee. A seguito dell'apertura dei CAS, sul territorio nazionale si è formato un nuovo corpo professionale, i professionisti dell'accoglienza. Poiché inizialmente non è stata richiesta una formazione specifica in base al contesto e agli obiettivi posti, il loro profilo professionale derivava tendenzialmente dai diversi percorsi formativi e lavorativi precedenti. Considerando il mandato istituzionale del loro lavoro, quale favorire l'accoglienza e una completa presa in carico dei richiedenti asilo, i professionisti dell'accoglienza sono quotidianamente coinvolti nella relazione con gli accolti ed esposti ai racconti traumatici o ai sintomi agiti di questi. Infatti, i richiedenti asilo sono persone spesso profondamente traumatizzate dalle esperienze passate, dal viaggio, ma anche disorientate e impreparate per la complessa esperienza dell'accoglienza e dell'integrazione. Questo aspetto del lavoro con i richiedenti asilo può influenzare il clima e la qualità della vita professionale dei professionisti dell'accoglienza. Infatti, come nelle altre professioni d'aiuto continuamente esposte a eventi stressanti o traumatici, anche nel lavoro di cura e accoglienza dei richiedenti asilo è alto il rischio di sviluppare i sintomi negativi associati al burnout e al trauma vicario. Sebbene, negli ultimi venti anni, la qualità della vita professionale sia stata ampiamente approfondita in diversi settori, non risultano studi che esplorino questo tema tra i professionisti del settore dell'accoglienza. In questo studio è stato sottoposto il questionario ProQOL 5 ai professionisti dell'accoglienza dei Centri di Accoglienza Straordinaria di Parma e provincia, attivamente coinvolti nella relazione d'aiuto con i richiedenti asilo, con lo scopo di definire lo stato di benessere psicosociale rispetto alla loro qualità di vita professionale. Anche se si è dimostrato che mediamente i professionisti dell'accoglienza riportano una buona soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, sono emersi tre profili. Il primo gruppo sembra esprimere soprattutto Burnout, il secondo gruppo una maggiore Compassion Satisfaction e il terzo gruppo un malessere evidente sia per il Burnout che per il Secondary Traumatic Stress. I dati ottenuti permettono di colmare parzialmente un vuoto nella letteratura di settore. Inoltre, la rilevanza dei dati spinge alla riflessione sulla possibilità di incoraggiare interventi efficaci di prevenzione e management delle organizzazioni, al fine di favorire il benessere psicosociale di questo corpo professionale emergente. 7. Essere professionisti dell'accoglienza: l'importanza di un uso consapevole del Se' nella relazione d'aiuto e la funzione del tutore di resilienza. All'interno dei CAS sono stati impiegati professionisti di differenti background formativi ed esperienziali. Appannaggio degli operatori è l'attivazione dei servizi interni ed esterni e il monitoraggio di tutte le fasi del progetto di accoglienza. La presa in carico si configurerebbe come una relazione d'aiuto possibile attraverso la compresenza di diversi aspetti di Sé. Chi lavora con i richiedenti asilo deve affrontare e gestire vissuti potenzialmente traumatici che influenzano il buon esito dell'intervento clinico-sociale. Nel favorire benessere psicologico nei beneficiari, gli operatori svolgono funzioni che richiamano quelle del tutore di resilienza. In questo studio si è esplorata la rappresentazione dei professionisti dell'accoglienza e la consapevolezza di Sé a partire dal loro punto di vista. Sono stati condotti tre focus group e le trascrizioni verbatim sono state analizzate secondo l'approccio IPA. Sono emersi tre aspetti del Sé (Sé personale, Sé professionale e Sé burocrate). Il Tempo e il Contesto sociale sono risultate possibili variabili che influenzano la relazione d'aiuto. Lo studio propone implicazioni di ricerche future e di policy. 8. Conclusioni Negli anni il sistema italiano dell'accoglienza si era ormai rodato e formalizzato su due principali dispositivi: il sistema SPRAR e i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Tuttavia, negli ultimi due anni, con il cosiddetto decreto Salvini (D.lg. 4/19/2018 n° 113), si è assistito ad un graduale ridimensionamento dei numeri degli accolti e ad una conseguente chiusura di strutture del sistema CAS. Pertanto, assume rilevanza e importanza capitalizzare le esperienze di accoglienza e comprenderne maggiormente le potenzialità e i limiti. Con la presente ricerca e le analisi delle pratiche d'accoglienza e delle progettualità messe in atto all'interno del sistema CAS sono emersi due risultati principali. Il primo risultato emerso è che i richiedenti asilo accolti abbiano consapevolezza delle risorse e dei fattori protettivi che hanno acquisito nell'arco di vita. Inoltre, si è evidenziata una forte e imprescindibile interdipendenza tra i vissuti psicologici, i bisogni e le risorse dei richiedenti asilo e la funzione relazionale dell'operatore dell'accoglienza. Dalla ricerca è emerso che il valore di tale interdipendenza, non essendo riconosciuto formalmente e quindi esplicitamente richiamato nelle norme e regolamentazioni, era dipeso da un reciproco riconoscimento dei richiedenti asilo accolti e degli operatori. Tuttavia, questa relazione, se opportunamente strutturata e formalizzata, può favorire la definizione di traiettorie di resilienza e il raggiungimento degli obiettivi di integrazione, autonomia e benessere psicosociale. Al momento in cui è stata condotta la ricerca, questi obiettivi erano parzialmente raggiunti. Infatti, sebbene nel sistema d'accoglienza i richiedenti asilo abbiano percepito di essere in un luogo sicuro e protetto e fossero generalmente soddisfatti dei servizi offerti, hanno riportato livelli medio-alti di disagio psicologico. Il valore traumatico delle loro esperienze di vita è stato esplorato e compreso nella sua diacronicità, in quanto i vissuti traumatici sono rintracciabili non solo durante il viaggio ma già nelle esperienze pre-migratorie. Le biografie dei richiedenti asilo sono segnate da profonde ferite, che spesso risalgono a perdite, lutti o tradimenti da parte delle figure significative dell'infanzia o della comunità allargata, fino a sentirsi espulsi dalle politiche disattente degli Stati d'appartenenza. Anche l'arrivo in Italia e l'inserimento nel sistema d'accoglienza comportano sfide esistenziali, che in alcuni casi arrivano a reiterare esperienze traumatiche passate. Nonostante questo, i richiedenti asilo hanno mostrato consapevolezza delle proprie risorse e dei fattori di protezione acquisiti già durante l'infanzia, attraverso le relazioni significative e di accudimento. Queste risorse hanno svolto una funzione di protezione e sostegno nel loro sforzo psicologico di fronteggiare e sopravvivere alle avversità incontrate in tutto l'arco di vita. Nonostante la loro consapevolezza e tenuto conto della permanenza relativamente lunga nel sistema d'accoglienza, è risultato che le esperienze traumatiche non trovano uno spazio adeguato di ascolto e di ri-significazione una volta inseriti nei progetti di accoglienza. Le caratteristiche strutturali e organizzative del sistema non sembrano favorire quell'incontro con l'Altro che può garantire la rielaborazione delle esperienze passate e riattribuire senso e agency alla propria vita, anche nella quotidianità. Al contrario, i richiedenti asilo sono consapevoli di ritrovarsi in una posizione di svantaggio rispetto al potere decisionale sui loro progetti di vita. Non sono coinvolti nelle scelte progettuali e non percepiscono una crescita personale nelle competenze e nelle capacità necessarie per rendersi autonomi. Tuttavia, i richiedenti asilo riconoscono negli operatori degli interlocutori diretti che svolgono un ruolo di congiunzione con la società ospitante. Nello svolgimento del proprio ruolo, gli operatori possono aprirsi ad un ascolto attivo di tutte le parti della biografia dei richiedenti asilo per costruire un rapporto di fiducia. Al fine di favorire la costruzione di tale rapporto, è importante che gli operatori nella loro pratica quotidiana mirino a riattribuire agency ai richiedenti asilo, coinvolgendoli nella progettazione individualizzata. Ciò favorirebbe la valorizzazione e l'attivazione delle risorse dei richiedenti asilo, l'instaurarsi di relazioni di fiducia che consentano la ricostruzione di significato delle proprie esperienze traumatiche di vita e la restituzione di una rappresentazione di Sé attiva e agente. In generale, si otterrebbe una maggiore adesione al progetto d'accoglienza. Inoltre, la valorizzazione della funzione relazionale degli operatori dell'accoglienza favorirebbe una maggiore qualità di vita professionale. I professionisti avrebbero così la possibilità di riconoscere e far riconoscere il proprio ruolo, che è stato profondamente messo in discussione dalla comunità e dalle politiche degli ultimi anni. Quindi, l'ascolto attivo, la riattribuzione di agency e l'esempio nella quotidianità da parte degli operatori favorirebbero il riconoscimento del loro ruolo come tutori di resilienza e promuoverebbero la definizione di traiettorie di resilienza. In questo modo si faciliterebbe il raggiungimento di uno stato di salute psicosociale nei richiedenti asilo. La legittimazione del ruolo funzionale della relazione tra i richiedenti asilo e gli operatori dell'accoglienza da parte del contesto sociale e istituzionale diventa un fattore necessario allo sviluppo di buone pratiche d'accoglienza e alla promozione di traiettorie di resilienza. 9. 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